SOCIALISMO

Enciclopedia Italiana (1936)

SOCIALISMO

Rodolfo MONDOLFO

. Termine introdotto per la prima volta da R. Owen in un manifesto del 1820 e usato poi con varie gradazioni di significato (che ne rendono difficile una definizione) a indicare in genere ogni forma, teorica o pratica, di affermazione delle aspirazioni, dei bisogni e dei diritti sociali delle classi diseredate, che si presenti sia come rivendicazione loro, sia come riconoscimento altrui. Perciò esso è stato anche definito come "filosofia sociale delle classi misere", a designare il complesso di idee ed esigenze ispiratrici delle agitazioni economiche e politiche di queste classi, e le dottrine in cui esse trovano espressione sistematica e consapevole. Vero è che alcune correnti di socialismo si sono presentate come antitesi dell'individualismo, specie economico (libera concorrenza e manchesterismo) accusandolo di esser fonte di ogni male sociale; onde gl'individualisti o manchesteriani a loro volta hanno combattuto come socialismo ogni tendenza teorica o pratica sovrapponente le esigenze della collettività e dello stato all'iniziativa individuale e ogni estensione delle funzioni statali. Ma l'uso proprio del termine resta quello che si fonda sul riconoscimento di una scissione esistente nella società fra classi economicamente privilegiate dominanti e classi diseredate oppresse, ed esprime l'aspirazione profonda di queste ultime verso una giustizia sociale, capace di eliminare l'inferiorità e disumanità delle loro condizioni, e di attuare il principio dell'uguaglianza fra gli uomini. Ora tale aspirazione di uguaglianza, insorgendo contro una disuguaglianza sociale imperniata su una fondamentale antitesi di condizioni e funzioni economiche, viene essa stessa ad affermarsi soprattutto sul terreno economico; e, come l'antagonismo di classi dominanti e oppresse (padroni e servi, ricchi e poveri, proprietarî e proletarî, capitalisti e salariati) viene ricondotto al fatto fondamentale dell'esistenza di un privato monopolio della proprietà, così è naturale che le classi oppresse rivendichino l'ugual diritto di tutti contro il privilegio dei pochi, e la proprietà comune contro l'appropriazione privata.

Quindi se anche nelle forme più rozze e ingenue queste rivendicazioni hanno potuto concretarsi come esigenza di una divisione in parti uguali, nella coscienza più matura invece si presentano come necessità di sostituire l'appropriazione privata dei mezzi di produzione con la proprietà sociale e la gestione collettiva, rivolta alla soddisfazione dei bisogni sociali di tutta la comunità. Da ciò appunto il nome di socialismo, che nella sua forma tipica e compiuta significa esigenza di collettivismo o comunismo; tanto che spesso i tre termini sono stati considerati sinonimi e scambiati fra loro. Tuttavia non va dimenticata l'esistenza anche di forme di socialismo (p. es., il cristiano) che non aspirano alla socializzazione; e quanto ai rapporti col comunismo, pur prescindendo da distinzioni di carattere storico, dovute a contingenze momentanee e a bisogni di differenziamento politico e pratico di dottrine e di partiti, va tenuta presente una differenza già messa in rilievo nella voce comunismo (v.): che cioè questo non è soltanto programma di rivendicazione e d'azione di una classe proletaria, ma si presenta nella storia anche come stato di fatto, dovuto sia alla primordialità indifferenziata della società umana, sia a necessità belliche (Lipari), sia ad ascetismo religioso che svaluta i beni terreni e reprime il desiderio del possesso individuale (es., comunità monastiche), e può anche essere un ideale etico-politico di società, che voglia eliminati gl'interessi particolari fonte di conflitti, per la solidale ricerca del bene comune (come in utopie antiche e moderne). Il socialismo invece è sempre risposta a una questione sociale; è un'esigenza che nasce dalla scissione della società in classi economicamente dominanti e soggette, e si presenta essenzialmente come rivendicazione di queste ultime, che, aspirando alla propria emancipazione, veggono la possibilità di realizzarla solo nell'eliminazione del privilegio economico.

Ciò posto si può parlare di un socialismo in senso largo per ogni età e popolo in cui la società si presenti scissa in classi antagonistiche di possidenti e nullatenenti: perché sempre l'antitesi delle condizioni genera, col senso dell'inferiorità, dell'oppressione e della sofferenza, un più o meno consapevole malcontento e impulso di ribellione, una più o meno chiara riflessione sulle cause e sui rimedî dei mali lamentati, un'istintiva tendenza a rivendicazioni di giustizia e di uguaglianza, e quindi una ricerca delle vie per cui queste potrebbero essere raggiunte. E sebbene sia innegabile che, nel senso più preciso e proprio, il socialismo debba considerarsi un fatto storico essenzialmente moderno, è pure innegabile che gli sviluppi moderni si sono richiamati e ispirati anche a modelli antichi, classici e cristiani, così che l'esame dei germi apparsi nell'antichità e nel Medioevo può e deve far parte di una conoscenza storica del socialismo.

Il socialismo nell'antichità classica. - Certamente per poter parlare di un socialismo antico bisogna tener presente il criterio accennato; che cioè il socialismo presuppone una questione sociale, ed è rivendicazione di classi oppresse; e che quindi è fuor di luogo cercarlo dove si abbia solo una negazione o limitazione teorica o pratica della proprietà privata: sia nelle tradizioni dell'Eden o dell'età dell'oro, o dello stato di natura, evocate da tanti scrittori greci e latini; sia in organizzazioni o costumanze pseudo-comunistiche di corporazione o di classe, che ebbero finalità di disciplina (come a Creta) o peggio (come a Sparta) di dominio su altre classi; sia in associazioni ascetiche (pitagorici), in cui non è affatto accertata la rinuncia alla proprietà privata, e fu se mai mezzo di purificazione e salvazione spirituale. Queste e analoghe forme possono interessare la storia del socialismo solo in quanto si siano poi trasfigurate nelle utopie o nell'azione storica in miti o insegne ideali di rivendicazioni in favore di classi oppresse.

Tuttavia la violenza delle lotte di classe nell'antichità non poteva non generare correnti di pensiero sociale rivoluzionario. E già fra i sofisti troviamo teorie ugualitarie, rivendicanti il diritto di natura contro l'arbitrio sociale che divide l'umanità in padroni e schiavi, ricchi e poveri, Greci e barbari. E a questo ugualitarismo internazionalistico si aggiunge coi cinici un rovesciamento di valori, esaltante la natura, la fatica, la povertà e i reietti sopra e contro la civiltà, il piacere, la ricchezza e i potenti. Più vicine al socialismo sono tuttavia le rivendicazioni di comunanza di beni e uguaglianza di godimento da parte delle classi povere: che si diffusero certo nel sec. IV, poiché ne risuona l'eco nelle Ecclesiazuse di Aristofane; dove tuttavia il problema investe solo la divisione di ricchi e poveri e non quella di padroni e schiavi. E in genere quest'ultima pare trascurata anche dai riformatori (Falea e Ippodamo), che poi dello stesso problema della disuguaglianza di ricchi e poveri cercano la soluzione piuttosto in un livellamento di fortune che in una socializzazione. Questa è bensì adottata da Platone, ma senza nessun rapporto col problema sociale delle classi misere; che appare presente invece a Senofonte, quando propone che lo stato assuma il compito di provvedere alla sussistenza di tutti i cittadini, ma usando gli schiavi come bestie da lavoro.

