SHAMASH

Enciclopedia dell' Arte Antica (1966)

SHAMASH (sumerico Utu, Babbar "splendente"; accadico Shamash "sole")

A. Bisi

Nome dato dai Semiti di Mesopotamia alla divinità solare che i Sumeri chiamavano Utu o Babbar.

S. è detto figlio di Sin (v.) e di Ningal, talora di Anu (v.) o di Enui (v.). La sua sposa e paredra è Aya, i suoi figli hanno nomi comuni significanti diritto, giustizia.

La sede più celebre del suo culto, il tempio di Sippar (Abū Habbah) aveva il nome di é-babbar = "casa dello splendore": un altro tempio dallo stesso nome esisteva a Larsa, con una ziqqurat detta é-dur-an-ki = "casa del legamento del cielo e della terra". Infine un tempio doppio, a somiglianza di quello di Anu e Adad, fu eretto a S. e al dio lunare Sin ad Assur, all'epoca di Ashshurnirāri I (1516-1491 a. C.).

Gli emblemi di S. sono il disco solare con nell'interno una stella a quattro punte, da cui si dipartono fasci di raggi, e lo stendardo il quale reca lo stesso disco infitto su un'asta e che è spesso tenuto da un uomo-toro; è quasi certo invece che il disco solare alato, che gode di tanto favore in epoca assira, sia il simbolo del dio guerriero Assur (v.) e non di Shamash. La caratteristica distintiva del dio-sole è però l'arma ricurva, dall'estremità dentellata su un lato.

Le rappresentazioni del dio-sole appaiono già su sigilli protostorici del III millennio, ma in essi predomina l'aspetto di dio della fecondità: il personaggio raffigurato nella barca, la cui prua termina a testa di animale o a testa umana, con i raggi uscenti dalle sue spalle e l'arma seghettata in mano, è infatti mostrato sempre associato a tre simboli di evidente carattere agricolo: un quadrupede (da notare che in un sigillo di Khafāgiah sembra trattarsi di una sorta di grifone, con becco adunco e corona di peli fluenti sul petto: H. Frankfort, Cylinder Seals, tav. xv, j), un vaso e un aratro; il dio dunque è rappresentato passante per le acque dell'Oltretomba, giacché la presenza dei simboli ctoni esclude un valore puramente astrale connesso alla scena. Si aggiunga che in due sigilli provenienti pure dalla regione del fiume Diyala due uomini-tori seguono la barca del dio recando spighe in mano, ovvero il dio stesso stringe in pugno, in luogo dell'arma seghettata, un ciuffo di spighe di grano. Secondo il Frankfort la connessione fra il dio della fertilità e il dio del sole si spiega agevolmente se si pensa che entrambe queste entità divine sono tipizzate dal loro scomparire e dal loro ciclico risorgere: d'altro canto un testo menziona esplicitamente assieme S. e Tammuz (v.), il dio della vegetazione rinascente.

Il dio del sole nella sua barca ritorna sui sigilli di epoca accadica, con varianti minime rispetto a quelli dell'età precedente. Tuttavia il dio che da questo momento può con più esattezza denominarsi S., appare in altri tre contesti: il più diffuso e significativo è quello che ce lo mostra nell'atto di uscire dalle montagne dell'E, all'inizio di ogni nuovo giorno: S. ha sempre la tiara multicorne, la lunga veste aperta sul davanti, la barba, l'arma ricurva e i fasci raggiati uscenti dalle spalle (in un sigillo, Ward, n. 250, ha sia la sega sia la più comune mazza): è raffigurato con un piede poggiante sulla montagna, resa da un insieme di massi ad embrice, mentre due assistenti gli aprono le porte del cielo, menzionate nei testi, e rese qui da due battenti rettangolari, sormontati da leoni, oppure poggianti su leoni o tori androcefali. Talora le montagne scompaiono e S. è mostrato sorgente fra i due tori a testa umana. Il secondo contesto nella glittica accadica in cui compare S. è di significato alquanto dubbio; il dio è nelle vesti di guerriero vittorioso, trionfante su un avversario che ha di volta in volta l'aspetto di un uomo-toro, di un mostro dal corpo femminile (del tipo della Lamashtu apportatrice di malattie), di un essere con corpo umano, testa leonina, zampe di rapace. Qui S. sarebbe considerato come il dio della luce che vince le potenze delle tenebre rappresentate dagli esseri ibridi, aventi carattere demoniaco, più vicino, in questa nuova ideologia, alle scene che si accentrano sulla resurrezione di Tammuz (cfr. ad esempio, H. Frankfort, Cylinder Seals, tav. xix, a: il dio della fertilità ha l'aspetto di s., con i raggi dietro le spalle, e vien fuori dalla montagna: ma la pianta che germina da quest'ultima indica che ci troviamo di fronte a una scena diversa). Infine, S. compare seduto in trono, talora composto di cerchietti che rammentano la mitica montagna, con la tiara, i raggi, l'arma ricurva: al dio si avvicina un offerente con un capretto, ovvero un lungo corteo di adoratori e di altre divinità intercedenti, fra cui è stata vista anche la sua paredra, Aya.

