SOCIOBIOLOGIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

SOCIOBIOLOGIA

Stefano Scucchi

La s. è la branca della biologia che si occupa dello studio sistematico delle basi biologiche di tutti i comportamenti sociali. Essa deve la sua formalizzazione a E.O. Wilson, un entomologo statunitense, che raccolse nell'opera Sociobiology: the new synthesis (1975) una grande quantità di informazioni sparse nell'ambito della vastissima letteratura sulla biologia evoluzionistica e sul comportamento sociale di tutto il regno animale. La s. affonda le sue radici storiche nella genetica evoluzionistica, che rappresenta lo sviluppo genetico della teoria evolutiva darwiniana e ne costituisce la base teorica coesiva, nell'ecologia e nell'etologia. La sua forza innovativa sta nell'applicazione sistematica del metodo neodarwiniano allo studio del comportamento animale e umano.

Proprio l'estensione del campo di studio agli esseri umani e una visione provocatoria del rapporto con le scienze sociali e umanistiche costò alla neonata disciplina una serie di violente accuse e condanne. Science for the People, il gruppo leader della sinistra radicale del mondo scientifico statunitense, bollò infatti Wilson e la sua opera di determinismo genetico, sessismo e razzismo. Nella storia della scienza, critiche di ordine morale, etico e sociale hanno spesso accompagnato il battesimo di nuove teorie la cui accettazione modifica la nostra visione del mondo: questo è stato il destino delle teorie meccanicistiche, materialistiche e riduzionistiche che hanno rivoluzionato l'immagine che gli esseri umani si erano fatti di se stessi, e nel 19° secolo lo stesso è avvenuto per l'enunciazione della teoria dell'evoluzione per selezione naturale che suscitò grandi risentimenti e rancori e provocò un forte scossone nella fede di molte persone. La s., per i suoi contenuti e per il clamore da essi suscitato, può essere giustamente considerata come una rivitalizzazione del pensiero evolutivo neodarwiniano e come una sua speciale applicazione allo studio del significato adattativo del comportamento animale e umano.

I concetti della sociobiologia. - Il postulato centrale della s. è che la trasmissione di un tratto genetico alle generazioni successive è regolata dal successo riproduttivo degli individui che lo portano. La fitness personale o darwiniana non è altro che una misura dell'abilità degli individui a contribuire al pool genico delle popolazioni future. Il concetto di fitness può essere applicato anche ai singoli geni: il gene che aumenta il successo riproduttivo del proprio portatore avrà più probabilità di essere rappresentato nel pool genico delle generazioni successive. Paradossalmente, un gene può aumentare la sua rappresentazione anche a scapito del benessere del suo portatore se promuove la sopravvivenza e la riproduzione di individui geneticamente a esso imparentati. Questo concetto fu introdotto da W.D. Hamilton (1964) che per primo enunciò il principio secondo il quale la selezione naturale tende a rendere massima, più che la fitness personale di un individuo, la sua fitness inclusiva, cioè il suo successo riproduttivo più la sua influenza sul successo riproduttivo dei consanguinei non discendenti. L'altruismo, cioè l'esecuzione di atti o comportamenti che favoriscono il ricevente a danno dell'altruista, un paradosso evolutivo per la teoria darwiniana, cessa di essere tale se beneficiario e altruista sono geneticamente imparentati. J. Maynard-Smith (1964) chiamò selezione di parentela la selezione naturale che favorisce la trasmissione di geni che promuovono il comportamento altruistico tra individui discendenti da un comune antenato. L'altruismo, così concepito, è quindi perfettamente compatibile con la teoria evolutiva neodarwiniana. La sua diffusione in una popolazione naturale dipenderà dai benefici che esso apporta alla fitness del ricevente, dai costi che impone alla fitness dell'altruista e dal grado di parentela tra beneficiario dell'atto altruistico e altruista. Nelle relazioni sociali gli individui si comportano come se realmente calcolassero ''il peso'' di ciascuno di questi fattori e di volta in volta scegliessero la strategia migliore. Esempi di altruismo spiegabili in termini di fitness inclusiva comprendono i richiami di allarme di alcuni uccelli e mammiferi, l'aiuto fornito per l'allevamento dei piccoli in un numero straordinariamente grande di specie animali, e perfino la sterilità e il sacrificio suicida delle caste operaie di alcuni imenotteri sociali, il cui ''segreto'' evolutivo giace nel meccanismo aplodiploide di determinazione del sesso.