Forse allo stesso problema sociale delle classi povere si collega taluno dei romanzi utopistici antichi; non la descrizione della terra di Merope nelle Filippiche di Teopompo, ma forse la Cronaca sacra di Evemero e più la Città del Sole di Giambulo, che, con la sua completa organizzazione comunistica, associata all'obbligo del lavoro per tutti e alla regolazione sociale di esso, mostra di aver superato l'antitesi di liberi e schiavi; e ha dato così il modello non solo a costruzioni utopistiche moderne da More e Campanella in poi, ma forse anche a qualche tentativo rivoluzionario antico, imperniato sulla rivolta degli schiavi.

Senza dubbio nelle feroci e sanguinose lotte di classi, da cui (come dicono Platone e Aristotele, e ripetono Fustel De Coulanges e altri storici moderni) ogni città greca è divisa quasi in due città o in due campi nemici di ricchi e di poveri, questi ultimi, cui più volte si associano anche gli schiavi, mirano generalmente alla confisca delle proprietà solo per operarne una ripartizione. Tale il programma e l'azione della rivolta di Megara (sec. VII?) e dei moti analoghi ad Atene (però assai attenuati e parziali) al tempo di Solone, a Corcira e a Samo (sec. V), a Chio, dove intervengono (come già ad Argo e a Samo) anche gli schiavi; tale il programma delle rivoluzioni tentate a Sparta da Cinadon (sec. IV), da Agide e Cleomene, da Nabighi (sec. III), e della rivolta di Agatocle a Siracusa (sec. III), ecc. Anche a Roma la riforma attribuita a Servio Tullio è del tipo di quella di Solone ad Atene: abolizione di debiti e spartizione di terre; e le serie di lotte sociali fra ricchi e poveri, patrizî e plebei, che travagliano per secoli la repubblica, tendono con la rivendicazione della legge agraria sempre a spartizione di terre: ideale di piccola proprietà e non di socializzazione.

Bisogna arrivare alle sanguinose guerre servili per trovare, dopo la grande rivolta di schiavi capeggiata da Eunoo in Sicilia, levata nel 133 a programma di rivoluzione di schiavi da Aristonico in Asia Minore, l'idea, attinta forse all'utopia comunistica di Giambulo, di una Città del Sole, cioè di uno stato che dovesse realizzare l'ideale della giustizia e dell'uguaglianza in un'organizzazione a tipo comunistico. Nella successiva rivolta di schiavi in Sicilia, capeggiata da Salvio e da Atenione (104 segg.), non appare proclamato un programma teorico, ma il provvedimento di Atenione, di destinare una parte dei ribelli all'agricoltura, per assicurare la sussistenza e resistenza comune, ci mostra attuato un sistema sul tipo del comunismo bellico di Lipari. E forse a idee analoghe si è ispirata poi, nella maggiore e ultima rivolta di schiavi, che prende nome da Spartaco (73-71), la propaganda che un frammento di Sallustio dice fatta fra gli schiavi e il proletariato, invitando alla creazione di uno stato nuovo, in cui giuste leggi assicurassero un'esistenza felice a tutti. In ciò può trovarsi una giustificazione parziale della successiva trasfigurazione di Spartaco a simbolo di rivoluzione proletaria.

Ma in queste rivolte servili, dove i capi appaiono di origine orientale e animati da misticismo profetico, operano forse ispirazioni analoghe a quelle del profetismo e messianismo ebraico, di cui poi diventa erede il cristianesimo.

Socialismo giudaico e cristiano. - Nelle comunità profetiche, che appaiono per la prima volta in I Sam., X, 5, vige lo spirito d'uguaglianza e di comunanza, che diventa fra i Recabiti divieto di proprietà privata (Gerem., XXXV, 7), e che più tardi si esprime anche in una violenta polemica contro i ricchi, giudicati sfavorevolmente, e in difesa dei poveri cui è promesso il sole della giustizia. Quest'antitesi si prolunga non solo nei Salmi, che pure promettono agli umili la rivincita sui malvagi nel regno eterno futuro, ma nella letteratura apocrifa degli ultimi due secoli a. C. si sviluppa nella condanna della divisione di ricchi e poveri, contraria al volere di Dio, che ha dato la terra in comune. Tornerà però il regno di Dio: "e la terra sarà comune a tutti e non ci saran più muri o frontiere... e non ci saran più poveri né ricchi, né tiranni né schiavi, né grandi né piccoli, né re né signori, ma tutti saranno uguali" (Orac. Sibill., II, 320 segg.). Analogo ideale nel Libro di Enoch, che alla pace luminosa promessa ai miseri contrappone tremendi castighi per i ricchi.

Ora queste visioni apocalittiche si ispirano certo a un ascetismo religioso, esaltando la povertà come condizione per la salvezza eterna, e la comunanza come distacco dallo spirito di cupidigia e sopraffazione; ma sono anche eco delle esigenze dei poveri, aspiranti a giustizia, uguaglianza e benessere: e sono in rapporto con quelle aspettazioni messianiche, che l'ebraismo postbiblico congiunge talvolta con la ricorrenza dell'anno sabatico (periodico condono dei debiti). Appare qui la caratteristica, che si rinnova poi nel millenarismo cristiano, di attendere da un intervento divino e non da un'azione rivendicatrice degli oppressi la soddisfazione delle loro esigenze. D'altra parte non manca nella letteratura ebraica la rivendicazione del giusto salario al lavoratore, che troviamo nell'Ecclesiaste (XXXIV, 26), parificante chi tolga a un uomo il pane guadagnato col suo sudore a chi assassini il suo prossimo. E non vi mancano espressioni del rispetto per il lavoro, a cui, dice Giobbe (V, 7), l'uomo è nato come l'uccello al volo. E di lavoro e religiosità insieme è fatta la vita delle comunità esseniche, attuanti il principio della comunione dei beni. Sull'esempio di esse e delle antiche comunità profetiche si costituiscono poi le prime comunità cristiane e più tardi le monastiche.

Ma nel cristianesimo si rinnova anche l'esaltazione della povertà come sola condizione che rende degni del regno dei cieli, il cui ingresso è più difficile ai ricchi, che quello della cruna di un ago a un cammello. I ricchi non hanno ascoltato il precetto di dare ai poveri, e peggio (dice l'Epistola di S. Giacomo) sono rei di accaparramento e di sfruttamento dei lavoratori, derubati del loro salario: "E le grida dei vostri mietitori son giunte agli orecchi del Signore".

Ora questi echi di voci delle classi lavoratrici e misere in genere si ripercuotono poi naturalmente anche nei Padri della Chiesa. La messa in comune dei beni, esaltata da San Giustino, è da Tertulliano associata all'idea del diritto della natura, madre comune, e da S. Cipriano all'affermazione che Dio ha creato tutto per uso comune e nessuno dev'essere escluso. S. Basilio accentua l'idea, mostrando che le bestie, meno crudeli degli uomini, godono in comune i prodotti naturali, e solo fra gli uomini il bene comune è considerato suo proprio da chi prima l'ha usurpato, come un brigante: ma il suo tesoro resta costituito di gemiti e lacrime dei poveri; e perciò il Vangelo condanna non chi ha preso, ma chi non ha dato. Analoghe idee in S. Gregorio Nazianzeno, in S. Ambrogio, in S. Gregorio Magno: la natura ha creato il diritto comune, l'usurpazione quello privato; la terra appartiene a tutti; perché dunque arrogarsene la proprietà privata? "La proprietà privata (rincalza S. Giovanni Crisostomo, Homil. XII, in I Tim.), ha sempre origine in delitti o ingiustizie. Risalendo la linea delle successioni si trova sempre un inizio in cui l'iniquità è sorgente d'ogni proprietà"; e l'iniquità non si cancella se non mettendo i beni in comune. Alla viva dipintura delle sofferenze dei poveri (che pure non impediscono l'apologia della povertà, porto sicuro, vergine santa e pia) il Crisostomo aggiunge l'affermazione che i poveri, in quanto lavoratori, sono l'elemento essenziale della società: quindi la comunanza che egli propugna non è (come in altri Padri) comunità di mendicanti, ma di lavoratori, quale vediamo, sull'esempio degli esseni, attuata dai monaci seguaci di Pacomio in Egitto. E la coscienza del diritto del lavoratore, facendosi strada nel pensiero dei Padri, arriva in S. Ireneo a giustificare l'operaio, che avendo accresciute le ricchezze del padrone se ne appropri una quota, come fecero gli Ebrei nella fuga dall'Egitto.

