Sinodi, assemblee, convegni ecclesiali

Cristiani d'Italia (2011)

Sinodi, assemblee, convegni ecclesiali

Maria Teresa Fattori

L’attività sinodale e collettiva dei vescovi italiani non trova nel 1870 una data significativa: piuttosto occorre rifarsi alla lunga storia tridentina e alle dinamiche ecclesiali innescate dal 1848, che rappresenta uno spartiacque, per capire le premesse di una relazione che i vescovi italiani accettano di esercitare nei rapporti reciproci di ‘fraternità’ sollecitata, favorita o espressamente richiesta dalla Santa Sede, senza, per altro, mai rompere uno schema collaudato di relazioni dirette tra il singolo vescovo e gli organismi centrali e senza acquisire particolare consapevolezza della tradizione teologica sui poteri nella Chiesa universale. Più avvezzi alla relazione con le singole congregazioni curiali che con i fratres vescovi della medesima provincia ecclesiastica o dello stato regionale, l’unificazione italiana non aumentò la consapevolezza dei vescovi italiani di appartenere a una compagine culturale unica. In quest’ottica deve essere anche interpretata la loro attività sinodale, che manifesta, programmaticamente, una ‘speciale sintonia’, rispetto agli altri episcopati, «con il successore di Pietro, vescovo di Roma e primate d’Italia» e un’accentuazione piramidale dei rapporti che i vescovi intrattengono con il centro della cattolicità.

L’eredità tridentina delle Chiese italiane

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Concili provinciali

Il dettato del concilio di Trento (sess. XXIV, c. 2, de reform., dell’11 novembre 1563) specificava un obbligo annuale da parte dei vescovi nella convocazione di un sinodo diocesano e triennale per il concilio provinciale. Consacrato alla regolazione dei costumi, la correzione degli abusi, la composizione delle differenze, la definizione dei comportamenti permessi, il concilio provinciale, convocato ogni tre anni, era presieduto dal metropolitano o, in caso di sua impossibilità, dal vescovo più anziano della provincia, mentre la composizione era aperta ai vescovi residenti nella provincia. Per i sinodi diocesani la composizione era estesa a tutti i chierici in cura di anime e ai chierici secolari. Queste disposizioni conciliari erano naturalmente inserite nel pacchetto di interventi finalizzati alla riforma complessiva della vita e delle istituzioni diocesane, insieme all’obbligo di residenza per ordinari e parroci, alla visita pastorale, all’esercizio di un controllo tramite la visita apostolica.

La periodicità fu complessivamente disattesa dai vescovi degli antichi Stati italiani per motivi che andavano dalla difficoltà di organizzazione, all’assorbimento dei vescovi negli impegni ordinari di governo, alle stesse difficoltà frapposte dai poteri politici che impedivano la pubblicazione delle costituzioni, esercitavano controlli e condizionamenti, osteggiavano l’attività sinodale per timore che rafforzasse le pretese giurisdizionali dei vescovi. Le costituzioni dei concili provinciali, dal 1588, furono sottoposte alla recognitio o approbatio degli atti da parte della Santa Sede, che poteva apporre addizioni o correzioni ai testi e verificare la conformità degli atti; questo fatto modificò la qualificazione dell’atto di promulgazione: le modifiche erano stabilite dalla Congregazione del concilio senza convocare nuovamente l’assemblea e senza l’approvazione romana gli atti non potevano essere promulgati ed entrare in vigore.

Dalla conclusione di Trento alla promulgazione del codice di diritto canonico del 1917, è possibile contare circa 250 concili provinciali per le 90 province ecclesiastiche che esistevano all’epoca di Trento e questo dato rappresenta circa il 2% dei concili che sarebbero dovuti essere convocati. Non si può parlare di una stagione sinodale unica e omogenea nemmeno per le Chiese degli antichi Stati italiani, ma piuttosto di fasi alterne e contrastanti. La disaffezione per l’istituto dei concili provinciali era legata al ripetersi dei suoi contenuti, che spesso ribadivano in modo piatto uno schema sempre uguale (quello proposto da Carlo Borromeo rimase a lungo paradigmatico).

I concili godono di un vero potere ordinario in materia legislativa, oltre che di un potere amministrativo, giudiziario e coercitivo all’interno della provincia. Dal punto di vista dei contenuti, occorre precisare la diversità di situazioni locali, anche se negli antichi Stati italiani le decisioni dei concili provinciali manifestarono l’influenza crescente esercitata dal diritto pontificale. Infatti, i decreti conciliari recepirono nelle Chiese locali la legislazione romana, calcando lo schema delle condanne romane. Le ragioni dell’alternarsi di disaffezione e di rinnovo d’interesse andrebbero trovate per ogni situazione, non solo a livello nazionale ma anche a livello di province e di singole diocesi. In linea di massima, mentre l’area meridionale utilizzò raramente lo strumento sinodale, quella centro-settentrionale ricorse a esso in misura più frequente.

Alcuni padri conciliari chiesero, nel Vaticano I, di portare la periodicità degli incontri provinciali a dieci anni, ma la richiesta di modificare la normativa ricorre anche in alcuni interventi che riconoscono alla dimensione collegiale del governo della Chiesa un radicamento nella tradizione più antica della Chiesa2. Nella seconda metà dell’Ottocento i concili conobbero un ritorno d’interesse in Francia, in cui si celebrarono ventuno concili provinciali, e nei paesi di nuova cristianità dipendenti da Propaganda fide: Asia, Stati Uniti, America Latina, Canada. In Italia, invece, la nascita delle conferenze episcopali regionali ebbe l’effetto di deprimere l’attività conciliare dei vescovi. Sebbene gli scopi e le procedure dei due istituti fossero diversi, di carattere legislativo i concili, con funzioni di coordinamento e discussione le conferenze dei vescovi, il risultato fu che i primi vennero meno mano a mano che si organizzavano e prendevano piede le seconde.

I Conventus episcoporum nelle direttive romane

Nel 1848 prese corpo il progetto di appoggiare le riunioni degli episcopati delle diverse parti d’Europa, per chiedere informazioni e proposte e affrontare la situazione creatasi nei rapporti con i governi liberali: «Communicate invicem consilia, pergite, ut iam instituistis, coetus habere inter vos»3. Protagonisti di questa stagione furono i nunzi, chiamati a controllare e promuovere l’attività episcopale. Pio IX aveva assunto l’esperienza maturata durante il pontificato di Gregorio XVI e nata Oltralpe conPio VIII, di riunioni di vescovi, il cui ordine del giorno era stato orientato direttamente da Roma. Gregorio XVI puntava a realizzare così il disegno complessivo di ristabilire l’alleanza trono-altare, e i vescovi italiani furono incaricati di favorire la politica di restaurazione della società cristiana d’antico regime e, laddove questo obiettivo risultò irraggiungibile, di organizzare l’opposizione al governo al fine di aumentare il potere di contrattazione della Santa Sede4. Pio IX, con la Nostis et nobiscum dell’8 dicembre 1849, precisava il compito degli incontri episcopali, finalizzati all’«opposizione alle teorie politiche e sociali elaborate dalla cultura moderna», ma negò loro ogni ruolo di mediazione con i governi liberali5. Papa Sarto progettò di utilizzare gli incontri dei vescovi come strumento per rendere più incisiva la presenza della Chiesa nella società, facendo assumere direttamente a essa l’iniziativa della propria difesa e coinvolgendo i fedeli in una visione del mondo moderno legata allo ‘schema intransigente’. Il progetto fu realizzato anche grazie ad alcune devozioni, al dogma dell’Immacolata concezione di Maria, ai pellegrinaggi, allo sviluppo dell’associazionismo cattolico, strumenti scelti per la loro capacità formativa, in grado di produrre esperienze incisive che favorivano la mobilitazione delle masse e l’assunzione di un modello antropologico antitetico a quello prodotto dalla cultura moderna.

Decisiva per gli incontri dei vescovi l’elezione diLeone XIII nel 1878. Il nuovo pontefice, tra il 1881 e il 1887, oltre a dividere l’Italia in quattro zone (superiore: Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria; centrale: Emilia, Romagna, Marche, Umbria, Lazio, Toscana; meridionale: Napoletano, Puglia, Abruzzo, Calabria; insulare) organizzò le conferenze. Il progetto politico leonino favorì lo sviluppo dell’Opera dei congressi e il coordinamento dell’episcopato, scegliendo tra l’ipotesi di incontri per aree geografiche vaste (dei soli metropolitani, di un coordinamento scelto di vescovi o di tutti i vescovi della regione) o le più tradizionali riunioni conciliari dei suffraganei con il metropolita. Le ambiguità di fondo restarono irrisolte e anche le recenti discussioni sullo statuto teologico delle conferenze episcopali dimostrano quanto in fondo non sia stato equivalente per la Chiesa cattolica, e italiana, optare per le conferenze6.

