Sociologia

Dizionario di Storia (2011)

sociologia


Scienza che ha per oggetto i fenomeni sociali indagati nelle loro cause, manifestazioni ed effetti, nei loro rapporti reciproci e in riferimento ad altri avvenimenti. La nascita della s. come scienza autonoma, da un punto di vista storico, è una vicenda concettuale che corrisponde ad alcune componenti significative della Rivoluzione industriale compiutasi in Europa durante il 19° sec.: il progresso tecnico e materiale; la trasformazione dei modi di produzione e di organizzazione del lavoro; lo sviluppo delle scienze naturali; l’espansione della classe borghese e l’emergere nel suo seno di alcuni gruppi di intellettuali profondamente delusi dai fallimenti della Rivoluzione francese e in genere scettici sulle possibilità di riforma legate all’azione politica, i quali si collocavano in una posizione critica nei confronti della società del proprio tempo e dei suoi assetti di potere. Queste condizioni storiche e culturali avevano fatto maturare l’esigenza di un nuovo sapere sistematico, applicato a un oggetto distinto, la , che appariva dotato, come la natura, di una sua intima struttura nomologica e doveva perciò rendersi conoscibile con gli stessi strumenti di indagine usati dalle scienze naturali. Al tempo stesso, la nuova scienza della società, essendo impostata su corsi storici necessari e necessitanti, avrebbe potuto consentire alle élite intellettuali interventi attivi sull’organizzazione della società: teoria e prassi, per questa via, sembravano evidentemente inseparabili. Così è per gli esponenti del positivismo francese dell’Ottocento – con A. Comte e C.-H. Saint-Simon a capofila – e per gli esponenti del marxismo, le due scuole di pensiero che per prime si fecero interpreti di queste esigenze. Di Saint-Simon era l’idea che la società moderna fosse caratterizzata dall’industria e dalla produzione in genere; che gli scienziati e gli industriali dovessero diventare le classi dirigenti della nuova società; che un nuovo tipo di religione «laica» e umanistica avrebbe dovuto garantire l’integrazione sociale; che si dovesse costruire una teoria generale a fondamento dell’unità delle conoscenze umane. Queste idee furono ereditate e sviluppate da Comte nel progetto di una s. «positiva» – distinta, come in un manuale di fisica, tra statica e dinamica – che aveva come scopo quello di fissare le leggi oggettive dello sviluppo sociale, individuate in particolare nella legge del progresso e in quella legge dei «tre stadi» (teologico, metafisico e positivo), attraverso i quali si compie necessariamente l’evoluzione storica di ogni società. E alla società, considerata in questo modo alla stregua di un organismo naturale, si ispira anche il concetto di evoluzione che H. Spencer (Principles of sociology, 1883; trad. it. 1968) applica alla vita dell’organizzazione sociale nel trapasso dall’omogeneo all’eterogeneo, traendolo dalla biologia darwiniana. Le teorie dell’evoluzionismo sociologico ebbero un seguito particolare in Italia con le diverse correnti della s. giuridica e criminale: da R. Ardigò a G. Ferrero, da C. Lombroso a E. Ferri. L’altra scuola importante nella fase che si potrebbe definire della protosociologia è quella che si richiama al pensiero di K. Marx, sebbene l’attribuzione della dottrina marxista alla tradizione sociologica in quanto tale non sia sempre considerata legittima. Sta di fatto, tuttavia, che sono proprio le categorie concettuali del materialismo storico a porre con forza l’idea che è la società «il vero teatro della storia» – come si legge nella Deutsche Ideologie di Marx (1845) – e a fornire l’indicazione di metodo che nell’ambito della società civile, e dell’economia politica che ne costituisce l’«anatomia», vadano ricercate le determinanti fondamentali della vita di relazione e delle sue forme evolutive. Concetti e categorie di analisi empirica – quali la divisione del lavoro, le classi sociali, l’alienazione ecc. – traggono d’altra parte proprio dal marxismo la loro fondazione sociologica. Dal punto di vista metodologico, la s. è subito segnata dalla contrapposizione fra positivismo e storicismo, ovvero fra la tendenza a ricondurre l’analisi dei fatti sociali al modello di spiegazione generalizzante, proprio delle scienze naturali, e la tendenza