Societa multiculturale

Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

Società multiculturale

Göran Therborn

Origini e usi del concetto

'Multiculturalismo' e 'multiculturale' sono termini coniati di recente, ma i fenomeni che essi designano sono tutt'altro che nuovi. In passato, le società che oggi definiamo multiculturali erano caratterizzate come 'multinazionali', 'multietniche', 'multiconfessionali', 'multirazziali', o ancora come 'segmentate', come espressioni di 'pluralismo culturale', di 'diversità culturale', oppure di mestizaje (termine usato in America Latina per indicare le mescolanze razziali). Il concetto di multiculturalismo venne coniato in Canada, negli anni sessanta, in alternativa a quello di biculturalismo (anglo-francese), in quanto più adeguato a cogliere la situazione e i compiti politici del paese, e nel 1971 venne adottato ufficialmente nel linguaggio politico.

Dal Canada la nozione di multiculturalismo si diffuse gradualmente nel resto del mondo, a cominciare dall'Australia, dove entrò nell'uso negli anni settanta. Il termine, tuttavia, non risulta registrato nel VII volume dell'Australian Encyclopedia (1983), e nemmeno nella Encyclopedia Americana del 1979.

Nell'area europea si cominciò a parlare di multiculturalismo solo tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta. Il termine non compare però nella 15 edizione dell'Encyclopaedia Britannica del 1994, né nella 2 edizione della Gran Enciclopédia Catalana (1988), e nemmeno nella Swedish National Encyclopedia del 1994, dove 'multikultur' si riferisce ad una tecnica agricola. Lo si trova menzionato invece nel Grand Dictionnaire Encyclopédique Larousse del 1984-1986, dove peraltro manca un articolo sull'argomento. Il lemma è ampiamente trattato, per contro, nella 19 edizione della Brockhaus Enzyklopädie tedesca (1991). Nei volumi del 1989 del Grande Dizionario Enciclopedico dell'UTET la locuzione non figura, ma a colmare tale lacuna ha provveduto l'Appendice del 1997. La Grande Enciclopedia de España al momento (1997) non è ancora arrivata alla lettera M. Sinora l'espressione è poco usata al di fuori del Nordamerica, dell'Oceania e dell'Europa occidentale.La nozione di multiculturalismo viene usata fondamentalmente in tre differenti accezioni o contesti: politico, descrittivo e teorico. In primo luogo, si designa con tale termine una politica volta a riconoscere e a tutelare l'identità culturale e linguistica delle varie componenti etniche presenti in un dato paese. È questo il contesto in cui il termine è apparso originariamente, in Canada, negli anni sessanta.

In secondo luogo il concetto viene usato con funzioni descrittive o analitiche, nel pubblico dibattito o nella discussione accademica, in riferimento alla complessità culturale di una data società nei suoi vari aspetti. È questo il contesto che ci interessa qui più direttamente.Il terzo contesto è rappresentato infine dalla teoria politica e sociale, in cui il multiculturalismo viene discusso in rapporto ai problemi concernenti l'ordine sociale e politico e i diritti che nascono dalla complessità culturale della società.Il crescente interesse che viene manifestato oggi nei confronti del multiculturalismo, sia come fenomeno empirico che come costrutto teorico, deriva dalla constatazione che le differenze culturali all'interno della società di uno Stato o di una nazione tendono ad aumentare anziché a diminuire o a scomparire. All'origine di questa tendenza si possono individuare due ordini di fenomeni e le loro nuove dinamiche. Il primo è rappresentato dalle nuove ondate migratorie. L'immigrazione non britannica ha minato il biculturalismo anglo-francese in Canada e il monoculturalismo britannico-europeo in Australia. Negli Stati Uniti l'immigrazione europea ha lasciato il posto a flussi extraeuropei provenienti dall'America Latina, dai Caraibi e dall'Asia. A partire dagli anni sessanta l'Europa è diventata un continente di immigrazione, e tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta anche l'Italia, la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l'Irlanda, tradizionali paesi di emigrazione, sono diventati approdo di consistenti comunità di immigrati, in prevalenza non europei. In un paese tradizionalmente assai omogeneo dal punto di vista etnico come la Svezia i cittadini nati all'estero costituiscono il 10% della popolazione - una percentuale superiore a quella che si registra negli Stati Uniti. Ma le nuove dinamiche del fenomeno migratorio hanno contribuito anche in un altro senso, forse ancora più rilevante, all'emergere del multiculturalismo come realtà e come problema. Ci riferiamo al mancato verificarsi della prevista integrazione/assimilazione delle comunità di immigrati nei paesi di destinazione. Nel Nuovo Mondo si sono affermate tendenze che fanno dubitare della validità dell'ipotesi di un melting pot - dell'idea, cioè, che dopo un certo tempo, o dopo una o due generazioni, le culture e le identità specifiche degli immigrati sarebbero destinate a fondersi con quelle dei paesi di destinazione. In Francia e nei paesi dell'Europa centrosettentrionale gli stessi dubbi investono l'idea analoga di assimilazione. Nell'Europa centrale gli immigrati a tempo determinato (i cosiddetti Gastarbeitern) tendono a diventare residenti permanenti.

Il secondo fenomeno che ha contribuito all'affermarsi del multiculturalismo è costituito dalla nuova politica culturale dell'identità. Affermatasi principalmente negli Stati Uniti, essa può essere considerata una filiazione dei movimenti giovanili della seconda metà degli anni sessanta, con le loro sfide all'autorità costituita, alle istituzioni e alla mentalità dominante. Negli Stati Uniti il movimento giovanile ebbe sin dall'inizio una forte valenza antirazzista, legata al movimento per i diritti civili dei neri. Tuttavia la politica dell'identità, o della diversità come è stata anche chiamata, non si ricollegava direttamente al movimento per i diritti civili, incentrato sull'integrazione e sull'eguaglianza dei diritti individuali senza distinzioni di razza. Piuttosto, essa era l'erede delle mobilitazioni in favore dell'eguaglianza istituzionale, sotto forma di un'affermazione dell'identità specifica di determinati gruppi, espressa ad esempio dai movimenti Black Power e Black is beautiful. Analoghi movimenti improntati all'orgoglio culturale di gruppi etnici in passato discriminati, marginalizzati e spesso disprezzati si sono sviluppati tra le popolazioni indigene dei paesi fondati dai coloni bianchi, in particolare in Canada, Australia e Nuova Zelanda. Dalla protesta giovanile radicale ha avuto origine anche un forte movimento femminista.

Mentre la gioventù di sinistra europea negli anni sessanta si andava orientando verso la classe operaia e il movimento operaio tradizionale, negli Stati Uniti la protesta giovanile dava vita ad un movimento culturale ampio ed eterogeneo, in cui una varietà di gruppi di nuova formazione cercava di affermare i propri diritti. Ciò segnò l'inizio, negli anni settanta, di una 'politica dell'identità' perseguita da gruppi che reclamavano riconoscimento e rispetto: dalle femministe, agli Afroamericani e agli Ispanici, seguiti da altri gruppi etnici, ai gay e alle lesbiche. Ciò che univa queste differenti correnti era la sfida all'America dominante e ai suoi valori - il maschilismo, la discendenza europea, l'eterosessualità - nonché l'assenza di rivendicazioni territoriali e politiche. Ciò che veniva messo in discussione era un certo tipo di monoculturalismo o di egemonia culturale entro un dato territorio, ma non in nome di una secessione, e nemmeno di una forma alternativa di governo. Fu questa la sfida del multiculturalismo.

Quattro tipi di società multiculturali

A seconda delle origini e delle dinamiche sociali dominanti, si possono distinguere quattro tipi fondamentali di società multiculturale.

