MALATESTA, Sigismondo Pandolfo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 68 (2007)

MALATESTA (de Malatestis), Sigismondo Pandolfo

Anna Falcioni

Figlio naturale di Pandolfo (III) e di Antonia di Giacomino dei Barignano, nobildonna lombarda, nacque a Brescia il 19 giugno 1417.

Morto il padre (3 ott. 1427), il potere familiare passò allo zio Carlo che provvide a ottenere da papa Martino V la legittimazione dei tre figli di Pandolfo, e la conseguente possibilità di accedere al potere. Alla morte di Carlo (14 sett. 1429) gli succedette il fratello maggiore (fratellastro) del M., Galeotto Roberto. Dopo la morte di quest'ultimo, il M. e il fratello minore Domenico detto Malatesta Novello, a causa delle discordie tra loro ricorrenti, disposero più volte (nel 1433, 1437, 1442 e nel 1451) di dividere le aree di rispettiva competenza.

Al M. spettarono tutte le terre a sud del Marecchia con Rimini, Santarcangelo, Scorticata (odierna Torriana), Fano e il rettorato di Sant'Agata Feltria; al fratello Domenico Cesena, Bertinoro, Meldola, Sarsina, Roncofreddo, Pieve di Sestino. Non sembra, però, che tale ripartizione avesse ottenuto il placet pontificio, poiché nel 1450 Niccolò V rinnovò congiuntamente il vicariato apostolico a entrambi i fratelli, i quali, tra l'altro, in diverse circostanze si avvicendarono nei loro territori, esercitando una sorta di governo consortile.

Nel 1433 il M. fu creato cavaliere dall'imperatore Sigismondo di Lussemburgo in visita a Rimini. Il 18 marzo 1435, giurata fedeltà a papa Eugenio IV, il M. passò agli stipendi della Chiesa con un condotta di sei mesi e con l'impiego di 200 lance.

Nella nuova qualifica di capitano generale ecclesiastico, il M., affiancato da Malatesta Novello, prima si assicurò la fedeltà dei parenti di Pesaro con il rinnovo delle condizioni di pace tra le due casate, poi, appoggiato da Francesco Sforza, allora alleato dei Malatesta e gonfaloniere della Chiesa, si spostò a Forlì contro gli Ordelaffi, fautori del duca di Milano Filippo Maria Visconti e sostenuti da Francesco Piccinino, condottiero al servizio di Filippo Maria. La partecipazione di Francesco Sforza fu determinante per quella guerra, essendo le terre dei Malatesta sulla linea delle ostilità tra Milano e Roma. Il 14 luglio 1436 Francesco Sforza occupò Forlì cacciando Antonio Ordelaffi, poi il M. e il fratello si unirono a lui e presidiarono Bologna per il papa.

I successi riportati permisero al M. di mettersi in luce nel mondo delle compagnie di ventura e il 3 apr. 1437 fu assoldato dalla Serenissima. Al servizio dei Veneziani, il M. fu impegnato con la sua compagnia in una battaglia a Calcinara sull'Oglio (22 luglio 1437) contro Niccolò Piccinino che, al servizio del duca di Milano, ebbe la meglio. Scaduta la condotta con Venezia, il 12 genn. 1438, il M., dopo un breve ritorno a Rimini, fu di nuovo occupato in operazioni militari. La venuta di Francesco Sforza nella Marca di Ancona mise in subbuglio le città e i poteri locali. Il M., temendo che il pericolo sforzesco si estendesse anche allo Stato malatestiano, si accostò a Francesco.

Per circa un quinquennio la Romagna non conobbe grandi cambiamenti politico-militari e nel quadro delle alleanze italiane il M. e suo fratello aderirono alla lega Venezia-Firenze-Sforza. Nel maggio 1439 il M. impiegò il proprio contingente per la conquista di Forlì e Forlimpopoli: alla fine di giugno, mentre ormai Francesco Sforza dalla Romagna si dirigeva in Lombardia, le ostilità finirono con tregue locali stipulate con i da Polenta, i Manfredi e gli Ordelaffi. Nonostante ciò, la presenza sforzesca a ridosso dei territori viscontei era una chiara minaccia per gli equilibri militari.

