SOLUZIONE

Enciclopedia Italiana (1936)

SOLUZIONE

Giovanni MALQUORI
Umberto SBORGI
*

. È un sistema omogeneo costituito da due o più componenti. A seconda dello stato di aggregazione si distinguono: soluzioni gassose, liquide, solide.

In senso ristretto si chiama soluzione ogni sistema omogeneo dove uno dei componenti (solvente) prevale rispetto agli altri (soluto). Il corpo o i corpi disciolti si trovano nel mezzo disperdente (solvente) a un alto grado di suddivisione (molecole, atomi, ioni).

Solo per i gas la miscibilità è illimitata e le proprietà dei miscugli gassosi risultano quasi rigorosamente additive; negli altri casi i componenti possono mescolarsi in ogni rapporto, ma più sovente la miscibilità è solo parziale.

Le soluzioni fra gas e liquidi. - La solubilità di un gas in un liquido segue approssimativamente la legge di Henry e Dalton (1803 e 1805) secondo cui la quantità di gas sciolta in un volume di liquido è, a temperatura costante, proporzionale alla pressione del gas, e, qualora si consideri la dissoluzione di un miscuglio di più gas, ciascuno dei componenti si scioglie in ragione della sua singola pressione.

La legge di Henry rientra nel principio di ripartizione (v. equilibrio: Equilibrio chimico) e pertanto se la grandezza molecolare del gas che si distribuisce tra le due fasi, gassosa e liquida, rimane inalterata, avremo a temperatura costante:

relazione che i gas reali soddisfano tanto meglio quanto più piccola è la loro solubilità nel liquido e più bassa la pressione di equilibrio.

I gas molto solubili presentano forti divergenze dal comportamento prevedibile in base alla legge di Henry. Come esempio è riportato nei grafici delle figg. 1 e 2 l'andamento, in funzione della concentrazione, delle pressioni totale e parziali delle soluzioni acquose di ammoniaca e di acido cloridrico rispettivamente a 20° e a 30°. In ambedue i casi è evidente l'anomalia rispetto alla legge di Henry; inoltre si nota per la soluzione ammoniacale un aumento continuo della pressione totale con il crescere della concentrazione della soluzione. Per questo e per i sistemi dove il comportamento è analogo (ad es., H2O e CO2) sarà possibile scacciare dal liquido tutto il gas disciolto mediante il riscaldamento, dato che la solubilità dei gas diminuisce in generale con l'aumentare della temperatura.

Per la soluzione cloridrica si nota invece che la pressione totale decresce con l'aumentare della concentrazione della soluzione, passa per un minimo, e sale poi rapidamente. Col riscaldamento si elimina dal sistema il componente più volatile fino a raggiungere la composizione corrispondente al valore minimo della pressione totale. A questo punto la pressione del liquido è uguale a quella del vapore e rimarrà costante fino alla scomparsa del liquido stesso.

Detta miscela a punto di ebollizione fisso si comporta pertanto come una miscela azeotropica fra due liquidi completamente miscibili (v. distillazione).

Le soluzioni fra liquidi e liquidi. - Le proprietà delle soluzioni fra liquidi non sono rigorosamente additive e talvolta le divergenze dall'additività risultano notevoli; né ancora esiste una teoria che renda conto in modo quantitativo dei fenomeni osservati.

Si ammette che le deviazioni del miscuglio dalla regola si possano attribuire alla variazione dell'aggregazione dei costituenti, a reciproche azioni perturbatrici (deformazione o polarizzazione) nonché, là dove le divergenze sono più notevoli, alla formazione di composti chimici definiti.

Un capitolo inerente alle soluzioni fra liquidi, coltivato fruttuosamente, è quello che comprende lo studio delle tensioni di vapore in funzione della temperatura e delle concentrazioni relative (v. distillazione).

Le soluzioni diluite. - Il complesso dei fenomeni inerenti alle soluzioni diluite ha costituito in passato ed è tuttora uno dei campi più vasti e più fertili della chimica fisica.

Le soluzioni diluite sono caratterizzate dal fatto che poche particelle del soluto si trovano disperse molecolarmente in un numero molto più grande di particelle differenti: le molecole del solvente.

Ai fini di costruire una teoria che colleghi l'insieme delle proprietà delle soluzioni diluite e ne permetta la giustificazione dal punto di vista termodinamico, è stato necessario introdurre - analogamente a quanto fu fatto per i gas - il concetto di soluzione ideale.

In una soluzione ideale il volume delle particelle costituenti il soluto è trascurabile di fronte al volume totale, e per effetto di tale distribuzione non esistono interazioni né tra di esse né tra le molecole del solvente, in quanto ogni particella di soluto è circondata in modo uniforme dalle particelle del solvente, e pertanto la risultante delle possibili azioni è nulla.

Nella soluzione ideale il solvente è inerte, le proprietà del mezzo di dispersione non vengono alterate dalla presenza del soluto e rimangono identiche a quelle del solvente puro.

Per completare l'analogia tra gli schemi della soluzione ideale e del gas perfetto si immagina che le particelle del soluto si muovano in ogni direzione in virtù della loro forza viva il cui valore medio dipende unicamente dalla temperatura; questa forza viva si mantiene costante negl'innumerevoli urti a causa della natura perfettamente elastica di questi ultimi.

Come è nullo il lavoro di espansione di un gas perfetto, allo stesso modo è nullo il calore di diluizione di una soluzione ideale.

Diffusione. - Le particelle del corpo disciolto tendono a sparpagliarsi in ogni direzione e a ciò è dovuto il fenomeno della diffusione che si manifesta quando si stratifica su di una qualsiasi soluzione o il solvente puro o una soluzione più diluita. Si osserva in tal caso che il soluto si diffonde verso le regioni di più bassa concentrazione fino a che non si sia raggiunta la sua distribuzione omogenea nell'intera massa della soluzione.

La diffusione del soluto verso le regioni di minore concentrazione è regolata dalla legge di Fick (1885): a temperatura costante la quantità dS di soluto che nel tempo dt attraversa la sezione di area Q di uno strato dx fra le cui facce sussiste il gradiente di concentrazione dc, si ricava dalla relazione seguente:

analoga a quella inerente alla conduzione del calore.

K è il coefficente di diffusione, e per una data temperatura e per un determinato solvente lo si esprime con il numero di grammomolecole che nell'unità di tempo si diffondono attraverso una sezione unitaria per un gradiente di concentrazione uguale a 1.

Pressione osmotica. - Si può considerare la diffusione del soluto come causata da una forza espressa per unità di superficie: la pressione osmotica (Nernst, 1888).

Se si separa la soluzione dal solvente mediante una membrana semipermeabile, una membrana cioè che lasci passare soltanto le molecole del solvente e sia impermeabile a quelle del soluto, il fenomeno della diffusione si manifesta con l'entrata del solvente nella soluzione producendosi in tal modo un aumento di pressione la cui entità dipenderà dalla concentrazione della soluzione e dalla temperatura.

Le prime osservazioni sui fenomeni osmotici si debbono all'abate Nollet (1748); ma i risultati che permisero il loro apprezzamento quantitativo furono ottenuti solo molto più tardi, quando fu possibile sostituire alle membrane naturali usate dai primi sperimentatori membrane semipermeabili artificiali più adatte agli scopi delle misure.

Infatti la tenuta delle membrane naturali, quali la pergamena vegetale e la vescica animale, non è perfetta nei riguardi del soluto. Semipermeabili sono le membrane delle cellule viventi (fig. 3) e furono i botanici Pfeffer e Traube, in base alla considerazione che dette membrane cellulari risultano dalla coagulazione di materie albuminoidi, che tentarono con successo di riprodurle artificialmente.

Il Traube (1867) riuscì nell'intento facendo scendere, con una pipetta capillare, una goccia di soluzione di solfato di rame in una soluzione di ferrocianuro potassico. Alla superficie limite fra i due liquidi si forma una pellicola di ferrocianuro di rame che funziona da membrana semipermeabile e pertanto si raggrinza o si dilata secondo che la soluzione esterna ha una concentrazione maggiore o minore di quella del liquido interno.

Traube poté in tal modo stabilire solo l'andamento qualitativo dei fenomeni di pressione osmotica. Le misure che permisero di stabilirne le leggi datano dalla messa a punto del dispositivo di Pfeffer (1877).

L'osmometro di Pfeffer è riprodotto nella fig. 4. La cella osmotica consta di un vaso poroso da pila fra le cui pareti si fa depositare del ferrocianuro di rame. Il recipiente viene riempito con soluzione di ferrocianuro potassico e quindi immerso in una soluzione di soltanto di rame. I due liquidi attraversano in senso inverso la parete porosa e, all'incirca nella sua parte mediana, s'incontrano dando origine alla pellicola semipermeabile. La cella così preparata, dopo accurato lavaggio per asportare le sostanze solubili, è pronta per le misure che si eseguiscono riempiendola completamente con la soluzione in esame e, dopo averla collegata con il manometro come è indicato nella figura, immergendola nel solvente puro. Il solvente penetra nell'interno e produce l'aumento di pressione registrato sul manometro. A equilibrio raggiunto cessa l'entrata del solvente, o più precisamente si deve considerare che le quantità di solvente che attraversano nei due sensi la membrana semipermeabile sono le stesse nell'unità di tempo e per unità di superficie.

Le misure di Pfeffer furono dirette a stabilire come varia la pressione osmotica in rapporto alla concentrazione della soluzione, alla natura del solvente, alla temperatura. In base ai risultati ottenuti fu possibile dimostrare che la pressione osmotica non dipende dalla natura del solvente e segue le stesse leggi della pressione dei gas (Boyle, Gay-Lussac).