Gli imperi premoderni

Frutto di conquiste armate - talvolta di matrimoni dinastici o di trasmissione ereditaria - gli imperi premoderni perseguirono solo sporadicamente e in modo parziale, se mai lo fecero, l'integrazione culturale delle popolazioni assoggettate. Ciò che l'impero richiedeva ai sudditi era la completa sottomissione e il riconoscimento della sua autorità suprema, nonché la corresponsione di tributi e/o tasse. Di norma tali imperi erano caratterizzati da un notevole pluralismo religioso, linguistico e normativo (leggi e consuetudini).

Se la discriminazione e l'occasionale persecuzione delle religioni diverse da quella ufficiale dell'impero costituivano la regola, raramente veniva attuata una politica coerente e sistematica di uniformazione religiosa. Una significativa eccezione a questo riguardo è costituita dall'Impero spagnolo dopo il 1499. Importanza ancora minore veniva data all'uniformità linguistica e giuridica. Mentre le corti, gli eserciti e le amministrazioni imperiali avevano i propri codici linguistici, sebbene raramente monolingui, le popolazioni assoggettate erano libere di usare la lingua che volevano. Raramente venivano emanate leggi; ci si limitava a interpretare e ad applicare quelle vigenti, e i conquistatori di solito rispettavano le norme e le consuetudini dei paesi assoggettati, perlomeno de facto, e spesso de jure, in dichiarazioni solenni. Tali leggi e consuetudini riguardavano prevalentemente la sfera della famiglia (matrimonio, eredità), le questioni religiose, i diritti alla terra, i privilegi aristocratici e i diritti corporati delle città, ma comprendevano anche il diritto penale vigente presso la popolazione locale. La dinamica culturale interna a questi sistemi sociali scarsamente omogenei era fornita in larga misura dall'attrazione esercitata da una carriera nell'amministrazione centrale o dalla possibilità di spartire il bottino imperiale. Ciò incoraggiava le conversioni alla religione dei conquistatori e l'adozione della lingua (o delle lingue) della corte, dell'esercito e dell'amministrazione. A partire dal XIX secolo, per far fronte alle sfide del moderno nazionalismo popolare, gli imperi cercarono attivamente di inculcare nelle popolazioni assoggettate la lingua e la religione dei dominatori, con risultati peraltro assai modesti.

È questo il tipo di società che emerse in Oriente e nell'Europa mediorientale con il Commonwealth polacco-lituano, gli imperi degli Asburgo e dei Romanov, l'Impero ottomano, che comprendeva gran parte del mondo arabo, gli imperi persiani, quello moghūl nelle regioni dell'India settentrionale, e infine l'Impero cinese, il più vasto e uniforme di tutti. Qui infatti esisteva un gruppo etnico dominante, quello Han o cinese, con una scrittura comune che coesisteva peraltro con una pluralità di dialetti reciprocamente incomprensibili. L'ultima dinastia regnante, i Ch'ing, e una parte consistente della sua nobiltà di corte, non era cinese bensì mancese, e aveva tre differenti lingue ufficiali - cinese, manciù e mongolo.

L'Impero inca nelle Americhe e quelli di Ghana, Mali e Soghay della savana dell'Africa occidentale nel X-XVII secolo avevano caratteristiche simili. I regni del Giappone e della penisola coreana, per contro, presentavano un'eccezionale uniformità culturale.All'epoca delle guerre di religione europee, l'imperatore moghūl Akbar (fine del XVI secolo) che governava l'India settentrionale - inclusi l'Afghanistan e il Bengala - abolì l'islamismo quale religione di Stato e proclamò l'eguaglianza religiosa. Alla sua corte vennero invitati rappresentanti del cristianesimo, dello zoroastrismo, dell'induismo e del jainismo, nonché della tradizionale religione islamica.

I sovrani illuminati delle aree scarsamente popolate e relativamente meno sviluppate dal punto di vista economico dell'Europa centrale ed orientale incoraggiarono l'immigrazione di popoli di altre culture: Ebrei in Polonia e in Lituania nel XIII e nel XIV secolo, Tedeschi in Transilvania nel Medioevo e nella Russia di Caterina la Grande nel XVIII secolo, calvinisti francesi nella Prussia luterana di Federico il Grande sempre nel XVIII secolo. Analogamente, gli Ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna della reconquista dopo il 1493 trovarono accoglienza presso i sovrani musulmani dell'Impero ottomano. Le città e i villaggi della fascia centrorientale d'Europa, da Istanbul a San Pietroburgo, erano di solito multietnici o dominati da un gruppo etnico diverso da quello prevalente nei territori circostanti. Greci, Armeni, Ebrei e Tedeschi erano presenti soprattutto tra la popolazione urbana.In contrasto con l'uniformità religiosa che dopo la Riforma si instaurò in gran parte dell'Occidente, nell'Europa orientale si affermò un modus vivendi multiconfessionale, che vedeva la coesistenza di ortodossi, cattolici, uniati, luterani, calvinisti, cristiani armeno-gregoriani e armeno-cattolici, ebrei e musulmani (Tartari, Bosniaci, Albanesi, Turchi). Tale mosaico di religioni si doveva in buona parte agli Ottomani e alla loro politica di tolleranza religiosa, non solo nei Balcani ma anche in Ungheria, nonché alla protezione da essi concessa ai principi protestanti transilvani che erano stati espulsi dall'Ungheria. La Controriforma cattolica, che tanto successo ebbe in Polonia, perlomeno per quanto riguarda l'affermazione del cristianesimo quale unica religione, non riuscì mai a riconquistare pienamente i territori ungheresi.

I tardi imperi premoderni degli Asburgo e dei Romanov erano caratterizzati da un multiculturalismo di proporzioni imponenti. Il censimento russo del 1897, ad esempio, attestava l'esistenza di oltre 130 lingue madri, che si sovrapponevano o si incrociavano con tutte le principali denominazioni religiose cristiane o musulmane, cui si affiancavano ebrei di varie congregazioni, buddisti e seguaci delle cosiddette 'religioni della natura'. Alle soglie della prima guerra mondiale, nell'Impero asburgico vi erano tredici grandi gruppi etnici, che coesistevano con piccole minoranze: Tedeschi, Ungheresi, Cechi, Polacchi, Ucraini, Rumeni, Croati, Serbi, Ebrei (i quali peraltro non erano riconosciuti come gruppo etnico), Slovacchi, Sloveni, Bosniaci e Italiani. Sul piano religioso, ciò implicava la compresenza di quattro principali versioni del cristianesimo - cattolica, ortodossa, luterana, calvinista - cui si aggiungevano l'ebraismo e l'islamismo sunnita.Gli ultimi imperi premoderni cessarono di esistere alla fine della prima guerra mondiale, ma l'eredità degli imperi multiculturali rimase sino alla seconda guerra mondiale nella pluralità dei diritti di famiglia della Polonia, dell'Ungheria e della Romania.

L'Unione Sovietica e, dopo la seconda guerra mondiale, la Iugoslavia comunista formarono Stati multinazionali e monoculturali. Da un lato venne instaurata l'uniformità politica e ideologica e un rigido controllo culturale, dall'altro si cercò di garantire istituzioni nazionali, sistemi politici territoriali, sistemi di scrittura - là dove questi mancavano, come avveniva in molti casi tra i popoli sovietici - nonché apparati simbolici (bandiere, insegne, ecc.). Dopo il crollo dei regimi comunisti, nel 1991-1992, l'Unione Sovietica e la Iugoslavia vennero divise in base ai precedenti confini territoriali ufficiali, con o senza violenza etnica.

