Sottosviluppo

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Sottosviluppo

Kaushik Basu

Sommario: 1. Problemi di definizione del concetto. 2. La realtà del sottosviluppo. a) Lo scenario attuale. b) Il quadro storico. c) La teoria della dipendenza e le ragioni di scambio nel lungo periodo. 3. Il sottosviluppo economico. a) Il circolo vizioso della povertà. b) Crescita della popolazione e consumo di sussistenza. c) Povertà e accesso alle risorse;. d) I modelli di Nurkse e di Rosenstein-Rodan. 4. Lo sviluppo umano.  5. Il sottosviluppo settoriale. 6. Ambiente e sviluppo sostenibile. 7. Osservazioni conclusive. □ Bibliografia.

1. Problemi di definizione del concetto

Per ‛sviluppo' si intende in generale il livello di progresso di una società o di una nazione, e in questo senso il concetto è strettamente collegato a quelli di ‛crescita economica' e ‛modernizzazione', sebbene sia più controverso. ‛Sottosviluppo', per converso, indica lo stato di arretratezza o di stagnazione di una società o di una nazione. Pertanto, si definisce ‛sottosviluppato' un paese economicamente arretrato. Tuttavia quest'uso del termine viene oggi considerato sempre più politicamente inaccettabile, e molti scienziati sociali preferiscono definire i paesi economicamente arretrati come ‛nazioni in via di sviluppo'. Alcuni autori identificano il sottosviluppo con l'arretratezza sociale, ma si tratta di un'interpretazione ancora più controversa, e a buon diritto. Infatti il giudizio di arretratezza sociale dipende in misura notevole dal sistema di valori, dall'ideologia e persino dall'estraneità culturale dell'osservatore, ed è assai facile per gli studiosi appartenenti alle nazioni economicamente avanzate etichettare le strutture sociali delle economie povere come sottosviluppate. A una considerazione obiettiva non appare affatto certo che i paesi attualmente poveri fossero sottosviluppati in questo senso nell'epoca precoloniale, sebbene non fossero industrializzati e avessero scarse risorse materiali.

Mentre gli individui hanno sempre cercato di migliorare le proprie condizioni di vita, la consapevolezza e la ricerca del benessere collettivo di gruppi e di società sono fenomeni relativamente moderni. Dalle descrizioni dei primi viaggiatori sul benessere relativo di società diverse, siamo passati ai resoconti di storici e antropologi, per entrare, infine, nell'era della statistica. In anni recenti si è avuta una proliferazione di dati sugli indicatori dello sviluppo nei diversi paesi. Interi volumi sono stati scritti sul reddito, sulla speranza di vita, sull'alfabetismo e sugli indicatori ambientali, ai quali si sono aggiunti nuovi indici per descrivere lo sviluppo e il sottosviluppo delle nazioni. In effetti, i dati sullo sviluppo sono cresciuti a un ritmo più veloce dello sviluppo stesso. Questo incremento di informazioni ha contribuito a dare forma e struttura a molte delle nostre idee, che in passato dovevano basarsi su testimonianze di seconda mano e su osservazioni casuali, ma ha prodotto nello stesso tempo dispute, conflitti e dissonanze.

Nella prima letteratura sull'argomento, la definizione del sottosviluppo risulta altamente controversa. Secondo alcuni autori, esso consisteva essenzialmente nell'incapacità da parte di una società di progredire da una tecnologia semplice a una complessa; altri sottolineavano la persistenza di una economia di sussistenza e l'incapacità di passare alla produzione per il mercato, mentre altri ancora identificavano il sottosviluppo con la sopravvivenza di forme di vita feudali o addirittura primitive; vi era chi, infine, sosteneva che ‛sottosviluppo' è un termine improprio e peggiorativo, coniato da analisti che hanno erroneamente identificato il progresso con il modello ‛occidentale' di economia e di società. In seguito, allorché si affermarono i concetti di reddito nazionale e reddito pro capite, e si poté disporre di un numero crescente di dati su queste variabili, il sottosviluppo finì per essere considerato sinonimo di stagnazione o di lento tasso di crescita del reddito pro capite delle nazioni.

L'interesse per queste statistiche aumentò nel corso degli anni sessanta e settanta, tanto che si cominciarono a registrare e a confrontare i tassi di crescita dei vari paesi allo stesso modo in cui si conteggiavano le medaglie vinte dalle diverse nazioni ai giochi olimpici, e si presero a celebrare eventi quali il superamento della soglia dei 10.000 dollari di reddito pro capite. L'attenzione ossessiva per queste cifre, tuttavia, cominciò ben presto a suscitare le prime critiche e i primi dissensi. Come può un concetto complesso come quello di sviluppo essere catturato da un'unica misura? E anche se si ritiene utile sintetizzarlo in un indicatore quantitativo, per quale ragione focalizzare l'attenzione esclusivamente sul reddito? Non sarebbe più opportuno tener conto di altri aspetti importanti, come la libertà, l'alfabetismo, un basso tasso di morbilità e la salubrità dell'ambiente?

Nello stesso tempo, allorché alcuni paesi entrarono nella fase del ‛decollo' economico, cominciò a porsi il problema delle nazioni in cui tale decollo non si era verificato. Così il persistere del fenomeno del sottosviluppo richiamò l'attenzione degli studiosi mentre ancora si discuteva l'esatto significato del termine. L'ineluttabilità del sottosviluppo per alcuni paesi non era più data per scontata. ‟Perché le nazioni povere restano tali?" divenne una questione degna di attenzione per gli studiosi di scienze sociali.

Nell'analizzare la problematica dello sviluppo e del sottosviluppo, anche se si sceglie di considerare solo il benessere economico, si resta sorpresi nel constatare come lo stesso reddito possa essere compatibile con standard di vita estremamente diversi. Nel XVIII secolo, ad esempio, molte nazioni europee avevano un reddito pro capite comparabile a quello della Cina e dell'India contemporanee. Si trattava, quindi, di nazioni ‛povere' secondo i criteri attuali. Ma in Cina e in India la povertà esiste tra il ronzio dei condizionatori e la luminescenza degli schermi dei computers; i poveri possono avere accesso occasionalmente all'uso di fax e telefono; vivono in baraccopoli con fogne all'aperto, ma sui tetti delle loro catapecchie spesso si vedono svettare le antenne degli apparecchi televisivi; hanno gli antibiotici per curare varie infezioni batteriche, ma sono anche esposti a nuovi virus letali sconosciuti due secoli fa; sono vestiti meglio, ma probabilmente respirano un'aria assai meno salubre degli uomini del Seicento. È evidente, allora, che uno stesso livello di povertà misurato in termini di reddito può coprire un'enorme diversità di condizioni di vita.

