SOFOCLE

Enciclopedia Italiana (1936)

SOFOCLE (Σοϕοκλῆς, Sophŏcles)

Gennaro Perrotta

Poeta tragico ateniese. Figlio di Sofillo, nacque probabilmente nella seconda metà del 497 ad Atene; apparteneva alla tribù Egeide, al demo di Colono. La tradizione ha voluto che nel celebre coro dell'Edipo a Colono il poeta celebrasse il demo nativo, e ch'egli fosse, perciò, nato a Colono Ippio. Il nome della tribù ci assicura che S. dové nascere in città, nel quartiere dove si svolgeva l'attività del padre, ch'era un ricco fabbricante d'armi: dové dunque appartenere al demo di Colono 'Αγοραῖος. Secondo una tradizione che non v'è ragione di considerare leggenda, guidò con la lira il coro di giovinetti che cantò il peana intorno al trofeo della battaglia di Salamina; se pure può sembrare artificiosa la cronologia dei tre grandi tragici raggruppata intorno alla battaglia di Salamina, che è certo dovuta a un grammatico non sfornito di senso poetico. Come citarista S. fu ritratto da Polignoto nelle celebri pitture della stoá poikíle. Suo maestro nella musica e nella danza sarebbe stato il famoso Lampro; ma si oppongono difficoltà cronologiche. Ebbe la prima vittoria nel 468; è probabile che avesse concorso già prima agli agoni drammatici. Della tetralogia faceva parte il Trittolemo. Ebbe cariche pubbliche importanti; ma non fu uomo politico notevole. Nel 443 fu eletto ellenotamia, cioè amministratore del tesoro della Lega attica; nel 441-440 fu stratega insieme con Pericle e prese parte con lui alla guerra per sottomettere Samo ribelle. Il poeta contemporaneo Ione di Chio lo rappresenta come un uomo di mondo, mentre dà una lezione di estetica e di spirito a un maestro di scuola pedante, in una mirabile pagina conservataci da Ateneo. Probabilmente S. fu di nuovo stratego nel 428-427 con Nicia e fu dei dieci probuli nominati nel settembre del 413, dopo il disastro della spedizione di Sicilia, a preparare il governo dei Quattrocento. Parecchi aneddoti riferentisi ai suoi amori contengono qualche verità, oscurata da invenzioni e da scherzi. Non autentici sono certamente quelli che lo farebbero apparire rivale e critico acerbo di Euripide: secondo una tradizione degna di fede, il poeta vecchissimo avrebbe reso onore, presentandosi vestito a lutto nelle rappresentazioni del 406, al rivale morto da poco. Esempio di genio fecondo e inesauribile, S. scrisse alcuni capolavori nell'estrema vecchiezza. Nel 409, a 88 anni, fece rappresentare il Filottete; e fu rappresentato per la prima volta postumo il suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono: il poeta era morto nel novembre o nel dicembre del 406. Leggende insipide e sciocche furono raccontate intorno alla sua morte, come, del resto, intorno a quella degli altri due grandi tragici. La sua grande religiosità (nel 420 aveva ricevuto nella sua casa la statua del dio Asclepio trasportata da Epidauro ad Atene) gli fece tribiltare culto di eroe: fu venerato col nome di Dexione in ricordo dell'ospitalità data al dio. Ebbe fama di carattere facile e amabile, di εὔκολος: è notevolissimo che perfino i poeti comici sembrano risparmiarlo e rispettarlo. Un poeta comico, Frinico, subito dopo la sua morte, fa il più bell'elogio della sua vita, del suo carattere, della sua arte. Deve avere qualche cnnsistenza, ma non ebbe certamente grande importanza, la discordia col figlio Iofonte, che avrebbe tentato di far togliere al padre, vecchissimo, l'amministrazione del patrimonio.

L'antichità ebbe almeno tre ritratti del poeta. L'uno era quello della Poikíle. l'altro era la statua fatta erigere da Iofonte nel santuario dell'eroe Dexione; il terzo, la statua di bronzo innalzata tra il 350 e il 330 per proposta dell'oratore Licurgo, insieme con quelle di Eschilo e di Euripide, nel teatro di Dioniso. L'opinione comune riconosce nel celeberrimo Sofocle del Laterano una copia della statua del teatro di Dioniso; nel Sofocle di Londra inclina a vedere una riproduzione della statua consacrata da Iofonte. La statua del Laterano è un'idealizzazione classicistica, che s'accordò pienamente col culto classicistico di Sofocle nel secolo XIX, contribuendo a sua volta a diffondere il mito della "serenità greca".