Alcuni dati. Nel corso dell’Ottocento, si registrano otto concili provinciali, di cui sette sotto Pio IX e 1 sottoLeone XIII (Benevento 1895): Firenze, Pisa e Siena nel 1850; Ravenna del 1855; Capua, Urbino e Venezia nel 1859; Cagliari nel 1886. Un solo concilio si volse nell’Italia meridionale e uno in Sardegna. Furono conventus di vescovi gli incontri di Bologna del 1830; Chambéry7, Genova-Savona, Vercelli e Spoleto del 1849; Loreto, Oristano e Pisa del 1850; Benevento nel 1895 (che non ricevette l’approbatio)8. In particolare all’incontro di Loreto furono presenti anche vescovi al di fuori della provincia, di sedi episcopali delle Marche e dell’Umbria. L’indicazione di Pio IX fu raccolta esplicitamente dall’arcivescovo di Ravenna che promosse l’incontro di Imola del 1849 e il concilio provinciale del 1855 (che aveva assunto i contenuti della Ubi primum e della Nostis et nobiscum); dai vescovi di Umbria (incontratisi a Spoleto nel 1849), delle Marche (incontratisi a Loreto nel 1850) e della provincia di Urbino. Pio IX istituì un nuovo dicastero nel 1850, la Congregazione speciale per l’esame dei concili e le adunanze provinciali per la recognitio sugli atti dei concili e sulle deliberazioni delle adunanze che non avevano carattere conciliare9. Essa ebbe in comune con la Congregazione del concilio il prefetto, il segretario, i membri e alcuni consultori e rimase in vita fino alla riforma della curia del 1908.

Nel periodo preso in esame sono registrati 34 conventus episcoporum, ai quali parteciparono gli arcivescovi e i vescovi della regione ecclesiastica; la maggioranza di queste riunioni, come era già accaduto per i concili provinciali postridentini, si tenne nell’Italia centrale e settentrionale. L’urgenza pastorale legata alla scomparsa dello Stato pontificio, la sua restaurazione parziale senza alcuni territori, il fronteggiamento del governo liberale indussero alla ripresa dell’attività conciliare e sinodale, fino alla convocazione del concilio Vaticano nel 1870. Infatti, la ripresa dell’istituto conciliare si concentrò intorno alla metà del secolo XIX, per poi arrivare alla quasi cessazione dopo l’Unificazione italiana.

Nel 1879 la riflessione portata avanti tra i cardinali della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari si concentrò intorno alla partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni politiche: essa stabilì, pur con sfumature e posizioni diverse, la non partecipazione e decise a favore del coinvolgimento delle masse al fine di recuperare il potere temporale, i privilegi della Chiesa, la guida sulla società. L’istruzione Alcuni Arcivescovi, inviata dalla Congregazione dei vescovi e regolari del 24 agosto 1889, sollecitata da una richiesta dei vescovi pugliesi di formare un vero corpo regionale10, prescrisse un incontro annuale dei vescovi delle diverse regioni costituite, presiedute dal metropolitano più anziano, affiancato da un segretario permanente. L’istruzione, che nel creare i nuovi organismi si richiamava agli incontri del 1849, affidava loro la preparazione di concili provinciali e sinodi diocesani, la promozione dell’uniformità della disciplina ecclesiastica e la redazione di atti collettivi («mutuo consiglio» e «scambievoli intelligenze»), il cui valore vincolante non era chiarito; tali riunioni dovevano favorire la convergenza verso linee comuni atte a superare le difficoltà di governo delle diocesi. Stabilì, infine, i confini precisi delle 17 regioni ecclesiastiche in cui era stata ripartita la geografia ecclesiastica del Regno d’Italia.

Eletto nel 1903, papa Pio X rinnovava il progetto di ricristianizzazione della società dipapa Pecci, prendendo le distanze dall’impostazione leonina, poiché essa aveva tentato di superare la divisione delle forze cattoliche sul terreno sociale: secondo Pio X era stata tale impostazione a fare sì che organizzazioni come la Democrazia cristiana fossero penetrate da un ‘pernicioso’ spirito di modernità. Inoltre, operò una forma di centralizzazione del corpo episcopale, per ottenere uniformità in ambito liturgico, catechetico, nella predicazione, negli studi seminariali. Il papa come vicario di Cristo, anzi «lo stesso Gesù Cristo vivente nella sua chiesa», è il fondamento della Chiesa: le conferenze episcopali costituivano un aspetto complementare del rafforzamento del ruolo del papa. Nel 1904 i presidenti delle conferenze furono richiesti di farsi collettori di indicazioni sulle parti del diritto canonico da modificare in attuazione del motu proprio Arduum sane e per avviare il processo di costruzione del codice di diritto canonico. L’anno dopo le conferenze furono coinvolte nella revisione della formazione dei seminari. Esse funsero, innanzitutto, da canale per la raccolta di dati e informazioni utili all’orientamento delle scelte generali di riforma; da strumento di formazione del consenso, per decisioni che richiedevano una piena attuazione. Papa Sarto coinvolse, nel 1909, le Congregazioni concistoriale e del concilio nella supervisione delle deliberazioni collettive dei vescovi. In tale modo si accentuarono gli elementi funzionariali e burocratici della condizione episcopale, fino a giungere a una riduzione e marginalizzazione dell’attività collettiva11.

Il codice di diritto canonico del 1917 (canoni 283-291) impose ai vescovi l’obbligo di incontri consultivi di carattere regionale; dedicò ai concili provinciali un’attenzione che non modificò lo stallo complessivo, pur restando essi i soli strumenti di una pratica sinodale entro la Chiesa cattolica, in continuità con l’età antica e in analogia con la Chiesa ortodossa orientale. La crisi dei concili provinciali non è stata interrotta neppure dall’attenzione che il concilio Vaticano II ha manifestato per tutte le forme di espressione collegiale della Chiesa.

La Chiesa diocesana in sinodo: ecclesiologia e prassi

Il quadro postridentino dei sinodi richiede di essere rappresentato in modo da tenere conto di altre istituzioni, ora generatrici ora parallele ora, infine, dipendenti dal sinodo diocesano. Da un lato, infatti, sono esistiti gradi più o meno alti di dipendenza tra celebrazioni sinodali e concili provinciali, appartenenti a un unico capostipite; dall’altro i vescovi di età tridentina realizzarono la visita pastorale prima di celebrare il sinodo12. Fino al principio del Seicento i sinodi diocesani vennero celebrati con minori difficoltà rispetto ai concili provinciali e secondo una pluralità di modelli (il Centro-Nord seguì il modello borromaico, il Meridione ebbe uno stile suo). I sinodi postridentini divennero sinonimo di riforme innovatrici, atte a sradicare abusi o privilegi consolidati, a ristabilire un più ordinato assetto della vita diocesana. Questa diversità di modelli scomparve poi nei secoli XIX e XX, pur restando variazioni regionali, per esempio il modello borromaico rimase presente nell’Ottocento in Lombardia e contribuì forse a mantenere frequente la riunione sinodale; il ricordo del sinodo pistoiese di Scipione de’ Ricci del 1786, invece, ebbe un effetto deterrente rispetto all’attività sinodale sui vescovi toscani. Le modalità di celebrazione prevedevano un incontro breve (tre giorni), incentrato sulla lettura senza discussioni delle costituzioni preparate in precedenza da una commissione di esperti, tra i quali era protagonista indiscusso il canonista. Non vanno dimenticate anche ragioni ecclesiologiche per spiegare la caduta dell’istituto: la Chiesa cattolica romana si concepì, dal Settecento fino alla dogmatizzazione dell’infallibilità pontificia ex cathedra, come un organismo immutabile di dottrine, istituzioni, culti e principi morali che trovavano nella primazia papale il solo mezzo per salvaguardare l’integrità di quell’organismo. L’età delle rivoluzioni e le guerre napoleoniche in Italia ebbero conseguenze negative su queste riunioni. A Bologna, ci furono 54 raduni nel periodo postridentino, di cui l’ultimo sinodo celebrato dal cardinale Andrea Gioannetti nel settembre 1778.

Il sinodo di Pistoia ebbe un influsso in Italia. Scipione de’ Ricci tentò di dare stabilità a un nuovo genere sinodale, fondato su una base di consenso democratico, in cui il vescovo giocava un ruolo di primus inter pares, e in cui tutti i membri godevano di un vero diritto di decisione. Dopo la condanna di Pio VI nel 1794 del sinodo (Auctorem Fidei), l’oggetto prevalente dei sinodi fu l’accettazione degli statuti decisi dal vescovo.

Alcuni dati. La Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche interruppero, praticamente ovunque, la tenuta dei sinodi diocesani. Quasi assenti fino al 1820, rari nella seguente prima metà dell’Ottocento, i sinodi diocesani videro anche una modifica nella loro composizione: non più l’insieme del clero diocesano ma i soli decani e delegati eletti. La riduzione dell’assemblea a un’élite e la necessità di rivedere la disciplina in ragione dello sconvolgimento geografico delle diocesi italiane indussero i vescovi a modificare la funzione del sinodo, divenuto senz’altro un’assemblea legislativa dalla periodicità più irregolare; l’obiettivo non fu più tanto la formazione dei ministri o l’incontro liturgico ma la messa a punto di statuti diocesani. I vescovi rimasero i soli padroni del terreno sinodale ma, per via dell’azione combinata delle spinte accentratrici interne alla Chiesa cattolica, della rigida politica di nomine episcopali inaugurata da Pio IX e del declino degli interventi sovrani nella scelta dei vescovi, questa vittoria del vescovo si risolse in una marcata tendenza ad applicare a livello locale le direttive provenienti dal centro, depotenziando il rilievo della realtà socio-religiosa diocesana. Alcuni studi effettuati a sondaggio mostrano che, nella maggior parte dei sinodi tenuti prima del Vaticano II, non si svolgeva pressoché alcuna discussione, demandata alle sessioni preparatorie; le costituzioni erano inviate, prima del sinodo, al clero delle diocesi, invitato a trasmettere per iscritto le osservazioni sui testi alle commissioni preparatorie13. L’aspetto ‘comunionale’ del sinodo, di confronto, dialogo, condivisione di esperienze del clero insieme al suo vescovo, fu particolarmente depresso a favore di una prassi individualistica, in cui ciascun membro del clero non aveva possibilità di verificare l’attenzione dedicata alle sue osservazioni e l’incidenza che esse avevano sulle costituzioni finali. Quanto poi all’atto di approvazione finale delle costituzioni, esso rimase stabilmente in mano al vescovo per l’immutato timore, dal Settecento fino alle soglie del Vaticano II, che i sinodi potessero alimentare nei parroci ambizioni di partecipazione al governo della Chiesa locale.

