Pèllico, Silvio

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Patriota e scrittore (Saluzzo 1789 - Torino 1854). Ebbe grande successo con la tragedia Francesca da Rimini (1815); si schierò poi con i romantici, e collaborò al Conciliatore. Aggregato alla Carboneria, fu recluso nel carcere dello Spielberg. Da quest'esperienza nacquero Le mie prigioni (1832), memorie a cui per lo più è legata la sua fama, che suscitarono ovunque simpatia per l'Italia e odio contro lo straniero.

Vita e opere

Stabilitosi ventenne a Milano, divenne amico di Foscolo, il quale lodò la sua prima tragedia, Laudamia; ma lo consigliò di buttare al fuoco la seconda, Francesca da Rimini. Questa invece, rappresentata il 18 ag. 1815, ebbe grande successo, e durò poi applauditissima sulle scene per oltre mezzo secolo. Scoppiata nel 1816 la polemica tra classicisti e romantici, P., dopo qualche esitazione, si schierò con questi ultimi, e nel 1818 (dopo che da qualche tempo era entrato in casa del conte L. Porro come segretario e precettore), collaborò attivamente al Conciliatore. Soppresso il periodico, pubblicò una nuova tragedia, Eufemio di Messina (1820), e, stretta relazione con P. Maroncelli, fu da questo aggregato alla Carboneria. Arrestato (13 ott. 1820), fu condannato (1821) alla pena di morte, commutata poi in venti anni di carcere duro da scontarsi nello Spielberg, dove giunse il 10 apr. 1822. Ne uscì graziato alla fine d'agosto del 1830, ma assai mal ridotto dalle sofferenze fisiche e morali. Riprese tuttavia a Torino la sua attività letteraria; pubblicò quattro cantiche (novelle in versi sciolti di argomento medievale) e alcune tragedie (Ester d'Engaddi e Igina d'Asti, composte in carcere a Venezia; Leoniero da Dertona, composta allo Spielberg, poi Gismonda da Mendrisio ed Erodiade). Di famiglia religiosissima, si era in gioventù allontanato dalla fede per tornarvi poi negli anni del carcere: scrisse le sue memorie di prigionia allo scopo di dimostrare, col suo esempio, di quale conforto sia la religione nella sventura. Le mie prigioni (1832) furono accolte con grande favore, soprattutto per l'equanimità di P. nel giudicare i suoi stessi carcerieri e per la nitidezza della rappresentazione, lontanissima dal vaporoso sentimentalismo allora di moda e di cui le altre opere dello stesso P. sono perfuse. La popolarità del libro portò a una conseguenza che l'autore non aveva prevista, e cioè che esso, più che alla propaganda etico-religiosa, servì a quella patriottica, prima in Italia e poi anche all'estero, dove ebbe ristampe e numerose traduzioni, suscitando ovunque simpatia per l'Italia e odio contro lo straniero. Di ciò ben s'accorse Metternich, che invano tentò di far confutare il racconto di P. e di farlo mettere all'Indice; non ebbe torto chi disse (ma non fu Metternich, come vuole la tradizione) che esso danneggiò l'Austria più di una battaglia perduta. Nel 1834 P. pubblicava I doveri degli uomini, trattatello tutto ispirato dalla morale religiosa, che conseguì larga diffusione come libro di pia lettura e come testo scolastico. Il nuovo atteggiamento di P. gli suscitò contro le opposte diffidenze dei cattolici reazionari e dei liberali più accesi: questi ultimi si sentirono anche più maldisposti verso di lui quando divenne amico e poi anche segretario dei marchesi di Barolo, che avevano fama di reazionari. L'insuccesso d'una nuova tragedia, Corradino (1834), persuase P. a non scriverne più; nel 1837 pubblicò invece due volumi di Poesie inedite (sette cantiche e molte liriche, per lo più di argomento religioso); intraprese anche, ma non condusse a termine, un'autobiografia.

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