L'erma di Londra, pur rappresentando anch'essa più un tipo che una persona, raffigura assai meglio il pathos profondo e triste della poesia sofoclea.

A S. sono attribuite tre innovazioni importanti nella tecnica della tragedia: l'aumento del numero dei coreuti da 12 a 15; l'aggiunta del terzo attore; la composizione di drammi indipendenti, liberi dal legame della trilogia. Soltanto la prima è incontestabilmente sua. Il terzo attore è già nell'Orestea di Eschilo, e a Eschilo l'attribuiva una parte della tradizione; se Aristotele nella Poetica ne dà il merito a S., par bene che l'attribuisse a Eschilo nel dialogo perduto I poeti. Per la terza innovazione, molto probabilmente S. si limitò a far divenire una regola quella che prima era soltanto un'eccezione; ma già i Persiani eschilei non avevano nessun legame con gli altri drammi della trilogia, e molto probabilmente anche Frinico, con la sua Presa di Mileto, staccava un dramma dal resto della trilogia. In ogni caso, anche S. almeno una volta scrisse una tetralogia (o almeno una trilogia) di drammi appartenenti alla stessa storia mitica: una iscrizione recentemente scoperta ci parla di una sua Telefea. Ma le tre innovazioni praticate da S. corrispondono bene al carattere della sua arte. Soprattutto importante è la terza: il dramma separato segna il perfetto dominio del poeta sul mito, la massima libertà possibile dal peso della materia mitica.

Aristofane di Bisanzio conosceva 130 drammi attribuiti a S.; ma di questi sapeva che 7 erano spurî. Dell'immensa produzione sofoclea ci sono conservate soltanto 7 tragedie, che risalgono a una scelta scolastica compilata con criterî eterogenei. Aiace, Elettra, Antigone, Edipo re, Edipo a Colono, Le Trachinie, Filottete. Un papiro di Ossirinco della fine del sec. II d. C. (P. Ox., IX, 1174), pubblicato da A. Hunt nel 1912, ci ha reso più della metà del dramma satiresco I segugi ('Ιχξευταί). Un altro papiro di Ossirinco dello stesso tempo (IX, 1175) ha conservato alcuni frammenti dell'Euripilo; un terzo papiro di Ossirinco (XVII, 2077) contiene frammenti che certo appartenevano agli Sciri.

È incerta la cronologia dei drammi, fuorché quella del Filottete, fissata nel 409 da una notizia che risale alle didascalie. Sicuramente posteriore al Filottete è l'Edipo a Colono, che dovette essere rappresentato la prima volta postumo (inutilmente si è tentato varie volte di sostenere il contrario).

Quasi certamente l'Antigone è del 442 ed è il più antico dei drammi conservati; comunque, la sua cronologia non può oscillare di molto dovendosi ritenere attendibile la connessione cronologica (non quella causale) stabilita dalla tradizione con la strategia del 441-440. Molto incerta è la cronologia delle altre tragedie, per le quali mancano completamente indizî esterni. Stabilirla sarebbe importante, perché la cronologia è strettamente legata al problema della più volte affermata evoluzione dell'arte sofoclea e degl'influssi di Euripide che il poeta risente innegabilmente nella sua vecchiaia. Indubbiamente l'Aiace è antico, ma forse a torto è ritenuto anteriore all'Antigone; è certo, però, anteriore alle altre cinque tragedie.

L'Edipo re, che si suole affermare anteriore al 425, molto probabilmente dev'essere collocato, per ragioni d'indole formale, nel 415-412. Certamente tarda è l'Elettra, quasi certamente posteriore all'Elettra euripidea che è del 413. E tardissime, fors'anche posteriori al Filottete, in ogni caso non lontane cronologicamente da questo dramma e certo posteriori all'Eracle euripideo, devono ritenersi le Trachinie, nonostante gli sforzi di alcuni critici recenti che vorrebbero farne una tragedia arcaica. I segugi, che da principio s'inclinò a ritenere arcaici, non sono probabilmente anteriori al 415. Sicuro è a ogni modo che le tragedie di Sofocle conservate si possono dividere in due gruppi: al primo appartengono l'Antigone e l'Aiace, al secondo tutte e cinque le altre. Il primo gruppo appartiene al periodo della maturità piena del poeta; il secondo, alla vecchiaia. Anche il dramma satiresco dev'esser compreso nel secondo gruppo. Mancano opere che rappresentino l'arte giovanile del poeta: i frammenti del Trittolemo e dell'Euripilo non bastano a darne l'idea.