Certamente non mancano né contraddizioni in questi Padri, né in altri (Lattanzio, Teodoreto, Clemente Alessandrino, S. Agostino) attenuazioni o anche contrarietà a talune di queste idee, specie dopo che il cristianesimo è divenuto religione ufficiale; e in genere nel pensiero di tutti loro la città celeste predomina su quella terrena. Ma tutto ciò non toglie che i Padri offrano al pensiero socialistico posteriore spunti e germi importanti, di cui esso non mancherà di valersi.

Anche correnti eretiche dei primi secoli hanno offerto simili germi: lo gnosticismo con Carpocrate ed Epifane (sec. II), affermanti che la giustizia di Dio non è che l'uguaglianza nella comunità, e che la legge insegnando agli uomini a parlar del mio e del tuo ha impedito l'ugual godimento di ciò che era comune a tutti, ed è violazione manifesta della legge naturale; il pelagianismo (sec. V) che nel libro Della ricchezza combatte chi attribuisce a Dio la disuguale ingiusta ripartizione, che è opera solo della malvagità umana.

Ma già dal sec. I il cristianesimo aveva ripreso il motivo ispiratore del Messianismo ebraico, traendone il millenarismo, che si svolge in forme varie, fra cui anche il montanismo (v.), specialmente diffuso nel sec. II d. C. Il millenarismo è fede nell'avvento di un millenario regno temporale di Cristo, che preceda il giudizio finale: regno di abbondanza e di felicità per i giusti (che son poi i miseri) che resusciteranno da morte. Questa fede si diffonde fra le classi umili, agognanti al compenso dei patimenti attuali; e anche quando il repudio di S. Girolamo e S. Agostino la fa scomparire dalle dottrine dei Padri, resta fra le plebi, come corrente sotterranea, pronta a rifluire impetuosa in movimenti di comunismo mistico, per tutto il Medioevo, e fin nell'età moderna. Così lungo il Medioevo, nelle aspirazioni e rivendicazioni delle classi sofferenti, confluiscono ora separate ora congiunte due correnti: il rovesciamento dei valori che esalta la povertà, condannando la ricchezza; e l'aspettazione millenaria del regno dei giusti, viventi o risorti, che compenserà i reietti d'oggi in un felice stato di uguaglianza e comunanza.

Di qui i moti (per lo più ereticali) in cui il dissidio sociale di ricchezza e povertà si trasfigura in dualismo religioso di materia e spirito, o di città terrena e celeste. Moti sociali e religiosi insieme sono quindi tutte le eresie neomanichee dilaganti nel sec. XI ovunque con varî nomi: catari, bogomili, bulgari, pubblicani, albigesi, tolosani, patarini, tixerandes, ecc., che nel ripudio di ogni autorità terrena e di ogni potere repressivo, nella condanna della proprietà come peccato, nella professione di povertà e ascetismo comunistico, nella riduzione del lavoro entro i limiti necessarî ad aiutare malati e vecchi, e talora negli stessi nomi (patarini=straccioni, tixerandes=tessitori) rivelano la condizione sociale e lo spirito rivoluzionario dei loro aderenti. Ciò appare anche nel sec. XII con gli arnaldisti o setta dei poveri (Secta Lumbardorum); e nel sec. XIII con gli apostolici seguaci di Gherardo Segarelli e di fra Dolcino in quella rivolta comunistica, che risuscitava le aspettazioni millenaristiche. Vero è che queste aspettazioni nel sec. XII s'eran spiritualizzate nel moto degli spirituali o gioachimiti, seguaci dell'Evangelo eterno; ma l'attesa del futuro regno dello spirito, liberatore dal male e dal dolore, attraeva a sé le masse dei miseri e dei reietti in quanto rispondeva alle loro aspirazioni di uguaglianza e comunanza. E analoga spiegazione ha la vastità e intensità del moto francescano fra le classi più misere: moto pauperistico, che prepara all'imminente regno dei cieli con lo spirito di rinuncia a ogni possesso, d'amore e umiltà, di uguaglianza vera che sta nel sentirsi fratelli tra fratelli, non primi ma minores (plebe), cercando il sostentamento nel lavoro prima che nella mendicità.

Certo queste forme mistiche non sono le sole in cui si esprimano le aspirazioni sociali delle classi oppresse, che talora scoppiano in rivolte sanguinose come la Jacquerie del 1358; o in tentativi di scioperi e costituzioni sindacali per rivendicazioni economico-politiche, come ad opera dei Ciompi di Firenze fra il 1345 e il 1378-82; ma per lo più i moti sociali sono associati a quelli religiosi, come s'è visto per i catari e albigesi, per gli apostolici, ecc., e come si vede anche nel sec. XIV in Inghilterra con la rivolta di John Ball (v.), rivendicatore dei bisogni di proletarî e servi della gleba, e insieme seguace di Wycliffe; nel XV e XVI in Germania con la parte avuta dagli hussiti nella Lega della Scarpa e dagli anabattisti nella guerra dei contadini e nel tentativo comunistico di Münster. L'anabattismo o misticismo escatologico-sociale di Münzer e Storch, esteso poi da Hoffmann ai Paesi Bassi, riprende e svolge motivi catari e gioachimiti, accentuando la loro tendenza al comunismo: di qui la sua naturale alleanza col moto dei contadini, insorgenti contro l'oppressione economica e giuridica di servitù della gleba, imposte, decime, corvées, usura, e contro il disprezzo e la derisione delle classi dominanti, con l'esaltazione del "pover uomo" quale vero cristiano, con le rivolte della Bundschuh, e infine con la vasta guerra del 1525, cui si unisce il proletariato cittadino, e che arriva a decise affermazioni comunistiche. Sconfitto con Münzer, il moto riprende col tentativo di Münster (1534-35) rovinato dalla folle tirannia di Giovanni di Leida; sgominato, si trasforma nella setta degli anabattisti silenziosi o mennoniti, che si spargono in Europa, in Asia e America, con comunità comunistiche persistenti fino alla guerra mondiale (1914). Ma in queste e simili comunità isolate (v. comunismo) resta quasi sola l'esigenza ascetica, esulandone la questione sociale; che si mantiene invece nelle correnti dei livellatori, dei quaccheri, degli egualitarî, proclamanti il ritorno alla natura, dei tolstoiani, ecc.