Il riconoscimento dei propri parenti, cioè la classificazione degli individui come tali o l'identificazione di un particolare grado di parentela, e l'esibizione di un comportamento preferenziale nei loro riguardi, cioè la loro discriminazione, costituiscono due importanti cardini della teoria della selezione di parentela. È ormai acquisito che gli animali, forse con l'unica eccezione dei rettili, dispongono di un'ampia varietà di mezzi per il riconoscimento dei propri parenti. Le sfumature che essi utilizzano possono essere controllate geneticamente o apprese nella vita prenatale, subito dopo il parto o durante un periodo sensibile (imprinting). Queste sfumature comportano lo sfruttamento di una o più modalità sensoriali secondo piani di complessità e diversità crescenti. Nei vertebrati più evoluti, il riconoscimento dei propri parenti si esplica attraverso l'apprendimento per familiarizzazione di caratteristiche individuali distintive o di tratti tipici della famiglia di appartenenza (Hepper 1991).

Alcune forme di altruismo, e fra queste quello delle termiti, organismi diploidi caratterizzati da un alto grado di eusocialità, sono spiegabili in termini di manipolazione parentale, cioè in termini di affermazione degli interessi selettivi dei genitori su quelli dei propri figli (Alexander 1974). R. Trivers (1974) fu il primo a considerare il rapporto genitori-prole nel contesto della selezione naturale e a intuire l'esistenza di un conflitto tra geni parentali e filiali per la massimizzazione delle rispettive fitness. Egli definì investimento parentale qualunque atto compiuto da un genitore per aumentare la probabilità di sopravvivenza della prole a scapito dell'abilità del genitore stesso a investire in altra prole, e suggerì che mentre i geni del genitore sono selezionati per promuoverne quella distribuzione che consente al maggior numero di figli di raggiungere la maturità sessuale, quelli della prole sono selezionati per capitalizzarne egoisticamente lo sfruttamento. La manipolazione parentale non sempre assume forme estreme come quelle osservate negli insetti con alto grado di eusocialità. In genere, gli interessi selettivi dei genitori e dei figli coincidono e la manipolazione parentale sfuma nella selezione di parentela. Per es., conviene sicuramente essere altruisti nei confronti di fratelli e sorelle con potenziali riproduttivi superiori e puntare a massimizzare la propria fitness inclusiva aumentando la fitness personale dei genitori, quando le proprie possibilità riproduttive sono basse.

L'altruismo, infine, a certe condizioni, può essere promosso dalla selezione naturale anche se occorre tra individui non imparentati. Si deve a Trivers (1971) il concetto di altruismo reciproco che illustra un caso speciale di mutualismo in cui gli individui traggono reciproci vantaggi dallo scambio di atti altruistici. La selezione naturale può favorire l'altruismo reciproco se gli individui hanno sufficienti opportunità di ricambiare il favore ottenuto, se sono motivati a farlo, e se si conoscono personalmente e non dimenticano i loro obblighi. Queste condizioni infatti proteggono la strategia cooperativa dalla diffusione dell'inganno permettendone la fissazione all'interno della popolazione. Queste stesse condizioni si riscontrano sia nelle società umane primitive sia nelle società animali complesse, in cui i vantaggi selettivi dell'altruismo reciproco sono ancora molto evidenti.

