PANUNZIO, Sergio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PANUNZIO, Sergio

Fulco Lanchester

– Nacque a Molfetta (Bari) da Vito e Giuseppina Poli il 20 luglio 1886.

Figlio di una famiglia dell’alta borghesia, dopo aver frequentato il locale liceo Leonardo da Vinci (in cui fu allievo di Pantaleo Carabellese), si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Napoli dove si laureò nel 1908 con Giorgio Arcoleo con una tesi su L’aristocrazia sociale: i sindacati. Applicazione della teoria paretiana della circolazione delle aristocrazie e nel 1911 in filosofia su Il diritto e l’autorità con Igino Petrone. Nel 1910 sposò Anna Spadavecchia con la quale ebbe tre figli, Giuseppina, Vito e Pasquale.

Autore in cui risulta – per sua stessa ammissione – difficile distinguere momento speculativo e azione politica, Panunzio sin dal liceo si inserì nell’ambito della corrente del socialismo giuridico e in particolare del sindacalismo rivoluzionario, collaborando con Arturo Labriola, Enrico Leone, Angelo Oliviero Olivetti e Paolo Orano. Nei primi anni del XX secolo scrisse, infatti, per le principali riviste del movimento sindacalista (il Divenire sociale, Pagine libere e Le mouvement socialiste di Georges Sorel e Hubert Lagardelle). I suoi contributi dell’epoca forniscono chiavi interpretative importanti per ricostruire origini e sviluppi dell’ideologia fascista e in particolare per la comprensione sia del concetto di Stato sia per l’analisi del sindacato nel periodo della decostruzione dello Stato monoclasse liberale-oligarchico e dell’avvento dello Stato di massa (si veda non soltanto Il socialismo giuridico, 1906, ma anche le pubblicazioni più chiaramente accademiche: Il diritto e l’autorità, 1912; Il concetto della guerra giusta, 1917; Diritto, forza, violenza e Lo stato di diritto, entrambe del 1921).

Nel 1912, su consiglio di Francesco Saverio Nitti, abbandonò l’attività forense per l’insegnamento di pedagogia e morale nelle regie scuole normali (prima a Casale Monferrato, poi a Urbino e, infine, a Ferrara). Nel periodo ferrarese Panunzio entrò in contatto con Italo Balbo e iniziò la collaborazione con il Popolo d’Italia di Mussolini durante la campagna interventista, mentre i suoi corsi presso l’Università felsinea furono seguiti da Dino Grandi, a cui lo legò una solida amicizia.

Nel 1914 venne ternato in un concorso di filosofia del diritto presso l’Università di Camerino e ottenne anche la libera docenza presso l’Università partenopea, che trasferì presso quella di Bologna l’anno successivo. Incaricato di filosofia del diritto nell’Università di Ferrara (1920-21), venne nominato professore straordinario nella stessa Università (1921-24) e poi ordinario (1924-25).

Fu tra i fondatori dei primi Fasci di azione rivoluzionaria per l’intervento e, nel primo dopoguerra, si avvicinò all’Unione italiana del lavoro (UIL) di Alceste De Ambris ed Edmondo Rossoni sulla base di un programma di «conservazione rivoluzionaria». Attento e partecipe osservatore degli eventi che portarono alla nascita e alla progressiva ascesa del fascismo, Panunzio si iscrisse al fascio di combattimento di Ferrara del Partito nazionale fascista (PNF) solo nel giugno 1923, assumendo però immediatamente posti di responsabilità nel nuovo ordinamento fascista.

Fu deputato al Parlamento dal 1924 per tre legislature (XXVII, XXVIII e XIX) e consigliere nazionale nella XXX; fu inoltre componente delle principali commissioni del regime (da quelle dei Soloni, 1924 e 1925, alla commissione consultiva per l’ordinamento corporativo, 1928, fino ad arrivare alla riforma dei codici, 1937), membro del Direttorio nazionale del partito (1924), segretario generale della corporazione della scuola (1924), sottosegretario di Stato alle comunicazioni (1926), commissario per le leggi costituzionali, membro del Consiglio superiore dell’educazione nazionale (1928-1932), membro della Commissione consultiva sull’ordinamento corporativo (1928) e membro della Commissione per la riforma dei codici (1937).