Si constatò inoltre che per soluzioni diluite e quando la sostanza disciolta non è un elettrolita le pressioni osmotiche di soluzioni equimolecolari di sostanze differenti sono le stesse (soluzioni isotoniche). La legge di Avogadro risulta pertanto applicabile anche alla materia allo stato di soluzione diluita.

Si deve a van't Hoff (1887) l'aver posto in evidenza le relazioni di profonda analogia che intercorrono fra le soluzioni diluite e i gas nelle ordinarie condizioni di temperatura e di pressione.

Le particelle del soluto nelle soluzioni ideali si comportano come se alla stessa temperatura fossero presenti nel medesimo volume allo stato di gas perfetto, e pertanto non solo soluzioni che hanno ugual pressione osmotica (isotoniche) contengono in volumi uguali lo stesso numero di molecole, ma questo numero corrisponde a quello contenuto nell'identico volume di un gas perfetto, alla medesima temperatura e ad una pressione uguale alla pressione osmotica della soluzione.

Alle soluzioni ideali si applica quindi l'equazione di stato del gas perfetto: P = RTC.

Nella tabella seguente sono riportati alcuni valori di pressione osmotica trovati sperimentalmente con una soluzione di zucchero, e insieme con essi i valori di pressione calcolati supponendo che lo zucchero si trovi allo stato di gas nelle stesse condizioni di temperatura e di concentrazione.

La pressione osmotica si può valutare per via indiretta conoscendo le relazioni che intercorrono fra di essa e altre proprietà delle soluzioni, quali: l'abbassamento della tensione di vapore, l'innalzamento del punto di ebollizione, l'abbassamento del punto di congelamento, nei confronti del solvente.

Abbassamento della tensione di vapore. - Sciogliendo in un qualunque solvente una qualsiasi sostanza che di per sé non possegga tensione di vapore apprezzabile, si osserva che la tensione di vapore della soluzione è minore di quella che alla stessa temperatura compete al solvente puro. Ne deriva di conseguenza che detta soluzione presenta un punto di ebollizione superiore a quello del solvente.

Il diagramma della fig. 5 illustra l'andamento della tensione di vapore in funzione della temperatura per una soluzione acquosa diluita e per l'acqua.

Le prime indagini al riguardo si debbono a Faraday (1822) e a Griffith (1824); ma solo verso la metà del secolo scorso comparvero generalizzazioni intese a precisare il fenomeno.

Von Babo (1847) poté mostrare che il coefficiente di diminuzione della tensione di vapore p0px p0 (p0 tensione di vapore del solvente, px della soluzione alla stessa temperatura) è indipendente dalla temperatura se la soluzione è diluita. In seguito Wullner (1858) accertò che l'abbassamento della tensione di vapore è proporzionale alla quantità di sostanza disciolta.

Raoult (1886), riprendendo ed estendendo le esperienze dei predecessori, ne confermò i risultati. Egli lavorò con non elettroliti disciolti in solventi organici e per medie concentrazioni, ai fini di comparare gli abbassamenti provocati da quantità equimolecolari di differenti corpi in soluzione nello stesso solvente, e mise in luce che l'abbassamento molecolare della tensione di vapore è costante per uno stesso solvente e indipendente dalla natura del soluto.

Se pertanto si indica con M il peso molecolare del corpo disciolto, con x il peso di sostanza per 100 gr. di solvente, l'abbassamento molecolare K è dato dalla relazione seguente:

nella quale p0 e px indicano rispettivamente le tensioni di vapore del solvente e della soluzione alla stessa temperatura.

Nella tabella II, sono indicati i valori di K per l'etere etilico.

I risultati dei lavori di Raoult misero in evidenza che il fenomeno dell'abbassamento della tensione di vapore non è determinato dalla natura delle molecole del soluto ma bensì dal loro numero.

Raoult trovò altresì che l'abbassamento relativo della tensione di vapore: p0px p0 è uguale al rapporto, fra il numero delle molecole disciolte n e il numero totale delle molecole del solvente più quelle del soluto (N + n):

Per soluzioni molto diluite n è trascurabile di fronte ad N e pertanto si può scrivere:

Innalzamento del punto di ebollizione e abbassamento del punto di congelamento. - Le considerazioni precedenti valgono per quanto concerne l'innalzamento del punto di ebollizione e di conseguenza la legge di Raoult mostra che l'innalzamento molecolare è - per soluzioni diluite - costante per lo stesso solvente e indipendente dalla natura della sostanza disciolta.

Nella seguente tabella III, è indicato l'innalzamento molecolare del punto di ebollizione per alcuni solventi. I dati si riferiscono a soluzioni che contengono una grammo-molecola di sostanza per 1000 gr. di solvente.

Se il soluto con la sua presenza abbassa la tensione di vapore e quindi eleva il punto di ebollizione del solvente, si deve anche verificare che da una soluzione diluita il solvente solido si separa per raffreddamento a una temperatura più bassa di quella alla quale ha luogo il passaggio di stato in assenza del soluto.

La proporzionalità che sussiste fra concentrazione della soluzione e abbassamento del punto di congelamento, notata già da Blagden (1788), fu in seguito confermata dalle ricerche di Rudorff (1861) e studiata più a fondo da De Coppet (1871). Raoult (1882) con i suoi studî sul comportamento di sostanze organiche in soluzione acquosa poté inquadrare i fenomeni osservati da lui e dai predecessori mettendo in evidenza che l'abbassamento molecolare del punto di congelamento è - per soluzioni diluite - all'incirca lo stesso per tutti i corpi disciolti nel medesimo solvente.

Nella tabella IV, qui sotto riportata,figurano dei valori riportati nel lavoro di Raoult e inerenti agli abbassamenti molecolari per l'acqua e per il benzolo, provocati da una grammo-molecola di soluto in 1000 gr. di solvente.

La tabella V contiene gli abbassamenti molecolari del punto di congelamento (costanti crioscopiche) per diversi solventi.

In seguito ai risultati delle sue ricerche e alla dimostrazione che quantità equimolecolari di sostanza disciolta abbassano dello stesso grado il punto di congelamento, il Raoult indicò (1886) la crioscopia (v.) come metodo generale da usare per la determinazione dei pesi molecolari, senza pertanto farne rilevare tutta l'importanza. Ciò fu fatto subito dopo per merito di studiosi italiani primo tra i quali Emanuele Paternò (1887).

Quasi contemporaneamente comparve la teoria delle soluzioni ideali di van't Hoff e da quell'epoca la crioscopia si è sviluppata portando un utilissimo contributo non solo alla determinazione dei pesi molecolari, ma alla soluzione di problemi di strutturistica, di isomeria, di polimeria, e più di recente per stabilire i coefficienti di "attività" nelle soluzioni.

Lo stesso si può dire per l'ebullioscopia creata da Beckmann (1889) in base ai lavori di Raoult. I pesi molecolari si determinano per via ebullioscopica con gli stessi criterî che si seguono nel caso della crioscopia.

La determinazione dei pesi molecolari, con i metodi crioscopici ed ebullioscopici, si fonda sulle relazioni seguenti:

dove Kc e Ke sono le costanti crioscopica ed ebullioscopica del solvente, Δl l'abbassamento osservato del punto di congelamento, d′ l'innalzamento osservato del punto di ebollizione, g la quantità di sostanza sciolta in 1000 gr. di solvente, M il peso molecolare.

Per le misure sperimentali si usano speciali apparecchi descritti altrove (v. crioscopia; ebullioscopio). I risultati sono influenzati da diverse cause perturbatrici quali: per la crioscopia, la separazione di soluzione solida tra solvente e soluto, per l'ebullioscopia, la volatilizzazione contemporanea dei due costituenti.

La legge di Raoult dedotta principalmente con l'osservazione del comportamento di soluzioni di sostanze organiche è una legge approssimata verificabile tuttavia in un esteso intervallo di concentrazioni.

Nell'applicarla si deve tenere presente che essa fissa le proprietà di tensione di vapore, di abbassamento del punto di congelamento, d'innalzamento del punto di ebollizione (proprietà collegative delle soluzioni), indipendentemente dalla natura e dalla grandezza molecolare del soluto e da quella del solvente, e solo in funzione del rapporto fra il numero di molecole di sostanza disciolta e la somma delle molecole del solvente e del soluto.

Nelle misure crioscopiche ed ebullioscopiche, ad es., di peso molecolare, si avranno quindi risultati differenti dai valori prevedibili per altre considerazioni qualora avvengano fenomeni di dissociazione o di associazione.

Si è visto in precedenza che soluzioni ideali equimolecolari presentano non soltanto la stessa pressione osmotica, ma anche lo stesso abbassamento del punto di congelamento e della tensione di vapore, e di conseguenza il medesimo innalzamento del punto di ebollizione. La teoria che collega le differenti proprietà è opera di van't Hoff.

Si consideri un cilindro D (fig. 6) contenente la soluzione diluita di una sostanza di cui si trascura la tensione di vapore. Il cilindro, chiuso nella sua estremità inferiore da una membrana semipermeabile C, pesca in una bacinella B contenente il solvente puro. Il peso della colonna liquida sia uguale alla pressione osmotica della soluzione. L'insieme è ricoperto da una campana A che racchiude i vapori del solvente in equilibrio con i liquidi.

All'equilibrio nel sistema così congegnato, la tensione di vapore della soluzione deve essere uguale alla pressione del vapore all'altezza corrispondente al livello del menisco, pressione quest'ultima ricavabile mediante la legge ipsometrica. Se così non fosse si avrebbe distillazione o condensazione di solvente con conseguente variazione della concentrazione della soluzione che si suppone invece costante.