Dalla sociobiologia umana alla medicina darwiniana. - L'idea che la selezione naturale abbia modellato il comportamento umano in modo da aumentare la fitness complessiva degli individui, incontra ancora alcune resistenze. Tuttavia è innegabile che la s. abbia dimostrato che, a dispetto delle straordinarie differenze culturali che caratterizzano la nostra specie, l'indagine sul significato adattativo degli elementi basilari della psiche e del comportamento umano è possibile e scientificamente corretta. La s. umana non implica l'esistenza di una stretta relazione tra geni e comportamento né la consapevolezza che ogni azione sia finalizzata al miglioramento del proprio successo riproduttivo o di quello dei propri parenti, e neppure che il comportamento sia sempre adattativo. La s. umana è una componente della biologia evoluzionistica che estende i concetti neodarwiniani di filogenesi e selezione naturale all'uomo nel tentativo di analizzare il significato adattativo del suo comportamento. L'approccio sociobiologico quindi non si contrappone a quello molecolare, ma al contrario lo integra in modo complementare fornendo, unitamente alle spiegazioni della fisica, della chimica e della fisiologia, una visione integrata della biologia umana.

I sociobiologi hanno offerto spiegazioni adattative dell'omosessualità, del celibato, dell'aborto, della contraccezione, del tabù dell'incesto, della donazione di sangue e di molti altri aspetti del comportamento umano. L'adattatività dei tratti fenotipici comportamentali non richiede necessariamente l'esistenza di una base genetica specifica. Infatti, i comportamenti appresi, perfino quelli comparsi più di recente, possono essere il risultato di strutture cognitive ed emozionali modellate dalla selezione naturale. Il programma adattazionista, come è stato definito l'approccio che tenta di ricondurre i fenomeni biologici ad aspetti dell'adattamento (Mayr 1983), può essere applicato a tratti caratterizzati da qualunque grado di plasticità. L'imitare i tratti comportamentali che conducono al successo e l'evitare quelli che provocano dolore o che sono associati al fallimento, per es., determinano strategie altamente flessibili i cui risultati (l'acquisizione di risorse, l'astensione da atti autolesionistici, ecc.) sono probabilmente adattativi oggi come lo sono stati nel passato.

Nel proporre ipotesi adattative, alcuni sociobiologi (psicologi evolutivi) pongono maggiore enfasi sul disegno funzionale dei meccanismi biologici che sono alla base del comportamento umano, mentre altri (antropologi darwiniani) sono più interessati alle sue conseguenze in termini di successo riproduttivo (Crawford 1993). Psicologi evolutivi e antropologi darwiniani attribuiscono una diversa rilevanza all'ambiente ancestrale, dove gli adattamenti si sono evoluti, e all'ambiente attuale, dove essi sono studiati. Gli psicologi evolutivi utilizzano il comportamento per delucidare il disegno funzionale del meccanismo che lo produce, e sostengono che, giacché l'ambiente ancestrale e quello attuale divergono considerevolmente, l'evidenza di differenze nel successo riproduttivo non costituisce un criterio valido per l'identificazione dei tratti adattativi. Gli antropologi darwiniani, al contrario, focalizzano l'attenzione sul comportamento e sulle strategie per rendere massima la fitness inclusiva e identificano i tratti adattativi misurando il successo riproduttivo relativo. Se l'applicazione sistematica dell'approccio adattazionista è stata enormemente fruttuosa nei campi dell'ecologia e dell'etologia animale, la sua applicazione in biologia umana ha fornito risultati a volte sorprendenti: è sicuramente il caso dello studio evolutivo delle cause delle malattie, per il quale è stato coniato il termine di medicina darwiniana (Nesse e Williams 1991).