Il socialismo moderno. - Socialismo giuridico. - Le questioni sociali e rivendicazioni di classi oppresse e proletarie, travaglianti l'antichità e il Medioevo, van dunque ricordate contro l'opinione dei non pochi studiosi che dichiarano il socialismo sviluppo esclusivamente moderno, prodotto della doppia rivoluzione - politica e industriale - con cui nel sec. XVIII si passa dalla società feudale alla capitalistica. Nella stessa età moderna risalgono al sec. XVI non solo i moti contadini e proletarî già ricordati; ma anche, col nascente industrialismo inglese, l'inizio del processo di proletarizzazione che Th. More (Utopia, 1516) dipinge a fosche tinte. E nel secolo seguente dalla riflessione sui problemi politico-sociali vediamo germinare con il Locke concetti che diverranno poi cardini del socialismo giuridico. Il Locke afferma infatti: che ogni uomo, in quanto esiste, ha diritto alla vita e ai mezzi di sussistenza; che avendo perciò bisogno del lavoro, ha diritto a esso e ai mezzi per compierlo; che dal lavoro (proprietà personale) nasce il diritto al suo prodotto, mentre l'appropriazione della terra, data in comune all'umanità, è lecita solo se ne resti in egual misura agli altri. Questi concetti trovano ulteriore sviluppo con A. Smith, nella dottrina della "libertà naturale" dell'uomo, e del dovere dello stato di mettere in atto i diritti universali umani, di libertà, lavoro e proprietà del prodotto di esso. Il diritto alla vita è proclamato fra i quaccheri da J. Bellers (1696) e altri; con W. Godwin (1793) si arriva poi al diritto al prodotto integrale del lavoro, e con Ch. Hall e W. Thompson si svolge la prima teoria del plus valore, con la deduzione dell'esigenza socialistica.

Ma già anche in Francia dal Rousseau in poi il seme delle idee lockiane veniva germogliando. Il Rousseau, dopo aver dichiarato (Discours) l'usurpazione privata madre di tutti i mali sociali, ammette bensì che lo stato, divenuto per il "contratto sociale" padrone di tutti i beni, conceda ai singoli un diritto, ma solo in quanto sia fondato sul lavoro: diritto al prodotto, e alla terra "jusqu'à la récolte, et ainsi d'année en année". Ma il Montesquieu, movendo pure dal Locke e prevenendo il Mably, aggiunge che sia "obbligation de l'état" assicurare a ogni cittadino la sussistenza, dando "aux uns les travaux dont ils son capables", agli altri l'educazione al lavoro. Ed ecco l'editto di Turgot (1776): "Dieu, en donnant à l'homme des besoins, en lui rendant nécessaire la ressource du travail, a fait du droit de travailler la propriété de tout homme, et cette propriété est la première, la plus sacrée et la plus imprescriptible de toutes". E diritto al lavoro per i validi, al soccorso per gli invalidi, sono affermazioni che tornano a risuonare più o meno decise in cahiers e voti del 1789, in discussioni e decreti della Costituente, della Legislativa e della Convenzione, accompagnandosi alla critica del contratto salariale, accusato di dare all'operaio il meno possibile della ricchezza prodotta dal suo lavoro. Si profila così, contro la legge di bronzo del salario, già presentita da Turgot, il germe del diritto al prodotto integrale del lavoro, e nelle discussioni delle tre assemblee rivoluzionarie tralucono confusamente e in embrione le conseguenze del diritto al lavoro, che C. Marx poi vedrà scaturir nette dalla riaffermazione del 1848: "dietro al diritto al lavoro sta la presa di possesso dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe lavoratrice associata, e l'abolizione del lavoro salariato, del capitale e del loro rapporto di scambio". Dai principî dell'89 così nasce e si sviluppa il socialismo giuridico, affiancandosi all'azione politica nell'ugualitarismo di Robespierre e Saint-Just e nella "cospirazione degli eguali" (1796) di Babeuf e F. Buonarroti. La prima netta affermazione della necessità che lo stato si assuma l'organizzazione del lavoro sociale è nel Fichte (Geschlossene Handelsstaat, 1800), come conseguenza del diritto al lavoro, da lui già proclamato nel Naturrecht. Il Fichte traccia bensì un sistema dispotico; ma il principio si sviluppa ben diversamente poi in Germania da Marlo a Lassalle e Menger. Ma già in Francia il Saint-Simon riaffermava l'obbligo dello stato di "assurer l'existence des prolétaires" col lavoro; e Fourier scriveva: "nous avons passé des siècles à ergoter sur les droits de l'homme, sans songer à reconnaître le plus essentiel, celui du travail, sans lequel les autres ne sont rien". E mentre la Société des saisons di Blanqui e Barbès (riprendendo l'opera di Babeuf e Buonarroti) e la Lega dei giusti imperniavano sul diritto all'esistenza il programma della rivolta del 1839, Louis Blanc traeva dal diritto al lavoro l'idea degli ateliers sociaux; che la rivoluzione del 1848 attuava con gli ateliers nationaux, dichiarando il lavoro unica proprietà del lavoratore, sicché il diritto a esso è universalizzazione del diritto di proprietà. Proudhon diceva appunto che tale diritto, da lui associato con quello al prodotto integrale contro l'esistenza di una rendita senza lavoro, si converte in diritto al capitale; e M. Barthe nell'Assemblea nazionale chiariva che esso implica un'organizzazione nazionale del lavoro, cioè tutta una riorganizzazione della società. E a questa già da tempo tendeva il cartismo in Inghilterra, movendo dall'affermazione del diritto al prodotto integrale del lavoro.

Sulla stessa via si poneva in Germania dal 1848 in poi K. G. Winkelblech (Carlo Marlo) con le Ricerche sull'organizzazione del lavoro, diffuse poi dallo Schaeffle, che contrappongono al monopolismo vigente un federalismo o sistema di collettivismo e di produzione corporativa, che garantisca a tutti il diritto all'esistenza, al lavoro, e ai frutti di esso. Ma in Germania, dove il diritto al lavoro è affermato anche da Bismarck nel 1884, la concezione giuridica del socialismo, delineata pure da Lassalle nel Sistema dei diritti acquisiti, ha il maggiore sviluppo con Anton Menger: le cui opere (Il diritto al prodotto integrale del lavoro; Lo stato socialista, ecc.) rappresentano la riduzione in termini giuridici del programma socialistico. La deduzione logica dei diritti all'esistenza, al lavoro, al prodotto integrale si svolge, mostrando la sua incompatibilità col sistema del profitto capitalistico e della proprietà privata dei mezzi di produzione: perciò il diritto al lavoro appare, come dice il Sorel, quale filosofia delle classi operaie e principio di sviluppo di un nuovo regime.

Socialismo politico-economico: classificazione delle forme. - Elementi e motivi di socialismo giuridico non mancano anche in altre forme di socialismo a prevalente carattere politico ed economico, cioè preoccupate soprattutto del fatto della questione sociale e delle forze (economiche, politiche, spirituali), dalla cui azione possa venirne la soluzione. Difficili a classificarsi, queste molteplici forme, in cui confluiscono elementi di varia natura, possono tuttavia utilmente distinguersi secondo l'orientamento che assumono rispetto allo sviluppo del processo storico. In questo senso già il Manifesto dei comunisti distingueva tre classi di programmi socialistici: reazionarî, conservatori, rivoluzionarî; che riflettevano rispettivamente gli atteggiamenti delle classi feudale e piccolo borghese (in decadenza), borghese capitalistica (trionfante) e proletaria (oppressa, ma ascendente). Altre forme certamente si sono sviluppate dopo il 1848: dal socialismo di stato e della cattedra all'anarchico, dal cristiano al socialdemocratico, dal riformistico al sindacalistico, dal gildismo al nazionalsocialismo, ecc.; ma permane la possibilità di distinguere le tre direzioni in cui si sono cercate le soluzioni del problema sociale e le forze cui affidarne l'attuazione: 1. direzione regressiva di restaurazione di forme e istituzioni del passato; 2. statica di conservazione dei quadri presenti, con riforme che ne assicurino la migliore rispondenza ai bisogni sociali senza intaccarne essenzialmente i principî fondamentali; 3. progressiva e radicale trasformazione innovatrice, la cui esigenza è fatta sentire attraverso una spietata critica e denuncia dei mali sociali: da talune correnti per contrapporvi perfetti disegni ideali (socialismo critico utopico); ma da altre ben più vaste per riconoscere e fare consapevoli le forze di classe cui è attribuito il compito di rovesciare la società presente e creare la nuova (socialismo critico pratico): sia che si ritenga il trapasso attuabile gradualmente e per conquiste continue (riformismo), sia per un risolutivo atto di forza del proletariato (rivoluzionarismo), che prenda possesso dei mezzi di produzione e di scambio e ne instauri la gestione sociale per i bisogni sociali. Ma s'intende che anche una classificazione di questo genere vale solo a fissare punti d'orientamento; e che le forme concrete si presentano spesso miste di elementi delle varie classi, e ogni tipo si differenzia in molteplici sfumature di singole correnti o dottrine, che si avvicinano or più all'una or più all'altra classe.