Con questa scena si trapassa insensibilmente dal periodo accadico in quello antico-babilonese; scomparse le altre scene in cui compariva S., probabilmente per un venir meno dei miti che ad esse erano strettamente connessi, predomina in tutta la glittica del periodo di Hammurapi lo schema, freddamente e monotonamente reso, dell'adorante di fronte al dio del sole seduto sul suo trono. Una tipizzazione parallela a quella in atto nei sigilli si osserva nei rilievi, come nella sommità della stele del codice di Hammurapi (e in un'altra stele analoga, all'incirca contemporanea, pure da Susa); il dio in trono, davanti a cui il sovrano fa umile atto di omaggio, ha la tiara con quattro paia di corna, la veste a falde, i raggi uscenti dalle spalle; da notare che il trono poggia su uno zoccolo embricato, ricordo della montagna, e che il dio reca, al posto della sega, il bastone e l'anello, cioè quegli emblemi del potere che già da quest'epoca non sono tipici di S. ma si adattano a molte altre divinità. Va rilevato che in alcune di queste scene di adorazione S. assume un ruolo subordinato rispetto ad Enki (v.), di cui non abbiamo traccia nelle fonti letterarie: un sigillo da Ur (Woolley, n. 364) mostra il dio del sole fra due montagne, col piede sul solito toro, mentre rende omaggio insieme ad altre divinità al dio di Eridu, assiso nel suo tabernacolo circondato da fiotti d'acqua e da pesci.

Dopo questa rigogliosa fioritura di iconografie connesse a S. - si noti che il dio del sole appare fra i battenti della porta celeste fin su una pisside di alabastro dalla zona del lago di Urmia, una regione cioè periferica rispetto alla Mesopotamia, la quale è probabilmente la tarda versione di un modello antico-babilonese -, assistiamo a una progressiva decadenza della rappresentazione antropomorfica; in età assira sono soprattutto gli emblemi di S. che predominano sui rilievi e i sigilli. Solo nella prima metà del I millennio, nella processione rupestre di Maltaya e nella stele di Asarhaddon da Tu Barsip, ricompare S., con la lunga veste e l'alta tiara, in piedi su un cavallo bardato, che i testi mesopotamici indicano come l'abituale cavalcatura del sole durante il suo viaggio celeste: in entrambi i casi tiene in mano il bastone e l'anello.