Tra 1849 e 1917 furono tenuti 377 sinodi nella intera Chiesa cattolica di cui più dell’80% in soli tre paesi: Francia, Italia, Stati Uniti; in Italia dal 1879 al 1960 se ne contano 34814. I redattori del codice del 1917 non tentarono più un rilancio dell’istituzione, le cui cerimonie e procedure parvero ai vescovi, nei vota precedenti la promulgazione del codice, necessitanti di semplificazione. Inoltre, i vescovi chiesero che le riunioni annuali del clero fossero considerate un «quasi sinodo»; che la normativa diocesana si potesse adattare alle condizioni dei tempi; che si introducesse il principio di rappresentanza per evitare di convocare tutto il clero; infine, chiesero di statuire una periodicità non annuale15. Il Cic fissò come obiettivo dell’assemblea diocesana di lavorare su schemi di decreti preparati in precedenza, riducendone l’obbligo di convocazione a una volta ogni decennio e trasformando gli atti in una versione più succinta e meno tecnica dell’essenziale delle disposizioni previste dal codice, una sorta di manuale pratico di diritto canonico a uso del clero diocesano. Quasi tutte le diocesi pubblicarono tra 1917 e 1927 una nuova edizione dei loro statuti sinodali, redigendo testi in canoni e in lingua latina. Come i sinodi avevano, fino a quel momento, supplito all’assenza di un codice di diritto canonico, svolgendo un ruolo di semplificazione e divulgazione del diritto precodiciale della Chiesa cattolica, l’inaugurazione del codice del 1917 significò una nuova fase di stasi e caduta in prescrizione di questa prassi. Sul piano regionale e locale, l’attività legislativa è molto meno importante nella prima metà del secolo XX di quanto non sia mai stata in precedenza, a causa della centralizzazione della Chiesa: l’autorità della Santa Sede relegò le istituzioni diocesane a questioni di dettaglio e rese superflue le iniziative particolari, con effetto paralizzante su di esse. Le autorità subalterne divennero nel campo legislativo organismi di trasmissione e di esecuzione, facendo conoscere a clero e fedeli la legge promulgata dal legislatore supremo, aggiungendo alcune precisazioni e sorvegliando sull’applicazione. Gli statuti sinodali fino al Vaticano II ripeterono tutti il medesimo schema, che era poi quello dell’ordine delle materie adottato dal Cic. Le modalità di svolgimento risultano essere piuttosto omogenee, con alcune eccezioni che sembrano, in mancanza di studi più approfonditi, rifulgere per una maggiore partecipazione del clero, come fu il sinodo veneziano del 1957, indetto dall’allora patriarca Angelo Giuseppe Roncalli16, o per l’importanza delle costituzioni, come furono quelle dei sinodi fiorentini di Elia Dalla Costa del 1935 e del 1946 e quelli diIldefonso Schuster a Milano del 1931, 1935, 1941, 1946 e 1951.

Se dunque la stagione postridentina ha visto il confondersi della prassi sinodale con le concezioni ecclesiologiche, il periodo postunitario vede nell’azione collettiva dei vescovi (sia nella forma tridentina del concilio provinciale che in quella nuova delle riunioni degli episcopati regionali) la risposta più incisiva finalizzata alla ricristianizzazione della società, superando la frammentazione del periodo preunitario. La stagione inaugurata con il concilio Vaticano II offre, insieme a una concezione di Chiesa meno rigida, meno astratta, costruita sul confronto e sul dialogo di tutte e tra tutte le componenti ecclesiali, un rinnovo della prassi sinodale al duplice livello diocesano, regionale, nazionale e sovranazionale.

Le conferenze regionali e il loro funzionamento prima della Cei

La conferenza siciliana17

In Sicilia non si ebbero riunioni sinodali dal 1735 fino al 1879, ma vi fu un’attività collettiva che prese avvio dalle mutate circostanze politiche dell’isola: nel 1810 l’episcopato siciliano si radunò per presentare alcune suppliche al monarca per farlo recedere da specifiche normative in materia di polizia ecclesiastica che inceppavano la normale attività pastorale, come la richiesta di placitazione o il consenso preventivo che i vescovi dovevano conseguire dal governo prima di scrivere a Roma per le provviste beneficiali. Nel 1850 i vescovi di Sicilia, sotto la presidenza del cardinale Ferdinando Maria Pignatelli, arcivescovo di Palermo, recuperando parti del cerimoniale e della liturgia dei concili provinciali, inaugurarono la nuova serie di ‘congregazioni’, le cui decisioni erano sottoposte comunque al placet regio prima della pubblicazione, in conformità con i privilegi della legazione apostolica. Rispetto alla situazione complessiva di alcune diocesi dell’isola, l’attività del sinodo diocesano continuò ad apparire l’unica possibile per omogeneizzare situazioni inveterate e svecchiare la legislazione diocesana dell’isola. Pertanto, il vescovo di Gerbino celebrò un sinodo nel 1878; lo stesso fece il vescovo di Nicosia nel 1883 e poi di nuovo nel 1893; nel 1909 e nel 1910 celebrarono sinodi diocesani rispettivamente i vescovi di Mazara e di Palermo. L’adunanza del 1891 fu iniziativa del papa che radunò per la prima conferenza regionale i 17 arcivescovi e vescovi siciliani, presieduti dal cardinaleMichelangelo Celesia, arcivescovo di Palermo. Da essa scaturirono comuni ‘raccomandazioni’. Solo nel 1898 si ebbe la seconda adunanza; la terza del 1903 fu dedicata allo «sviluppo dell’azione popolare e democratica cristiana in Sicilia». Nel 1906 e nel 1908 la conferenza sicula risentì del mutato clima nel cambiamento di pontificato, dedicandosi al rinnovamento degli studi e all’epurazione teologica dei seminari, secondo le indicazioni di Pio X.

La conferenza lombarda18

Malgrado le divisioni interne all’episcopato della regione – tra il vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli e l’arcivescovo di Milano e presidente della conferenza, Luigi N. di Calabiana, contro i vescovi Riboldi e Sarto (a Mantova prima dell’elezione al soglio pontificio) – i vescovi lombardi furono gli unici a dare vita a una riflessione comune sui criteri di organizzazione della formazione dei seminari. Una situazione specifica favorì un inusitato intervento collettivo, anche se l’episcopato lombardo (formato dalle sedi di Bergamo, Brescia, Como, Crema, Cremona, Lodi, Mantova, Pavia suffraganee di Milano), come quelli della regione Flaminia ed Etruria, furono reticenti verso la possibilità di un unico intervento normativo. Il vescovo di Pavia svolse per altro, in modo scrupoloso, una vigilanza sull’episcopato lombardo dal punto di vista dell’ortodossia e propose iniziative che dovevano contenere l’influenza nefasta del vescovo di Cremona, Bonomelli, posto sotto accusa e controllo per le sue idee troppo aperte e condiscendenti nei confronti della cultura moderna e della congiuntura politica. Pur prive di potere giuridico, le conferenze episcopali avevano, secondo il progetto centrale stabilito da Leone XIII grazie alla riflessione condotta nella Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, un potere e un dovere di condizionare e decidere gli orientamenti comuni a cui i vescovi della regione dovevano attenersi e fare eventuali proposte alla Santa Sede nelle materie di pertinenza. Esse rappresentarono un aggiornamento della concezione tradizionale che faceva del potere assoluto del papa (anche temporale) e del monarcato del vescovo nella sua diocesi, i capisaldi dell’ecclesiologia e dei rapporti istituzionali tra i poteri nella Chiesa. Le riunioni iniziarono nel 1895, caratterizzate da un clima in cui si voleva evitare una visibile e pubblica difformità di indirizzi sui temi scottanti (la Democrazia cristiana, l’azione sociale e politica dell’Opera dei congressi), ma ove una pluralità di posizioni tra i vescovi permanevano, sebbene sotterranee. Uno sguardo ai temi affrontati, permette di vedere come talune tematiche fossero di lunghissimo periodo, come il permanere ben oltre i confini del ‘lungo secolo tridentino’ dell’attenzione al rispetto delle prescrizioni alimentari nei periodi di digiuno, ai contenuti e alle forme della predicazione del clero, alla vita claustrale femminile, alla ‘pietà’ del popolo, ai comportamenti del clero e alla sua separazione, fisica e comportamentale, dal ‘mondo’. Rispetto a questo zoccolo duro di temi e schemi mentali, vi sono alcune specificità legate alla congiuntura storica e politica, ai rapporti con il re e all’elite liberale e massonica, come pure il progetto di redigere un catechismo unico per la regione ecclesiastica o i problemi legati alla normativa civile in materia di matrimonio. Gli incontri furono anche un modo per esercitare pressioni sul potere politico.

L’arcidiocesi di Milano non cessò comunque la propria attività conciliare, celebrando un concilio provinciale nel 1906, la cui Lettera sinodale al clero e al popolo insisteva sulla necessità di una pronta ed energica difesa non solo contro «il mal genio della indifferenza e della incredulità» ma anche nei confronti dei nemici ormai infiltrati «fino nel campo nostro»19. Infine richiamava la necessità di dare «un sicuro indirizzo agli studi sacri». Durante gli anni in cui più acerba infervorava la lotta ai sostenitori delle idee moderniste, le riunioni della conferenza lombarda furono più brevi, sporadiche e inefficaci nella capacità di esprimere orientamenti comuni, segnale del disagio complessivo dell’episcopato diviso da sospetti e accuse reciproche e con posizioni ora di pieno sostegno al metodo della lotta ingaggiata da papa Sarto, ora critici nei confronti di tali metodologie che colpivano vescovi e sacerdoti «a vanvera».