Le malattie infettive, per es., possono essere considerate come conflitti in cui sia l'agente patogeno sia l'ospite tentano di far prevalere i propri interessi riproduttivi e di sopravvivenza in una escalation evolutiva di stratagemmi contrapposti. Nel contesto della selezione naturale, quindi, segni e sintomi possono essere classificati come manifestazioni del danno provocato dall'agente patogeno o come difese elaborate dall'ospite. La febbre, per es., può essere intesa come un mezzo per inattivare tossine batteriche; la tosse, il vomito e la diarrea come strategie per espellere batteri dai polmoni, dallo stomaco e dall'intestino; la caduta dei livelli ematici di ferro come il tentativo di sequestrare questo minerale privando i batteri di una risorsa per loro indispensabile. La comprensione della natura evolutiva della relazione agente patogeno-ospite e la conoscenza del significato adattativo dei segni e dei sintomi possono fornire importanti elementi per pianificare in modo accurato ed efficace trattamenti medici e terapie. Infatti, i trattamenti diretti contro l'agente patogeno si rivelano in genere molto utili nel rendere più rapido il decorso delle malattie e accelerare il processo di guarigione: altrettanto non si può dire dei trattamenti diretti contro le difese dell'ospite. Nel caso della febbre, per es., è stato dimostrato che l'uso di aspirina o di altri farmaci antipiretici, a volte, può produrre una riduzione della resistenza dell'ospite all'infezione, anziché il suo potenziamento (Kluger 1991). L'approccio evolutivo può quindi contribuire a una migliore definizione dei costi e dei benefici insiti nella scelta di ogni terapia.

Le complicanze mediche della gravidanza e del parto possono essere viste come un caso speciale di conflitto d'interessi tra geni materni e geni fetali (Haig 1993). Infatti, in condizioni di stress nutrizionale − condizioni peraltro prevalenti durante la nostra storia evolutiva − gli interessi selettivi dei geni materni e di quelli fetali possono divergere sensibilmente e quello che è positivo per la madre può non esserlo per il feto, e viceversa. In queste condizioni, geni materni e geni fetali entrano in competizione.

La ''teoria del conflitto genetico'' stabilisce che i geni fetali si sono evoluti per aumentare il trasporto di sostanze nutritive dalla madre al feto, mentre quelli materni sono stati selezionati per limitare tale trasporto, ottimizzando l'investimento parentale. Così si spiegherebbero fenomeni altrimenti difficilmente interpretabili, come la concomitante presenza di alti livelli di glucosio e d'insulina nel sangue materno e la simultanea attivazione di meccanismi vasocostrittori e vasodilatatori. L'induzione d'insulino-resistenza attraverso l'azione di ormoni placentari e la conseguente elevazione dei livelli di glucosio costituirebbero infatti il tentativo fetale di arricchire la composizione nutritiva del sangue materno. Il feto non si limiterebbe a modificare la qualità del sangue che lo raggiunge, ma agirebbe anche sulla sua quantità liberando fattori citotossici placentari che aumentano la resistenza sistemica materna. L'elevata produzione d'insulina e l'alto grado di vasodilatazione rappresenterebbero, al contrario, il tentativo materno di opporsi alla manipolazione fetale che, se non adeguatamente contrastata, può condurre a diabete gestazionale e a ipertensione gravidica. Il conflitto madre-feto continua fino al parto, che costituisce un momento d'incrementato rischio per entrambi. Con il parto, comunque, il feto perde definitivamente la possibilità di manipolare biochimicamente la madre. Haig (1993) ha suggerito che i geni fetali sono stati selezionati per ritardare tale momento, massimizzando così i benefici legati alla permanenza del feto nell'ambiente uterino. I geni materni, di contro, possono essersi evoluti per accelerare il momento del parto minimizzando, quindi, i rischi associati al progressivo incremento delle dimensioni corporee del feto.