2. La realtà del sottosviluppo

a) Lo scenario attuale

Chi vive nei paesi industrializzati non sempre è consapevole del fatto che ancor oggi, alla fine del XX secolo, deprivazione e povertà costituiscono la norma più che l'eccezione. Il World development report 1997 elaborato dalla Banca Mondiale include ventisei paesi nella categoria delle nazioni ad alto reddito. In questo gruppo sono compresi tutti i paesi dell'Europa occidentale e del Nordamerica, oltre ad alcuni paesi asiatici di recente industrializzazione. In tutti questi paesi il reddito annuo pro capite supera i 9.000 dollari: nel più ricco, la Svizzera, è di poco superiore ai 40.000 dollari (i dati si riferiscono al 1995), mentre negli Stati Uniti e in Italia è rispettivamente di 29.980 e di 19.020 dollari. In tutte queste nazioni la speranza di vita alla nascita è di 72 anni o più, e arriva a 80 anni in Giappone, il paese più longevo. La speranza di vita degli Americani e degli Italiani è rispettivamente di 77 e di 78 anni. Tranne quattro eccezioni, in tutti i paesi ad alto reddito il livello di alfabetismo della popolazione adulta è superiore al 95%. Poiché la ricerca sociale proviene per la maggior parte da questi paesi, è facile dimenticare che oltre tre miliardi di persone - ossia poco più della metà della popolazione mondiale - vivono in paesi in cui il reddito pro capite non supera i 700 dollari annui. In molti di questi paesi la speranza di vita raggiunge a malapena i quarant'anni, la mortalità infantile è molto elevata (il numero di bambini che, per ogni 1.000 nati vivi, muoiono entro il primo anno di età è superiore a 100) e gran parte della popolazione è priva di elettricità, di acqua potabile e di impianti igienici (v. World Bank, World development report..., 1997).

Per avere un'idea della realtà del sottosviluppo, può essere utile dare un rapido sguardo ai paesi che si trovano agli ultimi posti nella classifica stilata dalla Banca Mondiale. Il World development report 1997 include 49 paesi tra le economie a basso reddito del mondo. Nei cinque più poveri - Mozambico, Etiopia, Tanzania, Burundi e Malawi - il reddito pro capite è rispettivamente di 80, 100, 120, 160 e 170 dollari. La speranza di vita oscilla tra i 43 anni (Malawi) e i 51 anni (Tanzania), l'alfabetismo della popolazione adulta dal 35% (Burundi) al 68% (Tanzania). Nei 49 paesi a basso reddito, anche a prescindere dalla povertà generalizzata, una quota altissima della popolazione vive con un consumo giornaliero inferiore a un dollaro. Ciò vale, ad esempio, per il 52% della popolazione indiana e per il 29% di quella cinese. Il quadro della stagnazione diventa ancora più eloquente quando si consideri l'andamento del saggio di crescita, ossia il tasso di variazione del reddito pro capite nel decennio 1985-1995. In ventidue di queste nazioni più povere il tasso di crescita risulta negativo - ciò significa che, nel corso di tale decennio, il loro reddito è diminuito in media dell'1,4% l'anno. È vero che il quadro della crescita appare particolarmente cupo a causa della presenza in questo gruppo di numerosi paesi dell'ex area sovietica, che hanno sperimentato un drastico declino del reddito, ma anche se si escludono tali paesi la situazione appare tutt'altro che confortante.

Le prime ricerche sociologiche sul sottosviluppo mettevano in rilievo il ruolo della povertà, ma consideravano anche la struttura dell'attività produttiva di un'economia e la qualità della vita. L'importanza di quest'ultimo fattore è stata sottolineata da numerosi autori contemporanei, in particolare da Amartya K. Sen (v., 1981 e 1985) e da Paul Streeten (v., 1981). Molte organizzazioni internazionali, come il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) e la Banca Mondiale, hanno cominciato a fornire dati su varie dimensioni del sottosviluppo. L'UNDP ha definito un ‛indice di sviluppo umano', che è una combinazione di tre indicatori: reddito pro capite, livello di istruzione e condizioni sanitarie. Nel World development indicators 1997 della Banca Mondiale vengono forniti dati sulla struttura della produzione e sulla qualità della vita nelle diverse economie. Da questi dati risulta che la maggior parte dei 49 paesi più poveri menzionati in precedenza ha anche molti elementi in comune per quanto attiene alla struttura della produzione e agli indicatori sociali. In tutti, ad esempio, la quota della popolazione occupata nel settore agricolo risulta assai elevata. In base alle stime relative al 1990, nei cinque paesi più poveri le percentuali sono le seguenti: 83% in Mozambico, 80% in Etiopia, 84% in Tanzania, 92% nel Burundi, 95% nel Malawi. Si tratta di percentuali assai alte se confrontate con quelle delle nazioni ad alto reddito, in cui in generale meno del 10% della popolazione è occupata nel settore agricolo. Negli Stati Uniti e in Italia, ad esempio, rispettivamente il 3 e il 9% della forza lavoro complessiva è attiva nell'agricoltura (v. World Bank, World development indicators..., 1997).

b) Il quadro storico

Molti economisti potrebbero sostenere che la struttura della produzione in se stessa è irrilevante, e che il fattore più importante per cogliere il sottosviluppo è lo standard di vita della popolazione. Tuttavia la struttura della produzione ha un ruolo non trascurabile nel notevole progresso economico verificatosi nel giro di pochi secoli. Le proporzioni della crescita economica emergono con particolare chiarezza se si confronta la situazione attuale con quella del passato. Le condizioni di vita sono migliorate in particolare nel corso del Settecento, ma importanti mutamenti si erano verificati ancora prima di quest'epoca. Le condizioni di vita degli Indiani d'America, ad esempio, migliorarono considerevolmente prima del XV secolo. Tuttavia i progressi che si ebbero prima del Settecento si dovettero in larga misura alle trasformazioni dell'organizzazione sociale, come ad esempio l'affermarsi dello Stato moderno intorno al XII secolo (v. Strayer, 1970), nonché all'apertura di rotte commerciali mondiali. I mutamenti tecnologici, per contro, furono pochi e sporadici.