Correnti socialistiche di restaurazione e di conservazione. - Le forme, che il Manifesto combatte come reazionarie, sono il socialismo feudale, il piccolo borghese e il vero socialismo tedesco. Il socialismo feudale, che Marx vedeva allora personificato forse in H. Wagener, trova più tardi la sua tipica espressione in Bismarck, auspicante contro l'industrialismo il ritorno alle corporazioni medievali e un programma agrario per estirpare miseria e mendicità. Ma aveva seguaci anche fra i legittimisti francesi; e in Inghilterra nel torysmo sociale di Disraeli e lord Ashley promotore dei bills sulle dieci ore e sul lavoro dei fanciulli; e aveva un potente animatore in Carlyle (Chartism, Past and present), le cui descrizioni delle miserie proletarie, generate dal mammonismo industriale, sono largamente utilizzate da Engels. Affini a questo socialismo feudale sono più tardi in gran parte le varie forme del socialismo cristiano, sia evangelico, sia cattolico, anch'esse insorte contro il mammonismo dell'economia manchesteriana, che esigeva il libero sviluppo della concorrenza (laisser faire) anche nei riguardi del contratto di lavoro fra capitalisti e salariati. Solo esigue correnti di socialismo protestante (Gilda di S. Matteo in Inghilterra, seguaci di H. George in America) propugnano la socializzazione della proprietà: la maggior parte, da Ch. Kingsley e F. D. Maurice, seguaci di F. Lamennais in Inghilterra, a Ch. Gide in Francia, a Todt e Stocker in Germania, ecc., sono soprattutto antimanchesteriani, predicatori di carità e di legislazione sociale, cooperativisti e corporativisti; e i Tedeschi anche ferocemente antisemiti, preparando così l'essenziale orientamento del recente nazionalsocialismo. Il socialismo cattolico, poi, si differenzia dal protestante nell'appoggiarsi alla gerarchia della Chiesa; ma quando anche con Doellinger, Kolping, Monsignor Ketteler, Moufang, ecc., accetta da Lassalle, oltre alla legge bronzea dei salarî, il programma delle cooperative sussidiate, è ben lontano dall'affidarlo all'azione d'assalto del proletariato, e tenta di assegnarlo all'iniziativa di carità tra i fedeli, prima di indursi a propugnare l'intervento dello stato. E chiede il ritorno alle corporazioni medievali con Fr. Hitze, R. Meyer, R. Volgesang, H. De Mun, Ch. Latour Dupin, ecc.; la legislazione del lavoro con altri (fra cui L. Winterer e G. Decurtins, che la vogliono internazionale); il credito ai piccoli agricoltori con Schorlemer Alst; e associa alla difesa del lavoro l'antiparlamentarismo con Latour, l'antisemitismo con R. Meyer e i cristianosociali austriaci, rimasti poi sempre sulla stessa linea. Arriva bensì con E. Manning e col Lynch ad affermare il diritto all'esistenza e il diritto al lavoro; e con propagandisti di ogni nazione a promuovere un sindacalismo cattolico (giallo); ma vuol contenere il movimento operaio in forme e limiti compatibili con la proprietà privata e con l'autorità della Chiesa, sconfessandone e reprimendone deviazioni e attitudini rivoluzionarie, che pure dopo la guerra mondiale sono insorte anche nel suo seno. Così il socialismo cristiano presenta nelle sue varie forme elementi di socialismo feudale e di socialismo piccolo borghese.

Ma di quest'ultimo il Manifesto vedeva il tipo in Sismondi seguito da Buret (Misère des classes laborieuses, 1842), da Vidal (Repartit. des richesses), da Pecqueur (Intérêts du commerce). Essi hanno lumeggiato gli effetti dell'industrialismo meccanico, la concentrazione, la sovraproduzione e le crisi, la proletarizzazione dei ceti medî, la miseria crescente, la guerra industriale e la dissoluzione di costumi e istituzioni, e hanno influito così potentemente su Marx ed Engels. Ma cercavano poi i rimedî a ritroso del processo economico: nella ricostituzione delle piccole proprietà e dell'obbligo feudale di assicurare la vita agli operai.

Tra le forme reazionarie Marx poneva anche il socialismo vero o tedesco di M. Hess, K. Grün, H. Kriege, ecc., discepoli di L. Feuerbach; della cui esigenza di una riconquista da parte dell'uomo dell'"essenza umana alienata", si faceva eco anche Heine rivendicando agli uomini il pane come diritto divino dell'umanità. Era il socialismo dell'amore, sentimentale, fidente negli appelli al cuore e nella possibilità di una rivoluzione tutta pace e concordia; che Marx accusava di complicità con la reazione, perché toglieva agli operai lo spirito di lotta e l'esigenza di riforme democratiche.

Del socialismo conservatore o borghese sorprende di vedere nel Manifesto dato come campione Proudhon, che appartiene essenzialmente al socialismo anarchico. I campioni d'allora erano invece M. Chevalier, P. Rossi, B. Ch. Dunoyer, J. A. Blanqui, e altri economisti, pensosi bensì del problema delle classi lavoratrici, ma cercanti a esso soluzioni conservatrici (istruzione professionale, previdenza, limiti all'imprudenza matrimoniale, partecipazione agli utili e simili). E un'altra forma ne offriva Fr. List, che per il miglioramento degli operai voleva trasformazioni non politiche ma solo economiche, compatibili col capitalismo e non intaccanti il rapporto fra capitale e salario. Non erano ancora apparsi nel '48 i nomi di socialismo della cattedra e di socialismo di stato. I fondatori del socialismo della cattedra, W. Roscher e B. Hildebrand, avevano bensì già affermato nell'economia il relativismo del metodo storico contro il manchesterismo, che nella concorrenza vedeva una legge naturale, e nel libero scambio la soluzione di ogni problema. Ma solo nel 1872, al congresso di Eisenach, il gruppo si costituiva con L. Brentano (ala destra, che si rifà ad A. Smith), Samter (ala sinistra, che s'ispira a St. Mill), Schmoller, Held, Scheel, A. Wagner, G. Fr. Schoemberg e altri fra i maggiori economisti tedeschi, che all'individualismo, sorgente di tutti i mali, oppongono un socialismo che è solo affermazione del dovere dello stato e della società di mettere freni al bellum omnium contra omnes: con legislazione sociale, assicurazioni, mutuo soccorso, Trade Unions, limiti alla proprietà e alla rendita. L'ideale del Kulturstaat, che si preoccupi dei bisogni materiali ed etici delle classi lavoratrici, rende pertanto il socialismo della cattedra affine al socialismo di stato: e non per nulla lo Smith è considerato precursore di entrambi, oltre che del socialismo giuridico, cioè delle dottrine del Recht- Kultur- und Wohlfahrtstaat, attribuenti allo stato il compito di attuare i diritti universali umani, promovendo la cultura e il benessere di tutti. Da Smith, attraverso Ricardo, si svolge l'indirizzo degli economisti inglesi che va da J. R. Mac Culloch a Stuart Mill e H. Sidgwick, che propugnano tutta una complessa azione statale diretta ad assicurare al popolo le condizioni di un'esistenza umana, degna di una natura umana non mutilata; a impedire l'abbassamento del tenore di vita, dei gusti e bisogni delle classi lavoratrici: massimo male, contro cui si proclama l'utilità sociale degli alti salarî e si chiedono legislazione del lavoro, riconoscimento delle Trade Unions, assunzione statale delle imprese cui sia insufficiente l'iniziativa individuale.