Alcune malattie sono infine spiegabili nell'ambito di un'ipotesi di anormalità filogenetica del contesto ambientale. Negli ultimi 10.000 anni, infatti, l'ambiente di adattamento evolutivo della nostra specie è mutato drammaticamente, mentre il nostro genotipo è rimasto per gran parte identico a quello dei popoli cacciatori e raccoglitori della fine del Paleolitico. Il progresso tecnologico e culturale ha eliminato quasi ovunque molti agenti selettivi (malnutrizione, parassiti, malattie infettive, ecc.) che hanno modellato la nostra evoluzione. Le nostre condizioni di vita sono enormemente migliorate e la vita stessa dura più a lungo. Con il benessere, comunque, la scienza e la tecnologia hanno portato anche le cosiddette ''malattie della civilizzazione'' (obesità, diabete mellito, ipertensione, aterosclerosi, cancro), che erano probabilmente rare o addirittura sconosciute nell'era paleolitica e che oggi nelle società affluenti sono responsabili di circa il 75% di tutti i decessi (Eaton e al. 1988). Queste malattie possono essere viste come il risultato di adattamenti che in passato esercitavano un'influenza positiva sulla sopravvivenza e sul successo riproduttivo. Le preferenze alimentari per le sostanze dolci, per i cibi grassi e per il sale, e un alto grado di efficienza metabolica dovevano costituire indubbi vantaggi selettivi nell'ambiente ancestrale in cui la disponibilità di risorse era ridotta o scarsamente prevedibile. Questi adattamenti infatti favorivano la costituzione di riserve di grasso corporeo durante i periodi di ricchezza trofica e la loro difesa durante i periodi di carestia, assicurando così isolamento termico, copertura dei bisogni energetici e nutritivi, normalità della funzione riproduttiva femminile e produzione di latte nelle fasi precoci dello sviluppo infantile. Nei paesi industrializzati, a causa della grande abbondanza di risorse alimentari e della ridotta attività fisica, questi meccanismi hanno perduto la loro funzione originaria imponendo un costo biologico alla nostra civiltà. Così si spiegherebbe la comparsa di importanti malattie croniche e degenerative. Infatti, l'eccesso di calorie e di grassi alimentari può condurre a obesità, diabete mellito, aterosclerosi e cancro; quello di sale, a ipertensione. L'aumento dell'efficienza metabolica e della preferenza per cibi ricchi di calorie, sperimentati dalle persone che si sottopongono a una dieta, rappresentano, quindi, l'espressione attuale di questi adattamenti e contribuiscono a spiegare, almeno in parte, l'alto tasso di insuccessi che si registrano nel trattamento e nella cura dell'obesità (Wooley e Garner 1991).

La s. e la medicina darwiniana, nella quale essa sfuma, costituiscono importanti e recenti rivitalizzazioni del pensiero evoluzionistico e aperte sfide alla spiegazione biologica di fenomeni molto complessi come la natura umana e le cause ultime delle malattie. Al di là di ogni possibile polemica o implicazione, sembra lecito concludere che i risultati finora ottenuti da esse appaiono molto più che semplici promesse di futuri successi.

Bibl.: W.D. Hamilton, The genetical theory of social behaviour, i, ii, in J. Ther. Biol., 7 (1964), pp. 1-52; J. Maynard-Smith, Group selection and kin selection, in Nature, 20 (1964), pp. 1145-47; R. Trivers, The evolution of reciprocal altruism, in Q. Rev. Biol., 46 (1971), pp. 35-37; R.D. Alexander, The evolution of social behavior, in Ann. Rev. Ecol. Syst., 5 (1974), pp. 325-83; R. Trivers, Parent-offspring conflict, in Am. Zool., 14 (1974), pp. 249-64; E.O. Wilson, Sociobiology: the new synthesis, Cambridge (Mass.) 1975; E. Mayr, How to carry out the adaptationist program?, in Am. Nat., 121 (1983), pp. 324-34; S.B. Eaton, M. Konner, M. Shostak, Stone agers in the fast lane: chronic degenerative diseases in evolutionary perspective, in Am. J. Med., 84 (1988), pp. 739-49; P.G. Hepper, Recognizing kin: ontogeny and classification, in Kin recognition, a cura di P.G. Hepper, Cambridge 1991, pp. 259-88; M.J. Kluger, The adaptive value of fever, in Fever: Basic mechanisms and management, a cura di P.A. Mackowiak, New York 1991, pp. 105-24; G.C. Nesse, G.C. Williams, The dawn of Darwinian medicine, in Q. Rev. Biol., 66 (1991), pp. 1-22; S.C. Wooley, D.M. Garner, Obesity treatment: The high cost of false hope, in Am. J. Diet. Ass., 91 (1991), pp. 1248-51; C.B. Crawford, The future of sociobiology: counting babies or studying proximate mechanisms, in TREE, 8 (1993), pp. 183-86; D. Haig, Genetics conflicts in human pregnancy, in Q. Rev. Biol., 68 (1993), pp. 495-532.

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