Trasferitosi nell’Università di Perugia nel 1925-26, ne divenne rettore, per poi essere chiamato presso la facoltà di scienze politiche di Roma (1927) sulla cattedra di dottrina generale dello Stato. Nello stesso periodo rimase a Perugia fino al 1933 come commissario governativo e organizzativo della facoltà fascista di scienze politiche, che nel 1934 gli conferì la laurea honoris causa, e come professore ad honorem della facoltà di giurisprudenza (1929). Dalla morte di Luigi Rossi (1941) diresse l’Istituto di diritto pubblico e legislazione sociale della facoltà di scienze politiche sino alla sua sospensione dall’insegnamento ai sensi del d. legisl. lgt. 27 luglio 1944, n. 159, Sanzioni contro il fascismo.

Nella prolusione su Stato e sindacati (in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1923, n. 1), tenuta all’Università di Ferrara certificò il passaggio deciso dal vecchio al nuovo sindacalismo nazionale, mentre in quella romana Sul sentimento dello Stato (1927) l’esigenza di unità all’interno dello stesso viene progressivamente portata alle estreme conseguenze rilevabili nella sua Teoria dello Stato fascista ovvero lo Stato ecclesiastico che null’altro è se non lo Stato totale (si veda su questo Emilio Gentile).

Nell’autoricostruzione del suo pensiero (Archivio storico dell’Università degli studi di Roma La Sapienza, Fascicoli Personale docente, Panunzio Sergio, AS 518) Panunzio si dichiara, addirittura, precursore della stessa concezione dell’istituzione romaniana e quindi della struttura corporativa dello Stato fascista. Sternhell (1994, p. 32), Gregor (2000, pp. 151 ss.) e Perfetti (1987, pp. 7 ss.) sostengono, in particolare, che negli anni Venti egli fu il maggior teorico del fascismo. Al di là delle svalutazioni di alcuni (si veda, per esempio, Cassese, 1974, pp. 495 ss.), Panunzio può essere infatti considerato uno dei grandi intellettuali del fascismo, rappresentante della corrente radicale della giuspubblicistica italiana, che fu protagonista del dibattito sull’ordinamento corporativo e riuscì – attraverso l’opera di alcuni allievi (per esempio, Costantino Mortati e Vezio Crisafulli) – a influire sugli stessi indirizzi dottrinari del periodo repubblicano.

In realtà la statolatria fascista ha preso molto più da Alfredo Rocco che da Panunzio, le cui radici risultano più eterodosse e più difficilmente collegabili con il dibattito principale della giuspubblicistica italiana e della costruzione del regime (Gentile - Lanchester - Tarquini, 2010, pp. 8 ss). Rocco riuscì, infatti, a essere ponte e sintesi tra le concezioni di Orlando e quelle di Mosca, sulla base di una statolatria socialdarwinistica, rispetto alla concezione di Panunzio, che riconosceva la rivoluzione delle masse e funzionalizzava le attività tradizionali dell’ordinamento statuale al perseguimento dei fini individuati dalla cosiddetta funzione corporativa. A una simile prospettiva, che i suoi allievi (Mortati, Crisafulli) decodificheranno nella cosiddetta funzione di indirizzo politico (Martines, 1971 e Dogliani, 1993), si deve necessariamente fare riferimento, perché centrale per comprendere non soltanto l’ideologia fascista, ma anche il percorso della stessa e il dibattito che si ebbe all’interno del regime per la costruzione di uno Stato nuovo, che riconoscesse la rivoluzione delle masse.