Le eccezioni dell'Europa occidentale

L'Europa occidentale nel suo complesso costituisce una significativa eccezione ai sistemi politici multiculturali premoderni. A differenza degli imperi dell'Europa centrorientale, internamente differenziati, scarsamente coesi e spesso dichiaratamente pluralistici, nell'Europa occidentale a partire dall'alto Medioevo si affermarono sistemi politici complessi relativamente compatti e uniformi, in cui la Chiesa cattolica e la lingua latina costituivano i principali elementi di unificazione. Se è vero che il Sacro Romano Impero della Germania di fatto non era un'unità territoriale uniforme, esso peraltro non costituiva un vero e proprio impero, né sul piano militare né sul piano fiscale.

L'espulsione degli Ebrei nell'Europa occidentale iniziò in Francia nel 1182, sebbene con scarsa efficacia, e venne ripresa con maggiore sistematicità in Inghilterra nel 1290, ancora in Francia nel 1306 e nel 1394, in altre parti dell'Europa occidentale nel corso del XV secolo, in Spagna e in Sicilia nel 1492. In Germania l'espulsione degli Ebrei non fu frutto di una politica ufficiale e generalizzata, ma di ripetuti pogrom e persecuzioni, mentre in Italia le persecuzioni papali vennero eseguite solo parzialmente. Le metropoli commerciali indipendenti, come Venezia e in misura ancora maggiore Amsterdam, rimasero aperte agli Ebrei.

Mentre gli Ottomani nell'Europa sudorientale tolleravano la presenza di ebrei e cristiani, considerandoli seguaci di religioni legittime sebbene di status inferiore rispetto all'islamismo, e nel caso degli ebrei ne incoraggiarono addirittura l'immigrazione, la reconquista cristiana nella penisola iberica determinò l'espulsione sia dei musulmani che degli ebrei. L'Inquisizione della Chiesa cattolica non ebbe equivalenti in nessun'altra religione mondiale.

Le guerre religiose all'epoca della Riforma, che possono essere considerate anche espressione di un'aspirazione all'uniformità religiosa, terminarono con l'affermazione del principio cuius regio, eius religio, secondo il quale spettava al sovrano decidere la religione del paese.Alle soglie dell'epoca moderna, dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, l'Europa occidentale spiccava nel resto del mondo come un'area di chiusura monoreligiosa e monoculturale. La situazione, tuttavia, era differente per quanto riguarda i diritti individuali - campo in cui l'Europa occidentale aveva una lunga e unica tradizione di autonomia giuridica dal potere - e la partecipazione politica (elezione del papa e dell'imperatore, rappresentanza dei ceti e autogoverno delle città).

L'illuminismo e la Rivoluzione francese portarono la tolleranza religiosa e nuovi sviluppi dei diritti civili nell'Europa occidentale. Questi ultimi però furono anche accompagnati e seguiti da una riuscita politica di uniformazione giudiziale-amministrativa, giuridica ed etnolinguistica. Fu la Svezia del XVII secolo a dare l'avvio a tale processo, che raggiunse il culmine con la Rivoluzione francese. A quest'ultima si deve anche il modello internazionale di codificazione giuridica uniforme, il Codice napoleonico. Il XIX secolo e la prima metà del XX videro l'affermarsi dell'uniformità etnolinguistica, creata e imposta dapprima nei paesi occidentali e, successivamente, nell'Europa orientale e centrale post-imperiale. A seguito di questo processo, i "contadini [vennero trasformati] in Francesi" (Eugene Weber), e si 'crearono gli Italiani', per riprendere la famosa frase di Massimo d'Azeglio, in un paese in cui peraltro solo il 2-3% della popolazione, secondo le stime, era in grado di comprendere la lingua italiana.

La Svizzera costituisce un caso unico di società multiculturale nel continente europeo, e in particolare nell'Europa occidentale, con quattro lingue ufficiali - tedesco, francese e italiano, cui si aggiunse nel 1938 il retoromanzo - e due gruppi confessionali cristiani di eguale peso - i cattolici e i protestanti. Originariamente la nazione svizzera era costituita da una confederazione di cantoni autonomi e culturalmente omogenei, che occupava una regione montuosa di dimensioni relativamente ridotte, e per lungo tempo minacciata da potenze esterne, come gli Asburgo e i Savoia. La Svizzera cattolica non ha mai costituito un'unità ecclesiastica. Nel corso del XIX secolo, a seguito di una serie di guerre interne su piccola scala, il paese fu trasformato da una confederazione di cantoni in uno Stato federale con ampi margini di autonomia degli Stati membri.

Tra le due guerre mondiali emersero altre eccezioni all'eccezione rappresentata dall'Europa occidentale, un altro multiculturalismo europeo di fatto, se non di nome, che contrastava con l'uniformità politica dominante in quest'area. Si trattava di una sorta di multiculturalismo politico-religioso, basato su una mescolanza storica di mobilitazione di massa, di fedeltà gerarchiche e di Stato debole. I Paesi Bassi costituivano l'esempio più complesso, meno conflittuale e più longevo di queste società occidentali multiculturali, che comprendevano anche il Belgio e la Repubblica austriaca dopo la disgregazione dell'impero e sino all'instaurazione dell''austrofascismo' al principio degli anni trenta.

La difficile ma stabile coesistenza di un insieme di gruppi o 'pilastri' (zuilen) culturali - cattolici, calvinisti, socialdemocratici e una componente liberale minoritaria - caratterizzò la società olandese dagli anni venti, allorché tali gruppi vennero ufficialmente istituiti, sino alla metà degli anni sessanta, quando iniziò il loro rapido processo di disgregazione. Ognuno di essi aveva le proprie scuole, finanziate attraverso l'imposizione fiscale, i propri ospedali, i propri operatori sociali, i propri sindacati e le proprie organizzazioni di imprenditori (tranne i socialdemocratici), i propri partiti politici, i propri giornali, le proprie stazioni radio: in sintesi, un'organizzazione autonoma in pressoché tutti i campi di attività, fatta eccezione per le corti di giustizia e le forze armate. Ad esempio, esistevano organizzazioni di allevatori cattolici e di giardinieri protestanti. Il collegamento tra i vari gruppi era assicurato da coalizioni politiche al vertice. Sulle questioni costituzionali i partiti 'confessionali' (religiosi) si dimostravano uniti, e negli anni precedenti la seconda guerra mondiale i confessionali (cattolici e calvinisti) e i liberali furono accomunati dall'ostilità nei confronti dei socialdemocratici. Nel secondo dopoguerra, un'analoga base socioeconomica costituì il terreno per coalizioni sociopolitiche tra laburisti e cattolici.

Una situazione simile si riscontrava in Belgio, dove alle divisioni confessionali tra cattolici e calvinisti (assenti, questi ultimi, dal paese) si sostituivano quelle tra la comunità francofona e la fiamminga. Nella Repubblica austriaca, uscita impoverita e delegittimata dalla prima guerra mondiale, si fronteggiavano tre schieramenti (Lager) dotati anche di formazioni armate. I cristiano-sociali rappresentavano lo schieramento più forte, seguiti dai socialisti e in ultimo da una minoranza di nazionalisti tedeschi anticlericali. Le ostilità tra tali schieramenti sfociarono in una guerra civile e in un colpo di Stato poco prima dell'Anschluss nazista.

Con alcune eccezioni storiche relativamente marginali, la situazione dell'Europa occidentale fornisce un importante punto di riferimento empirico per una discussione sul multiculturalismo. Gli esempi sopra illustrati mettono in evidenza tutta una gamma di possibilità alternative: di conflittualità e di violenza oppure di coesistenza pacifica e di sviluppo comune, di adattabilità oppure di rigidità nei confronti dei mutamenti socioeconomici e culturali, di longevità e di stabilità nel tempo oppure di durata effimera.