Alcune figurine di terracotta in cui si è visto il dio del sole, da solo o affiancato da due uomini-tori portatori di stendardo, all'ingresso del suo santuario, sono da considerarsi con riserva. Non così due tavolette d'argilla di età neobabilonese, copia di una tavoletta in pietra databile all'851 a. C. commemorante la ricostruzione del tempio di S. in Sippar ad opera di Nabū-apal-iddin; la lunga iscrizione menziona il rinvenimento di una statua arcaica di S., cui il re si ispirò per ricostruire il luogo di culto, distrutto da una scorreria, e definisce la scena che sormonta la lastra, come "l'immagine di S., il gran signore, che dimora nell'é-babbar...". Questa rappresentazione è di eccezionale interesse giacché dà una triplice immagine del dio, adorato nel tempio di Sippar: S. è raffigurato una prima volta seduto su un trono, sostenuto da due uomini-tori, nell'atteggiamento tipico delle stele di Hammurapi, ma senza i fasci di raggi uscenti dalle spalle: è dentro un tabernacolo formato dal corpo di un serpente la cui testa segue il contorno del soffitto e viene a poggiare sul capitello a volute di una colonna palmiforme, eretta all'entrata; al di sopra del capitello sporgono due teste barbute, con tiara, che reggono il disco raggiato di S., sospeso ad una corda, su un'ara o tavola d'offerta posta fuori il santuario; ad esso si avvicinano tre personaggi, fra cui una divinità intercedente; infine l'emblema di S. ricompare al di sopra del tempio, unitamente ai simboli astrali di Sin e di Ishtar. Questo monumento è l'ultima felice testimonianza iconografica di quella sintesi ideologica che sta alla base della millenaria storia della figura di S. in Mesopotamia: sintesi fra lo schema antropomorfo originario dell'ambiente sumerico e l'accentuazione dei caratteri astrali connessa all'apporto culturale delle genti semitiche.

Monumenti considerati. - Pisside da Urmia: W. H. Ward, A Babylonian Cylindrical Basrelief from Urmia in Persia, in Am. Journ. Arch., vi, 1890, pp. 286-91, tav. xviii, 1. Processione di Maltaya: F. Thureau-Dangin, Les sculptures rupestres de Maltai, in Revue d'Assyriologie, xxi, 1924, p. 192 ss. Figurina fittile: E. D. van Buren, Clay Figurines of Babylonia and Assyria, New Haven 1930, nn. 594, 629, 1006, tav. liii, fig. 255. Stele di Asarhaddon: F. Thureau-Dangin-M. Dunand, Tu Barsip, Parigi 1936, pp. 151-2, tav. xii. Stele da Susa: G. Contenau, Manuel d'archéologie orientale, ii, Parigi 1931, pp. 852-54, fig. 607. Stele del codice di Hammurapi: A. Parrot, I Sumeri, Milano 1960, p. 305, fig. 373. Tavoletta di Nabū-apaliddin: A. Parrot, Gli Assiri, Milano 1961, p. 168, figg. 213-215.

Bibl.: A. Jeremias, in Roscher, IV, 1909-15, c. 533-558, s. v.; K. Frank, Bilder und Symbolae babylonisch-assyrischer Götter, Lipsia 1906, pp. 15-17; A. Deimel, Pantheon Babylonicum, Roma 1914, pp. 250-4, s. v.; E. Unger, in M. Ebert, Reallexikon der Vorgeschichte, IV, 2, Berlino 1926, pp. 424-5, s. v. Götterbild, tavv. CXCVIII b, CXCIV a-d; G. Furlani, La religione babilonese e assira, I, Bologna 1928, pp. 162-9; E. Dhorme, Les religions de Babylonie et d'Assyrie, Parigi 19492, p. 60-7; J. Bottéro, M. J. Dahood, W. Caskel, S. Moscati, Le antiche divinità semitiche, Roma 1958, pp. 47-8; 124; 138. Sull'iconografia di S. nei sigilli: W. H. Ward, The Rising Sun on Babylonian Cylinders, in Amer. Journ. Arch., III, 1887, pp. 50-6; id., The Seal Cylinders of Western Asia, Washington 1910, pp. 87 ss., nn. 244-268, 270-282, 290, ecc.; H. Prinz, Altorientalische Symbolik, Berlino 1915, pp. 75-96, tavv. X, XI; H. Frankfort, Gods and Myths on Sargonid Seals, in Iraq, I, 1934, pp. 17-21, tavv. III-V; C. L. Woolley, The Royal Cemetery (Ur Excavations, II), Londra 1934, nn. 76, 271, 273, 77, 357, 359, 361, 364, 366, 394; H. Frankfort, Cylinder Sals, Londra 1939, passim, in particolare, pp. 67-70, 95-106; 108-10; E. D. van Buren, Symbols of the Gods in Mesopotamian Art, Roma 1945, pp. 85-95; 179-80, passim.