Sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

Sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo

Gennaro Ferrari

Il secondo correttivo al Codice del processo amministrativo, approvato con d.lgs. 14.9.2012, n. 160 ha modificato l’art. 26, co. 1, c.p.a. prevedendo espressamente che la decisione del giudice sulle spese del giudizio deve tener conto anche del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’art. 3, co. 2, dello stesso Codice. È stato così codificato un orientamento già presente nella giurisprudenza sia del giudice amministrativo che della Cassazione che, seppure riferita alle parti in causa costituite, riconosceva al giudice adito il potere di condannare alla sanzione pecuniaria prevista dall’art. 96 co. 3, c.p.c. (richiamato dal citato art. 26) la parte che avesse depositato atti inutilmente prolissi, tali da rendere particolarmente gravosa l’attività difensiva delle controparti.

La ricognizione

Il secondo correttivo al Codice del processo amministrativo, approvato con d.lgs. 14.9.2012, n. 160, ha modificato l’art. 26, aggiungendo un ultimo periodo al co. 1, nel quale è espressamente previsto che la decisione sulle spese di giudizio deve tener conto anche della violazione dei principi di chiarezza e sinteticità dettati dall’art. 3, co. 2, dello stesso Codice, ove accertata. In effetti la novella – intervenendo dopo che il precetto dell’art. 3 era rimasto per circa un biennio pressoché inosservato, probabilmente perché privo di un adeguato supporto sanzionatorio – ha volutamente inteso recepire un orientamento da tempo consolidato nella giurisprudenza sia del giudice amministrativo (C.g.a. 19.4.2012, n. 395) che della Cassazione (Cass., S.U., 11.4.2012, n. 5698), concordi nel ritenere che l’inosservanza del precetto della sinteticità (e, dunque, della chiarezza, perché atti inutilmente prolissi finiscono, di norma, per essere poco chiari) negli atti processuali non può essere sottovalutata ma, al contrario, deve essere sanzionata affinchè il sistema giustizia possa considerarsi effettivamente adeguato agli obiettivi che gli sono assegnati.

La focalizzazione

Il problema della chiarezza e sinteticità degli atti processuali è di antica origine ed ha interessato sia il processo amministrativo che quello civile e, più di recente, quello tributario. Con riferimento al processo amministrativo giova ricordare il recente arresto del C.g.a. n. 395/2012 che, pronunciando sull’appello proposto da un’impresa partecipante a gara pubblica avverso una sentenza di TAR recante rigetto del ricorso da essa proposto contro il provvedimento che l’escludeva dalla procedura comparativa, ha ravvisato nel modus procedendi dell’appellante una violazione degli obblighi di chiarezza e sinteticità degli atti processuali imposti alle parti in causa dall’art. 3, co. 2, c.p.a. La tesi accolta è che la prolissità dell’appello avrebbe aggravato l’attività difensiva delle controparti, costrette a fronteggiare: un numero di pagine di scritti difensivi sproporzionato rispetto alla semplicità della causa; un abuso del “copia e incolla”, utilizzato per atti presenti nel fascicolo; un’insistente ripetizione di concetti già esposti. Di conseguenza ha condannato l’appellante al pagamento non solo delle spese di giudizio, ex art. 26 co. 1, c.p.a., ma anche di una sanzione pecuniaria per il danno che con il suo comportamento processuale avrebbe arrecato ai resistenti, siccome previsto dall’art. 96, co. 3, c.p.c., che il predetto art. 26, co. 1, c.p.a. richiama.