Il neoclassicismo attribuì a torto serenità e ottimismo a S.: le notizie antiche sul carattere εὔκολος e sulla vita fortunata dell'uomo, ma soprattutto una falsa interpretazione della sua arte, fecero di S. il più perfetto rappresentante della "serenità greca": S. fu considerato l'incarnazione del mito. Per il primo Nietzsche seppe discernere, nel chiaro linguaggio degli eroi sofoclei, il sottile "velo apollineo" che ricopriva l'essenza dionisiaca della sua poesia. In realtà S. non è ottimista, né sereno. Un poeta profondamente religioso, ma d'una religiosità serena, sarebbe tratto non soltanto a vedere in ogni atto, in ogni circostanza della vita, l'opera d'una potenza sovrumana, ma a cantare ogni suo canto come un inno in gloria del cielo. Quest'inno, S. non cantò mai, neppure nell'Edipo a Colono, che a torto è sembrato così spesso il dramma della grazia e della redenzione. Indubbiamente S. è religiosissimo: per lui la pietà verso gli dei è la virtù suprema, come fa dire da Etacle a Filottete. Gli dei sono per lui onnipotenti; ma sono anche giusti? Se anche son giusti, la loro giustizia non appare tale agli uomini. La fede delle ultime tragedie non è in tutto quella delle prime: essa è divenuta rassegnazione. La morale sofoclea si riassume tutta in due virtù: Sophrosyne ed Eusebeia. Eschilo non aveva pensato diversamente. Ma S. vede che il nostro mondo è pieno d'infelicità e di dolore; a differenza di Eschilo, sa che gli uomini possono essere infelicissimi, anche se innocenti e virtuosi. Questo è pessimismo; e giustamente già uno scoliasta definiva "epicedio della vita umana" un celebre coro dell'Edipo re, come un altro "epicedio della vita umana" è l'altro coro dell'Edipo a Colono, che lamenta non soltanto i mali della vecchiezza, ma l'infelicità e l'inutilità di tutta la vita. Nonostante il pessimismo, la fede del poeta è profonda; e il suo animo non abdica alla sua fede, perché trova negli dei un rifugio, il solo rifugio.

I problemi morali, fuorché nell'Antigone e nell'Aiace, non sono più, come in Eschilo, al centro del dramma, ma alla periferia. È, però, errore grave vedere in S. un puro artissta, indifferente ai problemi morali, un pensatore inferiore a Eschilo, unicamente preoccupato di scrivere belle tragedie; o, peggio ancora, trovare nel suo pensiero addirittura un regresso rispetto alla religione e alla morale eschilea. S. volle essere e fu un maestro di moralità altissima: dalla più antica delle sette tragedie, dove oppone alle leggi dello stato, che possono consistere nell'arbitrio di un tiranno, "le leggi scritte nell'etere", alla tragedia più recente, l'Edipo a Colono, dove Edipo, difendendo la sua innocenza, fa la più energica e profonda affermazione etica che un poeta greco abbia mai fatta: in ogni colpa il male non sta nell'atto, ma nell'intenzione, nella coscienza del colpevole. L'innocenza di Edipo sta nella testimonianza della propria coscienza. È errore grave, dunque, considerare come si fa generalmente, i due Edipi come drammi fatalistici, e S. stesso come un fatalista: la volontà degli dei non può fare di Edipo un colpevole, ma soltanto uno sventurato degno dell'umana compassione. Nell'Elettra è evitato intenzionalmente il problema morale, ma questo non autorizza affatto ad affermare l'indifferenza del poeta per questi problemi, o, peggio ancora, a credere ch'egli approvi senz'altro il matricidio di Oreste. Proprio l'esempio di Eschilo aveva mostrato che quel problema morale era insolubile: S., come del resto Eschilo, non poteva condannare né Oreste, né Apollo, né l'uomo, né il dio.