L'accelerazione della crescita divenne chiaramente percepibile a partire dal tardo XVIII secolo, con il susseguirsi a un ritmo sempre più rapido delle rivoluzioni tecnologiche e l'affermarsi di un modello mondiale di specializzazione, in cui alcune nazioni fornivano capitale e tecnologia e altre le materie prime. Il cosiddetto ‛decollo' dell'economia mondiale non fu altro, in realtà, che la crescita economica di pochi paesi dotati di tecnologie e di capitale. Tali paesi colonizzarono ampie aree del mondo, ma, a differenza di quanto accade nel commercio internazionale, il colonialismo non produsse benefici per entrambe le parti. Il decollo di un ristretto gruppo di economie avvenne a prezzo dell'impoverimento delle colonie. Una delle ragioni per cui i benefici del commercio non si distribuirono su tutte le nazioni coinvolte negli scambi fu che le colonie erano assoggettate al controllo politico delle nazioni industrializzate. Di fatto, i proprietari di molte delle industrie create nelle nazioni povere erano i capitalisti di quelle più ricche. In altri termini, gli acquirenti e i venditori di materie prime erano sempre i capitalisti del ristretto gruppo di nazioni europee.

La crescita economica verificatasi a partire dal XVIII secolo fu altamente concentrata. Non solo i paesi dell'Asia, dell'Africa e di gran parte dell'America restarono esclusi dai suoi benefici, ma anche nell'ambito delle nazioni europee ne godette solo una quota esigua della popolazione. Le classi operaie continuarono a vivere nella più nera miseria, ad avere orari di lavoro eccessivamente lunghi e a morire precocemente. Secondo i dati del censimento britannico del 1851, in Inghilterra e nel Galles il 36,6% dei ragazzi e il 19,9% delle ragazze del gruppo di età compreso tra i 10 e i 14 anni lavoravano regolarmente, perlopiù in tetre e squallide fabbriche come quelle descritte da Dickens. Per avere un'idea di quanto fosse grave all'epoca il problema del lavoro minorile, si consideri che nel mondo attuale solo in alcune nazioni dell'Africa centrale si registra una percentuale più alta di manodopera minorile (v. Basu e Van, 1998). Tutto ciò dimostra che per lungo tempo gran parte della popolazione restò esclusa dai benefici della crescente prosperità, non solo nel mondo ma anche nelle nazioni industrializzate.

Un significativo mutamento strutturale determinato dalla rivoluzione industriale fu la drastica diminuzione degli occupati nel settore agricolo. In passato, al fine di assicurare a tutti la sussistenza, praticamente l'intera popolazione doveva dedicarsi alla caccia, alla raccolta e alla coltivazione della terra, mentre con il progresso tecnologico un numero sempre minore di persone fu in grado di produrre cibo a sufficienza per tutti. Se tutto il mondo avesse accesso alla tecnologia moderna, forse non più del 5% della popolazione attuale avrebbe bisogno di lavorare nel settore agricolo per produrre le risorse alimentari sufficienti a nutrire l'intero pianeta.

c) La teoria della dipendenza e le ragioni di scambio nel lungo periodo

La graduale divisione del mondo tra paesi industrializzati e paesi produttori di materie prime non tardò a suscitare reazioni critiche tra gli intellettuali, dando luogo alla formulazione di modelli economici marxisti e neomarxisti, in particolare alla cosiddetta ‛teoria della dipendenza', formulata negli anni cinquanta nell'America Latina, secondo la quale lo sviluppo capitalistico comporterebbe l'arricchimento di un ristretto gruppo di nazioni a scapito di altre, condannate a restare ferme al livello della pura sussistenza (v. Frank, 1967).

Nell'ambito di questo indirizzo di pensiero ha avuto una grande influenza la cosiddetta ‛tesi di Prebisch e Singer' (v. UNECLA, 1950; v. Singer, 1950), secondo la quale i paesi in via di sviluppo che esportano materie prime sperimentano invariabilmente un peggioramento secolare delle ragioni di scambio, ossia devono vendere una quantità sempre maggiore dei loro prodotti per poter acquistare le stesse quantità di beni dalle nazioni industrializzate. Analizzando le ragioni di scambio della Gran Bretagna dal 1876 al 1938, Raul Prebisch trovò che nel corso di questo periodo l'andamento delle ragioni di scambio era migliorato costantemente per i Britannici, e ne dedusse che per i paesi in via di sviluppo le ragioni di scambio dovevano essere peggiorate. Tale conclusione venne generalizzata nella tesi secondo cui nel lungo periodo le ragioni di scambio tra il Nord industrializzato e il Sud povero, ovvero tra il ‛centro' e la ‛periferia', tendono a modificarsi a danno di quest'ultimo. La tesi di Prebisch-Singer suscitò una serie di critiche tra gli economisti. Alcuni autori affermarono che a causa del costante declino dei costi di trasporto, nel periodo studiato da Prebisch il miglioramento delle ragioni di scambio per la Gran Bretagna non implicava necessariamente un peggioramento di quelle dei suoi partners; in realtà, tutti avrebbero guadagnato. Ma a mettere in discussione il pessimismo di questa teoria fu soprattutto l'esperienza di alcune nazioni povere, che riuscirono a sfuggire alla trappola della povertà allorché cominciarono a esportare nei paesi industrializzati non più materie prime, ma prodotti finiti ad alta intensità di lavoro.

La posizione marxiana in merito a questa problematica era più ambigua di quella dei sostenitori della teoria della dipendenza e persino di molti autori marxisti. Marx riconosceva infatti che l'afflusso del capitale internazionale nei paesi agricoli era finalizzato esclusivamente agli interessi dei paesi colonialisti, avveniva cioè all'insegna dello sfruttamento e della rapina di risorse; ma nonostante ciò, si sarebbero avuti egualmente, a suo avviso, spillovers positivi per le colonie. Nella sua analisi del dominio britannico in India, ad esempio, Marx osservava, dimostrando una sorprendente capacità di anticipazione: ‟So bene che l'autocrazia industriale britannica intende dotare l'India di ferrovie esclusivamente allo scopo di ottenere a minor costo il cotone e altre materie prime per le sue manifatture. Ma una volta che viene meccanizzato il sistema dei trasporti di un paese produttore di ferro e carbone, non gli si può impedire di fabbricare [...]. Il sistema ferroviario, pertanto, sarà realmente in India il preludio della industria moderna" (v. Marx, 1853).

Per lungo tempo tali spillovers positivi non si fecero vedere, e di fatto probabilmente non vi furono. Allorché il mondo emerse dal caos della seconda guerra mondiale, le nazioni industrializzate continuarono ad arricchirsi, mentre due terzi del mondo rimasero estremamente poveri, e tutto sembrava indicare che dovessero restare in permanenza tali. Il modello della dipendenza sembrava trovare piena conferma nei fatti; il sottosviluppo economico appariva come un destino ineluttabile per questi paesi. Le uniche eccezioni erano rappresentate da alcuni paesi comunisti, che, attraverso la pianificazione e gli investimenti statali nell'industria pesante, erano riusciti a liberarsi dalle strette della povertà. Questo fu il modello di politica economica generalmente accettato all'epoca, e adottato da varie nazioni, incluse l'India, la Cina e la Corea, nonostante le loro notevoli differenze politiche. Nel complesso, però, non vi furono cambiamenti significativi: i paesi poveri restavano poveri, e il sottosviluppo sembrava essere una loro caratteristica permanente.