Gli insediamenti del Nuovo Mondo

Le Americhe e l'Australia furono conquistate e non 'scoperte'. Le popolazioni autoctone vennero decimate in larga misura dai germi e dalle malattie infettive portati dagli Europei, ma furono anche vittime di un deliberato genocidio. Il territorio dei due continenti venne ripopolato da insediamenti europei su larga scala. Fatta eccezione per il Guatemala e la Bolivia nelle Americhe, la maggioranza della popolazione nel Nuovo Mondo attualmente è costituita da gruppi di origine (più o meno) europea. Solo nei paesi andini dell'Ecuador e del Perù e in Nuova Zelanda la popolazione autoctona rappresenta più del 10%. In alcune aree, come ad esempio in Messico, una percentuale ancora più alta è costituita da meticci (mestizos). In ogni caso, come hanno dimostrato i movimenti etnici degli anni ottanta, i gruppi indigeni e la loro cultura non sono mai scomparsi del tutto; costretti alla latenza per un lungo periodo, attualmente lottano per l'autoaffermazione.

Alla mescolanza etnica hanno contribuito anche tre secoli di importazione di schiavi africani per il lavoro nelle piantagioni, nonché il reclutamento di manodopera coatta indiana nel XIX secolo, in particolare negli Stati Uniti, nei Caraibi, in Brasile, Guiana e Trinidad. Tuttavia i flussi più importanti furono quelli degli immigrati europei di differenti etnie, lingue e religioni. Gli Europei arrivarono per libera scelta, e svilupparono l'idea di un melting pot, ossia di una fusione delle differenti identità etniche in una comune identità americana, canadese, argentina, ecc. Tale idea, le cui origini possono essere fatte risalire, verso la fine del XVIII secolo, allo scrittore francese naturalizzato americano Michel-Guillaume-Jean de Crèvecoeur, divenne popolare ai primi del Novecento grazie ad una commedia di Broadway. Essa rispecchiava di fatto una importante tendenza del mutamento sociale. Verso gli anni quaranta le organizzazioni e le pubblicazioni nella lingua degli immigrati tendevano a scomparire o a trasformarsi in associazioni e pubblicazioni di lingua americana (inglese o spagnolo).

Gli Stati Uniti inoltre divennero uno dei principali approdi delle correnti religiose dissidenti ed eterodosse del mondo, in particolare di dissidenti cristiani e di minoranze ebraiche, assumendo i caratteri di un paese multiconfessionale. Gradualmente, questa tendenza all'apertura religiosa si diffuse in altri paesi del Nuovo Mondo. Ma soprattutto nel Nordamerica e in Australia l'identità religiosa si intrecciava all'identità etnica, dando luogo a blocchi etnico-religiosi.I flussi migratori costituirono la principale dinamica culturale della costruzione dello Stato nazionale nel Nuovo Mondo, in cui una pluralità di culture diverse si insediarono, si adattarono e cercarono di sviluppare le proprie istituzioni come basi di potere e ricchezza. Ciò contrastò l'assimilazione del melting pot, (ri)producendo interessi etnici o etnico-religiosi, gruppi di interesse e movimenti politici.Alla base della costruzione della nazione nel Nuovo Mondo vi fu una politica di 'popolamento' del territorio, e nel XIX secolo politici e intellettuali - in particolare in Argentina, Cile e Brasile - discutevano animatamente su quali gruppi avrebbero dovuto essere incoraggiati ad immigrare nel paese e a prendere parte alla formazione della nazione. Durante la prima guerra mondiale i movimenti migratori intercontinentali subirono un rallentamento riducendosi vistosamente negli anni trenta e quaranta; una piccola ripresa si ebbe nel secondo dopoguerra. All'inizio degli anni sessanta anche agli occhi di osservatori esperti sembrava che l'emigrazione di massa nel Nuovo Mondo fosse un fenomeno del passato. Ma nel caso del Nordamerica e dell'Australia i fatti avrebbero smentito questa convinzione.

L'area (ex) coloniale

Una vasta area del mondo, che si estende dall'Africa occidentale al subcontinente indiano all'arcipelago del Sudest asiatico e alla Nuova Guinea (l'attuale Papua), fu conquistata e sottomessa dalle potenze europee, ma diversamente da quanto era accaduto nel Nuovo Mondo, la popolazione indigena non venne decimata e sostituita da insediamenti bianchi. A seguito del processo di decolonizzazione, tra la fine degli anni quaranta e gli anni sessanta, in quest'area nacquero nuovi Stati indipendenti, che ospitano le società culturalmente più eterogenee del mondo.

Le potenze coloniali unificarono artificialmente popolazioni in precedenza separate o segmentate, oppure separarono altrettanto artificialmente popoli e società in precedenza uniti, istituendo confini politici con altri domini coloniali. Scarsamente sviluppate sul piano economico e politico, tali regioni erano abitate da un'enorme varietà di popoli e di culture tra loro isolati, e in parte per questa ragione soccombettero facilmente ai paesi colonizzatori. Nella Nuova Guinea, ad esempio, conquistata dagli Olandesi e dai Tedeschi, esistono circa 750 lingue diverse (secondo altre stime il loro numero arriva a mille), e in Africa si registrano 1.200 popoli o gruppi etnici diversi.

Dopo la divisione o l'unificazione artificiale dei territori e dei popoli conquistati, il secondo momento della politica coloniale consistette nella creazione di una barriera efficacemente istituzionalizzata e ben visibile tra i colonizzatori e la popolazione indigena. A tempo debito, in reazione a tale barriera nacquero i movimenti anticoloniali e nazionalisti.

Il programma e i simboli dei movimenti nazionalisti erano mutuati dalla storia recente delle stesse potenze coloniali, e i nuovi Stati indipendenti sorti dopo il processo di decolonizzazione definirono i propri confini seguendo le divisioni arbitrarie stabilite dalle potenze coloniali, ereditando quindi la realtà multiculturale degli ex imperi.

All'inizio degli anni sessanta un gruppo di studiosi sovietici compì il tentativo più ambizioso e sistematico sino ad allora mai realizzato di registrare e di comparare il pluralismo etnolinguistico delle società di diverse nazioni. Quindici risultarono essere le società più multiculturali, di cui quattordici nell'Africa subsahariana e l'altra in India (la Nuova Guinea non era inclusa nei paesi considerati). Secondo le stime degli studiosi sovietici, vi era al massimo una probabilità su dieci di incontrare due Tanzaniani, Congolesi o Ugandesi appartenenti alla stessa comunità etnolinguistica. In Giappone o in Portogallo, per contro, vi era una probabilità su cento di incontrare due individui appartenenti a gruppi etnolinguistici diversi, e in Germania e in Italia le probabilità erano rispettivamente tre e quattro su cento.

Attualmente, le circa 1.200 etnie africane sono distribuite tra 55 Stati, e uno dei più vasti fra questi, la Nigeria, conta ben 400 lingue differenti. In India secondo gli antropologi esistono 5.000 'comunità' culturali, definite in base alla lingua, alla religione, alla casta o ad altri criteri etnici. In questo paese vi sono diciotto lingue ufficiali, più l'inglese quale lingua franca dell'élite, cui si affiancano circa cento lingue parlate da 100.000 o più individui, e una dozzina di alfabeti differenti. Tutte le stazioni radio indiane trasmettono in 190 lingue.

I governi postcoloniali sinora sono riusciti a gestire la complessa realtà di questa enorme differenziazione culturale. Gli episodi di rottura dell'ordine sociale e della convivenza pacifica sono stati relativamente rari. Nella maggioranza dei casi, le violenze intercomunitarie sono derivate da specifici conflitti biculturali - ne sono esempi gli scontri tra induisti e musulmani in India all'epoca della divisione nel 1947, la guerra tra Yoruba e Ibo in Nigeria per la secessione del Biafra nel 1967 e le ricorrenti guerre genocide tra gli Hutu e i Tutsi in Burundi e Ruanda. Tuttavia, sembra che i perduranti particolarismi etnoculturali siano stati d'ostacolo allo sviluppo economico e sociale. I paesi dell'Est asiatico che hanno intrapreso con successo la strada della modernizzazione risultano assai più omogenei.