Per quanto riguarda il processo civile, va segnalato il contributo chiarificatore offerto dalla giurisprudenza del giudice ordinario, anche se in effetti riferito al ricorso per cassazione. Con riferimento a quest’ultimo è stato affermato1 che una tecnica espositiva dei fatti di causa, realizzata con la mera riproduzione degli atti processuali, viola l’art. 366, co. 1, n. 3, c.p.c. che impone, a pena d’inammissibilità, «l’esposizione sommaria dei fatti della causa», trattandosi di prescrizione preordinata ad agevolare la comprensione della pretesa e la conoscenza dell’esito dei gradi precedenti, coordinate con i motivi di censura2. Un contributo notevole è stato offerto, oltre che dalle Sezioni Unite, anche dalle sezioni semplici. Esemplificando: la sez. lavoro ha osservato (Cass., 1.2.2010, n. 2281) che la chiarezza dei fatti di causa è elusa quando il ricorrente non ricostruisce la vicenda processuale, ma si limita ad allegare, mediante “spillatura” al ricorso, il ricorso di primo grado e gli atti successivi, in tal modo rendendo difficile l’individuazione della materia del contendere; la sez. tributaria ha sostenuto (Cass., 23.6.2010, n. 15180) che la sommarietà dell’esposizione implica un lavoro di sintesi e selezione dei profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice in un’ottica di economia processuale, che evidenzi i profili rilevanti ai fini della decisione3; la sez. III ha affermato (Cass., 9.2.2012, n. 1905) che, se si ritenesse che la Corte di cassazione è tenuta a procedere ad una lettura integrale degli atti assemblati, per estrapolare da essi l’oggetto del contendere, si delegherebbe ad essa un’attività che, inerendo al contenuto del ricorso quale atto di parte, è di competenza di quest’ultima ed eluderebbe il canone di ragionevole durata del processo; la sez.VI ha ribadito (Cass., 16.3.2011, n. 6279) che il ricorso per cassazione è inammissibile se il ricorrente, anzichè esporre i fatti di causa e il petitum, si limita a trascrivere integralmente gli atti dei precedenti gradi del giudizio ovvero ad allegarli, mediante “spillatura”, al ricorso. Data la premessa, la regola che la giurisprudenza della Corte di cassazione formula è che è onere del ricorrente un’esposizione dei fatti che consenta una piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata sulla base della sola lettura del ricorso, risultando irregolare la pedissequa riproduzione in esso del contenuto degli atti processuali. Sempre secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte la riproduzione degli atti e dei documenti è invece richiesta ove si assuma che la sentenza impugnata è censurabile per non averne tenuto conto e che, in caso contrario, la decisione sarebbe stata diversa: in questo caso, infatti, la Corte deve essere messa in condizione di verificare che quanto il ricorrente afferma trova effettivo riscontro negli atti, ma ciò non significa che è anche tenuta a cercarli. In definitiva, sempre ad avviso della Corte, la selezione di ciò che rileva a fini decisori, nonchè l’esposizione sommaria dei fatti di causa, entrambe correlate ai motivi di ricorso, vanno fatte dal difensore del ricorrente, che ha l’esperienza e la competenza necessarie ad un «non delegabile compito di sintesi, non sempre del tutto agevole e, tuttavia, assolutamente ineludibile».

I profili problematici. Norme sul processo amministrativo

Nel processo amministrativo l’obbligo per le parti di redigere gli atti processuali in maniera sintetica era stato imposto, ma limitatamente al contenzioso in materia di contratti pubblici, dall’art. 245, co. 2-undecies, d.lgs. 12.4.2006, n. 163, modificato dall’art. 8, co. 1, lett. c) e d), d.lgs. 20.3.2010, n. 53, e integralmente sostituito dall’art. 3, co. 19, lett. d), allegato 4 al c.p.a. Per dette materie l’obbligo di sinteticità dei relativi atti di parte è stato confermato dal successivo art. 120, co. 10, c.p.a., che lo ha imposto anche per i «provvedimenti del giudice». Infine detto obbligo è stato generalizzato dal precedente art. 3, co. 2, c.p.a., cioè esteso ad ogni contenzioso amministrativo, e ad esso è stato aggiunto anche l’obbligo di chiarezza4.