Perciò nel 1440 Filippo Maria Visconti, con astuta strategia, inviò in Romagna, come diversivo, Niccolò Piccinino con 6000 cavalieri a minacciare direttamente i territori malatestiani, contro i quali si era mosso anche Guidantonio da Montefeltro. La capitolazione dei fratelli Malatesta era l'unica soluzione possibile: a fine marzo il M. si recò a Polenta per fare un accordo che prevedeva l'assegnazione a lui, in comune con il fratello e ribaltando le precedenti alleanze, di una condotta ciascuno da parte di Piccinino, anche se nessuno dei due veniva obbligato nell'immediato a combattere contro Francesco Sforza, Venezia, Firenze e la Chiesa. Probabilmente durante gli stessi negoziati Piccinino concluse una pace riguardante i signori di Rimini e di Urbino, a seguito di una guerra combattuta l'anno prima dal M. contro Federico da Montefeltro.

La pace Malatesta-Montefeltro non poteva essere che effimera, e già nel 1441 fu superata dal conflitto per Pesaro, su cui si erano appuntate le mire espansionistiche del M., per il quale la conquista della città significava l'unificazione dei territori riminesi con la sua enclave in terra marchigiana: la presa del potere a Pesaro da parte di Galeazzo Malatesta, inadatto a governare, fece temere un intervento militare del M.; di fronte a questa minaccia, Galeazzo accolse dopo non poche esitazioni l'aiuto di Federico da Montefeltro, suo zio, ritenuto l'unico disposto a salvarlo. Di fronte alle truppe feltresche a Pesaro, il M. decise di agire in segreto per vie parallele. Nell'agosto 1441 appoggiò l'esiliato Alberico Brancaleoni nell'invasione del Montefeltro; la conquista di diversi castelli servì solo ad accelerare il ritorno di Federico nei suoi territori per organizzare la difesa, ma la trama strategica tessuta dal M. mirò direttamente alla persona di Federico: nella prima decade del settembre 1441 questi cadde in un'imboscata presso Montelocco, nei pressi del confine tra le due signorie, e rimase ferito, riuscendo tuttavia ad arginare i disegni dell'avversario. Nell'autunno del 1441 Federico, alleato di San Marino, saccheggiò a sua volta il territorio riminese e compì una memorabile impresa conquistando la rocca di San Leo, e recuperando così una roccaforte che era sempre stata il simbolo della forza dei Montefeltro e che era stata sottratta loro dai Malatesta. Il M. non tentò di compiere rappresaglie ma, cosa che sarebbe diventata prassi abituale quando il rivale lo batteva, accettò la mediazione di una potenza amica. Grazie ad Alessandro Sforza, fratello di Francesco, si raggiunse una tregua e, il 20 novembre fu stipulata la pace con la restituzione di tutti i territori conquistati.

Negli anni Quaranta la politica militare del M. si trovò inserita nei contrasti e nella difficile situazione territoriale interna allo Stato della Chiesa. La pace di Cremona (1441) non portò ad alcun compromesso e l'ostacolo principale era rappresentato da Francesco Sforza, tornato nella Marca per consolidare le sue conquiste, e dal rifiuto del papa a riconoscerne i domini. Niccolò Piccinino, con il quale militava Federico, come rappresentante di Filippo Maria Visconti si accordò con il legato pontificio. La coalizione antisforzesca vedeva quindi l'alleanza di Milano, Roma e Napoli, mentre aiuti a Francesco Sforza venivano dal M. al suo servizio. Nel 1442-43 Francesco fu impegnato nel difendere le terre nella Marca contro la riconquista pontificia, mentre i suoi possessi nell'Italia meridionale erano minacciati da Alfonso d'Aragona, alleato del papa e desideroso di ricevere l'investitura del Regno di Napoli.

Inizialmente il M. diede il massimo sostegno ma, quando nel giugno 1443 Eugenio IV e Alfonso d'Aragona si allearono per espellere Francesco Sforza conquistando la maggior parte delle sue terre marchigiane, cominciò a tentennare e probabilmente solo la presenza di Francesco a Fano e la sua generosità in denaro gli impedirono di ritirarsi. In quella fase degli scontri lo Stato malatestiano sostenne l'attacco combinato degli eserciti pontifici e napoletani, che colpirono le popolazioni locali con incursioni, uccisioni, assedi, saccheggi e distruzione di raccolti e bestiame. Il M. e Francesco Sforza ricevettero rinforzi da Firenze e da Venezia e Filippo Maria Visconti persuase Alfonso d'Aragona a ritirare le truppe. In settembre si costituì infine una nuova alleanza tra Venezia, Firenze e Milano, che impegnò Filippo Maria a inviare aiuti al M. e a Francesco Sforza.