Ma altrove S. supera non solo l'etica greca comune, ma anche quella di Eschilo: attraverso le parole di rispetto e di compassione che ha Odisseo per Aiace, il poeta mostra d'aver compreso che la debolezza e la caducità umana accomunano gli uomini, superando l'antitesi perennemente posta dall'etica greca comune tra i due mondi chiusi degli amici e dei nemici. Non ignara mali miseris succurrere disco è concetto, ancor prima che virgiliano, sofocleo.

Nell'architettura delle tragedie dominano semplicità e uniformità. costantemente il poeta annoda un'azione intorno a un personaggio, a un protagonista, che domina, dal principio alla fine, tutto il dramma. Unica eccezione, più apparente che reale, sono le Trachinie: l'azione si concentra prima tutta intorno a Deianira, poi tutta intorno a Eracle, dopo che Deianira è morta. Questo schema, che cerca l'unità in un personaggio, era sconosciuto a Eschilo; fu adoperato, invece, da Euripide: la Medea è un esempio caratteristico di tragedia costruita intorno a un personaggio. Ma Euripide, genio novatore e inquieto, mutava continuamente i suoi schemi costruttivi, adoperando le formule più diverse: accanto a una tragedia come la Medea, egli scrisse tragedie come le Troadi e le Fenicie, dove ricercò soltanto un'unità di Stimmung disprezzando ogni unità apparente e formale. S. rimase sempre fedele al suo schema, che ben a ragione potrebbe esser definito "sofocleo": l'Antigone precede la Medea di parecchi anni.

Un tale schema unico, continuamente ripetuto, imponeva necessariamente una tecnica semplice e uniforme. Tanto semplice e uniforme, che S. ripete nell'Elettra, una tragedia degli ultimi anni diversissima nello spirito, gli stessi schemi dell'Antigone, scritta più di trent'anni prima; e crea una Crisotemi sul modello d'Ismene perché abbia risalto la figura della protagonista; e costruisce due contrasti tra Elettra e Crisotemi sullo schema dei due contrasti tra Antigone e Ismene, e il grande contrasto tra Elettra e Clitennestra sullo schema del grande contrasto tra Antigone e Creonte. E così in quattro tragedie la situazione a un certo punto sembra vicina a risolversi felicemente, e il Coro, per manifestare la sua gioia, si mette a danzare un iporchema. Questa sostituzione di un iporchema allo stasimo tradizionale non si trova che in S.; e i quattro canti, soffusi d'un lirismo grazioso e leggiero, s'assomigliano tutti. Essi mirano soprattutto a rendere più profondo il contrasto con la catastrofe imminente e inevitabile, ispirati come sono a un'ironia tragica assai più profonda dell'"ironia tragica" propriamente detta, così comune in tutta la tragedia greca. La drammaturgia sofoclea è tutta dominata dal contrasto: contrasto di personaggi e contrasto di situazioni.

S. non muta quasi mai, fuorché in particolari di pochissimo conto, il mito. Pindaro, Eschilo, Euripide sono assai novatori in questo. Ma S. dà al mito, alla materia, per l'indole stessa della sua arte, assai meno importanza degli altri. Non il mito in sé lo interessa, ma soltanto come si riflette nei suoi personaggi, com'è sentito e sofferto da loro. Il mito, sempre soggettivo nei poeti, raggiunge in S., come già in Pindaro, il massimo grado di soggettività. Euripide, il distruttore dei miti, dà a essi assai più importanza che non sembri: criticare aspramente, ironizzare, è pur sempre un riconoscimento. In S. il "soggetto" conta assai meno che negli altri tragici.