a costituirla come scienza a sé che, al pari della ricerca storiografica, è orientata piuttosto verso compiti interpretativi e verso strategie di indagine idiografica, cioè basate sull’individuazione dell’oggetto di analisi come fatto unico e irripetibile. Sul versante della tradizione positivistica della s. spicca l’opera di É. Durkheim, al quale va ascritto il merito di aver fondato (o ri­fondato) la s. su basi di scienza empirica e come ricomposizione coerente di teoria e fatti. Con la ricerca sul suicidio (Le suicide. Étude de sociologie, 1897; trad. it. 1969) e soprattutto con Les règles de la méthode (1895; trad. it. 1963), Durkheim pone a oggetto della s. i fatti sociali considerati come «nude cose», che si definiscono come «modi di sentire, di pensare e di agire» capaci di assumere un’esistenza indipendente dagli individui che pure li pongono in essere e di esercitare anzi una pressione cogente, dall’esterno, sulle loro azioni. Per un altro verso, i fatti sociali costituiscono gli stampi entro cui il sociologo è costretto a operare e l’unico livello di analisi che consente al metodo sociologico una effettiva autonomia di giudizio, mediante la costruzione di una trama di nessi causali in cui i fatti sociali sono fra essi collegati. In questo senso il positivismo di Durkheim è più vicino alla logica induttiva di J. Stuart Mill che non alla filosofia sociale di Comte, e influisce notevolmente sugli sviluppi della s. nella prima parte del 20° sec.: basti pensare ad autori come V. Pareto che, muovendo dal paradigma della razionalità economica, assume che le uniche chance scientifiche della s. sono legate alla possibilità di studiare le azioni logiche degli individui, in quanto modelli spiegabili e quindi prevedibili di comportamento. A questa tradizione metodologica se ne contrappone un’altra, altrettanto importante e variegata, che può farsi risalire allo storicismo tedesco di inizio secolo, e in particolare agli esponenti più rappresentativi della cosiddetta Scuola neokantiana: W. Dilthey, W. Windelband, H. Rickert. A questi autori si deve il tentativo di sistematizzare una linea di demarcazione fra le scienze della natura e le scienze della cultura, che per Dilthey è radicale poiché le separa da ogni punto di vista – ontologico, gnoseologico e metodologico – mentre per gli altri attiene soltanto alla diversa strategia di ricerca seguita in prevalenza dai due gruppi di discipline: di tipo nomotetico, ovvero per modelli di spiegazione generalizzante, nel caso delle scienze naturali, di tipo idiografico, cioè secondo procedimenti di ricostruzione empatica dei fatti, nel caso della storia e della s. (e di tutte le altre scienze della cultura). Questa dicotomia è in parte ricomposta da M. Weber, la cui lezione di metodo (Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, 1904; trad. it. Il metodo delle scienze storico-sociali, 1951) resta ancora oggi fondamentale nell’ambito della s. e delle scienze sociali in genere, ponendole come scienze che, pur muovendosi sul terreno del sapere ontologico e privilegiando l’interpretazione dei fenomeni, non rinunciano al sapere nomologico, cioè agli strumenti della generalizzazione empirica e della causalità sotto forma di leggi («strumenti – come li definisce lo stesso Weber – euristici, utopici, astratti e poliedrici»). La s. comprendente può essere definita in questo quadro come la possibilità di esplicitare il senso evidente di un’azione (il «senso soggettivamente intenzionato»), non però attraverso indagini di tipo psicologico, ma sempre in connessione con qualche tipo ideale che ne misura oggettività e razionalità. Il tipo ideale (Idealtypus) è inteso come un costrutto mentale ottenuto convenzionalmente mediante «l’accentuazione unilaterale di uno o più punti di vista rilevanti» relativi al fenomeno indagato: serve a orientare, comparare, confermare la conoscenza, e non a riprodurre la realtà. La selezione della realtà, implicita nella s. weberiana, rimanda a uno dei luoghi fondamentali del suo pensiero: la differenza fra giudizi di valore e giudizi di fatto. La scienza spiega e non valuta, e tuttavia non può prescindere dal riferimento ai valori che nondimeno è possibile neutralizzare ricorrendo al controllo intersoggettivo (problema dell’«avalu­tatività»), alla