I capitani pontifici, Piccinino, Federico da Montefeltro e Malatesta Novello si trovarono in difficoltà e l'8 novembre una dura battaglia fu combattuta a Monteluro per iniziativa del M., che con ferocia decretò la disfatta dei suoi avversari. Piccinino e Malatesta Novello si ritirarono rapidamente verso Sud, mentre Federico da Montefeltro, estraneo alla battaglia, giunse appena in tempo per salvare il salvabile. Francesco Sforza allora iniziò la riconquista dei suoi territori; l'obiettivo pressante del M. rimaneva ancora una volta la presa di Pesaro, che si rivelò impresa ardua per la presenza delle truppe di Federico prontamente schierate a difesa della città.

Il 1444 fu per il M. un anno di alterne fortune: conquistò territori importanti, tra i quali Senigallia, ma giunse alla definitiva rottura con Francesco Sforza che, accusandolo di non essere intervenuto in suo aiuto nella battaglia di Montolmo, del 19 ag. 1444, contro l'esercito pontificio lo congedò in malo modo, accogliendo invece al suo servizio l'odiato Federico da Montefeltro. Proprio con quest'ultimo nel 1443 il M. aveva ripreso le ostilità con l'ennesimo scontro per Pesaro, conclusosi ancora una volta con un nulla di fatto.

In un crescendo di ostilità si arrivò nuovamente allo scontro sul campo con la riproposizione d'un copione fatto di conquiste territoriali insignificanti per il loro scarso valore strategico, nonché di ripicche e offensive di Federico: tra settembre e dicembre 1444 passarono al M. i castelli di Frontone, Casteldelci, Senatello e la Faggiola. A queste piccole provocazioni Federico stava già preparando una risposta offensiva più che appropriata. Niente era più naturale a quel punto di un'alleanza con i due signori che il M. si era inimicato: Francesco Sforza e Galeazzo Malatesta. Alla fine del 1444 Federico combinò una serie di trattati segreti, al termine dei quali Galeazzo cedette per 20.000 fiorini Pesaro e Fossombrone, rispettivamente a Francesco Sforza e a Federico da Montefeltro. In virtù delle nozze celebrate l'8 dic. 1444 tra Alessandro Sforza e Costanza da Varano, nipote di Galeazzo, il 15 genn. 1445 Pesaro fu venduta a Francesco e quindi assegnata al fratello Alessandro, mentre Fossombrone fu destinata a Federico.

La reazione del M. fu pronta e astuta: offrì i suoi servizi ad Alfonso d'Aragona ed eseguì ambasciate presso il papa, Filippo Maria Visconti e Leonello d'Este. In giugno e luglio le navi napoletane cominciarono ad affluire lungo la costa adriatica per unirsi alle milizie malatestiane ai danni degli Sforza di Pesaro, mentre il duca di Milano, alleato del papa, assoldò il M. e suo fratello e inviò loro contingenti. La risposta degli avversari portò lo scontro nel cuore dei territori malatestiani marchigiani, con la conquista di Candelara, il sacco di Pergola e le devastazioni del contado fanese. Il M. rispose prima con un attacco nel Montefeltro, poi, alla guida delle truppe di Milano, di Napoli e della Chiesa condusse un assalto generale nella Marca: Roccacontrada e Fermo furono sottomesse e in dicembre il M. divenne padrone dell'intera regione; Carlo Fortebracci, entrato al suo servizio, e Malatesta Novello attaccarono Urbino e conclusero una tregua. Solo nell'autunno 1446 i Feltreschi e gli Sforzeschi erano in grado di passare alla controffensiva, puntando verso Nord fino alla rocca di Gradara, che però resistette in mano malatestiana.

Parallelamente alle azioni militari, il M. adottò, nel corso degli anni, anche se con efficacia minore rispetto ai suoi predecessori, un'attenta politica matrimoniale con alcune delle principali famiglie signorili e principesche italiane: dopo un piano fallito di matrimonio con una figlia di Francesco di Bussone, conte di Carmagnola, nel 1434 il M. sposò Ginevra d'Este (morta nel 1440), dalla quale ebbe solo un figlio maschio, Galeotto Roberto Novello (morto nel 1438). La successiva unione, avvenuta a Cremona il 25 ott. 1441, con Polissena (morta nel 1449), figlia naturale di Francesco Sforza, diede al M. due figli: Galeotto (morto nel 1442) e Giovanna, nata nel 1443, che a soli sette anni andò in sposa a Giulio Cesare da Varano. Il M. ebbe inoltre numerosi figli naturali - in seguito, per vie diverse, quasi tutti legittimati - generati con Vannetta di Galeotto Toschi di Fano, con Gentile di ser Giovanni da Bologna e soprattutto con l'amante, e poi terza moglie, Isotta degli Atti.

