Serdini, Simone, detto il Saviozzo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Serdini, Simone, detto il Saviozzo

Emilio Pasquini

Poeta, nato a Siena intorno al 1360; visse al seguito di signorotti o condottieri di ventura, come cancelliere od oratore, fino alla morte per suicidio, in Tuscania (1419-20).

Con la pubblicazione dell'intero canzoniere (1965), si è proposto un riconoscimento critico dell'importanza di un rimatore che nell'età sua prevalse su ogni altro e che esercitò con la propria opera un notevole influsso sulla poesia italiana: verificabile fino agli ultimi del Quattrocento, quando dei contemporanei del S. in massa si era persa fin la memoria. Lirico nella tradizione, ma alle soglie di una nuova poetica; e non tanto per contenuti peregrini, quanto per un'originale adesione alla matrice dantesca.

Si trattò anche di un'importante iniziativa culturale, sul piano di una fervida divulgazione dell'opera dantesca. Abbiamo notizia di un codice autografo, ricostruibile attraverso i derivati, contenente (in due sezioni distinte e con alcuni testi serdiniani) il Trattatello del Boccaccio con la Vita Nuova e le quindici canzoni della nota silloge, e la Commedia accompagnata dalle tre abbreviature boccaccesche.

Committente di questa impresa, compiuta intorno al 1404, fu il capitano Giovanni Colonna, cui essa figura dedicata (nel congedo della canzone XIII in lode della grande famiglia romana, e nell'esordio del capitolo XXVI concettosa biografia di D.); ma il S. ne dovette stralciare un'edizione parziale per i Malatesti.

Il biennio 1403-1404 è la più feconda stagione del dantismo serdiniano, esaltatosi in concomitanza con l'umile e gloriosa fatica di scriba della Commedia e con l'allestimento di un'autentica silloge, modellata sulla " canonica " del Boccaccio. Alfiere del culto per D. nelle corti dell'Italia settentrionale e centrale, il S. però aveva assorbito profondamente quel midollo e ne lievitava le proprie rime, fossero anche occasionali o ufficiali.

Già i suoi ‛ autori ' più vicini (Antonio da Ferrara, Fazio degli Uberti e l'amico Franco Sacchetti) l'indirizzavano verso la linea dantesca, piuttosto che al rarefatto esemplare del Canzoniere; ma il S. procede ben oltre. Il dantismo diventa la componente essenziale della cultura e della poesia di questo piccolo maestro, oltre che la parola d'ordine del suo successo nel Quattrocento, secolo tendenzialmente filodantesco. Esso è anzi il fulcro di un'esperienza personalissima, che va al di là della semplice ‛ fortuna ' di D., pervenendo a risultati autonomi di approfondimento tematico e stilistico.

Da questo punto di vista, interessano meno le note testimonianze della sua ammirazione per D., a volte indicate quali esempi di banale centonatura (oltre al XXVI, il sonetto XC significativo per l'esclusione del Petrarca dal canone poetico); o le imitazioni scoperte, le riprese massicce di nuclei allegorici, i grezzi dantismi lessicali, le citazioni letterali: nel XXVI, dove pur giunge a una suggestiva interpretazione della sventura dell'esule come ispiratrice per la Commedia; o nella canzone XVI, che di Innocenzo VII fa il nuovo veltro, sfiorando la parodia. Valgono piuttosto i testi che dall'interno scavo del linguaggio dantesco giungono a una pittoresca vibrazione allusiva. Si tratta di un'imitazione attiva meglio che ricettiva, per assimilazione della viva sostanza del lessico e della poesia di D., che stimola in lui una nativa vocazione linguistica, fino a esiti emblematici o espressionistici: i quali suggeriscono richiami e analogie inattesi con l'energia ammiccante di certi nessi o il loro peso metaforico. Allora ogni sforzo di riduzione a centone si rivelerà improduttivo, per l'impossibilità d'individuare singole fonti nel sapore omogeneo delle più rischiose e imprevedibili combinazioni d'ingredienti. Lo sperimentalismo stilistico del S. trovava un'istintiva corrispondenza con l'altissima esperienza dantesca proprio nel nome del più estremistico plurilinguismo: approdante nel S. a un estroso e vitalistico manierismo, che sanciva positivamente una strenua ricerca di applicazione del linguaggio comico a momenti lirici, di confessione individuale o di gnomica affabulazione. Dai primi incontri libreschi con D. ai cenacoli del Paradiso degli Alberti, dalle conversazioni col Sacchetti e col Salutati alle sue iniziative di catalizzatore culturale, il S. si scioglieva dalle radici municipali; e molti cominciarono a riconoscergli una funzione di mediatore fra la grande poesia del Trecento e gli epigoni del Quattrocento. Si spezza così la fittizia triade S.-Beccari-Vannozzo; e il S. si profila come il nuovo caposcuola del gusto dantesco, imperioso proprio per il suo consapevole esclusivismo, rispetto ai volubili indirizzi dei due settentrionali: pullulante in tutta la penisola attraverso una straordinaria disseminazione di manoscritti. Si diffonde quel linguaggio allusivo, lievitato in un impasto eccentrico ma coerente: una cifra che fece scuola, per gli spregiudicati compromessi fra Ovidio e D., latinismi e cultismi (o magari frange dialettali, ma senza punte estreme d'ibridismo), con un avventuroso dosaggio che sfocia in estensioni semantiche e lessicali, cioè verso una tecnica di sovraimpressione che non ha riscontri nel secolo e trae quasi sempre da D. il suo fermento remoto.

Le tracce di questa lezione si rivelano profonde in tutta Italia: a Siena (G. Sermini, B. Ilicino, I. Tolomei), a Firenze (Antonio e Francesco degli Alberti, G. Gherardi, Domenico da Prato, Antonio di Meglio, Antonio di Guido, A. Bonciani, F. Scarlatti, B. Giambullari), ad Arezzo (Benedetto e Francesco Accolti, Niccolò Cieco, Gambino), in Romagna (i poeti " malatestiani "), a Bologna (i lirici dell'Isoldiano), a Ferrara (Tebaldeo, Lippus Matensis e, attraverso Giusto de' Conti, persino il Boiardo), a Venezia (L. Giustinian).

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