Un segnale di speranza provenne sia dal fronte teorico che da quello dell'esperienza concreta. Le principali innovazioni sul piano teorico si debbono a un gruppo di economisti - in particolare Paul Rosenstein-Rodan (v., 1943), Ragan Nurkse (v., 1953), Gunnar Myrdal (v., 1956) e Harvey Leibenstein (v., 1957) - i quali tra gli anni quaranta e cinquanta sostennero che i paesi poveri erano tali in quanto prigionieri di un ‟circolo vizioso della povertà", o di una ‟trappola della povertà", o di un processo di ‟causazione cumulativa". In base a questa teoria, i paesi poveri non restano tali perché non esistono alternative, bensì perché rimangono intrappolati nella povertà allo stesso modo in cui la puntina dei vecchi giradischi si inceppava nei solchi dei dischi di vinile. Se potesse crearsi una spinta sufficientemente forte - se vi fosse uno ‟sforzo minimo critico" - queste nazioni potrebbero emergere dalla povertà e avviare la crescita economica. L'ipotesi del circolo vizioso, che ci riserviamo di analizzare in modo più approfondito in seguito, è di grande importanza per la teoria economica del sottosviluppo (anche se, a causa del metodo di esposizione poco rigoroso seguito da questi autori, gli economisti contemporanei hanno tardato a riconoscerne la rilevanza).

La convinzione che il sottosviluppo sia una condizione insuperabile è stata scossa altresì dall'esperienza di alcuni paesi asiatici, i quali negli anni sessanta sono riusciti a liberarsi dalla stagnazione e a registrare tassi di crescita economica mai visti in passato. In Giappone questa trasformazione si era verificata ancora prima del periodo in questione. Negli anni sessanta in Corea, Taiwan, Singapore e Hong Kong i saggi di crescita sono aumentati a un ritmo vertiginoso. Negli anni ottanta è stata la volta di Cina, Malaysia, Thailandia, Indonesia e Filippine. Anche il saggio di crescita dell'India ha avuto un'impennata negli anni ottanta, con un aumento annuo del reddito pro capite pari al 3,2% in tale decennio e vicino al 5% negli ultimi tre anni, dal 1994 al 1997. Le condizioni che hanno permesso a questi paesi di uscire dalla situazione di sottosviluppo sono tuttora oggetto di dibattito, ma questa esperienza e i nuovi orientamenti teorici menzionati in precedenza hanno rafforzato la convinzione che povertà e arretratezza economica non costituiscano una realtà immutabile.

3. Il sottosviluppo economico

a) Il circolo vizioso della povertà

Il famoso saggio di Rosenstein-Rodan del 1943, in cui venivano esaminate le cause della stagnazione nelle aree arretrate dell'Europa, aprì un decennio estremamente fecondo di ricerche in cui videro la luce alcuni dei lavori più significativi sullo sviluppo. Dai contributi di Rosenstein-Rodan (v., 1943), Nurkse (v., 1953) e Scitovsky (v., 1954), che riecheggiavano alla lontana le idee di Allyn Young (v., 1928), emerse un nucleo di importanti concetti quali quello di circolo vizioso, di crescita bilanciata e di ‛spinta sufficiente', che avrebbero dato origine a un'intensa attività di ricerca e a un serrato dibattito.

La persistenza del sottosviluppo, nonostante i numerosi shock e sconvolgimenti cui ogni economia è soggetta nel corso normale della sua esistenza, fa nascere il sospetto che esso sia uno stato di equilibrio, e che esistano forze le quali tendono a ristabilire tale equilibrio ogniqualvolta intervenga un qualche disturbo. Da questa ipotesi ebbe origine l'idea di un circolo vizioso della povertà, ossia di una ‟costellazione circolare di forze che tendono ad agire e a reagire reciprocamente in modo tale da mantenere un paese povero in una condizione di povertà" (v. Nurkse, 1953; tr. it., p. 4).

Prima di proseguire la nostra analisi, è opportuno esaminare alcuni aspetti della ‟trappola della povertà", o ‟trappola dell'equilibrio subottimale", per usare la terminologia di Nelson (v., 1956). In primo luogo, si tratta di un equilibrio nel senso che, una volta raggiunto un determinato stato, il sistema economico tende a rimanervi. Si tratta inoltre di un equilibrio stabile - perlomeno in una certa misura - in quanto non viene modificato da turbamenti di piccola entità. Nello stesso tempo, l'uso del termine ‛trappola' suggerisce l'idea che sia possibile uscire da tale situazione.

b) Crescita della popolazione e consumo di sussistenza

Per illustrare le caratteristiche sopra menzionate della ‟trappola della povertà" sarà utile proporre un esempio. A questo scopo faremo riferimento a una versione ingenua della concezione classica del salario di sussistenza (v. Ricardo, 1817; v. Leibenstein, 1957), la quale implica una teoria endogena della crescita della popolazione, e in particolare i seguenti assunti: nelle economie con un basso reddito pro capite, 1) ogniqualvolta tale reddito cresce al di sopra del livello di sussistenza la popolazione aumenta, e 2) ogniqualvolta scende al di sotto del livello di sussistenza la popolazione diminuisce. Le ragioni del secondo fenomeno sono abbastanza ovvie; per quanto riguarda il primo, esso viene di solito attribuito al declino della mortalità, ma è possibile ricollegarlo anche (in particolare dopo l'avvento dei metodi contraccettivi) al controllo delle nascite. La specificazione ‛nelle economie con un basso reddito pro capite' è importante nel caso del primo assunto. In primo luogo, infatti, la mortalità non può diminuire all'infinito, e in secondo luogo occorre tener conto del fatto che con la modernizzazione della società interviene un mutamento dei valori che induce una preferenza per i nuclei familiari di dimensioni ridotte.

Dati 1) e 2), è ovvia l'esistenza della trappola della povertà. In un'economia di sussistenza, ogni disturbo di piccola entità mette in moto forze che riportano l'economia a tale livello. Si noti, tuttavia, che mentre il reddito pro capite rimane lo stesso, la popolazione e il reddito nazionale possono benissimo passare dall'equilibrio originario a un nuovo equilibrio. Non sarebbe del tutto corretto dunque descrivere l'equilibrio originario come stabile, ed è questa la ragione per cui Leibenstein (v., 1957) preferisce parlare di equilibrio ‟quasi stabile". È tale un equilibrio in cui, quando interviene un disturbo, alcune variabili tendono a ritornare al livello originario, mentre altre possono cambiare. Secondo Leibenstein, allora, si dice che un paese si trova nella trappola della povertà quando la sua economia è in uno stato di equilibrio quasi stabile, in cui il reddito pro capite è una delle variabili stabili.