La conferenza della regione Etruria20

Formata dalle province ecclesiastiche di Firenze, Pisa e Siena; l’arcivescovado di Lucca e le suffraganee Arezzo, Cortona, Montalcino e Montepulciano, Modigliana (dal 1910 passata dalla regione Emiliano-Romagnola e poi Emiliana) si incontrò per la prima volta nel 1890. Gli incontri manifestarono la difficoltà dei vescovi nell’assumere orientamenti vincolanti e la propensione a esprimere esortazioni finali solo sui punti rispetto ai quali la conferenza era sollecitata dalla Congregazione dei vescovi e regolari. Di fatto l’istituzione di un organismo collettivo fu percepita come lesiva delle prerogative monarchiche dei vescovi nelle loro diocesi, che si limitarono a produrre esortazioni non vincolanti e finirono per adeguarsi alle indicazioni centrali, fino al ristagno dell’attività collettiva negli ultimi due anni del pontificato di Pio X.

La conferenza della regione Emilia, poi Flaminia ed Emiliana21

Costituita da una ventina di diocesi (le province di Ravenna, Bologna e Modena, l’arcivescovado di Ferrara e le sedi immediate subiecte di Parma, Piacenza, Borgo San Donnino), l’attività dei vescovi fu preceduta dalla metà degli anni Ottanta da un’intensa produzione di documenti collettivi di adesione ai documenti papali, redatti dal metropolita e inviati ai suffraganei per la firma. I vescovi della Romagna erano abituati a un’attività collettiva, ma non i vescovi degli ex ducati. L’avvio dell’attività collettiva si ebbe tra il 1891 e il 1897, non senza difficoltà nel produrre un’attività di elaborazione sovradiocesana, che si concentrò sull’adozione di un catechismo unico e di norme comuni per i funerali e i concorsi parrocchiali. Fu con l’arrivo di Domenico Svampa a Bologna che l’attività della conferenza riprese e si celebrò il primo incontro tra il 20 e il 22 ottobre 1897, poiché il cardinale aveva assunto il progetto leonino, modulato nella comune attività episcopale, nella promozione della stampa cattolica, nel sostegno all’attività del laicato e all’impegno operaio, come progetto del proprio governo bolognese. La prescrizione di Leone XIII imponeva un cambiamento dei consolidati equilibri individualistici dei vescovi ma consentiva che il disagio, derivante dalla nuova situazione sociale e politica della Chiesa nel Regno d’Italia, trovasse espressione e soluzioni comuni, senza rompere con la gestione monarchica della diocesi.

Non va sottovalutata la volontà della Santa Sede di evitare che gli episcopati tornassero alla tradizionale forma di legislazione dei concili particolari, preferendo che le linee amministrative e pastorali sul territorio regionale si componessero in modo operativo. In questo senso va interpretato il rifiuto opposto dalla Santa Sede agli episcopati lombardo e emiliano di celebrare un concilio provinciale.

Pio X, che accentuò il ruolo delle conferenze regionali a mero luogo di coordinamento della applicazione delle indicazioni provenienti dal centro romano, individuò nell’episcopato italiano sostenitori del modernismo, a sua volta frutto distorto della modernizzazione leonina; infine, accentuò il clima di delazione e sospetto reciproco particolarmente forte nell’episcopato emiliano-romagnolo per via della presidenza diSvampa. Dal 1909 la conferenza flaminia fu separata dalla Santa Sede da quella emiliana, marginalizzando l’attività collettiva.

Assemblee e concili durante i pontificati della prima metà del Novecento

I decreti della Congregazione concistoriale del 1921 e della Congregazione del concilio del 1932 perpetrarono una linea di governo vaticana che faceva del riferimento che i singoli vescovi avevano nella Santa Sede l’unico trait d’union dell’episcopato regnicolo, che solo dal punto di vista geografico poteva essere pienamente chiamato italiano22. La riflessione condotta nel corso del pontificato di Pio XI, all’interno della Congregazione concistoriale, sulle modifiche da apportare al funzionamento delle conferenze episcopali nazionali partiva dall’attenzione per particolari situazioni o abusi verificatisi nel funzionamento della conferenza statunitense, nell’assemblea dei cardinali e arcivescovi di Francia, nelle conferenze dei vescovi belgi, polacchi, spagnoli e dalle reazioni di sconcerto con le quali i vescovi italiani vedevano il funzionamento delle conferenze, interpretate come una forma di ingerenza indebita nella conduzione della propria diocesi. Al termine della riflessione, posto che le conferenze furono riconosciute utili al servizio pastorale, sebbene non sempre il loro funzionamento fosse approvato, si decise di lasciare sussistere le conferenze esistenti e di subordinarle non alla libera iniziativa dei vescovi, bensì all’approvazione della Santa Sede: un delegato papale doveva sempre essere invitato (generalmente il nunzio) e gli atti sottoposti alla Congregazione del concilio per l’approvazione. Gli incontri dei vescovi risultavano, in una via puramente pragmatica, strumenti atti a favorire il coordinamento e il compattamento degli episcopati, soprattutto se posti in condizioni difficili e di tensione; dovevano mantenere un aspetto nettamente distinto da concilio o sinodi; al loro interno doveva avvenire un semplice ‘scambio di idee’. La riflessione curiale non stabilì un regolamento unico per tutte le conferenze episcopali ma particolari istruzioni. Per l’Italia, valeva una lettera circolare della Congregazione concistoriale del 15 febbraio 1919, che prescriveva ai vescovi italiani di radunarsi periodicamente in conferenze regionali. Alle porte della istituzione della Conferenza episcopale italiana, nel 1952, le conferenze regionali erano 19.

Nel 1959 Giovanni XXIII, che come patriarca a Venezia aveva radunato un sinodo diocesano, annunciò, insieme alla convocazione del concilio ecumenico e all’avvio della riforma del Cic, anche la convocazione di un’assemblea sinodale romana23. La modalità della proposta metteva in evidenza il ministero episcopale del vescovo di Roma nella sua propria diocesi e riverberava la luce di un modello episcopale anche sulle altre sedi episcopali italiane. Bologna, guidata dal 1952 dal cardinale Giacomo Lercaro, prese spunto da questa esperienza per avviare il percorso del «Piccolo sinodo», indetto nel 1961 prima che l’assise generale si celebrasse, ma in Lercaro operò ancora, pur nelle mutate condizioni complessive della Chiesa in rapporto alla società, la suggestione del modello ambrosiano del cardinale Carlo Borromeo24. Infatti, il nome aveva nel modello ambrosiano la propria radice, segnalando un tipo di sinodo al quale partecipavano solo i vicari foranei, i canonici della cattedrale e delle collegiate, il rettore del seminario, i delegati e gli incaricati vicariali, i parroci delle parrocchie urbane e se possibile anche i parroci del forese, ma non tutto il clero della diocesi. Il sinodo di Roma di papa Roncalli promulgò il codice diocesano in concordanza e adeguamento alle situazioni particolari di ogni diocesi, traducendo a livello locale norme più generali. La partecipazione al sinodo era prevista attiva nella fase preparatoria mentre la celebrazione doveva consistere nell’ascolto da parte del clero convocato della lettura delle costituzioni, che cadevano sotto la sola autorità del vescovo «unicus legislator». Rispetto alla normativa, l’esperienza dei sinodi diocesani bolognesi contemporanei alla celebrazione dell’assise vaticana costituisce un caso interessante per mettere in luce il trascolorare del sinodo tridentino postcodiciale nel nuovo modello che sarebbe scaturito dal concilio Vaticano II: dal 1961 al 1965 i piccoli sinodi convocati da Lercaro a Bologna sono segnati dal progressivo passaggio da una forma sinodale incentrata sulla comunicazione delle costituzioni e dunque sulla promulgazione, a mezzo del sinodo, delle norme a una maggiore e diretta partecipazione del clero alle decisioni, non da ultimo, anche attraverso un’accentuazione della dimensione comunitaria degli incontri tra vescovo e clero; l’approfondimento di una funzione orientativa nella riflessione e nello studio dei problemi, senza traduzione normativa da parte del vescovo; una prima embrionale apertura ai laici. Solo con la fine dell’assise conciliare, le Chiese italiane ripresero la tradizione sinodale riformulata alla luce dell’ecclesiologia del «popolo di Dio» che il concilio aveva innestato nelle Chiese locali. Paradossalmente a Bologna nel postconcilio, l’esperienza sinodale non avrebbe più avuto seguito secondo il modello lercariano, ma le esperienze pastoralmente più pregnanti e i momenti in cui furono lanciate le linee guida dei vescovi furono i congressi eucaristici diocesani, a rimarcare l’assenza di una dimensione sinodale, sia permanente che eccezionale della diocesi guidata dagli arcivescovi Poma, Manfredini e Biffi.