Nel 1446 la situazione politico-militare si complicò ancora: Milano, attaccata dalle truppe veneziane guidate da Michelotto Attendolo, chiese aiuto all'alleato Malatesta. Ai primi di dicembre il M. partì per la Lombardia, ma la vittoria della Serenissima presso Casalmaggiore indusse lo sconfitto Filippo Maria a venire a patti con il genero Francesco Sforza: fu così ridisegnato l'intero complesso di alleanze, soprattutto in riferimento ai successi ottenuti sul fronte feltresco e sforzesco da parte del Malatesta. Per venire a patti con Milano, Francesco Sforza, dopo avere stipulato una tregua con il M., pretese da lui la restituzione di tutte le terre, compresa la rocca di Senigallia, sottratte a Federico da Montefeltro. In vario modo comunque si gettavano le basi per una pace: Francesco Sforza e il M. stabilivano una tregua (1447), che incluse anche Alessandro Sforza, Federico da Montefeltro e Malatesta Novello. Nonostante gli sforzi di Niccolò V, non sembrava però possibile una pace tra Federico e il M., che, proprio per volontà del papa, si vedeva tra l'altro nuovamente tolta la possibilità di acquisire Pesaro.

All'inizio del 1447 si fronteggiavano da una parte Milano, gli Aragona e il papa, dall'altra Venezia e Firenze con gli Angioini, che aspiravano alla conquista del Regno di Napoli. Ogni potentato tentava di assicurarsi le condotte di famosi condottieri, tra i quali i Malatesta e i Montefeltro. Alle difficoltà, quindi, di inserirsi nel gioco della politica degli Stati italiani, si aggiunse per il M. la necessità di scegliere alleanze che lo salvaguardassero da Federico da Montefeltro, il quale militò quasi sempre in campo opposto. In tale ambito il M., la cui fama di capitano era ormai indiscussa, alternava i suoi servigi tra Venezia, Milano, Napoli e Firenze, verso ciascuno dei quali si orientò in base ai compensi promessi, vendendo le sue capacità militari con pragmatismo e astuzia. Fu proprio tale atteggiamento spregiudicato, insieme con una certa slealtà manifestata dal M. riguardo alle condotte affidategli (riconosciuta ormai anche dalla più recente storiografia), oltre che il mutamento delle relazioni politiche intercorrenti tra i principali Stati italiani a causare la sua caduta.

La voglia di combattere, ma soprattutto il bisogno di denaro mossero il M. verso Napoli: il 21 apr. 1447 fu stipulata una condotta provvisoria con Alfonso d'Aragona per un compenso totale di 32.000 ducati. Dapprima il M., insoddisfatto per le condizioni contrattuali poco precise, probabilmente ritirò il proprio assenso e riprese i contatti con Venezia, che, risultando inconcludenti, lo costrinsero a rivolgersi di nuovo all'Aragonese.

Le modalità di pagamento furono oggetto di trattative controverse, finché della somma promessa il M. percepì solo 25.000 ducati in prestanza, secondo lui insufficienti per assoldare uomini d'arme e dare loro le paghe. Ricevuta la prestanza dal re e messe a punto le sue genti, cercò di occupare Fossombrone togliendola a Federico da Montefeltro. Andato a vuoto il tentativo, senza attendere che spirasse il termine della sua ferma e noncurante dell'ordine di Alfonso di raggiungerlo in Toscana, il M. si adoperò con ogni mezzo per entrare al servizio della lega veneto-fiorentina.

Per ragioni di strategia militare e di equilibrio, Firenze accantonò le diffidenze verso il M. e, il 10 dic. 1447, lo assoldò per un anno accanto a Federico da Montefeltro che aveva già preparato le milizie da condurre in Toscana. La vittoria conseguita a Piombino, il 15 luglio 1448, grazie alla rapidità e alla bravura del M., rappresentò l'inizio di una serie di successi militari che, se da una parte costituirono anche la sua fortuna economica, dall'altra acuirono i risentimenti del re di Napoli, perché fu proprio il M., più di ogni altro, a impedire agli Aragonesi il successo. Vari episodi di questa felice campagna militare furono esaltati, secondo la tradizione dell'epica classica, nella Hesperis di Basinio da Parma, il quale acclamò il M. salvatore della Toscana.