La normativa fin qui esaminata ha dato luogo a numerosi problemi in sede interpretativa ed applicativa, che allo stato non possono ritenersi completamente risolti. È tuttora dubbio se la regola della sinteticità si riferisce ai soli atti scritti o anche a quelli orali. A favore della prima conclusione è stato osservato5 che l’art. 3, co. 2, c.p.a. usa il termine «redigere», che ovviamente si riferisce ad atti scritti. Si è aggiunto che il processo amministrativo ha carattere essenzialmente cartolare e che comunque, nella pubblica udienza, il Presidente del collegio giudicante dispone di strumenti idonei a consentirgli di ricondurre entro limiti fisiologici la discussione orale, indirizzandola sulle questioni da lui ritenute rilevanti al fine del decidere. Ma in senso contrario è stato osservato6 che il principio di sinteticità è richiamato anche con riferimento alla discussione orale sia nell’udienza cautelare (art. 55, co.7, c.p.a.) che in quella di merito (art. 73, co. 2, c.p.a.).

L’abrogato art. 245, co. 2-undecies, d.lgs. n.163/2006 prescriveva che tutti gli atti processuali di parte dovevano essere sintetici, ma non chiariva, né probabilmente avrebbe potuto farlo, quali fossero gli elementi da considerare significativi della violazione di una prescrizione che il testo della norma qualificava obbligo ma che, non essendo né definita nel suo contenuto né tanto meno espressamente sanzionata, nella pratica poteva fungere solo da raccomandazione alla classe forense perché collaborasse con il giudice con comportamenti idonei a ridurre i tempi di definizione del contenzioso.

La situazione non è mutata con l’entrata in vigore del c.p.a., suscitando reazioni negative la scelta del legislatore di non prevedere un rimedio specifico all’interno del processo, sul rilievo che essa renderebbe debole la regola della sinteticità degli atti processuali. Si tratta di osservazione non condivisibile. Innanzi tutto perché il rimedio esisteva anche prima della novella introdotta dal secondo correttivo, anche se non era richiamato nelle norme che disciplinano la materia, ed è la declaratoria d’inammissibilità del ricorso se, per effetto dell’eccessiva lunghezza, lo scritto non risulta comprensibile. In effetti errore grave avrebbe commesso il legislatore se avesse preteso di codificare i casi nei quali un ricorso deve ritenersi non rispettoso delle regole della sinteticità e della chiarezza, trattandosi di situazioni che di regola si presentano con connotazioni diverse nei singoli casi e che perciò devono essere affidate alla valutazione del giudice, il quale è il solo che può stabilire se le parti in causa gli hanno offerto elementi di conoscenza sufficienti ad una corretta definizione della materia del contendere. È stato osservato7 che la sinteticità è regola di difficile applicazione, sia perché riflette il carattere di ciascun soggetto e il suo modo di affrontare i problemi, sia perché è espressione generica, che va verificata e misurata di volta in volta con riferimento alla complessità di ogni thema decidendum. È osservazione ricorrente fra gli studiosi della materia che non sono rari i casi nei quali le dimensioni degli scritti difensivi sono ingigantite dall’enunciazione di principi che, per la loro notorietà, non è necessario richiamare all’attenzione del Collegio giudicante; dalla trasposizione, nell’atto introduttivo del giudizio, di massime giurisprudenziali consolidate; dalla ripetizione di argomentazioni che tradiscono la preoccupazione dell’avvocato di convincere della loro validità innanzi tutto sé stesso; dalla proposizione di censure ininfluenti al fine del decidere e proposte solo per aumentare il peso del cartaceo che si deposita; dalla presentazione di ricorsi ripetitivi di altri già da tempo definiti dalla giurisprudenza amministrativa con enunciazione di regole ormai consolidate e che, ciò nonostante, vengono riproposte senza nemmeno il supporto di argomentazioni idonee a suscitare nel giudice adito un ripensamento rispetto a conclusioni già assunte. Un abuso ricorrente nella pratica forense è anche il deposito di memorie il cui testo riporta quello dell’atto introduttivo del giudizio. La tesi svolta in dottrina è che, in assenza di regole puntuali, deve intendersi rimessa all’interpretazione giurisprudenziale l’elaborazione di canoni di sinteticità. Nell’attesa si suggerisce8 di considerare elusivo dell’obbligo di sinteticità un atto che: ripeta lo stesso concetto più volte; si dilunghi a riportare ininfluenti brani di sentenze o di contributi dottrinari; si attardi in una ricostruzione di istituti non necessaria per la risoluzione della controversia; proponga un elevato numero di motivi di ricorso palesemente infondati o inammissibili; riporti, nella memoria, il testo letterale dell’atto introduttivo del giudizio.