Sinodi e concili particolari nella ricezione del Vaticano II

Definizione giuridica, metodo, ecclesiologie

Le barriere che, all’interno della Chiesa cattolica postridentina, separavano il clero dai laici, sono superate dall’ecclesiologia conciliare del popolo di Dio25. Entrati a pieno titolo nella Chiesa, i laici entrano a pieno titolo anche nel sinodo diocesano, quest’ultimo rinnovato non solo nei membri ma anche negli obiettivi che sono il bene della comunità diocesana tutta intera, riconnettendo l’istituto con la tradizione e la prassi antica e medievale. La stagione postconciliare si apre all’insegna di un desiderio profondo di rinnovo in applicazione al Vaticano II, suscitando negli organizzatori dei sinodi della prima generazione vaste ambizioni. Il coinvolgimento di un’ampia componente ecclesiale, una durata inedita fino ad allora, la stessa mediatizzazione sono spesso stati accompagnati dalla pubblicazione di consistenti «quaderni», di carattere pastorale più che giuridico, i cui frutti variegati e multiformi non hanno sempre avuto effetti duraturi nella vita della Chiesa diocesana. Il rinnovamento ecclesiologico delVaticano II ha innovato le celebrazioni e le prassi sinodali, per avviare la recezione del concilio e assimilare uno stile di vita ecclesiale; ha fondato l’idea di Chiesa sulla communio e popolo di Dio e di Chiesa locale come porzione completa nella quale si rende presente la Chiesa universale, con cui la prima è in comunione. Per questa ragione i sinodi diocesani sono il momento di verifica delle fedeltà con cui la comunità locale vive la propria vocazione cristiana e lo strumento di rinnovamento della missione ecclesiale nella ‘porzione’ di mondo in cui si trova quella comunità, riunita intorno al suo vescovo26. La stagione successiva al concilio può essere divisa in due principali periodi: un primo momento dalla chiusura del concilio agli anni Novanta; un secondo momento dagli anni Novanta a oggi.

Dal 1972 le diocesi iniziano a celebrare sinodi, trovandosi di fronte a problemi comuni. Secondo il diritto allora vigente, i sinodi erano affari del clero e solo il clero ne era membro di diritto. Nello stesso tempo una lettura non solo letterale ma fedele del magistero complessivo del Vaticano II rendeva impossibile pensare di affrontare problemi e aspetti della vita della diocesi tenendo lontano i laici dal sinodo. Molte diocesi in Francia, Germania, Austria e Svizzera diedero ampio spazio alla presenza di membri sinodali laici e, in modo esplicito o implicito, la Santa Sede ha dato un assenso alla partecipazione di fedeli comuni, chiedendo solo che la maggioranza assoluta dei membri delle commissioni e delle riunioni plenarie rimanesse costituita dal clero. Alcune soluzioni pratiche sono restate fedeli al senso della normativa conciliare, per esempio escludendo dal computo dei laici le religiose e i religiosi.

I problemi non si esauriscono qui: la designazione dei membri del sinodo deve essere fatta per elezione o per designazione diretta da parte del vescovo o ancora, in quale proporzione combinare le due modalità? La natura consultiva del sinodo, secondo la tradizione, tende a contrastare con l’esigenza, di cui sono portatori i fedeli laici, di decidere utilizzando un sistema democratico. Anche l’elevato numero di partecipanti rende ostico uno svolgimento lineare e precostituito dell’assemblea.

Con il Direttorio pastorale dei vescovi, Ecclesiae imago del 1973 assunta dal Cic del 1983 (cann. 460-468), si avalla e delimita la presenza dei laici, come delegati del consiglio pastorale o designati tramite elezione; questo apre una dinamica in parte sovrapposta e concorrenziale con le istituzioni ‘nuove’ del consiglio pastorale e del consiglio presbiterale che tendono, dal canto loro, a rendere inutile l’assemblea sinodale. Il Direttorio sottolinea che l’azione liturgica e l’eucaristia sono il cuore del sinodo postconciliare27.

Gli ultimi decenni hanno poi visto approfondirsi la trasformazione di scopi e contenuti dei sinodi diocesani. Spesso, infatti, la natura delegata dei membri del sinodo, sia per la parte del clero sia per la parte dei fedeli, porta a una trasformazione dell’istituzione in uno strumento non più e non tanto giuridico, ma piuttosto in strumento di governo della Chiesa locale, nella corresponsabilità di tutte le sue componenti. Per questo, l’invio degli atti conclusivi del sinodo al metropolitano, di cui la singola diocesi è suffraganea, e alla Cei, perde il valore di controllo, che aveva la recognitio, per manifestare invece la consapevolezza dell’appartenenza della Chiesa locale alla comunione di tutte le Chiese. Da qui anche la trasformazione, che segue le prime celebrazioni sinodali postconciliari, del Cerimoniale dei vescovi: nel 1984 il Cerimoniale accoglie la concezione del sinodo come atto liturgico, rendendo manifesto che lo scopo principale dell’incontro deve rendere liturgicamente presente l’unità del Corpo di Cristo, attenuandone la sua dimensione amministrativa.

In rapporto alla fase tridentina, dopo il Vaticano II, il sinodo diocesano esce dall’orizzonte del diritto per collocarsi in quello della pastorale, avendo lo scopo di suscitare in tutta la diocesi uno spirito missionario che funge da stimolo alle più opportune concretizzazioni pastorali nei vari ambiti. Il nuovo codice, che rinuncia a dare una regola di periodicità, fa del sinodo una sorta di grande assemblea, che discute linee proposte dai diversi organismi. Un dibattito giuridico si è poi aperto. Per taluni questo spostamento, che rende il sinodo un momento di cammino comune dei pastori e dei fedeli, una specie di missione diocesana rivolta a tutta la popolazione, comportando pesantezza e inefficacia, aumenta il rischio di soffocare l’istituzione. La nuova realtà dei sinodi sarebbe ormai lontana dall’essere il luogo tradizionale in cui il vescovo deliberava con i responsabili dell’azione pastorale in vista di determinare gli obiettivi da perseguire, i mezzi da mettere in opera per il bene della diocesi, nella cornice degli atti liturgici. Secondo altri, la prospettiva di non fornire solamente strumenti giuridici alla vita della Chiesa particolare ma anche di rimotivare la fede nella comunità cristiana, di farla meglio fruttificare nella vita quotidiana a ogni livello, personale, familiare e socio-politico, e di esplicitarne la portata salvifica per i problemi della odierna società, è un compito di tale portata positiva da valere l’impegno e la difficoltà di un ampio e prolungato coinvolgimento nella partecipazione e nello svolgimento del sinodo28. Il codice del 1983 attribuisce al sinodo il ruolo di organo di consulta del vescovo per l’esercizio della potestà legislativa; di aiuto nella funzione di governo; mentre le costituzioni possono essere vere norme giuridiche, indicazioni programmatiche per l’avvenire o anche affermazioni convinte della verità della fede o della morale cattolica (cfr. Istruzione sui sinodi, V, 2).

Le stagioni sinodali italiane

La procedura di stesura delle costituzioni sinodali nel dopo Vaticano II può offrire qualche elemento per saggiare la distanza rispetto alla prassi ecclesiale precedente, ma anche per mettere in luce la complessità e vastità dell’impegno richiesto dal sinodo, all’insegna di un metodo di lavoro che valorizza al massimo la partecipazione ecclesiale. Le diocesi, che aprono un cammino sinodale, hanno indetto un primo processo di consultazione che prevedeva la distribuzione di questionari; la redazione di schede e relazioni; la convocazione di riunioni e assemblee per la discussione degli stessi; la stesura di molteplici bozze di documenti sottoposte al vaglio dei membri del sinodo. I sinodi postconciliari italiani si protraggono per anni e i documenti sinodali non hanno più la forma di testi normativi, ma assumono un andamento discorsivo e finalità persuasive che li avvicinano, anche dal punto di vista retorico, ai testi conciliari. Se i sinodi diocesani pre-Vaticano II appartengono alla famiglia dei documenti giuridici, come i decreti vescovili, gli atti dei concili particolari e le deliberazioni delle conferenze episcopali (la sistematica dei sinodi preconciliari è di stampo giuridico, dopo il 1917 di derivazione codiciale), le costituzioni sinodali postconciliari sono più vicine ai testi del Vaticano II, alle lettere pastorali, ai documenti di convegni ecclesiali (la sistematica dei sinodi postconciliari è di ispirazione teologica, fondata sull’immagine di Chiesa popolo di Dio)29. La stessa dimensione liturgica del sinodo ne risulta particolarmente evidenziata, come mostra il caso del sinodo di Noto (suffraganea di Acireale), celebrato tra 1992 e 1996 dal vescovo Salvatore Nicolosi, attraverso un complementare processo di ampio coinvolgimento dei cattolici, realizzato con tre diverse consultazioni del popolo di Dio.

Alcuni dati, ancora molto parziali30. Dal postconcilio al 1988 si sono svolti in Italia 19 sinodi mentre altri 75 si sono conclusi entro il 2000 (le diocesi in Italia sono 227); i sinodi hanno avuto durate variabili che dai tre giorni previsti dal Cerimoniale dei vescovi postridentino, si sviluppano, nel post Vaticano II, da un minimo di due anni a un massimo di nove (il record è tenuto da Reggio Emilia), mantenendo in media la durata variabile dai due ai quattro anni. Normalmente i sinodi sono di singole diocesi ma le regioni Marche e Sardegna, invece, hanno avviato un sinodo regionale e alcune conferenze episcopali regionali hanno praticato convegni (Triveneto, Puglia, Sicilia per esempio). La maggior parte dei sinodi si è svolta al Nord d’Italia (40 diocesi su 64 del Nord, cioè il 62,5%), segue il Centro (il 34,4%) e infine il Sud (il 24,7%). Dieci sinodi sono stati avviati negli anni Settanta, venticinque negli anni Ottanta, oltre quaranta negli anni Novanta. Complessivamente solo il 41,4% delle 227 diocesi italiane ha celebrato un sinodo, ma le diocesi che lo hanno fatto raccolgono più di 29 milioni di abitanti su 58 milioni di italiani31.