Si noti altresì che anche questa stabilità limitata è un fenomeno locale perché, una volta che il reddito pro capite si spingesse oltre un certo livello, la condizione 1) cesserebbe di esistere. Da qui l'idea di uno ‛sforzo minimo critico', ossia di una spinta sufficientemente forte da far uscire un'economia dal vortice che continua a risucchiarla nella povertà. La situazione originaria descritta in questo esempio può essere concepita come un circolo vizioso della povertà, in quanto è l'esistenza di un basso reddito pro capite a innescare forze, ossia 1) e 2), che lo mantengono tale.

Un altro esempio ampiamente discusso è quello del cosiddetto ‛circolo vizioso dell'offerta': la scarsità di capitali implica un basso reddito; un basso reddito a sua volta implica una ridotta capacità di risparmio; e un basso livello di risparmio determina investimenti limitati e scarsità di capitale. Strettamente legata a questa ipotesi è la teoria secondo cui un paese può accelerare la crescita solo aumentando risparmi e investimenti. Una conferma di tale teoria è data dall'esperienza delle economie dell'Asia orientale, che hanno tutte livelli di risparmio estremamente elevati (oltre il 30% del reddito nazionale).

c) Povertà e accesso alle risorse

Le forze che determinano il circolo vizioso agiscono anche a un livello più atomistico, in quanto imprigionano i singoli individui nella trappola della povertà creando svantaggi da cui sono esenti gli strati più ricchi della popolazione. Esistono molti modi in cui lo svantaggio economico si traduce in uno svantaggio sociale per gli individui. Essere poveri, per definizione, significa non potersi permettere di acquistare molti dei beni necessari per avere uno standard di vita accettabile. Inoltre, la povertà può impedire l'accesso alle risorse necessarie per uscire dallo stato di povertà. Come dimostra Atkinson in un elegante saggio (v., 1995), richiamandosi al celebre film Ladri di biciclette di De Sica, sono i poveri a essere esclusi dal mercato delle biciclette, sebbene siano essi ad averne maggiormente bisogno per incrementare il proprio reddito. Inoltre - e questa, forse, è una circostanza più sorprendente - la povertà impedisce spesso di beneficiare appieno di quelle misure che il governo istituisce appositamente per aiutare i poveri.

Si consideri, ad esempio, il credito rurale. Il credito è uno strumento essenziale per consentire ai poveri l'acquisto di medicine e l'accesso all'istruzione. Il mercato del credito, tuttavia, è il classico regno dello sfruttamento spietato da parte di mutuanti non istituzionali (moneylenders) e di usurai. I governi hanno cercato di far fronte a questa situazione con la concessione di credito formale attraverso le banche e altre istituzioni, ma questi sforzi si sono rivelati fallimentari. Rivelatrici in proposito si dimostrano le approfondite ricerche empiriche condotte da Sarap (v., 1991) nella regione rurale di Orissa, nell'India orientale, che integrano alcuni dati macroanalitici relativi ad altre parti del mondo. Da questi studi risulta che in generale i poveri non hanno affatto beneficiato delle iniziative statali. Si consideri ad esempio la burocrazia. Ottenere un credito bancario comporta una lunga e complessa trafila burocratica, la cui lunghezza può essere misurata calcolando il numero di giorni che trascorrono dall'approvazione formale della concessione di un credito al momento in cui il prestito viene effettivamente ricevuto dal mutuatario. Sarap ha calcolato i tempi burocratici per le varie categorie della popolazione, dai più poveri ai più abbienti (classificati in base alla quantità di terra posseduta). È risultato in modo inequivocabile che la lunghezza delle procedure burocratiche è inversamente proporzionale alla ricchezza del mutuatario. Vale a dire, la trafila burocratica necessaria per usufruire del credito sussidiato è assai più veloce per i ricchi che non per i poveri, per aiutare i quali il credito sussidiato era stato originariamente istituito dallo Stato.

Non sorprende, allora, scoprire che nell'India rurale i contadini più poveri evitano di far ricorso a questo tipo di credito. L'intervento statale, a quanto pare, non fa che esacerbare le ineguaglianze nel mondo rurale permettendo ai ricchi di ottenere i prestiti più vantaggiosi. È stato appurato che i poveri continuano a prendere in prestito il denaro da moneylenders e usurai, che praticano tassi di interesse di norma superiori al 200%. Contrariamente a quanto si crede comunemente, assai spesso non è la banca a escludere direttamente i poveri, ma sono questi ultimi che preferiscono rivolgersi ai moneylenders anziché alle banche a causa delle complicazioni burocratiche e della corruzione che incontrano quando hanno a che fare con gli istituti bancari. Poiché gli interessi sul credito formale raramente sono superiori al 20%, il divario tra il tasso di interesse del credito formale e quello del credito informale, nonché la preferenza dei poveri per quest'ultimo, indicano quanto siano onerosi per i poveri i costi della corruzione e della burocrazia.

Salute e reddito sono altri due importanti elementi che possono innescare la trappola della povertà. La malnutrizione influisce negativamente sulle condizioni di salute dei poveri, e ciò a sua volta si traduce in uno svantaggio sul mercato del lavoro, sicché i loro salari rimangono bassi e incerti, ed essi restano intrappolati nella povertà (v. Dasgupta, 1993). Nella letteratura tradizionale veniva dato grande rilievo al concetto di ‛salario di sussistenza', che indica il livello salariale critico al di sotto del quale il lavoratore non può assicurarsi la sopravvivenza. Secondo Dasgupta, tuttavia, la preoccupazione per il salario di sussistenza spesso ha portato a trascurare l'importante problema della malnutrizione. La malnutrizione è alquanto diversa dalla mancanza delle risorse necessarie alla sopravvivenza. Numerosi dati dimostrano che la maggior parte degli individui malnutriti riesce a sopravvivere, ma con un alto livello di morbilità e una forte diminuzione della capacità produttiva. La malnutrizione è riconducibile al basso livello salariale, il quale a sua volta determina il persistere della malnutrizione. Ciò spiega perché, anche quando un paese arriva alla fase del decollo al livello macroeconomico, possono persistere al suo interno ampie sacche di povertà e di malnutrizione. In altri termini, anche in una nazione ricca il circolo vizioso della povertà può continuare a esistere per determinati gruppi e regioni.