probità intellettuale, alla separazione fra etica della responsabilità ed etica delle convinzioni, fra mezzi e scopi dell’azione sociale. Altri autori, sempre in Germania, contribuirono al progresso della s. di impianto storicista, curando in particolare alcuni aspetti formali relativi al metodo e approfondendo alcune categorie fondamentali della teoria sociologica: fra questi F. Tönnies, G. Simmel, E. Troeltsch, A. Weber, M. Scheler, E. Gothein. L’evoluzione successiva della s. si caratterizza – come afferma C. Wright Mills – per il passaggio e per la continua oscillazione dagli estremi della grande teorizzazione agli estremi dell’empirismo astratto: per dire dell’opposta vocazione della s. ad abbracciare sistemi chiusi, ovvero a sottomettersi a una specie di culto del dato fine a sé stesso e senza un preciso orientamento concettuale. La scuola americana dello struttural-funzionalismo di T. Parsons (The social system, 1951; trad. it. 1965) mette capo al tentativo di costruire un sofisticato e complicatissimo quadro di concetti basati sulla nozione-chiave di sistema – quale insieme interrelato di ruoli, strutture e funzioni, secondo un approccio di derivazione cibernetica – e destinati a fornire un valido supporto alla ricerca empirica. Tutta una generazione di sociologi – fra i quali G.C. Homans, E. Shils, N.J. Smelser – si ispirerà a questa stessa impostazione, sia pure cercando di correggerne, di volta in volta, gli aspetti più problematici e controversi: come fa, in particolare, R.K. Merton (The social structure, 1954; trad. it. 1968) nell’intento di sostituire il funzionalismo assoluto di Parsons con un funzionalismo relativo, che revoca in dubbio il postulato dell’unità (tutti gli elementi del sistema tendono a un equilibrio stabile) e introduce l’idea che, accanto alle funzioni, possano esistere anche disfunzioni, accanto alle funzioni manifeste anche funzioni latenti nonché effetti non attesi nelle conseguenze delle azioni sociali. Infine, da un punto di vista metodologico, fornisce l’indicazione di teorie a medio raggio che possono servire meglio l’attitudine della s. come scienza empirica. Per un altro verso, la s. empirica della cosiddetta Scuola di Chicago, nel primo dopoguerra, fa progredire la strumentazione euristica della s. ma la sottopone alle critiche di «quantifrenia», per usare la stessa espressione di P. Sorokin, e cioè di una ricerca quasi maniacale dei metodi quantitativi. Il rappresentante più autorevole di questo movimento neopositivista è P.F. Lazarsfeld, per il quale la ricerca sociologica diventa essenzialmente indagine di mercato, analisi del comportamento elettorale, elaborazione di sondaggi di opinione a base nazionale e campionaria: il metodo diventa rigore procedurale, applicazione di strumenti matematico-statistici, classificazione minuziosa, induttivismo logico e probabilistico. L’altra linea di demarcazione che attraversa le teorie sociologiche contemporanee, in parte sovrapponibile alla prima, è posta dall’alternativa metodologica fra individualismo e collettivismo che, nella sua versione più radicale, ripropone la disputa di origine filosofica fra una prospettiva incline a considerare come oggetto del­l’analisi sociologica esclusivamente le conseguenze intenzionali e gli ordini spontanei che scaturiscono dall’azione degli individui, e un’altra che ammette invece l’esistenza di concetti collettivi – quali lo Stato, le classi, il mercato e l’intera gamma delle strutture sociali – insieme a leggi di sviluppo e di progresso. A porre con forza le ragioni dell’individualismo metodologico nelle scienze sociali sono gli esponenti della scuola marginalista austriaca – già con C. Menger agli inizi del 20° sec., e poi con L. von Mises e F. von Hayek – che si contrappongono alla maggior parte delle teorie ereditate dalla tradizione sociologica, da Comte a Parsons, tutte in qualche modo inficiate dalla «presunzione fatale», dice Hayek, che porta ad abusare dei modelli di razionalità olistica e costruttivistica con i quali si crede di poter spiegare tutto di tutta la società e di poterne pianificare l’ordine e l’evoluzione storica. Un momento particolarmente significativo di questa controversia è dato dalla polemica fra gli autori che prendono posizione a difesa del razionalismo critico di