Nel tentativo di periodizzare le esperienze sinodali italiane, si può individuare un primo momento dalla chiusura del concilio fino al 1980, caratterizzato per pochi sinodi diocesani il cui esempio non viene seguito. Dal 1980 a oggi vi è il numero più alto di sinodi, con un rallentamento che dalla fine degli anni Novanta arriva a tutto il primo decennio del nuovo millennio. La maggior parte dei sinodi (61) ha avuto una durata media dai tre ai cinque anni. Dagli anni Novanta le durate si accorciano. La presenza delle donne, rimarchevole, è stata comunque largamente minoritaria e solo in sette casi ha superato la rappresentanza maschile, nonostante la prevalenza femminile tra gli operatori pastorali.

Se dai dati quantitativi si prova a fare una disamina qualitativa, appare evidente che alcuni sinodi sono stati modello per gli altri, in particolare Brescia, Reggio Emilia e Livorno. Reggio Emilia-Guastalla è stato il sinodo più lungo: richiesto da un gruppo di presbiteri nell’aprile 1973, è stato indetto da Gilberto Baroni sei anni dopo tale proposta; il 12 aprile 1987 è stata promulgata la Dichiarazione sinodale. La fase preparatoria ha visto l’opera di commissioni particolari che lavorano per cinque anni, ma è stato tentato anche il coinvolgimento di tutta la Chiesa. Infine, dal 1984 al 1987, si è svolto il sinodo vero e proprio, coinvolgendo 318 membri convocati sedici volte, di cui la maggioranza chierici32. Le 423 costituzioni, dedicate al tema dell’evangelizzazione, investono i nodi problematici dell’esperienza cristiana nella Chiesa locale. Nella regione Emilia Romagna, formata da quindici diocesi dopo gli accorpamenti, il sinodo di Reggio Emilia, al quale ha partecipato il futuro cardinale Camillo Ruini, allora ausiliare di Baroni, ha dato avvio a una singolare e intensa stagione sinodale: Bobbio, Fidenza e Piacenza, Parma, Modena-Nonantola, Ferrara-Comacchio. Bologna, invece, pur vantando l’esperienza dei piccoli sinodi di Lercaro, e tutte le diocesi della Romagna non hanno seguito l’esempio di Reggio Emilia. Il caso reggiano è stato preceduto nella regione dal sinodo indetto a Bobbio da Zuccarino e celebrato nell’immediato post Vaticano II ma, in continuità con la fase preconciliare, ricalcando da vicino le norme del codice; quello di Fidenza è stato indetto da Zanchin nel 1981 e celebrato, in tre sedute pomeridiane nel 1987, dopo un lavoro preparatorio durato cinque anni: le sue 454 costituzioni riecheggiano da vicino i testi del Vaticano II, dando generiche indicazioni ma senza entrare nella concretezza dei problemi della diocesi.

La diocesi di Bolzano-Bressanone celebra il proprio sinodo, il secondo dell’Italia post Vaticano II, tra 1970 e 1973; caratterizzato da una consistente presenza di laici (quasi la metà dei sinodali, di cui una parte eletti dai fedeli e una parte nominati dal vescovo); dalla rappresentatività aperta alle donne e a varie categorie professionali; da un’attenzione alla presenza delle due componenti linguistiche tedesca e italiana33. Sollecitato da un questionario, i lavori del sinodo, che hanno avuto come modello il sinodo tedesco di Würzburg, sono partiti dalle risposte pervenute dai fedeli, e le proposte e gli stimoli della discussione sono stati accolti dal vescovo Giuseppe Gargitter. Trento convoca il sinodo nel 1984; Udine celebra un sinodo dal 1983 al 1988.

Rispetto a questi casi, si deve anche sottolineare che alcune diocesi non hanno convocato alcun sinodo, hanno svolto ‘convegni’ del clero o emanato documenti episcopali sulla situazione locale.

Dall’esperienza italiana alla sinodalità cattolica postconciliare

In generale tutta l’attività sinodale della Chiesa cattolica ha conosciuto una stagione dopo il Vaticano II particolarmente aperta alle novità ma conservando talune ambiguità. Possiamo collocare in una medesima stagione sia i concili nazionali (di Olanda e di Germania); le assemblee episcopali continentali di Medellín e Puebla in America Latina, le assemblee nazionali della Chiesa italiana di Roma, Loreto, Palermo e Verona. Il nuovo Cic presenta alcune incongruenze legate alla non risolta armonizzazione tra l’impostazione che faceva del vescovo il solo legislatore del sinodo e l’ammissione di un voto consultivo dei partecipanti chierici e laici; inoltre, nelle prassi sinodali, intendendo il sinodo come il luogo di celebrazione della comunione delle membra attorno al vescovo, cristiani comuni hanno ‘predicato’ durante le celebrazioni liturgiche e partecipato attivamente alla stesura delle costituzioni sinodali. All’Istruzione sui sinodi diocesani, uscita nel 1997 per disciplinare un istituto che stava assumendo, non solo a livello di Chiesa italiana, forme e toni ‘creativi’ ma fuori controllo, è stata aggiunta un’Appendice che elenca gli ambiti che il Cic affida alla potestà legislativa dei vescovi diocesani (ambiti vastissimi, come, ad esempio, ecumenismo, predicazione, catechesi, attività missionaria, educazione cattolica, strumenti di comunicazione sociale). Ciononostante, l’Istruzione rafforza il potere del vescovo, limita la libertà del dibattito e della rappresentanza, consegna il sinodo a un ruolo di eccezione nel contesto della vita diocesana, elimina il pericolo dell’ambigua deriva democratizzante ma senza proporre soluzioni a uno svolgimento sinodale che incentivi ed esprima compiutamente la comunione ecclesiale.

Le caratteristiche della stagione sinodale italiana si riflettono nei problemi di armonizzazione tra procedure sinodali e concezioni del sinodo dei vescovi, istituito da Paolo VI quattro anni dopo la chiusura delVaticano II34. Il sinodo dei vescovi è la «riunione dei vescovi, che scelti dalle diverse regioni del mondo, si radunano in momenti fissati per favorire la loro stretta unione tra il Pontefice e i vescovi», fornendo i propri consigli per il mantenimento e il progresso della fede e dei costumi, per conservare e affermare la disciplina ecclesiastica, per studiare le questioni concernenti l’azione della Chiesa nel mondo. Pur trovando analogie e precedenti, questa istituzione non è né una riunione di cardinali né un concilio, distinguendosi da quest’ultimo sia perché i vescovi non vi parlano in nome proprio ma in quanto delegati delle conferenze episcopali, sia perché esso ha carattere consultivo e pubblica proposte o voti, privi di valore deliberativo, mentre in un concilio i vescovi, riuniti in collegio, agiscono in quanto legislatori e dottori della fede e pubblicano decreti dottrinali o disciplinari. Il sinodo dei vescovi è sottomesso all’autorità del pontefice in modo più stretto di un concilio ecumenico e, pertanto, non è una forma di esercizio della collegialità ma uno strumento di essa, una collaborazione dell’episcopato alla funzione primaziale del pontefice, un organo del governo centrale (cfr. il discorso del 30 aprile 1983 di Giovanni Paolo II).

Se dal macro passiamo al microcosmo italiano, notiamo una medesima lunghezza d’onda anche in ordine all’attività collettiva dei vescovi. Nel corso del simposio dei vescovi d’Europa (svoltosi prima del sinodo dei vescovi straordinario del 1985) tenutosi a Roma dal 7 all’11 ottobre, alcuni gruppi linguistici, tra i quali quello italiano, hanno sottolineato il bisogno di una maggiore comprensione e pratica della collegialità, a tutti i livelli. Per altro verso, sempre in prossimità dell’apertura dell’assemblea, molti vescovi e alcune conferenze episcopali hanno espresso pubblicamente l’aspettativa che il sinodo dei vescovi possa approdare a conclusioni di segno sensibilmente diverso, anche attraverso un suo rilancio e un rafforzamento del suo ruolo istituzionale35.

Il concilio plenario sardo del 1995 mostra come una forma di conciliarità effettiva sia percepita come necessaria anche nella Chiesa italiana guidata dal cardinale Camillo Ruini: dopo una preparazione iniziata nel 1987, lunga e laboriosa nella misura in cui si è cercato il coinvolgimento di tutte le dieci diocesi e di tutte le componenti ecclesiali (sia attraverso le risposte a un questionario che nella forma del convegno regionale del clero tenutosi nel settembre 1993), il concilio sardo si è aperto con un regolamento predisposto dalla conferenza regionale nel 1994. Al concilio partecipano una novantina di persone tra vescovi diocesani ed emeriti, vicari generali ed episcopali, segretari delle commissioni diocesane, superiori e superiore delle comunità religiose, il rettore del seminario maggiore e il preside della facoltà teologica. Di questi membri, solo i vescovi hanno voto deliberativo (a norma di Cic, can. 443, § 4) anche se la convocazione è stata aperta a chierici e laici36. Un’interruzione è stata provocata dallo spostamento del presidente del concilio Giovanni Canestri a Genova e l’attesa della nomina del sostituto, individuato nel nuovo arcivescovo di Cagliari, Ottorino P. Alberti.