La condotta stipulata con Venezia il 26 nov. 1449 e riconfermata per l'anno successivo il 5 genn. 1450 costituì una delle ultime assunzioni più proficue economicamente: il M., nominato capitano generale delle milizie venete, allestì una compagnia di 2000 cavalli e 500 fanti per un compenso personale mensile di 600 ducati. Sembra che la Serenissima pagasse puntualmente il M., contrariamente a Firenze e Milano, le quali al rinnovo del contratto (14 apr. 1453) erano ancora debitrici nei confronti del M. di ben 32.000 ducati per il precedente ingaggio (1452), cioè per più della metà della somma pattuita. Nella seconda guerra di Toscana, la condotta del M. fu brillante. Favorito dall'incapacità organizzativa del nemico e da un'epidemia scoppiata nell'esercito aragonese - dalla quale fu temporaneamente affetto anche il suo condottiero, Federico da Montefeltro - il M. sottomise Vada.

Oltre ai successi riportati sui campi di battaglia, nei primi anni Cinquanta del Quattrocento il M. era anche territorialmente più forte. Montemarciano e Cassiano divennero con il placet di Niccolò V sue giurisdizioni; Pergola, Monterolo, Senigallia e il vicariato di Mondavio erano tornati sotto il suo potere. E se Pesaro non era stata incorporata nei suoi domini, il M. aveva però conservato Gradara e vaste zone del Pesarese, stabilendosi, inoltre, saldamente nel Montefeltro; migliorò e rinnovò anche il sistema difensivo malatestiano in diretta opposizione a quello feltresco: a parte Castel Sismondo a Rimini, fece costruire fortificazioni a Senigallia, distruggendo la cattedrale e il palazzo vescovile, a Fano e nel suo contado; sono poi attestati interventi nelle rocche di Verucchio, Montescudo, Pennabilli, Santarcangelo, Sogliano, Gradara. Il potenziamento delle strutture militari in aree strategiche e iperfortificate da sempre era perfettamente riconducibile anche alla viabilità interna e alle grandi direttrici di traffico mercantile tra Adriatico, Toscana, Umbria e Italia settentrionale. Dagli anni Trenta concorse al raggiungimento di questi risultati anche una precisa linea politica attuata dal M. a Rimini come a Fano, soprattutto nel sostenere, con bandi e decreti signorili, un'equilibrata simbiosi tra economia rurale ed economia commerciale-urbana e nell'orientare in senso liberalizzante una realtà corporativa artigianale cittadina ancora fortemente protezionistica.

Proprio la riaffermazione di numerose e importanti posizioni nella Marca anconetana alienò ben presto al M. qualsiasi sostegno, anche quello pontificio che tante volte - come nella legittimazione di alcuni figli (Roberto, Malatesta, Valerio Galeotto) - gli era tornato favorevole, e si inasprì nel contempo la rivalità con Federico da Montefeltro; suscitò inoltre diffidenza tra i potentati italiani, fautori della politica dell'equilibrio. La situazione iniziò a precipitare quando Alfonso d'Aragona, per ripetute insolvenze del M., lo fece escludere dalla pace di Lodi (9 apr. 1454). Il M. si trovò così in quasi totale isolamento, mentre vedeva rapidamente diminuire le sue risorse finanziarie insieme con il prestigio di uomo di guerra e di Stato. La condotta con il Comune di Siena (17 ott. 1454), minacciato da un signorotto ribelle, Aldobrandino Orsini conte di Pitigliano, fu un fallimento: si trattò di una campagna breve e sfortunata, tanto che il M., sospettato da Siena - sembra a torto - di tradimento, non ricevette il soldo pattuito e il suo accampamento fu saccheggiato dalle milizie senesi.

Nel 1455-56 il M. e Federico da Montefeltro oscillarono tra pace e guerra, ma si trattò di un breve momento intervallato da una serie di trattative diplomatiche. A nulla valse il loro incontro - alla presenza di Borso d'Este e di Malatesta Novello - per trovare una composizione delle annose controversie (1457). Nell'ottobre 1457 Federico e Iacopo Piccinino invasero le terre del vicariato di Fano, per ordine di Alfonso d'Aragona, che vantava nei confronti del M. un credito di 40.000 alfonsini. Il M. chiese aiuto a Venezia, Firenze, Milano e a papa Callisto III, che, per mezzo del cardinale Enea Silvio Piccolomini (futuro papa Pio II), gli suggerì di sottoporsi a un lodo pontificio dopo aver versato all'Aragonese quanto richiesto. L'avvio delle trattative cadde proprio in una fase di cambiamenti ai vertici della Chiesa e del Regno di Napoli. Il 27 giugno 1458 morì re Alfonso, e perciò il M. si credette libero dall'obbligo della restituzione. Il 6 agosto morì anche Callisto III, al quale succedette Pio II, che volle mettere in atto la sua proposta condivisa da re Ferdinando, erede di Alfonso d'Aragona. Il M., che intanto aveva recuperato i castelli della valle del Cesano, nel 1459 fu costretto a riconsegnarli perché il 6 agosto, nella Dieta di Mantova, il papa emanò il suo lodo arbitrale: il M. si impegnava a restituire al re di Napoli 40.000 alfonsini e, a garanzia del completo pagamento, dava in deposito a Pio II Senigallia, il vicariato di Mondavio, Pergola e Montemarciano con la promessa di non prendere più le armi per dieci anni. Inoltre i due contendenti, il M. e Federico, dovevano cedere di comune accordo i castelli che si erano reciprocamente usurpati.