La sinteticità s’impone naturalmente anche al giudice in sede di redazione della sentenza9. In effetti, i rilievi critici che si muovono10 alla tecnica redazionale del giudice amministrativo riguardano sia la parte in fatto che quella in diritto. Per quanto riguarda la prima, è osservazione ricorrente che sovente essa o si esaurisce nella trascrizione dell’atto introduttivo del giudizio o quest’ultimo viene ignorato, il che rende difficile al lettore, non coinvolto nella vicenda contenziosa, comprendere quale era l’effettiva materia del contendere; la seconda non di rado si riduce ad una mera adesione alle tesi svolte da una delle parti in causa o, al contrario, è inflazionata dal ripetuto richiamo a massime giurisprudenziali desunte dalle banche dati.

Indubbiamente l’intervento del legislatore delegato al secondo correttivo al c.p.a., anche se non ha dissolto i dubbi in ordine ai casi in cui il principio di sinteticità possa dirsi violato, contribuirà a dare maggiore efficacia alla previsione contenuta nell’art. 3, co. 2, c.p.a.

Restano peraltro ancora alcuni profili di criticità che spetterà alla giurisprudenza dissipare. Ci s’intende riferire innanzitutto all’ipotesi in cui a violare il principio di sinteticità è stata la parte vittoriosa in giudizio, nel qual caso la novella del comma 1 dell’art. 26 dovrebbe poter avere come unico effetto la compensazione delle spese. Ma la nuova formulazione del comma 1 sarà certamente oggetto di critiche anche nella parte in cui prevede (ma non poteva fare altrimenti) un intervento sanzionatorio per l’ipotesi in cui a violare il comma 2 dell’art. 3 siano le parti del giudizio, mentre non è infrequente il caso in cui siano i provvedimenti dei giudici eccessivamente ed inutilmente prolissi (spesso paragonati ad articoli dottrinari) o eccessivamente sintetici e quindi poco chiari. Ecco dunque che, a fronte di un precetto (il cit. art. 3, co. 2, c.p.a.) rivolto a due distinti soggetti (giudici e parti del giudizio), la sanzione è prevista solo per la violazione commessa da una di esse.