La pressione osmotica P è quindi uguale a h•D•g dove h è l'altezza della colonna e D la densità del liquido. La pressione del vapore all'altezza h è data da:

in cui M è il peso molecolare del solvente allo stato di vapore, p0 e ph le pressioni del vapore alle altezze 0 e h.

Dalle due precedenti relazioni si ricava che:

equazione che collega la pressione osmotica con le tensioni di vapore.

La pressione osmotica P è espressa in unità assolute (dine per cmq.). Per passare al suo valore in atmosfere occorre esprimere la costante R in litri-atmosfere e riferire la densità D a un litro. Si può inoltre sostituire a log

e, sviluppando in serie log

ricavare:

per cui:

La soluzione considerata è una soluzione ideale alla quale si applica l'equazione:

Se si assume la densità D della soluzione uguale a quella del solvente puro, si na:

e pertanto:

Siccome p = pa − Δp:

espressione della legge di Raoult.

L'equazione di Clapeyron:

permette il calcolo dell'innalzamento molecolare del punto di ebollizione.

Infatti avendo già ricavato la relazione

si deduce che

Conoscendo che

e sostituendo:

λ/Mè il calore specifico di vaporizzazione = q, e 1000•D•v è la massa in grammi del solvente = m.

Se per convenzione ci si riferisce a 1000 grammi di solvente avremo:

di conseguenza:

Per n = 1:

dΔ Τ non è altro che la costante ebullioscopica o innalzamento molecolare del punto di ebollizione.

Un analogo ragionamento serve a ricavare l'abbassamento molecolare del punto di congelamento mediante la conoscenza del calore specifico di fusione del solvente q′:

Nella tabella VI sono riportate le costanti crioscopiche ed ebullioscopiche sperimentali e quelle teoriche calcolate con le formule stabilite precedentemente.

Nello svolgimento che ha portato al collegamento delle proprietà delle soluzioni diluite, si è ammesso a priori di avere a che fare con soluzioni ideali. Le formule ricavate hanno pertanto valore solo di relazioni limite; risalta nondimeno l'importanza del fatto che le leggi stabilite sperimentalmente dal Raoult hanno trovato la loro conferma per via puramente termodinamica.

Le soluzioni vere. - Le proprietà collegative delle soluzioni reali si allontanano tanto più dal comportamento teorico quanto più forte è la concentrazione. A questo riguardo occorre far rilevare che la legge di Raoult presenta un'applicabilità più generale che non la legge di van't Hoff: P = RTC e pertanto mentre quest'ultima non è seguita a concentrazioni apprezzabili, la prima lo è abbastanza esattamente da un certo numero di soluzioni entro un largo intervallo di concentrazione.

La linearità della relazione fra pressione osmotica e concentrazione non sussiste effettivamente. Nella fig. 7 è evidente lo scarto dalla linearità per soluzioni concentrate di zucchero.

Le deviazioni dalle leggi delle soluzioni ideali sono ancora più notevoli quando si considerano le soluzioni acquose di elettroliti.

Se si indica con Kc la costante crioscopica dell'acqua, e si considera la dissoluzione di una molecola di elettrolita capace di scindersi in n ioni, l'abbassamento del punto di congelamento per la soluzione a diluizione infinita sarà: nKc, e, per concentrazioni finite: Kc′ 〈 nK0. Il rapporto K/nKc = f0 si chiama "coefficente osmotico". Indicando con α il grado di dissociazione alla concentrazione considerata, avremo:

Ammettendo il grado di dissociazione α uguale al "coefficiente di conducibilità" λ = ??? v/≿ ∞ si ricava:

In quel che precede si è ammesso che l'abbassamento del punto di congelamento sia funzione del solo numero delle particelle del soluto, e che α = fλ. I valori di f0 e fλ deducibili l'uno dall'altro per mezzo della relazione precedente con misure nelle quali può essere raggiunta una grande esattezza sono, per gli elettroliti forti, in buon accordo solo qualitativamente; sussistono cioè divergenze che non possono essere attribuite a errori sperimentali. Le divergenze si attenuano quando dagli elettroliti forti (alta concentrazione ionica) si passa a considerare elettroliti deboli (piccola concentrazione ionica).

È naturale che, data l'analogia fra la materia allo stato di gas e di soluzione, si sia cercato di trovare un'equazione di stato per le soluzioni vere seguendo gli stessi criterî che nei gas reali hanno condotto all'equazione di Van der Waals. I tentativi, oggi abbandonati, non hanno avuto esito favorevole, e pertanto non esiste una soddisfacente equazione di stato per le soluzioni vere concentrate.

Tammann (1907) ha enunciato al riguardo una legge di validità abbastanza generale: l'equazione di stato di una soluzione di concentrazione e temperatura fissate è la stessa di quella del solvente puro alla stessa temperatura ma a pressione più elevata.

La pressione interna che sollecita il solvente è provocata dalla presenza della sostanza disciolta.

Nella trattazione teorica delle soluzioni ideali il solvente è supposto inerte. Ciò non si può ammettere per le soluzioni vere dove il soluto oltre ad agire sulle proprietà fisiche del mezzo di dispersione, può contrarre legami con il solvente. H. C. Jones ha ammesso che la legge limite di van't Hoff valga per ogni concentrazione e le divergenze sperimentali che effettivamente si osservano per concentrazioni elevate sono da lui giustificate ammettendo la sottrazione del solvente in seguito alla formazione di veri e proprî composti: solvente-soluto (solvati).

In soluzione diluita però le proprietà collegative devono essere pochissimo influenzate dalla solvatazione per il fatto che esse sono unicamente determinate dal numero delle particelle disciolte, molto piccolo di fronte al numero delle molecole di solvente.

La dissociazione elettrolitica e la teoria elettrostatica degli elettroliti forti. - Svariate sostanze, e fra queste gli elettroliti costituiscono la classe più numerosa, si comportano in modo anormale nei riguardi della legge di van't Hoff: P = RTC, e come per alcuni gas si notano scarti più o meno considerevoli dalla legge di Avogadro, così gli elettroliti accusano ai metodi crioscopico ed ebullioscopico pesi molecolari più piccoli dei reali.

Alla dissociazione è nei due casi, gas e elettroliti in soluzione, attribuita la divergenza dal comportamento normale (v. dissociazione: Dissociazione elettrolitica; equilibrio: Equilibrio chimico).

Siccome le proprietà osmotiche o collegative di una soluzione dipendono, come si è visto in precedenza, dal solo numero e non dalla natura e grandezza delle particelle del soluto, conoscendo il grado di dissociazione, sarà possibile, applicando l'equazione P - RTC di risalire alla pressione osmotica e alle altre proprietà a essa collegate.

Pertanto l'equazione di stato: P = RTC deve, in tali casi, esser corretta moltiplicando il secondo membro per il fattore i ≥ 1 : P = iRTC.

Il valore di i lo si può stabilire, conosciuto il grado di dissociazione α (frazione di grammo-molecola dissociata) e il numero n di ioni nei quali è scissa la molecola stessa: i = 1 + (n − 1) α.

A loro volta i valori di α si possono ottenere dal rapporto tra la conduttività equivalente alla concentrazione considerata, e la conduttività limite a diluizione infinita: α = ???c/??? ∞ (v. eletrrochimica; dissociazione).

Risulta pertanto che i fenomeni della dissociazione elettrolitica vengono compresi nell'equazione di van't Hoff.

Arrhenius riprendendo (1884-87) alcune considerazioni avanzate da Clausius (1857) intorno all'esistenza di ioni liberi in seno alle soluzioni di elettroliti, e basandosi sui rapporti che intercorrono fra proprietà osmotiche e proprietà elettriche per dette soluzioni nonché sulla loro dipendenza dalla diluizione, fu portato ad ammettere l'esistenza di equilibrî: parte indissociata ⇄ ioni, equilibrî che con l'aumentare della diluizione vengono spostati nel senso di una maggiore dissociazione.

Se pertanto si applica la legge delle masse a un elettrolita binario: AB′ ⇄ A′ + A′ segue che

dove K è la costante di dissociazione dell'elettrolita.

Indicando con c la concentrazione in grammi-molecole per litro e con α il grado di dissociazione, si ricava:

Ostwald (1888) nell'ipotesi dell'uguaglianza di α col rapporto α = ???c/??? ∞ ottenne dalla relazione precedente la cosiddetta legge di diluizione che porta appunto il suo nome (v. equilibrio: Equilibrio chimico).

La legge di Ostwald è seguita dagli elettroliti deboli (poco dissociati). Con gli elettroliti forti

non è costante a temperatura costante, come vuole la legge delle masse, ma dipende dalla concentrazione della soluzione.

Nella tabella VII è riportato come esempio il comportamento di un elettrolita debole, l'acido acetico, e quello di un elettrolita forte, il cloruro di ammonio.

Per spiegare il comportamento anomalo delle soluzioni di elettroliti forti, furono suggerite delle modifiche che consideravano più o meno empiricamente diversi fattori trascurati nell'espressione della legge stessa; ma nessuna proposta si è mostrata adatta a rappresentare in maniera persuasiva la relazione che intercede fra concentrazione e grado di dissociazione.

L'ammettere α = ???c/??? ∞ è una semplice ipotesi che si fonda sull'indipendenza dalla concentrazione della mobilità degli ioni. Se ciò non si verifica, la legge di diluizione è in difetto, e, dato che gli ioni sono particelle cariche di elettricità, fra di essi dovranno esercitarsi delle azioni elettrostatiche la cui entità aumenterà col diminuire delle distanze mutue e quindi con il crescere della concentrazione, azioni che si tradurranno in una diminuzione della libertà di movimento delle singole particelle cariche sotto l'azione del campo. α = ???c/??? ∞ non può pertanto essere identificato con il grado di dissociazione reale, bensì rappresenta un grado di dissociazione fittizio e la discordanza sarà tanto più notevole quanto più alta è la valenza o la carica degli ioni e maggiore la concentrazione.