La Chiesa italiana, nella propria attività sinodale, conciliare e congressuale, si manifesta anche negli anni Novanta per essere una Chiesa frastagliata, regionale, con peculiarità proprie per ciascuna area e regione, e che ha dato vita a varie esperienze e tipologie di incontri ecclesiali. Risultano infatti evidenti la dinamica e l’intersezione tra i sinodi e i convegni nazionali, la cui preparazione ha coinvolto largamente le diocesi prima e la loro ricezione dopo il loro svolgimento (anche) nella forma del sinodo diocesano: innanzitutto, il convegno nazionale del 1976, Evangelizzazione e promozione umana di Roma, è stato una prima importante verifica del cammino della Chiesa italiana dopo il concilio; ma soprattutto i congressi di Loreto del 1985 e Palermo del 1995 hanno avuto ricadute dirette nelle diverse forme di collegialità e sinodalità delle Chiese regionali e diocesane, con risposte, da parte delle Chiese locali, che hanno ripreso forme tradizionali e tridentine di esercizio del governo e della funzione legislativa, rinnovate alla luce dell’ecclesiologia del Vaticano II, in un continuum di cui le stesse diocesi si fanno promotrici, almeno a livello di pubblicazioni37. Il caso del sinodo Livornese, il secondo dopo il Vaticano II, si presta a questo tipo di intreccio. Il sinodo indetto dal vescovo Ablondi, è stato guidato dal tema del decennio pastorale Evangelizzazione e testimonianza della carità, e dal documento della Cei Il Vangelo della carità, che orientava l’attenzione dei vescovi verso i giovani; il sinodo ha dato vita a forme di partecipazione larga e permanente della Chiesa locale38.

Diverso e più complesso il caso del primo sinodo dell’Ordinariato militare d’Italia, apertosi ad Assisi nell’ottobre del 1997, guidato dall’Ordinario militare d’Italia G. Mani che ha coinvolto mille e seicento delegati; il sinodo, i cui lavori si sono svolti in cinque grandi assemblee, si è concluso nell’assemblea dal 3 al 6 maggio 1999. Esso ha confermato che i cappellani devono restare inseriti a pieno titolo nelle strutture gerarchiche militari (garantiti come pubblici dipendente e graduati); ha visto favorevolmente l’opportunità di un apposito seminario per i futuri cappellani, separato ed esterno rispetto al ‘normale’ percorso dei seminaristi; infine e non senza contraddizione, ha espresso l’auspicio che la Chiesa castrense sia inserita e integrata nelle diocesi39.

In linea di massima, però, si può osservare che la forma congressuale ha contribuito agli orientamenti e alle riflessioni delle Chiese diocesane, senza che questo implicasse l’assunzione e l’esercizio di una vera e propria forma di sinodalità.

La prassi sinodale valdese come struttura portante della Chiesa

La Chiesa valdese riformata aveva nella forma sinodale assembleare, alla quale partecipavano i ministri e il popolo, una struttura che fin dall’età medievale costituiva la sua ossatura portante. Nel sinodo di Chanforan del 1532, la Chiesa valdese decise la propria adesione alla Riforma protestante, innestando la tradizione medievale in una nuova forma di esistenza teologica e comunitaria40. Se il sinodo risulta essere stato, dal secolo XVI al XIX, il momento centrale della vita interna e comunitaria della Chiesa valdese, la struttura istituzionale di esso si è mantenuta inalterata per i medesimi secoli, per esempio svolgendosi sempre alla presenza di un commissario ducale. Le funzioni principali svolte durante i secoli dell’età moderna sono state quelle di tribunale morale e civile soprattutto nelle cause matrimoniali e conflitti di carattere amministrativo ed economico; strumento di governo collegiale, di discernimento e di orientamento spirituale. Nel 1851 il sinodo valdese reagì contro dottrine di ispirazione razionalistica applicate alla Bibbia, tendenti a negare la divinità della Scrittura; nel 1894, esso interpretò alcune affermazioni della confessione di fede decretata dal sinodo del Delfinato del 1622, alla luce della teologia liberale, esercitando una funzione magisteriale nei confronti della confessione di fede. Più recentemente, il sinodo del 1974 approvò il testo della Concordia di Leuenberg dell’anno precedente, con il quale le Chiese riformate e luterane europee attuarono la piena comunione ecclesiale tra loro; il sinodo del 1982 approvò un documento sull’ecumenismo dedicato ai rapporti tra Chiesa valdese e Chiesa cattolica romana, Chiese evangeliche, popolo ebraico e movimento ecumenico.

I sinodi radunatisi durante il ventennio fascista si caratterizzarono per una politica di compromesso e adeguamento al regime nelle decisioni finali e negli atti pubblici; ostentarono pubblicamente fiducia nelle promesse del Duce che assicuravano un trattamento di favore alla Chiesa valdese, pur collocata nei ‘culti ammessi’. I pastori posti alla guida della Chiesa erano convinti di avere un canale preferenziale di rapporto con Mussolini. Le discussioni sinodali sono ricche di riferimenti alla situazione complessiva delle minoranze religiose in Italia. Il sinodo del 1938 discusse la possibilità di fare entrare un numero elevato di ebrei nella comunità, in considerazione della persecuzione che si stava abbattendo su di loro, rispetto alla quale esso si divise tra coloro che intendevano aprire con liberalità le porte della Chiesa alle richieste anche se non motivate da ragioni di fede e coloro che ritenevano che solo dopo un lungo periodo di catecumenato si potesse procedere a una massiccia ammissione di ebrei nella comunità. Le prime critiche a questa linea erano emerse nel corso del sinodo del 1934, che individuavano nel regime stesso le cause delle crisi e delle chiusure di edifici di culto e scuole confessionali e non nei clericali intransigenti che erano stati fino a quel momento ritenuti i veri nemici della Chiesa valdese. I sinodi intesero mostrare con i loro atti di essere fedeli partner del regime e adottarono atteggiamenti di prudenza e un profilo basso anche di fronte a evidenti forme di discriminazione. Nel corso della discussione del sinodo del 1936, vi fu la presa d’atto del ‘sabotaggio’ pratico esercitato da uffici ministeriali rispetto alla legge sulla libertà religiosa, ma, ciononostante, il sinodo rivolse al Duce un messaggio di ringraziamento, riconoscendolo «assertore e difensore delle sacre libertà di coscienza e di culto nella pienezza del loro diritto divino»41. Nel sinodo del 1939 Mussolini fu per la prima volta chiamato «Duce» e a partire da quell’anno il sinodo espresse sempre atti di omaggio e prudenza che non corrispondono alle discussioni che animarono i partecipanti dal 1940. Lo smarrimento non fece che aumentare fino al 1943, ma la diffidenza della Chiesa valdese per la politica impedì l’approvazione nel sinodo del 1943, tenutosi nella significativa giornata dell’8 settembre, di un ordine del giorno di esplicita condanna della simpatia con cui si era guardato negli anni al totalitarismo fascista. Infatti, anche in quell’occasione e malgrado la presenza di alcuni delegati fortemente avversi al silenzio conformista con cui si era guardati al regime, il sinodo affermò in modo ambiguo e incompleto i principi di totale libertà e indipendenza della Chiesa di fronte allo Stato, riprendendo una dichiarazione della Tavola del 1849.

In base alla disciplina in vigore, la Chiesa valdese è retta da una gerarchia di assemblee, aventi ciascuna un proprio ambito di competenze: l’assemblea di ogni chiesa locale, l’assemblea di ogni raggruppamento regionale o territoriale di chiese, il sinodo (cfr. la Disciplina generale delle chiese valdesi, DV, art. 7). Il sinodo è l’assemblea generale che esprime l’unità di tutte le chiese ed è la massima autorità in materia dottrinaria, legislativa, giurisdizionale e di governo. Attualmente, esso è costituito dai deputati delle chiese locali, da un numero di pastori equivalente e dai responsabili di particolari settori di attività. Il sinodo delle chiese metodiste e valdesi è composto da 180 membri con voce deliberativa, a cui si aggiunge un numero variabile di membri con voce consultiva e attualmente si riunisce ogni anno a Torre Pellice, nelle Valli Valdesi, vicino Pinerolo (Torino). L’assemblea sinodale, dopo aver nominato il suo ufficio di presidenza all’inizio della sessione, affronta temi legati alla vita delle chiese e della loro testimonianza, temi culturali e di attualità ed esamina l’andamento delle varie opere sociali di assistenza; decide sui rapporti con lo Stato e si occupa dei rapporti con le altre Chiese (quindi si occupa di ecumenismo)42.

Note

1 Il presente intervento segue gli studi sul tema della sinodalità delle Chiese italiane, perciò l’esposizione alterna approfondimenti su aree e periodi a lacune su ambiti e settori della vita collettiva dei vescovi e delle comunità meno noti. Mentre la letteratura sui concili particolari o sulle conferenze episcopali è particolarmente ricca in ambito ecclesiologico e canonistico, gli studi storici sono più scarsi e soprattutto coprono l’arco cronologico considerato a macchia di leopardo. Alcuni dati, da verificare con fonti di archivi diocesani e con gli archivi delle Congregazioni romane dei vescovi, concistoriale, del concilio, emergono nei seguenti studi: S. Da Nadro, Sinodi diocesani italiani. Catalogo bibliografico degli atti a stampa 1534-1878, Città del Vaticano1960; Id., Sinodi diocesani italiani. Catalogo bibliografico degli atti a stampa 1879-1960 con un’appendice sui sinodi anteriori all’anno 1534, Milano 1962; C. Pioppi, I concili provinciali della Chiesa Cattolica di rito latino dal 1648 al 1914: uno sguardo d’insieme, «Annales theologici», 20, 2006, 2, pp. 393-406.

2 A. Longhitano, La normativa sul sinodo diocesano dal concilio di Trento al Codice di diritto canonico, in Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Atti del Convegno di studi (Catania 1986), Catania 1987, pp. 33-87.

3 Per la Nostis et nobiscum dell’8 dicembre 1849, cfr. G. Battelli, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Dal secondo Ottocento ai primi anni della Repubblica, in St.It.Annali, IX, Torino 1986, pp. 807-854.