Il multiculturalismo post-nazionale

Il multiculturalismo odierno è il prodotto di una dinamica culturale che non è né prenazionale, come negli imperi premoderni, né nazionale, come nel Nuovo Mondo e nell'area ex coloniale. Si tratta piuttosto di un fenomeno che potremmo definire post-nazionale, che si è affermato dopo la costituzione di Stati nazionali ed entro i confini di questi ultimi, e al cui sviluppo ha contribuito la diffusione dell'istruzione superiore di massa a partire dagli anni sessanta e delle nuove culture musicali e audiovisive di massa.

Questo multiculturalismo post-nazionale ha avuto sinora come principali centri il Nuovo Mondo, in particolare il Nordamerica e l'Australia, e l'Europa occidentale, in particolare i paesi nordoccidentali. In entrambe queste aree si sono sviluppati processi e movimenti sociali che hanno messo in discussione la precedente uniformità della nazione.

Nel Nuovo Mondo la principale sfida alla 'nazione bianca', ovvero all'identità europea della nazione fondata dai colonizzatori bianchi, è venuta dalle nuove ondate migratorie. Un mercato del lavoro caratterizzato da una crescente domanda di manodopera straniera, le notevoli pressioni interne ed esterne per l'abolizione delle clausole di esclusione etnica nella regolamentazione dell'immigrazione, e infine i nuovi sviluppi geoeconomici mondiali hanno aperto la strada a nuovi flussi migratori multiculturali dall'America Latina, dai Caraibi e dall'Asia in direzione del Nordamerica e dell'Oceania. D'altro canto, l'America Latina è diventata a sua volta un subcontinente di immigrazione. Oltre alle nuove dinamiche dell'emigrazione, altri due fattori contribuiscono oggi a mettere in discussione con forza crescente l'identità bianca della nazione dei colonizzatori, ponendo in primo piano la questione della razza e del razzismo: il primo riguarda la posizione delle popolazioni indigene, vittime della conquista violenta; il secondo è rappresentato dai perduranti effetti dello schiavismo.

Dopo un lungo periodo di oppressione e di marginalizzazione, i discendenti degli schiavi e delle popolazioni indigene hanno acquistato sufficienti forze, nonché numerosi sostenitori tra i colonizzatori stessi, per lottare contro la loro esclusione. Iniziato negli Stati Uniti negli anni sessanta, tale processo si è poi diffuso negli altri paesi del Nuovo Mondo. I principali progressi sono stati realizzati dagli Afroamericani negli Stati Uniti, dai Maori in Nuova Zelanda e dagli Aborigeni in Australia. I cambiamenti sono stati, per contro, relativamente meno significativi nell'America Latina, sebbene nel 1992 il quinto centenario della conquista europea delle Americhe abbia fornito un importante punto di riferimento simbolico per la protesta degli Indiani d'America.

Questa sfida alla supremazia bianca è stata condotta in misura crescente non tanto o non solo in termini di rivendicazione dell'eguaglianza, ma anche e soprattutto come affermazione del diritto alla differenza - il diritto ad essere diversi senza essere per questo marginalizzati o discriminati. Su questo punto si sono trovati uniti i movimenti delle popolazioni indigene - guidati da una nuova élite colta - che chiedono riconoscimento e la restituzione o il risarcimento delle terre espropriate dai colonizzatori, gli Afroamericani, che riaffermano con orgoglio la propria identità etnica, e alcune correnti sviluppatesi tra gli immigrati di origine non europea dopo l'allentarsi delle leggi fortemente discriminatorie che regolavano l'immigrazione.

Parallelamente a questi nuovi movimenti etnici si sono sviluppati, con un lieve scarto temporale, movimenti in difesa di nuovi soggetti con un'identità specifica, come le donne o gli omosessuali (movimento femminista, movimento dei gay e delle lesbiche). Sulla scia di questi ultimi, anche gruppi o comunità contraddistinti da stili di vita particolari chiedono di essere riconosciuti come 'culture' all'interno di una società multiculturale.

Anche nell'Europa occidentale il fenomeno migratorio e le dinamiche culturali hanno assunto caratteristiche nuove intorno agli anni sessanta-settanta. Sin dal principio delle conquiste e dell'espansione oltremare l'Europa fu un continente di emigrazione. La costruzione dello Stato nazionale nell'Europa moderna era concepita in termini di uniformazione etnolinguistica, considerata all'epoca assai più importante di quella religiosa. La Francia, che rappresentò anche la prima eccezione al modello migratorio europeo, fu il precursore sul piano ideologico e istituzionale del principio dell'uniformità nazionale, sintetizzato nella definizione della nazione francese come une et indivisible.

Negli anni sessanta, con il processo di decolonizzazione e con la nuova prosperità del dopoguerra, l'Europa divenne un continente di immigrazione. Il processo ha conosciuto un'accelerazione negli anni ottanta e all'inizio degli anni novanta, e attualmente anche paesi come l'Irlanda, la Spagna, la Grecia, il Portogallo e l'Italia, in cui il fenomeno dell'emigrazione aveva persistito tenacemente, si caratterizzano per la presenza di consistenti minoranze di immigrati.In un tempo straordinariamente breve, le società dell'Europa occidentale sono diventate multietniche come quelle del Nuovo Mondo. Nel 1975 quasi l'11% della popolazione francese risultava nato in terra straniera (inclusi i cittadini nati in Algeria e nelle altre ex colonie); nel 1990 la percentuale di immigrati legalmente registrati ammontava al 10% (una percentuale ancora più alta di quella calcolata per gli Stati Uniti, che raggiungeva l'8% nel 1990 salendo al 9% nel 1996, dopo la massiccia legalizzazione degli immigrati clandestini tra il 1989 e il 1991). Nella Germania occidentale tra gli anni sessanta e ottanta l'afflusso di immigrati è stato eguale se non superiore, in proporzione, a quello sperimentato dagli Stati Uniti alle soglie della prima guerra mondiale. Alla metà degli anni novanta in un paese tradizionalmente assai omogeneo dal punto di vista etnico come la Svezia il 10% della popolazione è di origine straniera. Data la tendenza alla concentrazione urbana delle nuove popolazioni di immigrati, il multiculturalismo è diventato una caratteristica distintiva soprattutto delle grandi città. All'inizio degli anni novanta un quinto della popolazione londinese risultava di razza non bianca, e un quarto della popolazione di Bruxelles e di Francoforte era costituito da 'stranieri'. Il multiculturalismo europeo, frutto delle nuove ondate di immigrazione, è prevalentemente a base etnica, ma vi è anche una politica dell'identità in particolari regioni storiche (soprattutto in Spagna) e la tendenza a riaffermare i diritti di lingue minoritarie in passato marginalizzate (ad esempio lo scozzese). Le culture legate all'identità sessuale, per contro, in Europa sono meno definite e assertive rispetto a quelle statunitensi.