Le azioni interioniche che dipendono dalla carica e dalla distanza, si esplicano limitando agli effetti osmotici ed elettrici l'individualità dei singoli ioni; esse agiscono nello stesso senso e con effetti qualitativamente simili a quelli delle forze chimiche che tengono insieme gli ioni nelle molecole indissociate della teoria di Arrhenius.

Se si considera la soluzione di un elettrolita a una concentrazione alla quale è sensibile l'azione interionica, si deve ammettere che la libertà degli ioni deve esser più piccola di quella che si avrebbe se le forze interioniche non esistessero.

È necessario a questo punto introdurre il concetto di "attività" e di "coefficente di attività" (G. N. Lewis, 1908): Arrhenius usava questo termine per indicare la parte dissociata di un elettrolita, per significare cioè una concentrazione di ioni liberi da qualsiasi azione reciproca, mentre, secondo il senso che gli si attribuisce attualmente, l'attività sta a rappresentare la massa efficiente di particelle, siano esse molecole o ioni, che sono impegnate in un sistema di azioni reciproche.

L'attività è espressa per mezzo d'una frazione della concentrazione: fa c = attività (a) dove fa è una nuova grandezza denominata coefficente di attività.

Per le soluzioni il coefficente di attività si può considerare pertanto come il grado di divergenza dalle condizioni ideali; esso è funzione delle energie potenziali dovute alle forze interioniche e intermolecolari. La massima attività si ha solo a diluizione infinita (f = 1).

Si è visto in precedenza che

non è indipendente dalla concentrazione come vuole la legge delle masse.

Se la costante di dissociazione varia e si vuol tuttavia ritenere valida la legge ricordata, si deve ammettere che solo frazioni delle concentrazioni che vi figurano sono "attive" nel determinare il valore della costante di equilibrio. I coefficenti di attività sono quelle frazioni per le quali occorre moltiplicare le concentrazioni intese nel senso corrente, affinché sia valida la legge delle masse.

Solo nel caso limite della soluzione ideale, attività e concentrazione coincidono. Per gli elettroliti deboli l'obbedienza alla legge di Ostwald porta ad ammettere che concentrazione e attività siano molto vicine, e ciò trova la sua giustificazione nel fatto che tali elettroliti sono poco dissociati.

Nei primi sviluppi del concetto di attività questa grandezza fu assunta in base a criterî più o meno empirici e solo negli ultimi anni è stato possibile di calcolare le attività su basi teoriche più sicure e far assumere ad essa un significato fisico definito.

I coefficenti di attività possono essere determinati sperimentalmente apprezzando le divergenze fra comportamento reale e ideale, con misure elettriche, osmotiche, di solubilità.

Ad esempio, si sostituiscano nella formula classica della teoria osmotica per l'elemento a concentrazione (v. elettrochimica) le attività alle concentrazioni:

La relazione permette di risalire a fac1, quando siano noti π, c1, c2, fac2. Se non si conoscesse il valore di fac2 per la concentrazione cc2, si potrebbero determinare indirettamente le attività misurando le forze elettromotrici di elementi costituiti tenendo costante c1 e diminuendo progressivamente c2. Dal valore di π estrapolato per diluizione infinita (c2 = a2, fa = 1) si ricava a1.

Il calcolo teorico dei coefficenti di attività si è reso possibile solo dopo la comparsa della teoria elettrostatica degli elettroliti forti, teoria che si è sviluppata in seguito ai risultati delle indagini röntgenografiche sulla struttura dei cristalli e all'affermarsi della teoria elettronica della valenza.

L'esame d'un cristallo polare di cloruro di sodio - che in soluzione acquosa è un elettroliia forte - mostra che gli ioni e non le molecole neutre determinano l'architettura del reticolo cristallino. Gli ioni sono tenuti assieme da forze di natura elettrostatica.

Nonostante che la röntgenspettroscopia riveli il reticolo ionico e quindi il cloruro di sodio cristallino apparisca completamente dissociato, la conducibilità elettrica del sale solido è estremamente piccola perché i movimenti delle particelle sotto l'azione del campo sono impediti da forze interioniche molto intense.

Se si porta il sale in soluzione oppure lo si fonde, si vengono ad allentare i legami elettrostatici perché si aumentano le distanze fra le particelle eteropolari: la mobilità degli ioni risulterà accresciuta e di conseguenza la conducibilità.

Considerando pertanto la progressiva diluizione di una soluzione di cloruro sodico, si deve dedurre che nonostante la completa dissociazione a tutte le concentrazioni, la conducibilità equivalente deve progressivamente aumentare con il crescere della diluizione fino a raggiungere, a diluizione infinita, un valore limite in corrispondenza dell'assenza di azioni interioniche.

Ciò mostra la possibilità di sostituire i criterî della teoria elettrostatica alla rappresentazione qualitativa di fenomeni interpretati in base all'equilibrio: parte indissociata ⇄ ioni.

Si è costruita su questi fondamenti, sulla valutazione cioè delle forze intermolecolari e interioniche, una teoria nella quale i fenomeni osmotici ed elettrici, presentati dalle soluzioni diluite di elettroliti forti, sono spiegati sostituendo al concetto dell'equilibrio chimico quello di equilibrio elettrostatico. Ne è risultato che i coefficenti di attività dipendono esclusivamente da queste interazioni.

La prima applicazione della teoria della ionizzazione completa fu fatta da Milner (1912) che riuscì a inquadrare un discreto numero di eccezioni alla teoria classica della dissociazione parziale. Tentativi analoghi avanzati in seguito da Ghosh (1918) non ebbero esito più generale, e solo per merito di Debye e Hückel (1923) fu possibile, con l'ammissione della dissociazione completa e mercé l'introduzione d'un numero limitato d'ipotesi ausiliarie, di formulare la teoria delle azioni interioniche su criterî quantitativi.

I caposaldi della teoria di Debye e Hückel sono i seguenti: a) le azioni interioniche seguono la legge di Coulomb; b) la distribuzione degli ioni è regolata dalla statistica di Boltzmann. Lo svolgimento analitico della teoria ha permesso il calcolo del coefficente di attività a partire da grandezze fisiche e da costanti universali. Per un elettrolita uni-univalente:

dove Σ è la carica dell'ione, D la costante dielettrica del solvente, K la costante di Boltzmann, T la temperatura assoluta, n il numero degli ioni per unità di volume, a il raggio dell'ione considerato.

Il coefficente d'attività resta quindi determinato, in un dato solvente e per una data temperatura e concentrazione, esclusivamente dalla carica dell'ione e dalle sue dimensioni.

I valori ottenuti per via teorica sono assai vicini a quelli ricavati dall'esperienza per soluzioni molto diluite di elettroliti forti.

La teoria di Debye-Hückel permette di calcolare, sempre per soluzioni diluitissime, la dipendenza dei coefficenti osmotico e di conducibilità dalla concentrazione ionica totale. Per il coefficente di conducibilità in particolare la teoria stabilisce la proporzionalità fra 1 − fλ e la radice quadrata della concentrazione, giustificando così un risultato posto in evidenza da Kolhrausch: 1 − fλ = cost. √c e per il quale la teoria di Arrhenius non fornisce spiegazione.

Nonostante numerose e autorevoli conferme, la teoria di Debye-Hückel non è stata esente da critiche, in quanto, mentre con essa le anomalie della teoria classica per le soluzioni diluite di elettroliti forti sono superate e spiegate, quando si passa a considerare soluzioni più concentrate, e, per precisare, soluzioni di concentrazione superiore a 0,01•N, s'incontrano divergenze profonde fra il calcolo e l'esperienza.

La teoria ha ricevuto, in questi ultimi tempi, estensioni dirette a tener conto dell'influenza di fattori prima trascurati; si sono scelti opportunamente i raggi ionici, si è tenuto conto della variazione della costante dielettrica con la concentrazione ionica, senza arrivare però a eliminare completamente le suddette discordanze.

Ad ogni modo la teoria di Debye-Hückel presenta oggi ampie possibilità per la previsione delle proprietà delle soluzioni diluite di elettroliti forti.

Per gli elettroliti deboli dette proprietà vengono spiegate con sufficiente esattezza ammettendo equilibrî tra parte indissociata e ioni.

Ad avvalorare l'ipotesi fondamentale delle teorie moderne, che è quella della dissociazione completa, si sono citati i risultati d'indagini sull'effetto Raman nelle soluzioni di alcuni elettroliti forti (NaCl− HCl) che a opportune concentrazioni non conterrebbero molecole indissociate (Carrelli, Pringsheim, Rosen 1928). Un'interessante conferma della teoria si è avuta inoltre dai risultati di misure di conduttività ad alta frequenza e a elevato voltaggio. L'aumento di conduttività non spiegabile con la teoria di Arrhenius può essere invece previsto sulle basi della teoria di Debye e Hückel (Debye e Falkenhagen, 1928).

Per contro i dati refrattometrici di Fajans (1927) e gli spettri di assorbimento di von Halban (1928) appoggiano il punto di vista che anche le soluzioni di elettroliti forti contengano, sebbene in quantità minore di quella prevedibile con la teoria di Arrhenius, molecole indissociate o ioni associati (Bjerrum 1926). In tali associazioni puramente elettrostatiche gli ioni dovrebbero deformarsi scambievolmente (data la minore distanza e conseguentemente il forte campo) e Fajans spiega con l'aiuto di tali deformazioni la variazione della rifrazione molecolare con la diluizione per numerose soluzioni saline.