Nel dramma sofocleo il protagonista è tutto: esso non è soltanto il centro dell'azione, ma è il centro poetico della tragedia. Indubbiamente i personaggi secondarî (soprattutto Ismene, Neottolemo, l'Antigone dell'Edipo a Colono), sono tratteggiati ammirevolmente; ma nel contrasto col protagonista essi trovano la loro ragione d'essere più profonda, la loro stessa poesia. I protagonisti si assomigliano tutti: grandi anime, appassionate fortissimamente d'una sola passione, artefici o vittime d'un doloroso destino. Tra l'Antigone e l'Aiace da una parte, gli altri drammi dall'altra, vi è uno stacco. Antigone e Aiace sono eroi che agiscono: il dramma è determinato dalla loro libera, eroica volontà: dalla volontà dell'una di morire per compiere un dovere santo, dalla volontà dell'altro di morire per sfuggire al disonore. Nelle altre cinque tragedie, gli eroi non agiscono più, ma patiscono. Essi non soffrono passivamente, ma il loro è pur sempre un soffrire: vacillano di fronte alla sventura e al dolore. Un eroe perseguitato dalla sventura è sulla scena quasi sempre, dal primo all'ultimo momento; e noi assistiamo alle sue sofferenze che non hanno tregua, anzi lo travolgono in un terribile crescendo. L'azione diventa così un filo sottile che lega insieme le espressioni patetiche di questo suo soffrire. Caratteristico è il caso dell'Elettra, dove l'azione, esteriormente, non ha scopo né senso, e soltanto trova la sua giustificazione nel sollevare e nell'abbattere alternativamente l'anima della protagonista. E la sofferenza è ansia angosciosa nel primo Edipo, brama di vendetta e tenera nostalgia del fratello lontano in Elettra, odio per il tradimento subito in Filottete, furore per l'ingiustizia della sua morte senza gloria in Eracle, desiderio, nel secondo Edipo, di trovare finalmente, con la morte, la pace. L'espressione naturale del pathos che l'eroe sente, è, per S., il monologo, e "monologhi" sono effettivamente, se anche non tali formalmente, le lunghe parlate nelle quali gli eroi sofoclei esprimono il loro dolore.

Nelle ultime tragedie l'arte del poeta, sotto l'influsso di Euripide, diventa più duttile e più umana, più sensibile alla debolezza umana e all'umana pietà. Così nascono creature d'infinita dolcezza, Deianila, "la donna più soave che sia mai apparsa sopra una scena greca", e la seconda Antigone, l'Antigone dell'Edipo a Colono, che rinunzia alle nozze come a ogni gioia della vita per accompagnare, cenciosa e scalza, il padre cieco e mendico. Ma forse la prima Antigone e Aiace sono creazioni anche più grandi. Un'ispirazione ardente ha agitato il poeta nel concepirle: la psicologia è superata e annullata nella poesia. In Aiace e in Antigone, come negli eroi delle altre tragedie, è la poesia della magnanimità che sopporta la sventura e il dolore. Se Euripide è il poeta dell'umana debolezza, S. è il poeta dell'umana grandezza che anche nella sventura conserva intatta la sua nobiltà.

In questa pienezza di passione, in questa nobiltà ed elevatezza di sentimento, in questa magnanimità asprissima che non cede di fronte a nessun ostacolo e a nessuna sventura, è l'essenza della poesia sofoclea.

Ediz. e trad.: Ediz. recenti: S. Mekler, Lipsia 1896; P. Masqueray, Parigi 1922 (2ª ed. 1929); A. C. Pearson, Oxford 1924. Ed. degli scolî: P. N. Papageorgios, Lipsia 1888. Ed. dei frammenti (oltre, naturalmente, quella dei Fragmenta tragicorum di A. Nauck): A. C. Pearson, Cambridge 1917. Ed. commentate (complete): R. C. Jebb, Cambridge 1885I896; (parziali): E. Bruhn, L. Radermacher. Trad. italiane (complete): F. Bellotti, E. Romagnoli, in versi; L. A. Michelangeli, H. Montesi-Festa, in prosa; (parziali): E. Bignone, in versi (Trachinie, Edipo a Colono); G. Perrotta, in prosa (Trachinie).

Bibl.: Lessico sofocleo: F. Ellendt-H. Genthe, Berlino 1872. - Opere critiche: Tycho v. Wilamowitz, Die dramatische Technick des Sophokles, Berlino 1927; Phil. Unters., 22; G. Perrotta, I tragici greci, Bari 1931; H. Weinstock, Sophokles, Lipsia 1931; E. Turolla, La poesia di Sofocle, Bari 1933; E. Bignone, Le Trachinie, Firenze 1933; K. Reinhardt, Sophokles, Francoforte 1933; G. Perrotta, Sofocle, Bari 1935; M. Untersteiner, Sofocle, Firenze 1935.