Tuttavia, per quanto in Inghilterra con H. George e altri si diffonda l'idea della nazionalizzazione, e in Belgio con E. de Laveleye, si conferisca allo stato il compito di stabilire fra gli uomini un'uguaglianza proporzionata al merito personale, la vera patria del socialismo di stato è la Germania, dove Fichte per primo l'aveva teorizzato, e J. K. Rodbertus e il suo discepolo A. Wagner (consigliere di Bismarck) ne svolgono le dottrine. Rodbertus afferma il diritto al prodotto integrale del lavoro, e contro la legge di bronzo vede unico rimedio la creazione di uno stock statale di terre e capitali, dando bensì parte del prodotto a proprietarî e capitalisti, ma dividendo il resto fra i lavoratori in proporzione del loro lavoro. A. Wagner svolge tutto un programma di politica sociale e di nazionalizzazione, per modificare la distribuzione della ricchezza a favore dei lavoratori, facendo partecipare tutti all'accrescimento della produttività sociale. Ma egli dichiara suo fine troncare le radici alle agitazioni socialdemocratiche; contrappone il principio d'autorità a quello di libertà, vuole uno stato forte o una monarchia sociale; e con ciò si mette agli antipodi di Lassalle, che si collegava bensì in parte a Rodbertus, cercando la soluzione del problema sociale nelle cooperative sussidiate dallo stato, ma subordinava tale disegno alla conquista operaia dello stato per mezzo del suffragio universale; e segnava con ciò il passaggio dal socialismo di stato al democratico, ossia a una forma di socialismo critico pratico.

Correnti socialistiche di trasformazione radicale. - 1. Il socialismo critico utopico. - Alla preparazione teorica della multiforme corrente del socialismo critico pratico peraltro contribuisce notevolmente anche il precedente socialismo critico utopico (prima metà del sec. XIX). Esso trae già l'esigenza di una radicale trasformazione della società, per la creazione di un nuovo mondo umano, da una critica penetrante e spietata dei mali che travagliano la società vigente; ma crede che dallo stesso contrasto profondo fra il fosco quadro delle miserie attuali e l'attraente disegno di un ordinamento ideale, rispondente alle esigenze della natura e della razionalità, del diritto e del sentimento umano, debba scaturire tale forza ineluttabile di persuasione, che tutta l'umanità, una volta illuminata, debba convertirsi, a cominciare dalle stesse classi dominanti. Al realismo critico si sovrappone così l'illusione utopistica, come già negl'illuministici utopici del sec. XVIII: per l'attuazione dei bei quadri fantastici si confida nella ragione umana, nel bisogno universale di armonia, nella consapevolezza del vero interesse comune, che producano una pacifica conversione di tutti. Ben lungi quindi dal pensare a un travaglio storico di azione rivoluzionaria, a una pressione dinamica di classi insorgenti a rivendicare diritti e bisogni, ben lungi cioè dal cercare nel proletariato il fulcro e l'elaterio del processo di trasformazione sociale, gli utopisti vedono anzi nella lotta un elemento perturbatore; e proclamano o la loro indifferenza alla politica come i fourieristi, o l'avversione ai gridi di guerra sociale come i sansimoniani, o la contrarietà al cartismo, come gli owenisti. L'azione pratica essi la concepiscono invece come attuazione di modelli sperimentali, il cui esempio debba esercitare la più efficace propaganda e opera di conversione: la famiglia nuova dei seguaci di Saint-Simon (1760-1825) capeggiati da A. Bazard e P. B. Enfantin, la home colony di R. Owen (1771-1858) tentata a New Hanmiony e altrove, i falansterî di Ch. Fourier (1772-1837) attuati per iniziativa di V. Considérant nelle molteplici falangi dell'America Settentrionale, l'Icaria di E. Cabet (1788-1856) pure tentata in America.

Tuttavia l'importanza storica di questo utopismo non va sottovalutata. Di fronte allo scatenarsi dei malanni sociali e delle miserie prodotte dalla forza travolgente del capitalismo industriale, questi utopisti non si sentono presi dalla nostalgia di ritorni al passato (artigianato o economia rurale, distrutti dall'industria meccanica) come le molteplici correnti di socialismo reazionario; ma tengono ferma la fede nel progresso, asserita con vigore da H. Saint-Simon e più da R. Owen, che nel lavoro cooperativo, aiutato dai progressi della scienza e delle macchine, vede il mezzo di arrivare a produrre tanta ricchezza, da poter non solo sopperire a tutti i bisogni e desiderî umani, ma dare tale abbondanza in più da far cessare ogni desiderio di accaparramento individuale, fonte di disuguaglianze e di lotte.

Con Saint-Simon e con Fourier si delineano già le due tendenze antagonistiche del socialismo posteriore: centralismo statale e decentralismo di gruppi, che si diramano poi ciascuna in doppia direzione, sboccando l'una nello statalismo della socialdemocrazia (da Lassalle in poi) e nel comunismo autoritario e dittatoriale (Russia), l'altra nell'anarchismo (da Proudhon a M. Bakunin e P. Kropotkin) e nel sindacalismo e gildismo.

Owen da parte sua non solo traccia con l'esempio di New Lanark le grandi linee della legislazione sociale posteriore, ma nella sua visione teorica sposta il centro del problema dal concetto del cittadino portatore di diritti politici a quello del lavoratore nell'esercizio del suo lavoro, rivendicante la libertà, l'autogoverno e l'autocontrollo delle maestranze contro la schiavitù economica e la soggezione al padronato. Al problema politico ancora in primo piano egli sostituisce il problema economico: anche falliti i suoi tentativi pratici, egli cerca nelle Trade Unions i gruppi da trasformare in associazioni di produttori. Precorre così non solo i disegni di L. Blanc, di Lassalle e dei Christian Socialists inglesi, ma più specialmente il socialismo gildista, di cui anticipa l'esigenza dell'autogoverno e autocontrollo delle organizzazioni di produttori, cioè quell'esigenza di libertà e dignità umana per il lavoratore, che è fondamentale in tutto il socialismo critico pratico.