3.1 Sinteticità degli atti processuali e criteri quantitativi

Nel corso dei lavori preparatori del c.p.a. era stata avanzata la proposta di risolvere il problema della sinteticità, quanto meno per gli atti di parte, facendo ricorso a criteri quantitativi, cioè affidando allo stesso codice il compito di definire il numero massimo delle pagine sia dei ricorsi che delle memorie e al Presidente del Consiglio di Stato o del TAR di autorizzare nei singoli casi un numero superiore, previo pagamento a titolo sanzionatorio di una somma di danaro per ogni pagina oltre il massimo consentito. Il parametro di riferimento era individuato nelle «Istruzioni pratiche alle parti relative ai ricorsi diretti e alle impugnazioni», impartite dalla Corte di giustizia CE il 15.10.2004 ed emendate il 31.1.2009 allo scopo di regolamentare il comportamento al quale le parti avrebbero dovuto conformarsi nel processo che si celebrava innanzi ad esso. L’obiettivo perseguito era una maggiore rapidità nella trattazione del ricorso, nonostante le difficoltà operative alle quali la struttura giudiziaria andava incontro dovendo utilizzare traduttori ed interpreti a causa della diversa provenienza geografica dei componenti i collegi decisionali. Di qui i limiti imposti al foro per quanto attiene al contenuto degli scritti, al numero delle pagine, ai documenti da allegare ai ricorsi e alle memorie, all’udienza dibattimentale da tenersi solo se chiesta da una delle parti in causa con puntuale indicazione dei motivi che la giustificavano. Si tratta di una disciplina estremamente rigorosa che la Corte di giustizia era stata costretta ad adottare al fine di rendere operativo anche nel suo processo il principio di massima rapidità nella trattazione delle cause predicato dalla Commissione agli Stati membri, limitando le difficoltà connesse alla necessità di procedere alla traduzione nelle diverse lingue degli atti processuali di parte e degli allegati documenti, che comportavano un anomalo allungamento della durata del processo, in parte evitabile riducendo drasticamente la qualità del materiale cartaceo da tradurre e interpretare e riducendo a ipotesi residuale la parte orale del processo. Il buon senso del legislatore nazionale ha fatto sì che detto suggerimento non fosse accolto per i guasti che avrebbe prodotto nel processo amministrativo, modificandolo radicalmente in ragione di esigenze organizzative ed operative ad esso completamente estranee.

Note

1 Da ultimo Cass., S.U., 11.4.2012, n. 5698.

2 Nella specie il ricorso era stato confezionato con l’assemblaggio integrale, in caratteri minuscoli, di alcuni atti processuali, quali la sentenza di primo grado, la comparsa di risposta in appello, la comparsa successiva alla riassunzione a seguito dell’interruzione, la sentenza d’appello, ecc.

3 Sempre con riferimento al contenzioso in materia tributaria Cass., S.U., 3.11.2011, n. 22726 ha chiarito che nel processo in Cassazione l’obbligo di allegare gli atti e i documenti non sussiste in quanto per questi ricorsi le parti non dispongono dei fascicoli.

4 Osserva De Nictolis, R., Codice del processo amministrativo commentato, II, Roma, 2012, 48, che si tratta di «specificazione opportuna, in quanto sintesi non sempre è sinonimo di chiarezza e un testo troppo sintetico potrebbe essere oscuro». Di qui la necessità di «coniugare sinteticità e chiarezza, individuando la giusta dimensione dello scritto o dell’atto orale».

5 Ferrari, G., Art. 120 – Disposizioni specifiche ai giudizi di cui all’art. 119 comma 1 lett. a), in Garofoli, R.-Ferrari, G., Codice del processo amministrativo annotato con dottrina, giurisprudenza e formule, III, II ed., Roma, 2012,1864.

6 De Nictolis, R., op. cit., 48; Id., Il principio di sinteticità degli atti di parte, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010.

7 Ferrari, G., op. cit., 1864.

8 De Nictolis, R., op. cit., 49.

9 Sull’importanza che assume la sinteticità in sede di stesura della sentenza amministrativa v. Paleologo, G., Forme ed autorità delle sentenze amministrative, in Studi per il centocinquantesimo anniversario del Consiglio di Stato, III, Milano, 1983, 1933; Andreani, A., Dispositivo e contenuto decisorio della sentenza amministrativa, in Il giudizio di ottemperanza, Milano, 1983, 439; Patroni Griffi, F., La sentenza amministrativa, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Diritto amministrativo speciale, V, Il processo amministrativo, Milano, 2003, 4466; De Nictolis, R., La tecnica di redazione delle sentenze del giudice amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it; Cirillo, G.P., Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in www.giustizia-amministrativa.it; Ferrari, G., Art. 3 – Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in Il nuovo codice del processo amministrativo-commento analitico al d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, II ed., Roma, 2012, 39.

10 Cirillo, G.P., Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, cit.

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