Sinora abbiamo cercato di analizzare le ragioni per cui i paesi poveri tendono a restare tali. Vi è nondimeno una questione correlata: perché i paesi poveri sono così poveri? In particolare, le differenze di salario e di produttività tra le nazioni industrializzate e il Terzo Mondo sono maggiori di quelle spiegabili mediante la teoria standard. Secondo le stime della Banca Mondiale, il reddito pro capite negli Stati Uniti è cento volte superiore a quello del Bangladesh e, anche se si effettuano le opportune correzioni in rapporto ai rispettivi poteri d'acquisto, esso resta venti volte superiore. Ciò potrebbe essere dovuto a una scarsità di capitali nei paesi in via di sviluppo a basso reddito pro capite, ma in questo caso dovrebbe esservi un maggiore afflusso di capitali dai paesi ricchi a quelli poveri; tale problema è stato sollevato e analizzato da Robert Lucas (v., 1988).

In anni recenti Michael Kremer (v., 1993) ha proposto la cosiddetta ‛teoria dell'O-ring' per spiegare queste notevoli differenze. Tale teoria spiega inoltre perché un individuo possa guadagnare molto di più emigrando da un paese povero in uno ricco, sebbene il suo livello di qualificazione professionale resti invariato. La navicella spaziale Challenger esplose per un'avaria in un piccolo componente, un giunto di collegamento (O-ring). Da questo episodio prende il nome la teoria di Kremer, che mette in luce la complementarità tra i differenti componenti e inputs di un processo produttivo. Supponiamo che per produrre un determinato bene o servizio un'azienda debba effettuare numerose operazioni. Ciascuna di esse può essere eseguita da operai con differenti livelli di specializzazione, ma quanto più aumenta il livello di specializzazione, tanto più aumentano le probabilità che l'operazione venga svolta bene. Supponiamo inoltre che l'azienda possa produrre un bene o un servizio valido solo se tutte le operazioni vengono svolte in modo corretto. In una situazione di questo tipo, si può dimostrare che: 1) gli operai altamente specializzati tenderanno ad aggregarsi, e lo stesso accade per quelli non specializzati (ciò significa che alcune aziende impiegheranno solo lavoratori altamente specializzati, mentre altre impiegheranno solo manodopera non qualificata); 2) i lavoratori non qualificati otterranno salari ‛sproporzionatamente' bassi - il basso livello salariale essendo una conseguenza delle esternalità derivanti dal fatto che quanti lavorano assieme alla manodopera non qualificata sono anch'essi non qualificati.

d) I modelli di Nurkse e di Rosenstein-Rodan

Molte altre forme di circolo vizioso sono state esaminate nella letteratura sul sottosviluppo (v. Nurkse, 1953; v. Myrdal, 1968), e in generale, una volta individuate, non è difficile capirne il meccanismo. Ma esiste una particolare ipotesi di circolo vizioso, formulata per la prima volta da Rosenstein-Rodan e sviluppata in seguito da Nurkse, che sebbene appaia ovvia a prima vista, è assai più difficile da cogliere in tutte le sue implicazioni. Tale ipotesi è stata formalizzata usando i moderni metodi di analisi da Basu (v., 1984), e da Murphy, Shleifer e Vishny (v., 1989), ed è altresì all'origine di gran parte del dibattito attuale sulla crescita bilanciata e non bilanciata.

Il modo migliore per capire l'ipotesi in questione è quello di considerare il seguente esempio fornito da Nurkse. Supponiamo che una fabbrica di scarpe abbia intenzione di espandere la produzione. Ciò implicherà un aumento della manodopera, delle materie prime acquistate e dei profitti. In breve, si verificherà un incremento del reddito totale; e poiché il profitto è un reddito residuo (equivalente al valore della produzione - in questo caso le scarpe - detratti i costi), è chiaro che l'incremento del reddito sarà equivalente al valore della produzione addizionale. Ma poiché gli individui spendono solo una piccola frazione del loro reddito nell'acquisto di scarpe, l'aumento dell'offerta sarà di gran lunga superiore a quello della domanda. Di conseguenza, si avrà una diminuzione del prezzo delle scarpe, oppure (nel caso che i prezzi siano fissati in modo esogeno) il produttore si troverà a non essere in grado di vendere tutta la merce prodotta. In questo caso, egli potrebbe non ritenere conveniente l'espansione.

In base allo stesso principio, i produttori di ogni merce potrebbero ritenere che non vale la pena di aumentare la produzione, dati i limiti delle dimensioni del mercato, ossia a causa della scarsità della domanda. Ma supponiamo ora che vi sia un incremento della produzione di tutte le merci, restando inalterata la proporzionalità della domanda. L'espansione produttiva di ciascuna merce, generando una domanda per altri beni, creerebbe il mercato richiesto per le altre. Di conseguenza, non si avrebbe più la scarsità di domanda percepita dal singolo produttore. È questa una applicazione diretta della formulazione assai più cauta della legge di Say proposta da John Stuart Mill, secondo cui ‟ogni incremento della produzione, se distribuito correttamente tra tutti i tipi di merci prodotte nella proporzione imposta dall'interesse privato, crea, o meglio costituisce, la propria domanda" (cit. in Nurkse, 1953).

L'essenza dell'approccio moderno consiste nel riconoscere la possibilità di ‛equilibri multipli' in un'economia, ossia nel riconoscere che un'economia può avere più di un equilibrio e potrebbe essersi assestata su un equilibrio subottimale. Si tratta allora di individuare i meccanismi in grado di far uscire l'economia dall'equilibrio subottimale, indirizzandola sulla strada di quello ottimale.

Le strategie seguite dai paesi dell'Est asiatico sono un'interessante esempio di politica contro la stagnazione economica. Si tratta, essenzialmente, di una combinazione di intervento strategico dello Stato e di apertura al mercato, basata sulla competitività delle esportazioni. Inoltre nei paesi in questione (in particolar modo Corea e Taiwan) vennero intrapresi alcuni importanti cambiamenti strutturali, come ad esempio la riforma agraria, mentre l'istruzione primaria e la sanità divennero i principali settori di investimento pubblico. Ciò ha permesso ad ampi strati della popolazione di beneficiare della crescita economica. Di conseguenza, la situazione delle economie dell'Est asiatico attualmente appare migliore non solo sotto il profilo del reddito, ma anche in rapporto alla maggior parte degli indicatori della qualità della vita. Un'importante questione che si pone a questo proposito è perché di tali paesi, che negli anni cinquanta avevano una situazione politica assai simile, alcuni cambiarono poco dopo i loro regimi, mentre altri paesi asiatici come l'India e la Cina, che avevano anch'essi regimi analoghi negli stessi anni, intrapresero con grande ritardo la strada del cambiamento. Non è facile rispondere a questo interrogativo; senza dubbio la spiegazione va ricercata in una pluralità di fattori: dalla situazione geopolitica, alle politiche locali, alla cultura e alle norme sociali. Secondo la tesi sostenuta di recente da Lin (v., 1996), un importante incentivo al cambiamento è venuto dalla necessità. Fu la situazione di crisi in cui vennero a trovarsi via via i paesi in questione che li costrinse a rivedere la propria politica basata sulla chiusura, sulla pianificazione e sull'industria pesante. I paesi poveri di risorse e di capitali furono costretti per primi a intraprendere le riforme, mentre quelli più ricchi naturalmente resistettero più a lungo alle istanze di mutamento. Così la Cina avviò le riforme solo nel 1978, e l'India dovette attendere la crisi valutaria del 1991.