La statolatria di Panunzio, a differenza di quella coeva di Alfredo Rocco, assume via via nel tempo i caratteri mistici di una religione politica, tipica degli ordinamenti totalitari di massa, con la predisposizione per gli stessi dei cosiddetti «operai del regime», prodotti dalle neonate facoltà di scienze politiche (Lonchester, 2011, pp. 106 ss.). La prospettiva «massiccia» e divergente di Alfredo Rocco aveva una sua duplicità capace di meglio collegare la tradizione autoritaria di parte del liberalismo italiano del periodo oligarchico con le nuove esigenze del «regime reazionario di massa», in una costruzione che poteva divenire totalmente eversiva, ma che risultava per il momento funzionale al compromesso diarchico monarco-fascista. Panunzio era invece molto più radicale nel riconoscimento della novità dello Stato di massa (per utilizzare la categoria di Perticone, 1942) e della funzionalizzazione teleologica delle istituzioni ai nuovi fini che si prospettavano allo stesso. Particolarmente attento agli esempi comparatistici coevi di costruzione di ordinamenti di massa totalitari, nella sua Dottrina dello Stato (Dottrina dello Stato, Parte I, Dottrina generale dello Stato, a cura di Sergio Panunzio; Parte II, Lo Stato e il diritto, a cura di Carlo Costamagna, Roma 1940, ma soprattutto nella Teoria generale dello Stato fascista, Padova 1939, pp. 486 ss.) affermò che «il partito creava lo Stato, e, a sua volta, lo Stato, creato dal partito, si basava sul partito» (p. 486). Si trattava in realtà della costituzione in senso materiale mortatiana sulla base della «duplice natura dinamica e statica delle relazioni fra Partito e Stato», cosicché – per Panunzio – «l’idea si fa partito; il partito si fa regime; il regime si fa Stato» (p. 547). Nella differenziazione tra URSS e situazione italiana in sostanza si parte dal Partito Stato (il partito rivoluzionario) per arrivare, quindi, al Partito organo dello Stato (ossia allo Stato-Partito; p. 487). Analizzando il tema della dittatura (costituzionale e rivoluzionaria) con esplicito riferimento all’opera schmittiana, cui aggiungeva quella carismatica o eroica (pp. 503, 507 e 517 ss.), Panunzio introduceva, però, la contrapposizione tra classe e nazione. In Russia il partito era padrone dello Stato, cosicché non poteva dirsi che vi fosse dittatura del proletariato, sibbene sul proletariato.

Panunzio rappresentò in maniera autorevole l’indirizzo militante che all’interno del regime cercò di spingere verso un rinnovamento radicale, che potesse rompere i lacci e i lacciuoli della tradizione disciplinare e operare accelerazioni nella convergenza soprattutto con la dottrina nazionalsocialista tedesca.

Per Panunzio restaurazione dell’autorità, Stato del lavoro e fondamento delle istituzioni costituivano la triade potere-lavoro-partito, connettendosi alle radici del sindacalismo, del nazionalismo e del fascismo. In questa prospettiva le tre risposte del fascismo dovevano condensarsi in tre contrapposizioni significative: contro lo Stato parlamentare lo Stato-Governo; contro lo Stato atomistico e individualistico del liberalismo lo Stato sindacale corporativo; contro lo Stato indifferente ateo e agnostico lo Stato-partito ovvero lo Stato ecclesiastico.

Questa opposizione fornisce una interessante chiave di lettura per le stesse interpretazioni del fascismo ovvero tra chi lo interpreta come mero Stato autoritario con autonomia relativa dei tre sottosistemi (istituzionale, economico e sociale) anche se fortemente limitata (per esempio D. Fisichella); tra chi lo considera uno Stato totale e totalitario (E. Gentile) e chi ne vede le caratteristiche autoritarie a tendenza totalitaria (F. Lanchester).

Nell’acceso dibattito, che negli anni Trenta si concentrò sul tema dello Stato moderno e dello Stato di diritto nell’ambito delle riforme incrementali del regime, la posizione di Panunzio fu senza dubbio radicale. Comune a molti fu la presa di coscienza da parte dei giuspubblicisti dell’esistenza di più principi politici che condizionavano azione e interpretazione e la funzionalizzavano teleologicamente (si veda per esempio F. Lanchester, Crosa, Emilio, in Dizionario biografico degli Italiani, XXXI, Roma 1985, pp. 235 ss.). Nella parte intermedia del movimento dei giuristi del periodo questa impostazione non portò allo schiacciamento totale dell’individuo e dei gruppi nello Stato, prodotto in altri settori dall’avvicinamento al caso tedesco nel secondo lustro degli anni Trenta. Durante quegli anni Panunzio, ma anche Costamagna, costituirono, invece, la punta di diamante del gruppo di docenti impegnati con un taglio volto alla totalitarizzazione del regime, soprattutto nel periodo successivo al 1938 (Somma, 2005).