Anche Iacopo Piccinino, capitano stipendiato dal re di Napoli, fu al centro dei provvedimenti papali. Costui, dovendo rendere al M. le terre che aveva occupato per Federico, divenne la causa diretta e indiretta di turbamenti nella Marca. Le decisioni della Dieta di Mantova, insieme con altre, apparivano troppo onerose sia al M. sia a Piccinino; neppure Federico rimase soddisfatto forse perché si attendeva più ampie agevolazioni territoriali. Ad ogni modo Pio II invitava a rispettare quanto stabilito: al M. scriveva di essersi dimostrato favorevole nei suoi confronti; a Federico di rispettare le clausole redatte nel lodo. Nell'ottobre 1459 il M. diede i territori richiesti in deposito al commissario pontificio Ottaviano Pontano; di contro Piccinino non eseguì alcuna consegna. L'inosservanza da parte di Piccinino delle condizioni pontificie irritò particolarmente il M., che si sentiva oltretutto beffato, perché le terre che aveva assegnato alla Chiesa non erano rimaste nelle mani del papa, ma erano state cedute a Federico da Montefeltro. In conseguenza di ciò il M. non si attenne più al lodo papale e, ricevuti dagli Anconetani 3000 ducati per la guerra contro Iesi, che poi rifiutò di condurre affidando l'incarico al figlio Roberto, occupò Montemarciano, il vicariato di Mondavio e, con Piccinino e con il principe di Taranto, abbracciò la causa angioina contro re Ferdinando d'Aragona. La ribellione alla S. Sede pose il M. in una condizione di completo isolamento diplomatico: privato dei suoi diritti e poteri, vide rapidamente eclissarsi il prestigio della sua famiglia.

La situazione precipitò nel 1460-62, quando Pio II, per le ripetute disubbidienze del M., lo richiamò per ben tre volte ma, vista l'inefficacia di questi tentativi, sciolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà scomunicandolo il giorno di Natale del 1460; gli intentò inoltre un processo diffamatorio (1461) che si concluse con il rogo della sua effigie, avvenuto a Roma nel 1462; conseguentemente il M. decadde dallo status di vicario nei territori della S. Sede. Del resto la decisione di Pio II di far guerra al M. fino alla sua completa rovina divenne impegno collettivo della lega costituita dal papa, dal re di Napoli, dal duca di Milano e da Federico da Montefeltro. I condottieri pontifici Ludovico Malvezzi di Bologna e Pier Paolo Nardini si portarono quindi nella Marca per riprendere le terre malatestiane: invasero la valle del Cesano con 3000 cavalli e 2000 fanti, si accamparono ai margini del vicariato di Mondavio, nella pianura sotto il castello di Nidastore. Il M. passò all'offensiva e ottenne a Castelleone di Suasa contro l'esercito ecclesiastico condotto da Napoleone Orsini la sua più celebre vittoria (2 luglio 1461), dopo quella di Monteluro. Nel 1462 il M. riuscì a occupare Senigallia, ma al sopraggiungere improvviso dei contingenti di Federico da Montefeltro fuggì verso Fano. Federico lo inseguì e, dopo averlo raggiunto alla foce del Cesano, nell'agosto 1462 sbaragliò il contingente del M., che si salvò con pochi suoi fedeli e, messosi in viaggio via mare, fece invano ricorso ai confederati angioini, mentre il figlio Roberto poté a stento entrare nella rocca di Mondolfo. Pio II, deciso a chiudere la partita, ordinò a Federico e al legato cardinale Niccolò Forteguerri la continuazione delle operazioni militari contro il M. (maggio 1463), che oltre a Senigallia e al vicariato di Mondavio, dovette lasciare anche Fano, già assediata per mare dalle forze di Forteguerri (25 sett. 1463). Finita la guerra, per le pressioni dei Veneziani il papa attenuò il suo rigore verso il M. che, ottenuto il perdono, rimase in possesso della sola Rimini con un ristretto territorio, acquisiti sempre a titolo di vicariato.