La deformazione riscontrata con le misure refrattometriche dimostrerebbe pertanto la possibilità di associazioni escluse dalla teoria di Debye-Hückel.

Ad analoga deduzione è giunto von Halban con lo studio dello spostamento in funzione della diluizione delle bande di assorbimento nell'ultravioletto per soluzioni nitriche di nitrati.

Nernst (1927) ha infine discusso l'applicabilità delle formule della teoria di Debye-Hückel al calcolo dei calori di diluizione, e in opposizione a ciò che si può dedurre in base a essa, ha elaborato una relazione che contiene termini inerenti alla scissione della parte indissociata considerata secondo i dettami della teoria classica: Q = L (i − α) + B c, dove Q è il calore di diluizione, L il calore di dissociazione, α il grado di dissociazione; B c rappresenterebbe il contributo che le forze interioniche portano al calore di diluizione.

L'influenza del solvente. - L'influenza del solvente, che nella teoria delle soluzioni ideali è stato supposto inerte, si manifesta in modo sensibile quando dalle soluzioni acquose si passa a studiare le non acquose, e pertanto le deviazioni che tali soluzioni presentano rispetto al comportamento teorico, risultano numerose nonché di difficile interpretazione.

Il solvente agisce talvolta sulla grandezza molecolare del soluto. Una sostanza, cioè, che in un dato solvente mantiene inalterata la propria grandezza molecolare, in un altro può dissociarsi o associarsi.

Nernst (1894) ha collegato con una relazione, che si è dimostrata però di carattere qualitativo, il potere dissociante d'un solvente con la sua costante dielettrica.

La dissociazione è favorita da un'elevata costante dielettrica del solvente perché risultano diminuite le attrazioni elettriche fra le particelle cariche di segno opposto.

Walden ha mostrato tutta l'importanza, ai fini della dissociazione del contrasto chimico fra solvente e soluto. Si conosce inoltre che alcuni liquidi associati sono buoni solventi dissocianti, in quanto vengono scissi per vera e propria azione chimica da parte del soluto.

Kendall (1917) ritiene che la dissociazione si debba considerare come la conseguenza della possibilità di associazione fra solvente e parti del soluto.

Ad esempio, l'acqua e l'acido cloridrico puri sono cattivi conduttori dell'elettricità; la loro mescolanza ha invece una conducibilità elevata perché fra le molecole dell'acqua e l'idrogeno dell'acido cloridrico si genera l'ione H3O alla cui formazione corrisponde la comparsa di un ione Cl-.

Sul comportamento del solvente ha influenza il momento elettrico delle sue molecole; tuttavia, nonostante le numerose proposte al riguardo, manca tuttora una teoria che renda conto in modo soddisfacente dei fenomeni osservati.

Le soluzioni solide. - Soluzioni solide cristalline (cristalli misti) si hanno sovente fra sostanze che posseggono grandi analogie chimiche e strutturali; però detta regola non è affatto generale. Quando a causa delle vicine dimensioni gli atomi possono sostituirsi gli uni agli altri senza provocare alterazione della simmetria strutturale del reticolo cristallino, si hanno possibilità di soluzione solida per sostituzione. Se la sostanza si discioglie invece incuneandosi nel reticolo si ha soluzione solida per intrusione.

La presenza del soluto determina, come per le soluzioni liquide, l'abbassamento della tensione di vapore del solvente, e pertanto è possibile con misure di tensione di vapore di risalire ai pesi molecolari delle sostanze disciolte.

Quando una soluzione solida prende origine da un liquido (caso più frequente) si osserva in generale che il soluto si distribuisce fra le due fasi secondo la regola del principio di ripartizione, e cioè sussiste a temperatura costante un rapporto costante fra la concentrazione nel liquido e la concentrazione nel solido.

In alcuni casi l'applicazione del principio di ripartizione mostra che la dissoluzione avviene con dissociazione. Così è stato osservato che la concentrazione dell'idrogeno nel palladio e dell'ossigeno nell'argento non è proporzionale alla pressione, bensì alla sua radice quadrata. L'ossigeno e l'idrogeno molecolari si disciolgono nei metalli ricordati, allo stato atomico (v. equilibrio: Equilibrio chimico).

Bibl.: W. Nernst, Theoretische Chemie, Stoccarda 1925; H. S. Taylor, A Treatise on Physical Chemistry, New York 1925; A. Eucken, Lehrbuch der chemischen Physik, Lipsia 1932; id., Grundriss der physikalischen Chemie, ivi 1934; S. Glasstone, Recent Advances in Physical Chemistry, Londra 1931; id., Theory of Strong Electrolytes. A general discussion. Held by the Faraday Society, ivi 1927; G. B. Bonino, A proposito delle nuove vedute sulla teoria delle soluzioni, in Atti del III Congr. naz. di chimica pura e applicata, Roma 1930.

Soluzioni sature.

Una soluzione si dice satura rispetto a una determinata sostanza (e in equilibrio con essa), quando non è più capace di sciogliere ulteriori quantità di tale sostanza, cioè quando, tenendo la soluzione in presenza di un eccesso della sostanza, il contenuto di questa nella soluzione non varia nel tempo. Così una soluzione di cloruro sodico contenente gr. 26,30 di sale per 100 gr. di soluzione può, alla temperatura di 20°, stare per un tempo comunque lungo in presenza di cloruro sodico solido, senza che il tenore della soluzione vari menomamente: una soluzione di ossigeno contenente cmc. 3,415 di gas in 100 cmc. di acqua, alla temperatura di 15° e quando la pressione dell'ossigeno gassoso in equilibrio con la soluzione è di 760 mm. non varia affatto la sua concentrazione tenendola per qualsivoglia tempo in presenza di un eccesso di ossigeno.

Per le soluzioni di solidi in liquidi e di liquidi in liquidi, il fattore che influenza la solubilità è praticamente la sola temperatura, vale a dire che variando questa, varia generalmente la quantità di sostanza disciolta in una determinata quantità di solvente, mentre la variazione di altri fattori ha un'influenza così piccola che praticamente è trascurabile: invece per i gas questa influenza è esercitata sensibilmente sia dalla temperatura sia dalla pressione.

La quantità di sostanza (o di sostanze) disciolta in una certa quantità di solvente (o miscela di solventi), quando la soluzione è satura, rappresenta anche la solubilità di quella sostanza in quel solvente. Il modo di esprimere questa solubilità è vario: così si può indicare quanti grammi di sostanza, oppure quanti grammi-molecole di sostanza, sono disciolti in 100 gr. di solvente, o in 1 kg. di solvente o in 1 litro di solvente o in 100 gr. mol. di solvente: oppure quanto di soluto (in gr. mol.) si trova in 100 grammi o in 1000 grammi di soluzione, o in 1 litro di soluzione, ecc. Si può passare col calcolo dall'uno di questi dati all'altro.

Nel caso che il soluto sia un solido (o varî solidi) e che si abbia un eccesso di questo (o di questi) in presenza della soluzione satura, tale solido (o miscela di solidi) in equilibrio con la soluzione si chiama corpo di fondo. È importante notare che il corpo di fondo di una soluzione satura è ben determinato in ogni caso; in particolare è ben determinato se si tratta del solido semplice (in una determinata forma cristallina) o di un composto di esso col solvente. Per esempio, una soluzione satura di solfato sodico (Na2SO4) al disopra della temperatura di 32°,2, ha per corpo di fondo, in equilibrio stabile, Na2SO4 anidro: al disotto di 32°,2 ha, in equilibrio stabile, per corpo di fondo un composto del soluto col solvente, cioè Na2SO4•10 H2O (solfato sodico decaidrato), ma al disotto della temperatura di 24°,4, può essere tanto in equilibrio stabile col suddetto decaidrato, quanto in equilibrio metastabile (cioè labile) con Na2SO4•H2O (solfato sodico eptaidrato). In questi e in tutti gli altri casi consimili, la solubilità può anche esprimersi riferendosi al sale anidro, cioè al % di Na2SO4 nella soluzione, ma si deve aver sempre presente quale è il vero corpo di fondo.

Le soluzioni sature rappresentano soltanto un caso particolare delle soluzioni considerate in generale (caso particolare contrassegnato dal fatto che le soluzioni sature sono in equilibrio stabile col corpo di fondo o con la fase gassosa, mentre una soluzione non satura della sostanza A nel solvente B, posta in presenza di A, ne scioglie ancora fino a raggiungere la saturazione) e una soluzione soprasatura di A in B, che contiene cioè un eccesso di A rispetto alla quantità corrispondente alla saturazione, è un sistema non in equilibrio, o in equilibrio metastabile, cosicché per una perturbazione qualsiasi, in particolare per la presenza di un germe (cristallino) di A, o anche abbandonata a sé stessa per un tempo sufficiente, depone l'eccesso di A trasformandosi in soluzione satura, ossia raggiungendo l'equilibrio stabile. Queste soluzioni soprasature si possono ottenere preparando dapprima una soluzione satura a temperatura elevata e poi lasciando raffreddare tranquillamente: può allora restare in soluzione più sostanza di quella corrispondente alla minor temperatura che si raggiunge.

Data la sopra indicata relazione tra le soluzioni sature e le soluzioni in genereale, tutti i casi che si hanno per queste ultime, a seconda degli stati di aggregazione, si presentano anche per le soluzioni sature, e cioè si hanno tutti i raggruppamenti possibili: solidi in liquidi, liquidi in liquidi, gas in liquidi, ecc.

Le leggi che valgono per le soluzioni diluite subiscono generalmente, per le soluzioni sature, deviazioni notevoli quando queste ultime sono molto concentrate; giova però notare che soluzione satura non significa di necessità soluzione ad alta concentrazione. Molto spesso le soluzioni sature sono infatti tali; ma vi sono sostanze che sono pochissimo solubili e per le quali, quindi, la soluzione satura è pochissimo concentrata: allora valgono le leggi delle soluzioni diluite.