4. Lo sviluppo umano

Il sottosviluppo non è definibile solo in termini di insufficienza di beni e servizi o di basso reddito, sebbene questi siano componenti importanti, ma va inteso come deprivazione nel senso più ampio. Una speranza di vita ridotta o un alto tasso di morbilità, la mancanza di opportunità e di libertà, l'analfabetismo e quindi l'incapacità di godere determinati piaceri, un ambiente poco salubre possono essere considerati tutti aspetti diversi del sottosviluppo. Inoltre, poiché i concetti di sviluppo e sottosviluppo sono descrizioni globali della società, diventa rilevante anche la dimensione dell'eguaglianza, intesa in termini di distribuzione non solo del reddito ma anche di altri aspetti del benessere. Secondo alcuni economisti l'abbondanza di statistiche sul sottosviluppo economico e la scarsità di dati su altri aspetti del fenomeno potrebbero aver viziato l'impostazione del dibattito e delle politiche correnti, inducendo a focalizzare l'attenzione pressoché esclusivamente sulla componente del reddito e a trascurare i problemi distributivi (v., ad esempio, Drèze e Sen, 1995).

Probabilmente è vano sperare di trovare un unico indice in grado di cogliere l'intreccio delle variabili che concorrono a definire il sottosviluppo di una nazione. In fin dei conti, anche il reddito è un aggregato di molteplici beni e servizi. Considerare anche altri tipi di indicatori - sociali, politici e persino ambientali - potrebbe creare solo confusione. Si deve dunque inevitabilmente scegliere tra indicatori univoci e unidimensionali e indicatori multipli. In contrasto con la diffusa tendenza a considerare esclusivamente misure basate sul reddito, l'UNDP ha elaborato una nuova misura, l'‛indice di sviluppo umano' (Human Development Index, HDI), che in qualche modo inserisce le condizioni sociali in una misura aggregata del benessere. L'indice di sviluppo umano è una media ponderata di tre indicatori del benessere di una nazione: reddito pro capite, alfabetismo della popolazione adulta e speranza di vita. È noto che alcuni paesi, nonostante la povertà economica, hanno perseguito una politica sociale progressista, ottenendo notevoli risultati in termini di miglioramento della qualità o dello standard di vita. Costa Rica, Cuba, Vietnam, Sri Lanka, Myanma, sono tutte nazioni che risultano assai meglio piazzate sotto il profilo dell'indice di sviluppo umano che non sotto quello del reddito pro capite; viceversa paesi quali l'Angola, il Senegal e l'Iraq si collocano agli ultimi posti se spostiamo l'attenzione dalle misure basate puramente sul reddito all'indice di sviluppo umano (v. UNDP, 1997). Se la guerra e i conflitti politici, come nel caso dell'Iraq, possono porre determinati paesi oltre i confini dell'analisi economica, gli standard di vita superiori di alcune di queste nazioni non sono affatto un miracolo inesplicabile, ma sono frutto dell'azione dei loro governi, che hanno investito in misura maggiore nel welfare e hanno intrapreso politiche mirate alla realizzazione di questo obiettivo (v. Sen, 1981).

Se consideriamo gli studi a livello nazionale, il caso che più colpisce è quello del Kerala in India. Valutato in termini di reddito, il Kerala risulta uno Stato piuttosto povero, ma in base agli indicatori relativi allo standard di vita, come ad esempio la speranza di vita alla nascita o l'alfabetismo, esso appare quasi un paese sviluppato. Ciò del resto non sorprende, dati i significativi interventi dello Stato per combattere l'analfabetismo e la denutrizione. All'epoca dei principati, infatti, gran parte di questa regione ebbe la fortuna di trovarsi sotto il governo progressista del maharaja di Travancore.

Risultati analoghi emergono da alcuni studi comparativi sul piano internazionale. Se si guarda agli investimenti pubblici nei settori dell'istruzione e della sanità, si scopre che in tutte le nazioni dell'Est asiatico in cui lo standard di vita risulta elevato, il 20% o più della spesa pubblica è destinato a questi settori. Per contro, nei paesi dell'Asia meridionale dove lo standard di vita è nettamente inferiore, come l'India, il Pakistan e il Bangladesh, gli investimenti per l'istruzione e la sanità rappresentano solo il 10% circa della spesa pubblica. Più in generale, dai World development indicators 1997 emerge che, se si considerano vari indicatori relativi alle infrastrutture scolastiche e al livello di accesso all'istruzione, i valori sono sistematicamente bassi per le nazioni in cui di fatto lo standard di vita è risultato inferiore.

Un altro modo per ovviare alle carenze delle misure basate sul reddito aggregato come indicatori del sottosviluppo, consiste nel tener conto della dimensione distributiva. Già in passato si è cercato di elaborare misure del reddito nazionale ‛reale', che oltre a tener presente l'erosione del valore del denaro causata dall'inflazione - un tipo di correzione ormai di routine in tutte le statistiche contemporanee sul reddito - operano anche correzioni verso il basso qualora lo stesso reddito aggregato di un paese sia distribuito in modo ineguale tra la popolazione (v. Sen, 1976; v. Osmani, 1982).

Il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite riconosce nello Human development report l'importanza degli indici corretti in base alla distribuzione. In un nostro recente contributo (v. Basu, 1997), che si colloca nel contesto del tipo di lavoro intrapreso dall'UNDP, abbiamo discusso l'elaborazione di indici sensibili al problema distributivo, ponendo in primo piano la lotta alla povertà. Assumendo che gli altri indicatori dello sviluppo umano restino relativamente costanti, abbiamo proposto di valutare lo sviluppo economico di un paese considerando il livello di benessere del 20% più povero della popolazione e, per estensione, di valutare altresì i mutamenti nel tempo considerando il tasso di crescita del benessere di tale 20%. Pur focalizzando l'attenzione sulle misure del benessere in termini di reddito, accennavamo però alla possibilità di considerare in futuro altri indicatori dello sviluppo umano. In base a questa misura un paese è sottosviluppato se il suo reddito quintile (ossia il reddito pro capite del 20% più povero della popolazione) risulta basso. Naturalmente, se si dispone di una maggiore quantità di dati è possibile valutare anche il benessere, e non più semplicemente il reddito quintile.