Ridotto in isolamento, il M. vide rapidamente inaridirsi le risorse finanziarie e il prestigio personale: per questo cercò dapprima di recuperare terreno con la richiesta di nuove condotte per sé e per il figlio Roberto o tentando di riavviare rapporti con i potenti Stati italiani. Gli restarono vicine solo Milano e Venezia: sotto la Serenissima, dal 1464 al 1466, prese servizio come condottiero, per combattere contro i Turchi in Morea, missione cui molti signori d'Italia e d'Oltralpe si erano sottratti perché la consideravano dura e pericolosa. La campagna che seguì non portò al M. successo né guadagno. Tuttavia, grazie alle condizioni della condotta veneziana, egli ottenne la promessa di protezione per il suo Stato e per la sua famiglia, e una guarnigione di 150 uomini fu inviata a Rimini per mantenere la pace durante la sua assenza. Quando, nel 1465, corse voce che il M. era morto di peste in Morea, egli poté avere idea di ciò che sarebbe accaduto alla sua scomparsa.

Venezia inviò subito soccorso alla moglie Isotta e al di lei figlio adottivo Sallustio, ai quali era stato lasciato il governo di Rimini, sperando forse di spodestarli. In città Isotta, i cui intenti erano di creare Sallustio signore, ebbe scarsi appoggi. Alcuni erano favorevoli a Roberto, essendo il figlio maggiore del M., altri auspicarono il ritorno della città alla Chiesa come dettato dalle condizioni della pace del 1463, altri erano schierati in favore di una forte potenza, quale Milano o Firenze. Anche il papa Paolo II era in allarme e tenne pronto un esercito per occupare Rimini.

Recuperata la salute e allarmato dalle minacce che venivano direttamente o indirettamente portate sull'ormai ridotto Stato malatestiano, il M., dopo lunghe esitazioni da parte di Venezia ottenne di essere liberato dal servizio in Morea.

Al suo ritorno in Italia, dopo aver dettato le disposizioni testamentarie in favore di Isotta e di Sallustio (23 apr. 1466) e convinto di strappare a Paolo II alcune concessioni come ricompensa per il suo servizio contro i Turchi, il M. si recò a Roma, dove l'intenzione del papa era di trattenerlo il più a lungo possibile per favorire i suoi nell'occupazione militare di Rimini. Il piano si presentò, però, fin dagli inizi fallimentare e Paolo II si vide costretto, per placare la rabbia del M. che aveva compreso la situazione, a offrirgli una ricompensa di 1500 ducati.

Il M. fu nuovamente assunto dalla Chiesa come capitano; nella primavera 1468, mentre era impegnato in una campagna militare pontificia contro Norcia, contrasse la malattia che lo portò alla morte. Dopo aver dettato un codicillo al testamento sui suoi beni ragusei (16 ag. 1468), il M. morì a Rimini il 9 ott. 1468, lasciando tutti i suoi progetti di riscatto incompiuti. Tra questi vi era il tempio Malatestiano, cui aveva dedicato negli anni della gloria tutte le risorse e le cure e nel quale aveva sperato di essere sepolto non da vinto, ma da vincitore.