Il multiculturalismo post-nazionale è fluido ed è in larga misura una questione di scelta e di autoaffermazione consapevole, distinguendosi in questo dal multiculturalismo di altre società, in specie da quello degli imperi premoderni, assai più statico e in gran parte ereditato. I moderni mezzi di comunicazione di massa e le accresciute opportunità di spostamento e di contatto creano i presupposti per nuove combinazioni di culture o per un processo di 'ibridazione culturale'. Sinora queste tendenze si sono manifestate in modo particolarmente evidente nelle nuove culture musicali e nelle mescolanze di tradizioni culinarie etniche. L'omologazione nazionale delle culture, che ebbe il suo culmine in Europa intorno agli anni cinquanta, dopo le 'pulizie etniche' associate ai due conflitti mondiali e il genocidio degli Ebrei europei, comincia a mostrare segni di cedimento ovunque, nonostante l'occasionale verificarsi di nuove azioni di pulizia etnica, ad esempio in Bosnia e in Croazia.

Aspetti politici e istituzionali

Il multiculturalismo è diventato negli anni settanta una politica ufficialmente riconosciuta in Australia e in Canada, che attualmente possono essere considerati anche i due paesi di immigrazione più aperti del mondo. All'epoca circa il 16% della popolazione canadese e il 20% di quella australiana erano di origine straniera. Sia in Australia che in Canada la svolta verso il multiculturalismo rientrava nel quadro di un significativo mutamento nei modelli di immigrazione. Per lungo tempo alla base della politica dell'immigrazione in Australia vi fu l'esplicito imperativo di preservare il carattere di 'nazione bianca' del paese, e sino al secondo dopoguerra gli immigrati furono in prevalenza britannici. Successivamente vi fu un consistente afflusso di Italiani e di Greci. Negli anni sessanta la scarsità di manodopera indusse a mitigare le restrizioni nei confronti dell'immigrazione europea, ed ebbe inizio anche una consistente immigrazione asiatica. Negli stessi anni sia in Canada che in Australia cominciò la mobilitazione delle minoranze indigene discriminate e marginalizzate.

La politica multiculturalista iniziò in Canada, come reazione all'istituzione di una Commissione sul bilinguismo e sul biculturalismo (1963) che si proponeva di raggiungere un nuovo compromesso anglofrancese per fronteggiare il crescente nazionalismo francofono nel Québec. Si cominciò allora a sostenere che il Canada non era costituito da due nazioni bensì da tre, che quella degli Aborigeni era la prima nazione e di conseguenza non poteva restare esclusa. Il biculturalismo, si disse inoltre, era del tutto inadeguato a cogliere la complessa realtà multietnica del Canada. Queste istanze vennero recepite dal governo internazionalista liberale di Pierre Trudeau, che fu anche uno strenuo oppositore del nazionalismo del Québec. Nell'ottobre del 1971 il governo federale dichiarò ufficialmente il multiculturalismo quale obiettivo della politica del paese. Venne sottolineata l'esigenza di preservare l'eredità culturale delle minoranze, nonché di migliorare e di rendere più eguali i rapporti tra le diverse componenti della nazione attraverso misure contro il razzismo o altre forme di discriminazione e in favore delle pari opportunità, all'insegna del motto: "una nazione, due lingue, una pluralità di popoli e di culture". Nel 1972 venne istituito un Ufficio per il multiculturalismo all'interno del Ministero degli Esteri, e sino alla metà degli anni novanta vi fu un Ministero federale per gli affari multiculturali. L'orientamento multiculturale è stato sancito in una Carta dei diritti e delle libertà (1982) e in un Multiculturalism act (1988), diventando un elemento centrale dell'autodefinizione della nazione canadese.

Gli Aborigeni australiani si videro riconosciuta la cittadinanza a pieno titolo solo nel 1967 - atto che può essere considerato la fine, sia pure tardiva, della politica dell''Australia bianca'. Il movimento anticolonialista internazionale e la peculiare posizione geopolitica dell'Australia portarono gradualmente all'abbandono dei criteri esplicitamente razziali che avevano improntato la politica dell'immigrazione.

L'ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea, negoziato negli anni sessanta e sancito infine nel 1973, segnò una nuova apertura verso l'Asia della politica estera e commerciale australiana.Una politica orientata in senso multiculturale venne avviata sotto il governo laburista in carica tra il 1972 e il 1975, e fu proseguita dal successivo governo liberale. Essa prevedeva, tra l'altro, l'adozione di una serie di misure contro la discriminazione, il riconoscimento dei diritti alla terra degli Aborigeni, il sostegno dello Stato alle etnie svantaggiate, la realizzazione di programmi scolastici e radiotelevisivi diretti a comunità culturali speciali. Negli anni ottanta, sotto un nuovo governo laburista, venne istituito un Ufficio per gli affari multiculturali all'interno della Presidenza del Consiglio, e nel 1989 fu annunciata una 'Agenda nazionale per un'Australia multiculturale'.

Se da un lato ha trovato sostenitori in tutti gli schieramenti politici, dall'altro il multiculturalismo è stato sempre anche oggetto di critiche, derivate in parte dal timore di un ulteriore aumento dell'immigrazione in periodi di crisi economica. Secondo alcuni, inoltre, il multiculturalismo rappresenterebbe una potenziale minaccia per l'unità nazionale o per i valori tradizionali della nazione. Mettendo in primo piano i diritti e gli interessi collettivi, il multiculturalismo entra in conflitto con la concezione individualista che privilegia i diritti dei singoli. In Australia, ad esempio, si è creato un conflitto tra i diritti alla terra degli Aborigeni e gli interessi delle corporazioni dell'industria mineraria e dei pastori non aborigeni. Negli anni novanta sia in Australia che in Canada si osserva un certo declino del multiculturalismo.

In Canada, inoltre, il multiculturalismo tende a passare in secondo piano rispetto ai conflitti biculturali che oppongono il Québec francofono alla comunità anglocanadese. Anche in Nuova Zelanda vi è un conflitto biculturale di fronte al quale il multiculturalismo diventa un fenomeno secondario. Sebbene la società neozelandese si avvii a diventare una società multietnica, a dominare la scena sono i conflitti e i tentativi di conciliazione tra la maggioranza bianca, i Pakeham, e una consistente minoranza indigena relativamente ricca di risorse, i Maori.

Negli Stati Uniti il multiculturalismo non è stato adottato come politica ufficiale, ma l'immigrazione in questo paese ha sempre avuto un carattere assai più multiculturale di quella australiana, canadese e neozelandese. In Australia, nel 1990-1991 oltre il 70% degli immigrati era di origine europea, neozelandese o nordamericana; in Canada gli immigrati provenienti dagli Stati Uniti e dall'Europa costituivano oltre il 60%. Negli Stati Uniti, per contro, Europei e Canadesi rappresentavano solo il 20% degli immigrati regolarmente registrati. Le politiche etniche e la formazione di coalizioni multietniche sono una prassi consolidata nella politica americana.

Il multiculturalismo è emerso negli Stati Uniti negli anni settanta, ma in un contesto differente e con connotati diversi rispetto al Canada e all'Australia. La mobilitazione in difesa dei diritti delle minoranze culturali nella società statunitense è stata strettamente legata al movimento delle donne (in particolare al femminismo culturale ed etnico), a quello dei neri o Afroamericani, ai movimenti dei gay e delle lesbiche. Le università e i colleges sono stati i principali centri della mobilitazione: l'istituzione di quote di reclutamento etniche, l'elaborazione di programmi di studio multiculturali e l'approvazione di norme contro la discriminazione verbale e contro le molestie sessuali sono stati temi di acceso dibattito.

Tuttavia anche l'immigrazione, soprattutto dal Messico e dagli altri paesi dell'America Latina, nonostante la legalizzazione di un consistente numero di immigrati attuata tra il 1989 e il 1991, comincia ad essere sentita nuovamente come un grave problema. Sono state adottate numerose misure per rafforzare i controlli alle frontiere con il Messico, e da molte parti è stata avanzata la richiesta di istituire formalmente l'inglese quale unica lingua ufficiale del paese, nel timore che lo spagnolo, diffuso soprattutto negli Stati sudoccidentali, finisca per acquistare la preminenza.