Si spazia, per il contenuto di soluto in una soluzione satura, nei limiti più ampî: da decimi di milligrammo di sostanza per 100 gr. di soluzione, fino a qualche decina di grammi per 100 gr. di soluzione.

La solubilità delle sostanze organiche, specialmente in solventi organici, spazia dentro limiti ancora più vasti.

Tabelle complete di solubilità di tutti i composti sia inorganici sia organici, si trovano in: 1. Landolt, Bornstein, Roth, Scheel, Physikalischchemische Tabellen, 5ª ed., 1923-35; 2. Tables annuelles de Constantes et données numeriques, pubblicate dall'Unione internazionale di chimica pura e applicata (1910 segg.): 3. International critical Tables of numerical Data, Physics, Chemistry and Technology, pubblicate dal National Research Council of the United States of America, voll. 7 (v. specialmente il vol. IV, 1928).

La solubilità dei solidi nei liquidi, nella maggioranza dei casi, cresce col crescere della temperatura, in alcuni rari casi invece diminuisce col crescere della temperatura (v., per es., l'ossido e l'acetato di calcio). Questi fatti sono connessi, per il principio dell'equilibrio mobile, col segno e col valore del calore di soluzione di una sostanza: se il disciogliersi di una sostanza nella sua soluzione quasi satura si compie con assorbimento di calore, la solubilità aumenta col crescere della temperatura e tanto più quanto maggiore è l'esotermicità della dissoluzione: inversamente succede nel caso opposto. Se il calore di soluzione è pressoché nullo, l'influenza della temperatura è quasi nulla. Anche l'influenza della pressione sulla solubilità dei solidi nei liquidi è da riportare al principio dell'equilibrio mobile, e cioè la solubilità aumenta col crescere della pressione se il solido si scioglie con diminuzione di volume e inversamente; ma questa influenza della pressione è talmente piccola che, come si è già detto, praticamente è trascurabile.

Per le soluzioni dei liquidi nei liquidi, si hanno i casi estremi di completa miscibilità di due o più liquidi tra loro, e di completa (almeno praticamente) non solubilità reciproca. Si hanno poi molti casi in cui la solubilità è limitata: allora si formano due strati in equilibrio, l'uno costituito dalla soluzione satura del liquido A nel liquido B, l'altro dalla soluzione satura del liquido B in A: queste due soluzioni sature si chiamano coniugate. Così, per es., a 20° l'acqua e l'etere etilico formano due soluzioni coniugate, una delle quali, la più densa, contiene 6,90 di etere di soluzione, mentre lo strato soprastante contiene gr. 98,74 di etere per 100 gr. di soluzione. Le composizioni a e b (fig. 8) di due soluzioni coniugate variano col variare della temperatura, avvicinandosi l'una all'altra col crescere di questa, e divenendo identiche in c, a una temperatura detta Temperatura critica di soluzione: in questo punto i liquidi diventano completamente miscibili. Talvolta si ha anche una temperatura critica di soluzione bassa, oltre a quella alta (fig. 9).

Per l'influenza della pressione valgono considerazioni analoghe a quelle svolte per la solubilità dei solidi nei liquidi.

Per le soluzioni sature dei gas nei liquidi si hanno diverse notazioni, e così α è il cosiddetto coefficiente di absorbimento di Bunsen, ed è dato dal volume di gas, ridotto a 0° e 760 mm., sciolto da i cmc. di solvente a 0° e 760 mm., quando la pressione parziale del gas è 760 mm.: β è il coefficiente di absorbimento di Kuenen ed è dato dal volume del gas in cmc. ridotto a 0° e 760 mm., sciolto da 1 gr. di solvente quando la pressione parziale del gas è 760 mm. Il coefficiente l ha lo stesso significato di α, salvoché la pressione totale (non la parziale) del gas è 760 mm.: q è il peso del gas in grammi che viene sciolto da 100 gr. di solvente quando la pressione totale è 760 mm.: α è il coefficiente di Ostwald che è dato dal rapporto tra la concentrazione del gas nel liquido e quella del gas nella fase gassosa (se valgono le leggi di Henry e Dalton, α′ è indipendente dalla pressione parziale del gas).

La solubilità dei gas nei liquidi diminuisce col crescere della temperatura, e cresce col crescere della pressione; anzi, quando non si hanno deviazioni, dovute generalmente a variazioni di grandezza molecolare del soluto o a combinazione tra solvente e soluto, la solubilità espressa in peso di gas sciolto nell'unità di volume è direttamente proporzionale alla pressione (legge di Henry, che può esprimersi anche dicendo che il volume di gas assorbito dall'unità di volume del liquido è indipendente dalla pressione).

I gas sono anche solubili nei solidi: talvolta l'assorbimento è esteso a tutto il volume del solido, fenomeno che taluno chiama absorpzione o absorbimento, come avviene per l'idrogeno e per altri gas in varî metalli: più di frequente l'assorbimento è superficiale e si chiama allora adsorpzione o adsorbimento, quale è quello che molti gas subiscono sul carbone attivo, sul gelo di silice, sui metalli piroforici e che generalmente cresce col crescere della superficie adsorbente, col diminuire della temperatura, e, per varî gas, è tanto maggiore quanto più è elevata la loro temperatura di liquefazione. Anche qui si ha una saturazione, ma si è assai lontani dai fenomeni riguardanti le ordinarie soluzioni.

Una soluzione satura rispetto a una o più sostanze può scioglierne ancora altre e saturarsi anche di queste: naturalmente la solubilità di queste ultime nella soluzione è diversa, o poco o molto, da quella che si avrebbe nel solvente puro, e reciprocamente la presenza delle nuove sostanze influisce sulla solubilità delle preesistenti nella soluzione: in altre parole vi sono tra le sostanze in soluzione delle influenze reciproche di solubilità, le quali non seguono leggi generali, ma in cui si possono grosso modo ravvisare alcune regolarità, che soffrono tuttavia notevoli eccezioni, e quindi hanno solo un limitato valore empirico. Dal punto di vista teorico si hanno solo dei tentativi d'interpretazione generale: in conclusione nel campo della teoria della solubilità, ossia del meccanismo, delle modalità e delle condizioni che regolano il fenomeno della soluzione, il quadro di una teoria generale è manchevole, anzi si può dire appena sbozzato.

Al contrario, se si considerano le soluzioni dal punto di vista non del suddetto meccanismo di formazione, ma da quello del loro comportamento e delle leggi che lo regolano, si è di fronte a una delle parti più compiute della chimica teorica, perché per le soluzioni diluite si ha la teoria del van't Hoff; per le soluzioni sature, si ha la trattazione pertinente agli equilibrî nei sistemi eterogenei, quali esse soluzioni sature sono. Come è noto (v. chimica: Chimica inorganica; Chimica fisica, ecc.) tale trattazione, condotta term0dinamicamente, porta a due grandi principî o regole: il principio di ripartizione e la regola delle fasi.

Il primo, specialmente se posto in rapporto alla legge di Guldberg e Waage, regolante l'equilibrio di ognuna delle fasi in presenza, è prezioso per svariate categorie di sistemi eterogenei: per le soluzioni sature la sua importanza viene a giorno specialmente nel caso delle soluzioni sature di elettroliti e in particolare di elettroliti poco solubili, perché in questo caso si arriva alla teoria del prodotto di solubilità. Tale teoria si può, in modo schematico, formulare come segue. Sia la soluzione satura di un elettrolita AB poco o pochissimo solubile. Se si applica la legge di Guldberg e Waage all'equilibrio, esistente nella soluzione, AB ⇄ A+ B- si ha [A+] × [B-] = Kx [AB], dove le lettere tra parentesi indicano concentrazioni rispettivamente di A+, di B- e di AB. Dato ora che la soluzione è satura alla temperatura considerata rispetto ad AB, la concentrazione di AB in soluzione è costante: quindi K × [AB] è il prodotto di due costanti, cioè una nuova costante K′ che si chiama appunto prodotto di solubilità. Si ha dunque [A+] × [B-] = K′. Ciò significa che una soluzione è satura rispetto a un elettrolita AB quando in essa si trova una certa quantità di ioni A+ e di ioni B-, tale che il loro prodotto sia uguale a K′, comunque esso si raggiunga. Così, per es., il prodotto di solubilità del cloruro di argento, AgCl, a 25°, è = 1,98 × 10-10 gr. equivalenti per litro, e rispondentemente a questo, la soluzione è satura rispetto ad AgCl, sia che si saturi l'acqua con AgCl solido, nel qual caso si avranno tanti ioni Ag- quanti ioni Cl-, sia che si mescolino, per es., nitrato di argento che fornisce Ag+, con NaCl che fornisce Cl-, in quantità diverse l'una dall'altra, ma tali che il prodotto [Ag+] × [Cl-] raggiunga il valore 1,98 × 10-10.

La teoria del prodotto di solubilità ora esposta è schematica e per i casi più complicati costituisce solo una prima approssimazione, ma anche come tale essa è uno dei fondamenti della chimica analitica qualitativa e quantitativa.