Se la fama di condottiero e capitano del M., pur nella sua grandezza, incongruente rispetto al ruolo di signore d'un piccolo Stato, era destinata a lungo a perdere d'importanza, molto più duratura fu quella che si procurò, con un sempre maggior numero di costose iniziative di promozione culturale, in ambito cortigiano e nel più vasto contesto urbanistico ed edilizio cittadino. Il suo mecenatismo fu chiaramente indirizzato all'esaltazione delle imprese personali e alla celebrazione della grandezza della dinastia malatestiana, fino a farla quasi divenire una religione. La novità e l'attualità della politica culturale del M. non si tradussero solo in forme di committenza e di finanziamento di opere, ma lo portarono a rendersi attivo e partecipe nei vari processi artistici e, soprattutto, a ispirarsi a modelli, valori e simboli rivissuti da lui in maniera personale, in una sorta di unione, mescolanza, fra cultura cristiana e cultura classica. Il M. mantenne un certo distacco nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche e fu sensibile alle tradizioni cavalleresche e cortesi; affrontò le esperienze culturali vivendo sia le più nuove e diverse emozioni estetiche sia quelle più pragmatiche delle arti belliche. In questa commistione fra arti liberali e meccaniche intervenne l'apporto di un grande numero di artisti, letterati, tecnici e scienziati a dare alle imprese culturali del M. una certa solidità razionale. Funzionali a quella "strategia di autorappresentazione" del M. furono senza dubbio le medaglie, commissionate a Pisanello (Antonio di Puccio Pisano) e al veronese Matteo de' Pasti, miniatore e decoratore di medaglie. Attraverso la riappropriazione di un simbolo della "idea imperiale" come la moneta antica, il M. mirava alla propria glorificazione e all'immortalità, in cui si inseriva la vicenda sua e di Isotta. Il mecenatismo del M. si palesò soprattutto in due opere architettoniche di grande prestigio, ma antitetiche nel significato, e fece operare nei cantieri riminesi, tra gli anni Trenta e Sessanta del Quattrocento, qualificati architetti e artisti scelti nel vasto panorama cortigiano italiano. Di carattere spiccatamente militare furono l'ampliamento (iniziato nel 1437) e il compimento del principale complesso edilizio difensivo nella parte occidentale di Rimini, il Gattolo, meglio noto con il nome di Castel Sismondo. Più volte ristrutturato e scelto quale residenza contro le minacce alla famiglia, il complesso rientrava nel sistema architettonico ossidionale sviluppato per volontà del M. in tutto lo scacchiere malatestiano. Nell'opera di recupero e ristrutturazione di un edificio nato su progetto di Filippo Brunelleschi, furono formalizzate le conoscenze della rinata scienza militare che alla corte riminese vide il fiorire della trattatistica di settore, soprattutto con Roberto Valturio, alla cui opera di sintesi delle conoscenze belliche certamente partecipò lo stesso M. con l'esperienza pratica maturata sul campo di battaglia e che ora si impreziosiva di una teoria alla quale egli volse sempre lo sguardo in uno scambio divenuto connubio perfetto.

Di ancor maggiore rilevanza per risonanza e valore, questa volta spiccatamente culturale, si rivelò la seconda impresa, che in un progetto mirabile, tra fasti pagani puramente classici e implicazioni sacre prettamente cristiane per il significato essenzialmente votivo e sepolcrale voluto da e per il signore e la sua famiglia, portò alla radicale conversione della chiesa gotica di S. Francesco nel tempio Malatestiano. La realizzazione di quest'altra opera, che in misura diversa da Castel Sismondo sintetizzava l'atteggiamento tipicamente sigismondeo di affermazione d'una personalità alla ricerca dell'esaltazione, procedette con gradualità. All'inizio furono semplicemente restaurate le cappelle di famiglia e, in seguito, l'opera fu orientata verso sperimentazioni certamente prima non avvertite. Rimini, al pari di altri centri italiani ed europei, sembrava esprimere proprio nel tempio Malatestiano il suo umanesimo, non solo per l'ampia partecipazione dei maggiori artisti e cultori di scienze umane, ma anche e soprattutto per la capacità, che l'edificio ebbe, di condensare rinati valori filosofici e teologici. Il M. aveva selezionato gli artisti portando a Rimini Matteo de' Pasti, attivo per il tempio come decoratore e scultore, lo scultore e decoratore fiorentino Agostino di Duccio, gli architetti Matteo Nuti, fanese, e Cristoforo Foschi, fino ai più noti Piero della Francesca (Franceschi) e Leon Battista Alberti. Di questi ultimi il primo realizzò, nella cappella delle reliquie, l'affresco raffigurante il M. in ginocchio e orante dinanzi al santo patrono e omonimo Sigismondo, il secondo fu ispiratore e realizzatore delle novità architettoniche di cui il tempio diveniva raffigurazione, soprattutto come "involucro antico" nella riscoperta di un'architettura dalle forme classicheggianti ed evidenti, nell'immediato, nella realizzazione decorativa della facciata. Decisivi, tuttavia, per l'opera sembravano anche gli influssi del neoplatonismo che, promananti da Firenze e mirabilmente interpretati in chiave filomalatestiana da letterati e artisti quali Basinio da Parma, Tobia Borghi, Guarino Guarini e Giusto de' Conti, trovavano, anche nelle cappelle del tempio, la loro rappresentazione nel ciclo di decorazioni e di sculture delle Divinità pagane, delle Muse e Arti liberali, delle Sibille, dei Profeti e dei Dottori della Chiesa; una trasfigurazione artistica dell'operare divino e umano nella storia nel tentativo estremo, e perfettamente attuato, di immortalare la vicenda del M., di Isotta e della dinastia, tra l'altro ampiamente esaltata anche da opere minori ma per nulla marginali nella politica culturale del M., come medaglie, stemmi, imprese araldiche e sigle epigrafiche.

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