2. Il socialismo critico pratico e l'azione di classe del proletariato: il Manifesto dei comunisti e il marxismo. - Il socialismo critico pratico nasce dalla confluenza delle correnti teoriche di critica della società capitalistica (che costituiscono l'elemento vitale nelle varie forme di socialismo svoltesi nella prima metà del sec. XIX) con le correnti di prassi storica del proletariato, insorgente con istintiva spontaneità contro la miseria e oppressione della sua condizione di classe. Il proletariato è figlio del capitalismo industriale, che con l'introduzione delle macchine instaura la produzione collettiva nelle grandi officine, spodesta i piccoli produttori autonomi, tende sotto l'aculeo della concorrenza a sostituire il lavoro di donne e fanciulli a quello degli uomini e abbassarne i salarî, crea l'armata di riserva dei disoccupati, riduce il lavoratore da uomo soggetto di diritti a merce forza di lavoro, sottoposta alle leggi della domanda e dell'offerta; ma nel tempo stesso addensa negli opifici masse di lavoratori, che l'assillo delle comuni sofferenze e della comune oppressione e incertezza di vita affratella nella solidarietà dei malcontenti e delle aspirazioni a un'esistenza umana. La coscienza di classe comincia così a destarsi, insorgendo dapprima contro le macchine (luddismo), e in rivolte incomposte (Lione 1831, Slesia 1844); ma volgendosi ben presto a rivendicazioni politiche considerate mezzo di emancipazione economico-sociale: con lo spenceanismo (1812-20) e poi col cartismo (fin verso il 1850) in Inghilterra, col neobabuvismo e blanquismo delle società segrete in Francia dal 1832 al 1839, con i moti del 1848 in tutta Europa. Particolare importanza ha il cartismo, che mostra come il proletariato, sotto la pressione dell'esperienza, giunga istintivamente all'affermazione spontanea dell'esigenza di affrancamento dal giogo del capitalismo.

Le rivendicazioni politiche sono per il cartismo mezzi per i fini sociali cui esso tende con decisa volontà di classe, che arriva già anche all'idea dello sciopero generale. Nell'importante letteratura economica eterodossa, contemporanea al movimento cartista e messa più tardi in evidenza da Marx (P. Ravenstone, Th. Hodgskin, W. Thompson, J. Gray, W. Godwin, ecc.) e nell'abbondante fioritura di articoli e opuscoli anonimi in cui il movimento si esprime, si affermano le idee del diritto al lavoro e al prodotto integrale, la teoria del plusvalore sottratto al lavoratore a costituire la rendita e il profitto del capitalista, le aspirazioni alla socializzazione della terra, al controllo politico del paese e a quello economico dei mezzi di produzione industriale da parte dei lavoratori associati (anticipazione del sindacalismo); mentre si rivelano già, con la distinzione di un partito della forza morale e uno della forza fisica, le due tendenze, riformistica e rivoluzionaria, il cui contrasto si svolgerà poi in tutta la storia ulteriore del movimento socialistico.

Così il cartismo e le agitazioni proletarie di altri paesi intorno al 1848 costituiscono il ponte di passaggio dall'antecedente socialismo critico utopico al successivo socialismo critico pratico, portando sulla scena le forze delle classi lavoratrici, per le quali non è questione di tipi ideali di società, in cui nome far appello alla ragione o all'umanitarismo delle classi privilegiate, ma di bisogni urgenti e d'interessi proprî, di rivendicazioni delle proprie esigenze umane conculcate e della propria emancipazione dalla condizione di merce, per cui scendere in lotta. Il Manifesto dei comunisti (1848), che è la prima decisa affermazione del socialismo critico pratico, scolpisce nel modo più vivo la trasformazione avvenuta in tal senso, presentando il grande dramma storico della formazione del proletariato, che pur si compie attraverso l'infierire delle miserie più disumane, non come un male su cui versare lacrime o balsami di progetti umanitarî, ma come un processo storico che genera da sé il proprio risolvente. Da massa sofferente il proletariato si trasforma per il Manifesto in forza attiva, creatrice della storia futura: la concezione critico-pratica della storia si afferma, sotto la suggestione dell'iniziata prassi proletaria. Tutta la storia si delinea come lotta di classi, che al momento presente si concreta nell'antitesi di borghesia e proletariato: tutte le grandi trasfomiazioni storiche appaiono effetto della progressiva espansione delle forze produttive, che a un certo punto devono spezzare l'involucro delle forme di proprietà in cui già si erano sistemate, cioè quando tali forme diventino impedimento al loro sviluppo ulteriore. Così la borghesia, che ha infranto l'involucro feudale, creando forze produttive mai prima sognate, si trova ora nella condizione del mago che ha evocato potenze sotterranee che non può più dominare. Ha reso internazionali la produzione, il consumo, la civiltà; ha sostituito alla produzione individuale la produzione socializzata; ma le grandi crisi periodiche di sovraproduzione via via più gravi mostrano che le sfugge il dominio dell'economia. Nel tempo stesso la contraddizione fra proprietà privata e produzione socializzata si rivela nel conflitto col proletariato, che è pur creazione dello stesso capitalismo industriale, che porta con sé la concentrazione crescente dei mezzi di produzione e della popolazione. Le masse operaie addensate dall'industria, accomunate nelle sofferenze e nelle miserie, sotto la pressione della legge ferrea del salario, che le riduce a strumenti di lavoro, si sentono accomunate nel bisogno di lotta: attraverso le stesse sconfitte la coscienza di classe si forma, si educa, si rinsalda; giunge alla persuasione che l'emancipazione della classe proletaria, l'eliminazione delle crisi, lo sviluppo ulteriore delle forze produttive esigano che la contraddizione fra produzione sociale e appropriazione privata si risolva nella socializzazione dei mezzi di produzione. Il processo storico nel suo stesso sviluppo genera così il proprio risolvente; il proletariato non può spezzare le sue catene se non spezzando le catene di tutti, sopprimendo il dominio della merce sull'uomo, eliminando dominî e antagonismi di classe con togliere di mezzo le classi: così "al posto della vecchia società borghese, divisa in classi cozzanti fra loro, subentra un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti".

Col Manifesto del 1848 Marx (1818-83) ed Engels (1820-95) hanno tracciato la direttiva essenziale di tutta la loro successiva opera dottrinale e azione pratica: dal Capitale e dall'Antidühring alla miriade di scritti minori, dalla fondazione dell'Internazionale all'esercizio di una funzione direttiva su tutto il movimento socialistico dei varî paesi per lunga serie di anni, la loro fervida attività è sempre sviluppo di quelle linee maestre. Con loro il socialismo si fonda su quella concezione critico-pratica della storia che prende il nome di materialismo storico (v. materialismo, XXII, p. 563 seg.), che alle radici di tutte le vicende e i processi di trasformazione cerca la forza viva alimentatrice nei bisogni sociali, nell'azione essenziale delle forze produttive in relazione con le forme di struttura sociale e con i rapporti fra le classi; che riconosce la continuità dello sviluppo attraverso il moto dialettico delle antitesi storiche, per cui l'attività sociale tramuta le condizioni oggettive mutando se stessa (rovesciamento della prassi); e attraverso tale visione del processo storico può giungere a una previsione morfologica (secondo l'espressione del Labriola) qual'è quella del socialismo. Previsione di una necessità storica (onde il socialismo marxistico ama dirsi scientifico), subordinata a una doppia serie di condizioni, oggettive e soggettive, che concorrono a spingerla alla sua attuazione. Condizioni oggettive: il crescere progressivo della produttività che offre bensì i mezzi materiali per una partecipazione di tutti al benessere civile, ma si trova invece a generare crisi sempre più rovinose per la contraddizione fra produzione sociale e appropriazione privata; onde scaturisce la necessità della socializzazione dei mezzi di produzione (preparata del resto dalla loro concentrazione crescente) e della gestione sociale ai fini non più del profitto capitalistico, ma della soddisfazione dei bisogni sociali. Condizioni soggettive: formazione e sviluppo della coscienza di classe del proletariato internazionale, che fa sentire a esso l'esigenza della sua missione emancipatrice e gli fa conquistare la maturità all'esercizio di essa attraverso la sua stessa diuturna azione storica. La coscienza di classe si risveglia e si orienta nella critica della società capitalistica, nella scoperta del plusvalore, che caratterizza il rapporto salariale, e nella ribellione spirituale contro la riduzione del lavoratore a merce. La teoria del plusvalore sostituisce dal Capitale in poi (per influsso degli economisti contemporanei al cartismo) la teoria della legge bronzea del salario, che era nel Manifesto, e resta poi in Lassalle: ma spiegando la rendita e il profitto capitalistico come appropriazione di lavoro non pagato, essa sostituisce alla visione del contratto di lavoro, propria dell'economia borghese, la visione propria della classe proletaria, che sente di non ricevere nel salario, determinato secondo la legge della domanda e dell'offerta, tutto ciò che le spetta della ricchezza prodotta. C'è dunque la sostituzione dell'angolo visuale del proletariato che nel lavoratore vede l'uomo, a quella del capitalismo che vi scorge la merce forza di lavoro. Ossia c'è l'intervento del sentimento etico della personalità umana offesa: come c'è nella rivolta contro la perdita di libertà del lavoratore nell'esercizio del suo stesso lavoro, di cui ha perduto il controllo nel passaggio dalla produzione individuale alla collettiva, che l'ha separato dal possesso dei mezzi di produzione; e anela quindi a riconquistare come classe l'autonomia e il controllo perduti come individuo, aspirando alla proprietà e gestione sociale per i bisogni sociali, cioè per il pieno e libero sviluppo della vita di tutti. Nella conclusione del Manifesto, come in tutta l'azione del socialismo marxistico, il fine è la riconquista della personalità e del libero sviluppo del lavoratore come uomo: e in questa esigenza etica è la forza profonda del movimento socialistico.