Alla metà degli anni novanta lo studioso americano Michael Lind ha descritto i mutamenti storici del ruolo dell'etnicità nell'autodefinizione dell'identità americana, proponendo altresì un programma nazionalista liberale per il futuro. Sino alla guerra di Secessione, afferma Lind, nel paese sarebbe risultata dominante un'identità originaria angloamericana, cui avrebbero fatto seguito sino agli inizi dello smantellamento del razzismo, alla fine degli anni cinquanta, un'identità euroamericana e infine l'attuale America multiculturale. Ad essa si dovrà sostituire, secondo Lind, una 'trans-America' in cui le differenze razziali e di genere non avranno più alcuna rilevanza e l'immigrazione sarà ridotta a zero.

Il multiculturalismo è entrato nella discussione politica e accademica europea verso la metà degli anni ottanta, ma non costituisce una esplicita politica dello Stato. Tuttavia alcune iniziative del governo svedese, come la sovvenzione di programmi educativi speciali nelle lingue madri degli immigrati, la promozione di varie associazioni degli immigrati e di manifestazioni folkloristiche pubbliche, ecc., possono essere legittimamente considerate esempi di una politica multiculturale.

La 'politica delle minoranze' attuata in Olanda, che prevede forme di sostegno a favore dei principali gruppi di immigrati, può essere anch'essa considerata un'attiva politica multiculturale, sebbene non venga designata esplicitamente con questo nome. Le generose sovvenzioni che lo Stato garantisce da tempo alle scuole confessionali sono state concesse ora anche alle scuole musulmane e induiste.

Di fatto, l'Europa occidentale è diventata un'area multiculturale, che ospita significative minoranze di extracomunitari provenienti dal Sudasia (in Gran Bretagna), dalle Indie occidentali e dall'Africa subsahariana (principalmente nel Regno Unito e in Francia), nonché dal Nordafrica e dal Medio Oriente - soprattutto dalla Turchia e dall'Iran - diffuse queste ultime in tutto il continente ma concentrate soprattutto in Francia e in Germania. Sono state costruite numerose moschee, la maggioranza delle quali in Francia, e in Gran Bretagna esistono anche templi induisti. Nuove e diverse subculture si affermano tra la gioventù urbana.

Questi recenti sviluppi hanno originato anche tensioni culturali, che talvolta hanno trovato espressione in episodi di violenza etnica. Si osserva altresì un revival di simboli nazionali quali bandiere e inni, intesi come riaffermazione dei valori del monoculturalismo contro il nuovo pluralismo. In Austria, Belgio e Francia, e in misura minore in altri paesi, il nazionalismo monoculturale è diventato una significativa forza politica nelle elezioni degli anni ottanta e novanta. Se è vero che il multiculturalismo si va affermando in misura crescente in tutto il mondo, è vero anche che quasi ovunque ciò ha provocato le reazioni di un monoculturalismo militante o 'fondamentalista'. Negli ultimi venti-trent'anni si è assistito ad una rinascita del fondamentalismo religioso - cristiano (prevalentemente protestante) negli Stati Uniti, musulmano nel mondo arabo, in Iran, in Afghanistan e in Pakistan, ebraico in Israele, induista in India, buddista nello Sri Lanka. Un significativo impulso allo sviluppo di un nazionalismo sciovinista ed esclusivista è stato dato dal crollo dell'Unione Sovietica e della Iugoslavia; le cause del collasso dei regimi comunisti peraltro sono da ricercarsi più nelle manovre di élites politiche in competizione che non nell'azione di movimenti nazionalisti di massa.

Nel complesso, non è stata ancora sviluppata una politica adeguata alla nuova situazione culturale. Le forti tradizioni nazionaliste spesso entrano in conflitto con le nuove realtà. Così, la concezione laica della scuola fortemente radicata in Francia ha portato a violente reazioni contro l'uso del chador da parte di alcune scolare musulmane. Di fatto il multilinguismo è inconciliabile con l'idea della nazione come comunità linguistica unitaria propria della cultura francese, ed europea in generale. In Germania, nonostante la presenza di una vasta comunità di immigrati che risiedono nel paese da una generazione, vi è una forte volontà di preservare l'identità tedesca della nazione. La vecchia definizione in termini etnici della cittadinanza crea molti 'stranieri' nati in Germania e di madrelingua tedesca.

Solo con grande lentezza i governi cercano di adeguare le loro politiche alle mutate circostanze. Alcuni passi in questa direzione, tuttavia, sono già stati compiuti. Nel 1989, ad esempio, Francoforte sul Meno, una delle città più multiculturali d'Europa, ha istituito un Ufficio per gli affari multiculturali. In alcuni paesi anche ai musulmani è stato riconosciuto il diritto di istituire le proprie scuole, seppure tra molte esitazioni e sotto un più stretto controllo. I diritti culturali e di altro tipo delle minoranze sono attualmente al centro dell'attenzione del Consiglio europeo.

Il dibattito nell'ambito della teoria politica e sociale

Negli anni novanta il multiculturalismo è diventato non solo un tema di controversie politiche e ideologiche, ma anche un importante motivo di discussione e di riflessione nell'ambito della teoria politica e sociale. Esso ha dato spunto ad una nuova e più approfondita indagine sulle motivazioni umane e sui problemi dell'ordine sociale e politico della cittadinanza. Confrontarsi con la tematica del multiculturalismo significa interrogarsi sui concetti di cultura, identità, diritti, comunità, classe, nazione, repubblica, cittadinanza, globalizzazione. Sinora il centro di questi dibattiti è stato il Nordamerica, ma si tratta di problemi che riguardano tutte le aree multiculturali del mondo e destano ovunque un interesse crescente.

Culture e identità

La nascita di movimenti che affermano il diritto alla diversità rispetto alle norme e ai valori dominanti, e che reclamano riconoscimento e rispetto per la propria specificità segnala una riaffermazione di culture e comunità culturali che sono per certi versi controcorrente rispetto alle tendenze dominanti nell'Europa occidentale, nel Nordamerica e nell'Oceania del dopoguerra. Esse sembrano smentire altresì gran parte delle teorizzazioni elaborate nell'ambito delle scienze sociali a partire dagli anni cinquanta in merito alla secolarizzazione, al post-nazionalismo e al post-materialismo, al prevalere della prestazione sull'ascrizione e della comunicazione di massa sulle culture profonde. Inoltre, sebbene queste comunità culturali che oggi vanno riaffermando la propria identità siano costruzioni sociali, e non di rado siano presentate come tali, alla loro base vi sono caratteristiche cosiddette 'primordiali' quali la razza, l'appartenenza etnica e il genere, e non già valori post-materialisti quali la libertà d'espressione, la tutela dell'ambiente, la qualità della vita.

Il multiculturalismo pone in primo piano la cultura come identità. Il concetto di identità, sviluppato nel secondo dopoguerra da Erik H. Erikson nella sua teoria dello sviluppo della personalità, sino ad anni recenti è stato prevalentemente un concetto della psicologia individuale, e nonostante la sua rilevanza non ha trovato spazio nelle concezioni classiche del nazionalismo. Negli anni novanta si è avuta una rinascita dell'interesse per il problema dell'identità, ma sino ad ora tale problema è stato affrontato prevalentemente sotto angolazioni specifiche. Ben poco si è detto e compreso sui processi generali di formazione e di mutamento dell'identità sia collettiva che individuale -ad esempio sui meccanismi attraverso cui il soggetto differenzia (o de-differenzia) se stesso dagli altri, sullo sviluppo e sul mutamento dell'autoriferimento, sull'importanza del riconoscimento da parte degli altri e sui modi in cui lo si ottiene.