L’interesse per il caso sovietico fu evidentemente molto forte in Panunzio a causa delle sue origini sindacaliste-rivoluzionarie che caratterizzarono tutta la sua produzione. Nella prefazione al volume di Amor Bavaj su Il principio rappresentativo nello Stato sovietico (Roma 1933), Panunzio denunziò, ad esempio, la mancanza di una letteratura tecnica e scientifica sul bolscevismo e i suoi istituti politici e giuridici. In questa dimensione egli riteneva che il PNF costituisse la forza spirituale chiamata a conciliare e superare i conflitti, mentre in URSS il partito si confermava semplicemente uno strumento di dominio. Egli criticava Bavaj, che appariva dal volume come allievo dei paradigmi tradizionali di Luigi Rossi, perché non aveva compreso che lo Stato sovietico era una larva rispetto al partito. Una simile interpretazione tendeva a svalutare la posizione teoretica e filosofica del marxismo, incapace di fornire una teoria dello Stato (ibid., p. XI), esaltando il contributo fascista. Panunzio affermava, quindi, che, mentre lo Stato sovietico distruggeva lo Stato moderno e, almeno in teoria, il concetto stesso di Stato, lo Stato fascista riconfermava invece potentemente il concetto di Stato rappresentativo e di Stato giuridico, realizzando il vero tipo dello Stato moderno (ibid., p. XII).

In questa specifica prospettiva, basta accennare a come la forza di gravità dell’esperienza nazista influì nella discussione interna al regime fascista, sovrapponendosi alla tensione tra radicali, cultori di un ordinamento totalitario, e moderati volti al mantenimento del sistema diarchico e di un relativo pluralismo dei sottosistemi all’interno dello Stato autoritario. In questa prospettiva la discussione sul ruolo del partito divenne strategica e anche di recente è stata al centro delle riflessioni degli studiosi (Gentile, 1995; Pombeni, 1994; Gregorio, 2013).

Scampoli significativi di un simile dibattito sono rinvenibili non soltanto all’interno della dottrina giuspubblicistica italiana più vicina alle sue posizioni (penso appunto – nonostante le divergenze – a Carlo Costamagna e alla rivista Lo Stato, sempre più attratta dalle posizioni della Germania nazista), ma anche da persone che avevano ruotato attorno a lui (penso a Giuseppe Chiarelli, ispiratore della rivista Stato e diritto, in cui le novità dello Stato autoritario di massa si sposano con le esigenze di continuità e con la tradizione giuridica nazionale, ma soprattutto a un suo allievo diretto come Mortati).

D’altro canto, il viaggio operato in quegli anni da alcuni giovani giuspubblicisti (da Zangara, vicesegretario del PNF, a Lavagna e a Pierandrei) verso la Germania è stato descritto da Mario Galizia, che ha anche confermato l’esistenza di un dibattito estremamente intenso all’interno del «pluralismo limitato» esistente nel regime (Galizia, 1988; 1996). In un simile ambito la persistente influenza delle categorie concettuali prodottesi durante il periodo weimariano non è solo rilevabile in studiosi come Costantino Mortati, che non tiene in alcun conto della discussione nazista, ma si allarga – nell’ambito del progressivo distacco della classe dirigente dal regime fascista – al tema dell’indispensabile socialità che devono avere gli assetti politici.

Impegnato nella attività di studio relativa alla preparazione del nuovo codice civile, Panunzio sottolineò con forza l’importanza dei principi generali del diritto fascisti (Pisa 1940), nell’ambito di una riflessione che lo aveva visto promotore già negli anni Venti (La carta del lavoro come sistema di fini e di principi: studio per la celebrazione del decennale della C.D.L., Roma 1937). In realtà, nonostante la persistente radicalizzazione della sua posizione che arrivava ad accettare di buon grado le leggi razziali, Panunzio si rese ben conto della difficoltà di portare a termine il progetto di fascistizzazione dell’ordinamento, come dimostra la consapevolezza dell’incapacità delle facoltà di Scienze politiche di giocare un ruolo decisivo nella trasformazione radicale della nuova classe dirigente.

Panunzio fu anche componente del direttivo dell’Istituto di cultura fascista per meriti politici, del direttorio nazionale della Dante Alighieri e della Società filosofica italiana.