4 A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica contro la secolarizzazione: le conferenze episcopali regionali (1889-1914), Roma 2009; Id., Le Conferenze episcopali nel post concilio (1965-2005), «Rivista di storia del cristianesimo», 6, 2009, 1, pp. 183-212; Id., Rassegna degli studi più recenti sull’attività collettiva dei vescovi tra Ottocento e Novecento, «Cristianesimo nella storia», 15, 1994, pp. 71-115.

5 A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica, cit., pp. 3-4.

6 Natura e futuro delle conferenze episcopali, Atti del Colloquio Internazionale di Salamanca (1988), a cura di H. Legrand, J. Manzanares, A. García Y García, Bologna 1988.

7 Come parte della Savoia, Chambéry entrava nel Regno di Sardegna e dunque era parte del territorio italiano.

8 Cfr. I Concili provinciali di Cagliari (1886), Benevento (1895), Milano (1906), a cura di G. Fattori, Roma 2006.

9 Una lettera del cardinale Antonelli nel 1849 all’arcivescovo di Spoleto, per la riunione che diverrà prototipo di simili adunanze, chiese ai vescovi di «compilare gli atti che si faranno per sottoporli alla S. Sede prima che abbiano esecuzione», citata da R. Regoli, Concili italiani. I sinodi provinciali nel XIX secolo, «Archivum historiae pontificiae», 46, 2008, pp. 131-162, in partic. pp. 150-151.

10 A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica, cit., pp. 46-48.

11 Ibidem, pp. 71-72.

12 D. Menozzi, Prospettive sinodali nel Settecento, «Cristianesimo nella storia», 8, 1987, pp. 115-146.

13 S. Ferrari, Sinodi diocesani, in Ricerca storica e chiesa locale in Italia. Risultati e prospettive. Atti del IX Convegno di studio dell’Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa (Grado 1991), Roma 1995, pp. 111-132.

14 Cfr. S. Da Nadro, Sinodi diocesani italiani, cit., pp. 13-110; dal conto possono essere stati esclusi i sinodi le cui costituzioni sono inedite.

15 J. Ramos, Il Sinodo Diocesano nella storia, nel CJC del 1983, nell’«Istruzione» del 1997, «Angelicum», 75, 1998, pp. 365-402.

16 S. Ferrari, I sinodi diocesani di Angelo Giuseppe Roncalli, «Cristianesimo nella storia», 9, 1988, pp. 113-133.

17 F.G. Savagnone, Concili e sinodi di Sicilia. Struttura giuridica – storia, Palermo 1910, pp. 188-212.

18 A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica, cit., pp. 73-240.

19 Concilium Mediolanense provinciale octavum […] A.D. MCMVI, Mediolani 1908, su cui cfr. C. Pioppi, L’Ottavo concilio provinciale Milanese (1906) tra difesa dell’antico e l’apertura al nuovo: il rifiuto del pensiero liberale e l’impulso alle attività sinodali, «Annuarium historia conciliorum», 37, 2005, pp. 139-225.

20 A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica, cit., pp. 241-354.

21 Ibidem, pp. 355-462.

22 J. Manzanares, Las conferencias episcopales en tiempos de Pío XI, «Revista española de derecho canónico», 36, 1980, 103, pp. 5-56; Id., Inéditos sobre conferencias episcopales, in Iustus Iudex. Festgabe für P. Wesermann zum 75. Geburtstag, Essen 1990, pp. 122-142; F. Sportelli, La Conferenza Episcopale Italiana (1952-1972), Galatina 1994.

23 M. Manzo, Papa Giovanni vescovo a Roma. Sinodo e pastorale diocesana nell’episcopato romano di Roncalli, Cinisello Balsamo 1991; Iohanes PP. XXIII, Scritti e discorsi del patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli, Roma 1959-1962.

24 G. Turbanti, La liturgia nella celebrazione dei «Piccoli Sinodi» di Lercaro, in Sinodi e liturgia, a cura di G. Alberigo, «Cristianesimo nella storia», 28, 2007, 1, pp. 103-132.

25 Per un confronto sul valore delle decisioni delle due tipologie di riunioni episcopali, cfr. G. Mucci, Concili particolari e conferenze episcopali, «La civiltà cattolica», 138, 1987, 2, pp. 340-348; A. García y García, Le conferenze episcopali alla luce dei concili particolari del secondo millennio, in Natura e futuro delle conferenze, Bologna 1988, pp. 77-88; R. Metz, Les organismes collegiaux, in Le droit et les institutions de l’Eglise catholique latine de la fin du XVIIIe siècle à 1978. Organismes collégiaux et moyens de gouvernement, éd. par L. Chevailler, Ch. Lefebvre, R. Metz, Paris 1982, pp. 135-142.

26 Per il rinnovamento dei sinodi nazionali, interdiocesani e diocesani cfr. S. Ferrari, Il Sinodo diocesano, in La sinodalità nell’ordinamento canonico, a cura di M. Ghisalberti, G. Mori, Padova 1991, p. 234; B. Franck, Esperienze sinodali nazionali postconciliari in Europa, «Concilium», 1978, pp. 819-837.

27 Aspetti sottolineati da A. Indelicato, Sinodalità e liturgia: il sinodo post-conciliare della diocesi di Noto, in Sinodi e liturgia, pp. 199-215. Il codice del 1983, can. 460, disciplina il sinodo diocesano; si veda anche l’Istruzione sui Sinodi Diocesani della Congregazione dei vescovi e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, del 19 marzo 1997. Per una visione d’insieme J. Ramos, Il sinodo diocesano, cit., pp. 369-401. A Reggio Emilia, dopo il pre-progetto della commissione di sondaggio e consultazione, furono elettori tutti i partecipanti all’eucaristia nel giorno delle elezioni, che avessero ricevuto la cresima; erano eleggibili tutti i presbiteri, diaconi e i laici membri del Consiglio vicariale; i movimenti ebbero propri seggi elettorali e i partecipanti potevano votare o presso i movimenti o presso la parrocchia territoriale, cfr. M. Galloni, Preparazione di un sinodo. Le diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, Casale Monferrato 1986, pp. 140-157.

28 Il sinodo diocesano celebrato da Giovanni Paolo II prima di essere elevato al soglio pontificio sottolineò questa interpretazione del sinodo, cfr. Il sinodo pastorale dell’Arcidiocesi di Cracovia, 1972-1979, Città del Vaticano 1985; S. Ferrari, Los sínodos diocesanos del Post-Concilio, «Revista Española de Derecho Canónico», 46, 1989, pp. 179-187.

29 S. Ferrari, Il Sinodo diocesano, cit., pp. 111-132.

30 L. Prezzi, I sinodi diocesani in Italia 1967-1988, «Il Regno-attualità», 10, 1988, pp. 281-291.

31 L. Prezzi, G. Senin Artina, Sinodi postconciliari: i limiti della recezione, in Chiesa in Italia. Annali de Il Regno, Bologna 2000, pp. 123-132.

32 Sinodi Diocesani di Bobbio, Reggio Emilia e Guastalla, Fidenza. Dichiarazioni e decreti, Cinisello Balsamo 1991 (in partic. G. Alberigo, Introduzione. I sinodi post-conciliari nelle Chiese emiliano-romagnole, pp. 15-26).

33 Sinodi diocesani di Bolzano-Bressanone, Udine, Trento. Dichiarazioni e decreti, Cinisello Balsamo 1990 (in partic. S. Tramontin, Introduzione. I sinodi postconciliari del Trentino – Alto Adige e del Friuli – Venezia Giulia, pp. 15-30).

34 Paolo VI nel 1965 creò un sinodo di vescovi con il motu proprio Apostolica sollicitudo del 15 settembre 1965 («Acta Apostolicae Sedis», 1965, pp. 775-780), regolato da un primo testo nel 1966, modificato nel 1969 (Ordo Synodi Episcoporum celebrandae), poi ancora nel 1971 e 1974, infine ripreso dal canone 342 del codice di diritto canonico del 1983. In quest’ultimo passaggio è stato effettuato un cambiamento: mentre l’Apostolica sollicitudo e il decreto Christus Dominus del Vaticano II parlavano del sinodo come di «totius catholici episcopatus partes agens», dunque di un organo rappresentativo dell’insieme dell’episcopato, il canone 342 ha soppresso questa qualità, adducendo come motivazione la costituzione Lumen gentium (23), che nega al vescovo diocesano giurisdizione sulle altre Chiese e sull’insieme della Chiesa.

35 A. Indelicato, Il sinodo dei vescovi. La collegialità sospesa (1965-1985), Bologna 2008, pp. 347-377.

36 A. Miglio, Il Vangelo nell’isola, «Il Regno-attualità», 4, 1995, pp. 90-91; P. Meloni, Il concilio plenario sardo, in Chiesa in Italia, cit., pp. 159-168.

37 Cfr. I. Farinelli, Sinodi a Perugia (…1210-2006). Guida alle fonti nell’Archivio storico diocesano, Spoleto 2006.

38 V. Savio, Livorno. La sinodalità permanente, «Il Regno-attualità», 4, 1995, p. 92.

39 V. Prisciandaro, Non solo stellette, «Jesus», 7, luglio 1999.

40 P. Ricca, La prassi sinodale nella teologia e nell’esperienza della Chiesa valdese, in Il sinodo diocesano, cit., pp. 149-170; cfr. T.J. Pons, Actes des Synodes des Eglises Vaudoises 1692-1854, Torre Pellice 1948.

41 J.-P. Viallet, La chiesa valdese di fronte allo stato fascista, Torino 1985, pp. 213-219, 305-313.

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