Una distinzione tipologica importante per comprendere i problemi posti dal multiculturalismo è quella tra culture fluide e culture statiche. Le società multiculturali degli imperi premoderni erano prevalentemente statiche: le loro diverse lingue, leggi, usanze e religioni si evolvevano con grande lentezza. Per contro, le società multiculturali post-nazionali del Nordamerica e dell'Europa occidentale sono assai più fluide. Tuttavia, il diritto di esistere e di sopravvivere rivendicato dai nuovi movimenti culturali si richiama anch'esso a un punto di riferimento fisso. Entriamo qui nel terreno della contrapposizione tra l'interpretazione essenzialista e quella costruttivista della cultura.

Alla distinzione tra società fluide e società statiche si ricollega quella tra l'autenticità di una cultura e la sua adattabilità. In riferimento a quest'ultima si parla oggi spesso di 'ibridizzazione' o 'creolizzazione' globale. Tali distinzioni sono di grande rilievo per i possibili orientamenti della politica multiculturale, che può considerare prioritaria la sopravvivenza e l'autenticità di determinate culture, ad esempio quelle dei gruppi etnici indigeni all'interno di un territorio, oppure può avere come obiettivo primario quello di garantire il pluralismo culturale, senza porsi il problema della sopravvivenza e dell'autenticità.

Cittadinanza, ordinamento politico e diritti

Sino ad oggi il multiculturalismo è stato oggetto di un dibattito assai più vivace nell'ambito della teoria politica e sociale che non in quello della teoria culturale. Il multiculturalismo pone problemi di grande rilievo per le principali teorie odierne in materia di diritti e di ordinamento politico.

Con le sue rivendicazioni collettive e sostanziali, ossia non esclusivamente procedurali, il multiculturalismo è in irriducibile contrasto con il liberalismo che ha improntato la tradizione politica statunitense, fondata sullo smantellamento delle autorità del Vecchio Mondo, su diritti individuali costituzionali, e su un esteso controllo giudiziale delle politiche democratiche. Senza dubbio, negli ultimi decenni negli Stati Uniti si è affermato anche un orientamento multiculturalista, che ha trovato espressione in una serie di misure di 'azione positiva' (ossia di discriminazione favorevole) a tutela dei diritti collettivi delle donne e delle minoranze etniche - sebbene ultimamente i provvedimenti in questo senso abbiano segnato una battuta d'arresto. Tuttavia, nella misura in cui la realtà multiculturale è il risultato di nuovi modelli migratori, la conservazione di una 'repubblica procedurale' di tipo liberale richiederà una più rigida regolamentazione in materia di cittadinanza e di immigrazione. Ma come sarà possibile attuare tali restrizioni senza far ricorso a politiche non liberali?

Nell'area statunitense, i sostenitori del multiculturalismo si richiamano in genere ad una concezione collettivista della vita sociale come radicata in comunità di lingua e di valori. Ma la concezione collettivista, a sua volta, deve fare i conti con l'eterogeneità delle comunità, che pone il dilemma tra il rispetto del relativismo culturale e l'intervento di un'istanza sovraordinata in nome dei diritti universali dell'uomo e del cittadino. Problemi di questo tipo sono posti, ad esempio, dalla struttura patriarcale e dalla misoginia che contraddistinguono determinate comunità culturali, o dalla loro generale chiusura alla libertà di scelta individuale.Il multiculturalismo rappresenta un problema anche per altre importanti tradizioni politiche. Il repubblicanesimo, di cui la Francia costituisce una delle principali approssimazioni empiriche, con la sua esaltazione della virtù civica e della partecipazione attiva dei cittadini alla realizzazione del bene comune, è a rigore incompatibile con il riconoscimento della divisione della cittadinanza in differenti comunità culturali. Ma dal momento che l'appartenenza alla repubblica non è considerata preclusa a priori ai membri di particolari culture, anzi al contrario, sembra esservi un'apertura per forme di appartenenza di transizione che ammettono il multiculturalismo. E in ogni caso, una volta che la società abbia perso la sua uniformità culturale - qualunque ne siano state le cause, anche le errate politiche del passato - in che modo dovrà cambiare la concezione repubblicana della cittadinanza per far fronte alla nuova realtà multiculturale, posto che venga escluso il ricorso all'assimilazione forzata o all'espulsione?

Il nazionalismo etnoculturale, teorizzato nella tradizione culturale tedesca e slava a partire da Herder, è incentrato sull'idea dell'autoespressione e dell'autodeterminazione della nazione, tradizionalmente concepita come una specifica comunità etnoculturale definita nella maggior parte dei casi dalla lingua. Il multiculturalismo può conciliarsi con il nazionalismo solo nella misura in cui esso è subordinato al principio e alle esigenze dell'unità nazionale a fronte dei compiti della nazione nel mondo. Ma non si è riflettuto a sufficienza sul fatto che le trasformazioni intervenute nel mondo contemporaneo impongono una riconsiderazione e una ridefinizione del ruolo della nazione e del concetto di unità nazionale.

Il nazionalismo etnoculturale riconosce l'opportunità che alcune nazioni decidano di unirsi ad altre nazioni in uno stesso Stato, senza per questo rinunciare al proprio diritto ad un nuovo tipo di autodeterminazione in futuro. Ciò significa che in qualsiasi momento una nazione potrebbe esprimere la volontà di separarsi da uno Stato multinazionale o multiculturale. Ma resta da stabilire, e su questo punto regna una grande disparità di opinioni, quando e in che modo una comunità culturale che aspira a diventare una nazione abbia il diritto di separarsi, e quale porzione di territorio le debba essere riconosciuta. È questo un problema di grande rilievo per il futuro del Québec in un Canada multiculturale, della nazione catalana in Spagna, ecc., ed è diventato di drammatica attualità dopo il crollo dell'Unione Sovietica e della Iugoslavia.Il multiculturalismo sembra dunque inconciliabile con le principali ideologie politiche moderne, e la sua effettiva esistenza pone ad esse importanti sfide. Per l'ideologia conservatrice di destra il multiculturalismo costituisce un problema nella misura in cui non si tratta di una tradizione - come nel caso degli imperi premoderni da tempo scomparsi - ma di un fenomeno nuovo, prodotto dalle nuove ondate migratorie e dal crollo delle autorità e delle gerarchie tradizionali. D'altro canto, il conservatorismo non è ostile al pluralismo culturale in se stesso.Per l'ideologia liberale, tradizionale paladina del pluralismo e della tolleranza, il multiculturalismo rappresenta un problema in quanto con le sue rivendicazioni di diritti collettivi mette in discussione l'universalismo liberale e il valore supremo dei diritti individuali.

Se il multiculturalismo e la politica dell'identità possono essere considerati a buon diritto un prodotto dell'ideologia di sinistra e delle sue lotte contro le discriminazioni, l'ineguaglianza e l'oppressione, tuttavia ciò non significa che essi non rappresentino una sfida anche per il socialismo e per l'egualitarismo di sinistra. Il particolarismo del multiculturalismo è inconciliabile con l'ideologia di sinistra non meno di quanto lo sia con l'universalismo liberale. Soprattutto, esso mette in questione l'idea di un attore specifico quale motore determinante del mutamento sociale - la classe nella tradizione socialista, il popolo oppresso nel nazionalismo rivoluzionario dell'ex area coloniale, dell'America Latina e dei Caraibi - senza peraltro indicarne uno alternativo.

Comunque si configureranno gli sviluppi futuri, è certo che le nuove dinamiche culturali delle società multiculturali post-nazionali richiedono analisi e riflessioni più approfondite. (V. anche Etnici, gruppi; Etnocentrismo; Identità personale e collettiva; Migratori, movimenti; Nazione; Relativismo culturale).

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