3. Sviluppi del socialismo critico pratico dopo Marx. - Così col marxismo il socialismo critico abbandona ogni costruzione di disegni ideali, e si volge invece all'opera attiva di organizzare il proletariato per lo sviluppo della sua coscienza e azione economica e politica di classe: nel movimento operaio, nell'Internazionale e, per il simultaneo impulso ed esempio di Lassalle, nella socialdemocrazia. Con i sindacati e col partito politico il socialismo critico pratico diventa una forza operante nel seno di ogni singola nazione, pur tenendo vive le sue aspirazioni internazionali. Svanite le illusioni del '48 sulla possibilità di grandi rivolgimenti immediati, Marx e più ancora Engels avevano riconosciuto la necessità di un'azione graduale di conquista per mezzo dell'organizzazione politica ed economica. Appariva ormai il vero significato delle leggi della concentrazione crescente delle ricchezze e della miseria crescente del proletariato, che davano così potente risalto al quadro catastrofico del Manifesto: leggi di tendenza, cui, per quanto riguarda la miseria crescente, si oppone efficacemente l'azione di conquista del proletariato attraverso la lotta sindacale e politica per la legislazione sociale e per l'elevazione progressiva della classe, sempre più sensibile alla propria inferiorità sociale. Per lunga serie di anni, rotti i legami con gli anarchici, già colpiti dagli assalti di Marx contro Proudhon e Bakunin, la socialdemocrazia, fiancheggiata nella sua azione dai sindacati su cui esercita una funzione direttiva, si mantiene nelle linee di un riformismo, contro il quale lotta la corrente rivoluzionaria, richiamandosi al programma massimo contro il minimo. Il revisionismo di E. Bernstein intorno al 1890 porta la disputa sul terreno del rapporto fra prassi e teoria, esigendo che quest'ultima abbandoni ogni residuo di catastrofismo e si conformi a quel reale processo di azione storica che tende alla progressiva elevazione materiale e morale delle classi lavoratrici. Questo è il fine del socialismo: uno sviluppo progressivo della democrazia, che sempre più s'impregni di esigenze e forme operaie, sotto la pressione e l'impulso attivo delle classi lavoratrici. Concezione laburista, suggerita al Bernstein dal suo contatto con le classi lavoratrici inglesi, essa appoggiava bensì il riformismo contro il rivoluzionarismo; ma se ne differenziava nel mettere in prima linea l'azione delle classi lavoratrici come tali anziché quella del partito politico.

Non è da meravigliarsi quindi che di questo revisionismo abbiano preteso di rappresentare lo sviluppo coerente i seguaci del sindacalismo, insorto tra la fine del sec. XIX e l'inizio del XX contro la socialdemocrazia, accusandola di essere rimasta con Lassalle nell'orbita di un puro socialismo di stato. L'accusa pareva cogliere nel vivo, in quanto giusto allora i partiti socialistici erano travagliati dal problema della partecipazione a governi borghesi e della compatibilità fra collaborazione e lotta di classe. Il sindacalismo quindi oppone una decisa ostilità allo stato e a ogni azione politica: vuole lotta a oltranza del proletariato contro la borghesia, che opponga alle idee, alla morale, alle istituzioni borghesi l'idea, l'etica, le istituzioni proprie del proletariato, cioè i sindacati di mestiere, col mito dello sciopero generale, con la volontà di sostituire al padronato l'opificio degli uomini liberi, retto dalla disciplina intima e dalla coscienza della responsabilità, che in ogni singolo produttore libero si formano attraverso la lotta di classe. Anche lo stato deve sparire, sostituito da un'organizzazione di gruppi operai federati, senza gerarchie politiche, per la gestione e il controllo dei mezzi di produzione. Ma l'esigenza di libertà e autogoverno dei lavoratori che in ciò si esprime, male si concilia con la convinzione che "una minoranza cosciente" debba assumersi il governo della massa, dando alla rivoluzione il metodo e la meta. La contraddizione, intrinseca al programma stesso della guerra di classe e della rivoluzione violenta, è apparsa in tutta la sua gravità nella rivoluzione di Lenin in Russia, proclamata in nome dei consigli (sovieti) degli operai e contadini, e sboccata in una ferrea dittatura di partito sopra tutta la massa della nazione.

L'esigenza morale di libertà, di affermazione e sviluppo della personalità umana nel lavoratore, che costituisce la forza viva e il valore etico del socialismo moderno, con le sue rivendicazioni di autonomia dei lavoratori e di eliminazione delle differenze di classe, si è oscuramente espressa in mezzo alle agitazioni incomposte successive alla guerra mondiale, specialmente nelle richieste per le commissioni interne e per il controllo delle fabbriche: in cui dietro la domanda dell'autodisciplina del lavoro si profilava l'aspirazione a un governo della produzione, che, eliminando il padronato, la volgesse dal fine del profitto capitalistico a quello della soddisfazione dei bisogni sociali.

L'espressione teorica di queste aspirazioni si è avuta nel socialismo gildista, sintesi di riformismo laburistico e di sindacalismo rivoluzionario. Esso vuole che lo stato socializzi i mezzi di produzione affidandone la gestione ai lavoratori organizzati in gilde nazionali, e restando di fronte a esse: 1. a rappresentare gl'interessi nazionali insieme con delegati elettivi dei consumatori; 2. a regolare la distribuzione proporzionale del prodotto sociale fra i lavoratori, prelevandone una quota per pareggiare le differenze fra le varie entrate. L'eliminazione dei capitalisti non è dal gildismo posta all'inizio, ma al termine di un processo di democratizzazione dell'industria, con estensione crescente del controllo operaio ed educazione progressiva delle capacità di amministrazione e di autogoverno.

La consapevolezza della gradualità che qui si afferma ha una decisa prevalenza anche in tutte le nuove correnti del socialismo, che hanno i loro teorici principali nel belga H. De Man e nei neosocialisti francesi: la cui preoccupazione più viva e immediata è di determinare un piano di azione, che si tenga sul terreno della realtà presente per muovere nella direzione dei mutamenti avvenire, dai quali essi preconizzano che sarà compiuto il passaggio "dal proletario all'uomo socialista"; con l'accettazione della "morale socialista come morale dell'umanità" (De Man).

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