Di gran lunga più vasta è, per le soluzioni sature, la portata dell'altra grande regola derivante dalla trattazione termodinamica degli equilibrî in sistemi eterogenei, e cioè della regola delle fasi (v. equilibrio: Equilibrio chimico; fase) - perché tutte le soluzioni sature, considerate e intese nella loro qualità di sistemi eterogenei, rientrano nel dominio di tale regola - e quindi vi rientrano le soluzioni sia di elettroliti sia di non elettroliti, e le soluzioni a due, a tre, a quattro, ecc., componenti. Ciò allarga enormemente il campo delle ricerche e delle applicazioni, perché, come nota il van't Hoff, con la regola delle fasi, mentre nei sistemi a un componente si è in presenza solo di trasformazioni fisiche, nei sistemi a due (quali sono le soluzioni binarie) si ha anche la possibilità di scissioni e di combinazioni tra i due componenti A e B, e quindi è da considerare oltre la solubilità dell'un componente nell'altro, anche quella degli eventuali composti, che la regola stessa insegna a individuare anche se non si possono isolare. Quando poi si abbiano tre componenti A, B e C, il sistema eterogeneo, oltre ai fenomeni di solubilità e di combinazione, come nel caso precedente, presenta la possibilità di reazioni di sostituzione come AB + C ⇄ AC + B: infine con quattro componenti possono intervenire anche fenomeni di doppia decomposizione.

Nel caso di un sistema a due componenti, il miglior modo di rappresentare il sistema per lo studio delle variazioni delle concentrazioni con la temperatura, è di riportare nel piano, su un asse, le concentrazioni, da 100% di A a 100% o di B (potrebbero anche riportarsi si quest'asse i % di A nella soluzione, ma il modo prima detto è più completo): sull'altro asse, ortogonale al primo, la temperatura. Una terza coordinata del sistema riguarderebbe le pressioni: perciò il diagramma completo, rappresentativo del sistema, sarebbe tridimensionale, ma quello che qui c'interessa di più è il diagramma temperature-concentrazioni. Il caso più semplice che qui si può avere è quello della fig. 10, che riporta un diagramma schematico: a è il punto di fusione di A puro: aggiungendo B ad A si ha la curva ac (curva avente per corpo di fondo A in presenza della soluzione di B in A). Analogamente b è il punto di fusione di B e la curva bc è la curva avente per corpo di fondo B in presenza della soluzione di A in B. Nel punto c d'intersezione delle due curve ac, cb coesistono A + B + la soluzione (o la fusione) di A con B + la fase vapore; si hanno, cioè, quattro fasi e perciò il sistema è invariante. Se uno dei due costituenti, per esempio A, è l'acqua, la curva ac è la curva del ghiaccio in presenza di soluzioni sature di B (che può essere, per esempio, un sale) nell'acqua. Il punto c è allora la temperatura cosiddetta crioidratica, e la miscela di ghiaccio col sale, o in generale col componente B, è la miscela crioidratica. Negli altri casi, c si chiama punto eutectico.

Ma il sistema può essere più complicato, e cioè si possono avere composti tra A e B: allora, oltre le curve estreme ac, cb, aventi per corpo di fondo rispettivamente A puro e B puro, si hanno anche curve intermedie rappresentanti ognuna la curva di solubilità di composti tra A e B (fig. 11), che nel diagramma della fig. 11 sono indicati con fI e fII. Per esempio, nel caso del sistema H2O + FeCl3 si hanno molte curve intermedie rispondenti ai composti Fe2Cl612H2O; Fe2Cl6•7H2O; Fe2Cl6 5H2O; Fe2Cl6•H2O. Quando tali curve intermedie presentano un massimo come f1, nella fig. 11, questo è il punto di fusione del composto che costituisce la fase solida della curva (cioè del composto f1): ma può darsi che la curva stabile s'interrompa, come accade in e nel diagramma fig. 11, prima che essa arrivi al punto fII che si trova sulla tratteggiata metastabile: allora fII, è il punto metastabile di fusione di fII. Il punto c d'intersezione della curva ac colla cf1 d è un eutectico (e se A è acqua, è un crioidrato): il punto d d'intersezione di cf1 d con de è un altro eutectico dove la soluzione (o la fusione) è in equilibrio simultaneamente col composto f1 e il composto fII: invece e, dove la curva stabile s'interrompe prima che si arrivi al massimo fII, è un punto detto di transizione, dal composto fII, al corpo di fondo della curva eb seguente alla curva de, che nel presente diagramma è B puro, ma che potrebbe anche essere un nuovo composto fIII, tra A e B.

In altri casi, come, per esempio, nel sistema acqua + fenolo, può accadere che dopo la curva ac (fig. 12), avente per corpo di fondo il composto A, la soluzione si scinda in due soluzioni coniugate di composizione c e d in presenza del corpo di fondo, per poi aversi di nuovo lungo de una soluzione unica. Lungo cd il sistema è invariante: la curva tratteggiata rappresenta le soluzioni coniugate in assenza di fase solida.

Infine, benché non frequente si può avere, specialmente tra sostanze organiche, il caso che la soluzione invece di essere, come nei casi precedenti, in equilibrio con specie chimiche determinate, sia in equilibrio con soluzioni solide, ossia con cristalli misti, e può accadere che la serie dei cristalli misti depostisi dalle soluzioni sature (o dalla fusione) sia ininterrotta, oppure che si abbia una lacuna di miscibilità.

Si sarà osservato che, durante l'illustrazione dei diagrammi, sono state usate talvolta indifferentemente le indicazioni "soluzione" e "fusione". Infatti, dal punto di vista della regola delle fasi non si potrebbero fare distinzioni assolute: tuttavia si debbono indicare col nome di fusione quei miscugli fisici in cui si ha passaggio di stato a temperatura di solito elevata, mentre si parla più propriamente di soluzioni quando al sistema partecipano una o, per più componenti, più sostanze che, a temperatura ambiente o a temperature non molto elevate, sono allo stato liquido; sostanze, dunque, che nel sistema considerato, o in molte parti del diagramma di esso, costituiscono manifestamente il solvente o i solventi del sistema.

Nel caso dei sistemi a tre componenti si hanno da considerare due concentrazioni, oltre alla temperatura e alla pressione. Se uno dei tre componenti, per esempio A, ha una particolare funzione rispetto agli altri due, B e C (per es., è da considerarsi come solvente), si può esprimere su un asse la concentrazione di B per 100 parti di A o per 100 parti di soluzione di B in A, e su in asse ortogonale la concentrazione di C per I00 parti di A o per 100 parti di soluzione di C in A. Ciò va bene molto spesso per due sali e acqua. Se invece i tre componenti sono in proporzioni, o reagiscono in proporzioni, tali che nessuno dei tre, presenti una singolare funzione rispetto agli altri, il sistema si può rappresentare con un triangolo equilatero avente ai vertici il 100% di A di B e di C: lungo un lato si hanno allora i sistemi binarî dei due componenti dei vertici terminali: nell'interno del triangolo, i sistemi ternarî. Ciò è adatto, per esempio, al caso di tre sostanze organiche, oppure di un'anidride, un ossido basico e l'acqua (così B2 O3, Na2O, H2O). Sia per il diagramma ortogonale, sia per il diagramma triangolare, la superficie rappresenta una isoterma: la temperatura è sulla terza coordinata, cosicché nel caso del diagramma ortogonale l'andamento di tutto il sistema, per ciò che riguarda le concentrazioni e la temperatura (a parte cioè la coordinata pressione), è espressa dalle superficie del solido compreso fra le tre coordinate ortogonali, come si ha, per esempio, nel diagramma della fig. 13. Nel caso del modo di rappresentazione triangolare, il diagramma politermico dà il solido contenuto nel prisma triangolare avente per base il triangolo e per altezza la temperatura, come è rappresentato nel diagramma della fig. 14.

È chiaro che sia nel caso della fig. 13 sia in quello della fig. 14 si potrebbe rappresentare il diagramma politermico completo anche proiettando su un piano i diagrammi solidi di cui sopra si è parlato.

Nei sistemi a 4 componenti, un'isoterma è già un solido anche a pressione costante, perché si hanno da considerare 3 concentrazioni e la temperatura, ma si possono riportare, con regole molto semplici, le proiezioni di tale isoterma su un piano, come, p. es., nella fig. 15, che dà il diagramma del sistema cloruro sodico, cloruro potassico, solfato sodico, solfato potassico e acqua (il sistema è a 4 componenti perché si tratta di sali con ione a comune, e, dati tre di essi, il quarto non è più componente indipendente). Dalle proiezioni delle isoterme si passa al diagramma politermico, riportando su un asse le temperature e su un altro, ortogonale, le concentrazioni di un componente spettanti ai punti invarianti di ogni isoterma. Poiché quattro sali come i precedenti, del tipo AB, CD, AC, BD, si debbono considerare, nella soluzione, legati dall'equazione di doppia decomposizione AB + CD ⇄ AC + BD, ossia poiché una coppia dei due sali non aventi nessun ione a comune dà origine ed è in equilibrio con la coppia degli altri due senza ione a comune, le due coppie sono state chiamate reciproche; e la teoria della suddetta doppia decomposizione, quando essa si compia in soluzione satura, si conosce col nome di teoria delle coppie reciproche di sali, che è evidentemente essa pure un caso particolare di applicazione della regola delle fasi. Sviluppi notevoli si hanno, nello studio di queste coppie reciproche, quando i sali reagenti dànno composti con il solvente (cioè nel caso dell'acqua, quando i sali siano idratati) e quando dànno composti tra di loro, cioè quando si abbiano sali doppî.