K.R. Popper, ribadendo le tesi dell’individualismo metodologico, e quelli che si richiamano alla lezione della Scuola di Francoforte di M. Horkheimer e T.W. Adorno, i quali rivendicano invece, contro le pretese dello scientismo, il primato di una s. critica orientata, attraverso la rivalutazione della dialettica hegeliana nel solco della tradizione marxista, all’elaborazione di programmi non solo conoscitivi ma anche di azione politica, in particolare contro la razionalità del capitalismo maturo e i suoi strumenti tecnologici e consumistici di dominio sulle masse. Il movimento dei francofortesi accelera un processo di crisi, di identità e di consenso, interno alla disciplina, causandone la frantumazione in una pluralità di metodi, approcci e teorie. La stessa alternativa fra individualismo metodologico e olismo si riduce, a cavallo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, a una scelta non necessariamente contraddittoria fra diversi livelli di analisi, ovvero fra contesti di micro- e di macroanalisi nei quali confluiscono contributi e indirizzi spesso non convenzionali. Dalla parte della microsociologia stanno tutte quelle offerte di metodo e di analisi che si possono definire come s. della vita quotidiana (P.L. Berger): l’interazionismo simbolico, attraverso le nozioni di framing, cioè di contesto (G.H. Mead), di definizione della situazione (W.I. Thomas), di orizzonte sociale (E. Goffman); l’etnometodologia, attraverso la destrutturazione dei linguaggi ufficiali e la ricostruzione delle pratiche metodiche della conversazione (H. Garfinkel, 1967); la s. cognitiva e qualitativa, attraverso le analisi di contenuto e le interpretazioni di senso (A.V. Cicourel, 1973); la sociofenomenologia, attraverso la ricerca di senso e intenzionalità dei «mondi vitali» (A. Shutz); tutti accomunati, nonostante la diversità delle relative impostazioni, da una spiccata inclinazione verso il soggettivismo e le tecniche di empatia, nonché da un rifiuto più o meno esplicito verso le determinanti strutturali dell’azione. Rientrano nello stesso schema, pur distinguendosene per il rifiuto opposto a ogni forma di indeterminismo e psicologismo, le teorie della razionalità, le quali disegnano un homo sociologicus sullo stampo dell’homo oeconomicus, assumendo che il comportamento sociale sia intelligibile alla luce di una logica situazionale, ovvero di criteri di adattamento di ogni attore al contesto in cui si trova ad agire secondo il modello della combinazione ottimale fra mezzi e fini (R. Boudon, J. Elster). Dalla parte della macrosociologia si collocano le teorie strutturaliste e sistemiche sulla società. La complessa architettura sociologica di N. Luhmann costituisce un esempio interessante di teoria sistemica costruita con i contributi di più teorie analitiche (cognitive, strutturali, funzionali, simboliche, comunicazionali), che tende a proporre, caduta l’idea dello sviluppo, una nuova morfologia della storia in termini di complessità di sistemi autoreferenti, che hanno cioè come unico scopo quello del loro mantenimento, assimilando al proprio interno e a proprio vantaggio conflitti e cambiamenti. Dal canto suo, lo strutturalismo – dopo la fase classica degli anni Sessanta in cui si presentava più che altro come una moda filosofica (C. Lévi-Strauss, L. Althusser, M. Foucault) – ripropone una lettura di una società asincronica e di una storia i cui contenuti di socialità sono dati dagli insiemi statici e relazionali di organizzazioni, simboli, forme discorsive assunti sia come modelli euristici, sia come oggetti reali di analisi (A. Giddens, M. Crozier, L.A. Coser). Oggi la s. si trova ancora nelle condizioni di una «inferma scienza» (come la descriveva nel 1975 un gruppo di sociologi italiani in un libro omonimo), non diversamente peraltro da altre scienze sociali e perfino naturali, alla continua ricerca di un paradigma unificante: che tuttavia è una condizione assai favorevole, dopo gli innegabili successi ottenuti, per il suo ulteriore sviluppo e per il riscatto definitivo dall’handicap di partenza, per avere cioè cominciato, tardi e male, come disciplina continuamente in bilico fra libertà e necessità quali dimensioni tendenzialmente contraddittorie dell’esperienza umana.

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