Sottoposto, nel luglio 1944, a processo di epurazione fu costretto a nascondersi – oramai cieco – nella casa del suo allievo Mortati in piazza Verdi a Roma. Morì nella capitale l’8 ottobre 1944.

Le vicende belliche e il crollo del fascismo conclusero una vicenda di tendenza alla totalitarizzazione e videro nella Repubblica sociale italiana (RSI) riapparire gli elementi del movimento che si era consolidato in partito e poi in regime. La dottrina costituzionalistica italiana si riconvertì nel corso del biennio 1943-1945 ai principi e ai valori pluralistici. Questa riconversione fu facilitata dall’adesione silente di alcuni al metodo giuridico tradizionale, ma anche dall’applicazione da parte di altri di quei canoni metodologici che fornivano la possibilità di controllare il principio politico all’interno della continuità disciplinare. Il legato principale di Sergio Panunzio, è rappresentato dalla persistenza in periodo pluralistico del dibattito sui principi generali dell’ordinamento giuridico. Una simile riflessione, tenutasi – come si è detto – in occasione dell’emanazione dei nuovi codici, prefigurava le discussioni costituenti sui principi fondamentali e il confronto sui limiti impliciti ed espliciti alla stessa revisione della Costituzione.

Si tratta di un tema che evidenzia la continuità nello sviluppo personale e metodologico che lega il dibattito costituzionalistico dal prefascismo, al fascismo, alla Costituzione e, forse, anche dopo, e di cui Panunzio è stato un protagonista, ma anche un indice empirico.

Fonti e Bibl.: Archivio storico dell’Università degli studi di Roma La Sapienza, Fascicoli Personale docente, Panunzio Sergio, AS 518.

G. Perticone, Studi sul regime di massa, Milano 1942; T. Martines, Indirizzo politico, in Enciclopedia del diritto, XXI, Roma 1971, pp. 134 ss.; S. Cassese, Socialismo giuridico e “diritto operaio”. La critica di Sergio Panunzio al socialismo giuridico, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 3-4 (1974), pp. 495 ss.; F. Perfetti, Introduzione a S. Panunzio, Il fondamento giuridico del fascismo, Roma 1987; M. Galizia, Autorità, autonomie e “democrazia di masse” nell’evoluzione di Vincenzo Zangara, in Quaderni costituzionali, 1 (1988), pp. 109 ss.; M. Dogliani, Indirizzo politico, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino 1993, pp. 244 ss.; P. Pombeni, Demagogia e tirannide, Bologna 1994; Z. Sternhell, The birth of fascist ideology. From cultural rebellion to political revolution, Princeton 1994; E. Gentile, La via italiana al totalitarismo: il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma 1995; M. Galizia, Gli scritti giovanili di Carlo Lavagna alla soglia della crisi dello Stato fascista, in Il pensiero giuridico di Carlo Lavagna, a cura di F. Lanchester, Milano 1996; A.J. Gregor, The faces of Janus. Marxism and Fascism in the twentieth century, Yale 2000; D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Roma 2002; E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo: dal radicalismo nazionale al fascismo, Roma 2002; F. Lanchester, Pensare lo Stato, i giuspubblicisti nell’Italia unitaria, Roma 2004; S. Niccolai, Sergio Panunzio, in Juristas universales, a cura di R. Domingo, IV, Madrid-Barcelona 2004, pp. 131 ss.; A. Somma, I giuristi e l’asse culturale Roma-Berlino. Economia e politica nel diritto fascista e nazionalsocialista, Frankfurt am Main 2005; La facoltà fascista di scienze politiche di Perugia, a cura di A. Campi, Perugia 2006; Alfredo Rocco: dalla crisi del parlamentarismo alla costruzione dello Stato nuovo, a cura di E. Gentile - F. Lanchester - A. Tarquini, Roma 2010; F. Lanchester, Origini e sviluppi della Facoltà romana di Scienze politiche, in Le scienze politiche. Modelli contemporanei, a cura di V.I. Comparato - R. Lupi - G.E. Montanari, Milano 2011, pp. 106 ss.; M. Gregorio, Parte totale. Le dottrine costituzionali del partito politico in Italia tra Otto e Novecento, Milano 2013.

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