Qui, e anche nel caso dei sistemi a tre componenti ove si formino sali doppî o comunque composti tra le sostanze disciolte, sorge la possibilità di soluzioni cosiddette incongruenti, che sono quelle che si trovano, se si tratta di sali, in presenza di alcuni di essi come corpi di fondo, mentre i residui acidi e i residui basici presenti in soluzione non si possono stechiometricamente raggruppare a dare gli stessi sali. Per esempio, nella doppia decomposizione Na2B4O7 2NH4Cl ⇄ (NH4)2 B4O7 + 2NaCl, a 10° esistono stabilmente come corpi di fondo le triadi Na2B4O7, NH4Cl, NaCl e Na2B4O7, NH4Cl, (NH4)2B4O7 (delle due coppie reciproche partecipanti alla doppia decomposizione, la coppia stabile a quella temperatura è Na2B4O7, NH4 Cl): ma la prima triade è in equilibrio con una soluzione contenente i costituenti in quantità tale che si possono raggruppare a dare gli stessi tre sali come corpi di fondo, la seconda invece si trova in presenza di una soluzione che contiene i tre sali dell'altra triade; la prima è una soluzione congruente, la seconda una incongruente. Meyerhoffer definì in modo generale una soluzione congruente satura quella in cui i corpi di fondo aumentano uniformemente durante un'evaporazione isotermica della soluzione fino a completo essicamento di essa, e che, reciprocamente, si può preparare direttamente per aggiunta di solvente ai corpi di fondo. Invece una soluzione incongruente satura è quella in cui, per evaporazione isotermica, si ha scomparsa di almeno uno dei corpi di fondo iniziali: non si può mai preparare per semplice aggiunta dei corpi di fondo (finali) al solvente, ma richiede, per formarsi, l'aggiunta iniziale di un'altra sostanza. Così, nel sistema cloruro potassico, cloruro di magnesio, acqua, si ha formazione del sale doppio KCl•MgCl2•6H2O, detto carnallite. Tale composto si forma solo al disotto di 167°,5, e, come mostrano i diagrammi L, le sue soluzioni sature contengono sempre un eccesso di MgCl2 in rapporto a quello che si ha nella carnallite, cioè, in soluzione, per una gr. mol. di Cl si ha una quantità superiore a una gr. mol. di MgCl2. Ne deriva che non si può preparare una soluzione satura di carnallite per semplice aggiunta di acqua al sale doppio solido; occorre aggiungere l'eccesso voluto di MgCl2. Inoltre, se, per esempio, si parte da una soluzione contenente KCl e MgCl2 in quantità equimolecolari e si evapora isotermicamente (a una temperatura inferiore a 1670,5) si prepara dapprima KCl, con che si ha un aumento, in soluzione, della quantità relativa di MgCl2 fino a giungere al punto in cui comincia a separarsi la carnallite. Questo è un punto invariante, e quindi la composizione della soluzione deve ormai rimanere inalterata durante tutta l'evaporazione isotermica, ma poiché, separandosi la carnallite, si verrebbe ad avere, in soluzione, una diminuzione relativa di KCl rispetto a quello che si aveva nel momento iniziale della separazione della carnallite stessa, ecco che il KCl primamente separato si ridiscioglie. Tutto questo (necessità di un eccesso di MgCl2 durante la soluzione: scomparsa di KCl durante l'evaporazione isotermica) è il comportamento di una soluzione incongruente. Per converso, si può partire da una soluzione satura di carnallite con il suo eccesso di cloruro di magnesio esattamente calcolato: da questa soluzione, per evaporazione isotermica, si separano insieme carnallite e cloruro di magnesio fino a secchezza, e questo è il comportamento di una soluzione congruente satura.

Questi cenni ai varî casi di equilibrio in soluzioni sature mostrano quale vastità di campi di studio copra l'applicazione ad esse della regola delle fasi: ed è da aggiungere che le ricerche sono state spinte anche fino allo studio di soluzioni di miscele di sali provenienti da cinque ioni e delle soluzioni di coppie reciproche con saturazione di un quinto e di un sesto componente.

Bibl.: Sulla teoria della solubilità: V. Rothmund, Löslichkeit und Löslichkeitbeeinflussung, Lipsia 1907; J. H. Hildebrand, Solubility, New York 1924. Notizie ed esempî, oltre che nelle note originali di molti autori, fra cui alcuni italiani, nei trattati: W. Meyerhoffer, Phasenregel, Vienna 1893; W. D. Bancroft, The Phase Rule, Ithaka N. Y. 1897; B. Roozeboom, Die heterogenen Gleichgewichte, Brunswick 1901-11; E. Jänecke, Gesättigte Salzlösungen, Lipsia 1908; A. Findlay, Phase Rule, 5ª ed., Londra 1923. Ma l'esempio massimo e fondamentale è contenuto nell'opera svolta dal grande chimico-fisico olandese J. H. van't Hoff che, insegnando e praticando l'applicazione della regola delle fasi alle soluzioni sature, stabilì (Vant'Hoff, Zur Bildung der ozeanischen Salzablagerungen, Lipsia 1912) le leggi della separazione dei numerosi sali saturanti le acque degli oceani evaporatisi attraverso le epoche geologiche.

Farmacologia. - Sotto il titolo di soluzioni la Farmacopea italiana (1929) comprende un gruppo di preparazioni medicinali, un gruppo di liquidi per iniezioni ipodermiche, una serie di reattivi chimici.

Appartengono al primo gruppo: la soluzione di acetato d'ammonio (liquor ammonii acetici: ammoniaca [D = 0,92] parti 4, acido acetico concentrato 3, acqua 8); la soluzione alcooliea di ammoniaca con anice o liquore anisato d'ammonio (spiritus ammonii anisatus: alcool a 95°24, essenza di anice 1, ammoniaca [D = o,925] 2,5, acqua 2,5); la soluzione alcoolica di canfora o spirito canforato (solutio alcoholica camphorae: canfora 1, alcool a 95°7, acqua 2); la soluz. one alcoolica di iodio o tintura di iodio (solutio iodi spirituosa: iodio polverato 7, ioduro potassico 3, alcool a 95°85, acqua 5; la soluzione alcoolica di sapone (solutio alcoholica saponis: sapone medicinale 1, alcool a 90°9), la soluzione arsenicale del Pearson (v. arsenico: Farmacologia); la soluzione di arsenito d'ammonio e di citrato di ferro ammoniacale (solutio ammonii et ferri citrici ammoniati: anidride arseniosa 1, ammoniaca quanto basta, citrato di ferro ammoniacale 49 alcool a 95°25, acqua 175); la soluzione di bromoformio (liquor bromoformi: bromoformio gr. 5, glicerina 15, alcool a 90°30); la soluzione concentrata di catrame (liquor picis: catrame vegetale 100, carbonato di sodio cristallizzato 40, acqua distillata fino a 1000); la soluzione di citrato di magnesia o limonata citro-magnesiaca (limonata aerata laxans: acido citrico gr. 20, carbonato di magnesia 12, acqua 200, sciroppo di limone 40); la soluzione di cloruro ferrico o percloruro di ferro liquido o cloruro ferrico liquido (ferrum sesquichloratum solutum: ferro in filo o punte di Parigi 100, acido cloridrico [D =1, 18] 300, acqua 300); la soluzione idroalcolica di cloruro mercurico o liquore di Van Swieten (v. mercurio); la soluzione fisiologica di cloruro di sodio o siero artificiale (serum physiologicum: cloruro di sodio 9, acqua distillata 991); la soluzione di formolo saponosa (liquor formaldehydi saponatus; olio di ricino gr. 250, idrato sodico 90%] 44, formolo [aldeide formica 40%] 1000, alcool 100, essenza di timo1, essenza di lavanda 1,50, acqua quanto basta per fare cinque chilogrammi di prodotto); la soluzione di guttaperca o traumaticina (traumaticinum: guttaperca in piccoli pezzi 1, cloroformio 9); la soluzione di ipoclorito di sodio (liquor natrii hypochlorosi: cloruro di calce [28% di cloro attivo] 20, fosfato di sodio 54, cloruro di sodio 20).

Al gruppo delle soluzioni per iniezioni ipodermiche (solutiones pro iniectionibus hypodermicis) appartengono le seguenti sostanze: arseniato di sodio (un milligrammo per un centimetro cubo di soluzione acquosa), benzoato di sodio e caffeina (trentacinque centigrammi per 1 cmc. di soluzione acquosa), bicloridrato di chinina (trenta centigrammi per 1 cmc. di soluzione acquosa); canfora (dieci centigrammi per 1 cmc. di olio di mandorle); citrato di ferro ammoniacale (cinque centigrammi per 1 cmc. di soluzione acquosa); cloridrato di chinina e uretano (quaranta centigrammi di chinina e venti centigrammi di uretano per 1 cmc. di soluzione acquosa); cloridrato di morfina (un centigrammo per 1 cmc. di soluzione acquosa); cloruro mercurico (un centigrammo di cloruro mercurico e un centigrammo di cloruro di sodio per 1 cmc. di soluzione acquosa); cloruro mercuroso (cinque centigrammi per 1 cmc. di acqua con glicerina); cloruro mercuroso e guaiacolo (cinque centigrammi per 1 cmc. di vaselina con guaiacolo); estratto idroalcoolico di segale cornuta (cinquanta centigrammi per un cmc. di soluzione acquosa); fenolo (due centigrammi per un cmc. di soluzione acquosa); glicerofosfato di sodio con ferro, arsenico e stricnina (glicerofosfato di sodio centigrammi dieci, citrato di ferro ammoniacale centigrammi cinque, arseniato di sodio milligrammi uno, nitrato di stricnina milligrammi uno, per un cmc. di soluzione acquosa); glicerofosfato di sodio e cacodilato di sodio (glicerofosfato di sodio cen-. tigrammi dieci, cacodilato di sodio centigrammi cinque per 1 cmc. di soluzione acquosa); soluzione di iodio con guaiacolo e canfora (iodio centigrammi due, guaiacolo centigrammi dieci, canfora centigrammi dieci per un cmc. di olio di mandorle); soluzione iodo-iodurata con guaiacolo, di primo, secondo, terzo grado, ecc.

Per il terzo gruppo v. tab. XIII della Farmacopea italiana (1929).

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