Le ragioni per focalizzare l'attenzione sul reddito quintile non sono né di ordine esclusivamente etico, né di ordine esclusivamente pratico, ma un misto di entrambi. È evidente che vi sono buone ragioni etiche per cercare di massimizzare il reddito quintile. Tale misura soddisfa alcuni principî etici standard, come ad esempio l'imparzialità verso la popolazione e la conformità al cosiddetto ‛criterio di Pareto', per cui se un cambiamento migliora la situazione di ogni individuo, allora l'indice registra un incremento. Tuttavia tali principî possono essere soddisfatti da molte altre procedure, sicché occorre addurre ulteriori motivazioni che giustifichino l'adozione di quella proposta. Tali motivazioni saranno, questa volta, di ordine pratico. Il concetto di reddito pro capite è comprensibile alla maggioranza degli individui, ed è relativamente facile ottenere dati sul reddito del 20% più povero della popolazione, laddove i dati relativi al 15% o al 10% sono assai più difficili da raccogliere e sono inoltre più inattendibili.

Naturalmente, si dovrebbe considerare anche la distribuzione di altri indicatori dello sviluppo umano. Un paese in cui la speranza di vita è di X anni per tutti gli strati della popolazione, e un altro nel quale la speranza di vita è sempre di X anni, ma in cui gli individui che appartengono a una determinata casta o gruppo etnico hanno una speranza di vita assai inferiore, non possono essere considerati eguali sotto il profilo dello sviluppo umano, anche se i livelli di reddito e di alfabetismo fossero gli stessi per entrambi. Tuttavia, la distribuzione degli altri indicatori dello sviluppo umano può assumere una rilevanza assai diversa da quella del reddito. Vi è inoltre il problema dell'interdipendenza tra istruzione, speranza di vita, reddito e libertà. Un esempio significativo è dato dal leopardo delle nevi, che in cattività può vivere il doppio degli anni. L'alfabetismo e l'istruzione di oggi, inoltre, possono influire sui redditi di domani. Una delle lezioni più importanti che è emersa con l'affermarsi della teoria della crescita endogena, è che la crescita economica si fonda sostanzialmente sul capitale umano (v. Lucas, 1988).

L'attenzione per la crescita del reddito quintile ha importanti implicazioni per la lotta alla povertà. Si osservi che se la crescita economica di un paese fosse distribuita uniformemente tra tutti i livelli di reddito, il tasso di crescita del quintile coinciderebbe completamente con la crescita pro capite. Si consideri un paese in fase di crescita economica, in cui gli strati abbienti della popolazione si arricchiscano più rapidamente di quelli poveri. Per chi ha a cuore il problema della povertà, il valore della crescita di questo paese risulta in qualche modo diminuito, in quanto i poveri non ne beneficiano in egual misura. La misura della crescita del quintile coglie esattamente questo concetto.

Supponiamo ora che il governo di un paese si preoccupi principalmente della popolazione più povera e cerchi di migliorarne costantemente il reddito, lasciando invariato il reddito di tutti gli altri. Si avrà allora un certo tasso di crescita positivo del quintile. Dopo un certo tempo, ovviamente, si creerà una situazione per cui tutti avranno lo stesso (alto) reddito. Se lo scopo era quello di eliminare la povertà, l'obiettivo è raggiunto e non resta altro da fare. Se però lo scopo è quello di innalzare il livello di reddito quintile o, il che è equivalente, di ottenere una crescita positiva del quintile, restano molti altri obiettivi da raggiungere. In particolare, si tratterà ora di realizzare un incremento generalizzato dei redditi. In altre parole, la nuova misura incoraggia a intraprendere politiche che migliorino le condizioni economiche degli strati abbienti della popolazione solo dopo aver consentito ai poveri di diventare abbienti.

La scelta del 20% e non di un'altra quota della popolazione più povera non è obbligatoria, ma è dettata da considerazioni di ordine pratico. Nella prospettiva normativa di Rawls (v., 1971), l'intento è quello di valutare una società o un governo in base a quanto riesce a fare per la sua popolazione più povera. Ma nessuno sa chi siano gli individui più poveri in una nazione. Per molti paesi disponiamo di dati che consentono di costruire un profilo del reddito basato sulle stime delle condizioni economiche di ciascun 10% della popolazione. Tuttavia i dati sul 10% più povero sono di solito assai scarsi, in quanto questa categoria include i senza tetto e i lavoratori irregolari o occasionali (nonché, spesso, i disoccupati). Il gruppo immediatamente successivo per il quale disponiamo di una quantità sufficiente di dati è il 20% più povero, ed è questo il motivo per cui si preferisce usare la divisione in quintili.

5. Il sottosviluppo settoriale

Un altro problema distributivo riguarda i settori economici. Oltre all'ineguale distribuzione del benessere tra gli individui, vi possono essere differenze sistematiche tra i diversi settori di un'economia. Nella maggior parte delle aree del mondo il settore rurale risulta essere il più povero, e nei paesi in via di sviluppo può essere così povero che viene definito talvolta ‛settore di sussistenza'. Già nel 1939 J. S. Furnivall osservava che la caratteristica più significativa dei paesi definiti come sottosviluppati è la presenza di sacche e settori con le stesse caratteristiche dei paesi sviluppati accanto ad ampie aree estremamente povere. Egli definì ‛economie pluralistiche' le economie dei paesi in via di sviluppo, dove ‟due o più elementi od ordini sociali [...] coesistono, senza peraltro mescolarsi, in una stessa unità politica" (v. Furnivall, 1939, p. 447). Alcuni dei primi esponenti della teoria del dualismo o del pluralismo usarono la dicotomia ‛locale/straniero' per definire le realtà contrastanti all'interno delle società coloniali. Secondo J. H. Boeke (v., 1953), per contro, in un'economia dualistica il contrasto sarebbe tra il settore urbano e il settore rurale - intendendo quest'ultimo non alla lettera, ma piuttosto nel senso di ‛società precapitalistica'.

La teoria del dualismo venne ripresa e formalizzata con significative innovazioni da Arthur Lewis (v., 1954) in un saggio destinato a diventare un classico. Secondo Lewis, è il settore di sussistenza che fornisce a quello capitalistico i mezzi necessari per generare la crescita, in quanto è un serbatoio pressoché inesauribile di manodopera a basso costo, che viene attirata dal settore capitalistico per produrre beni, investire e accumulare - accumulazione che diventa il motore della crescita. La ricerca di Lewis ci introduce nella dinamica dello sviluppo, e ha dato luogo a una estesa letteratura.

Un altro problema sul quale hanno richiamato l'attenzione i primi studi sul dualismo economico riguarda le caratteristiche del settore di sussistenza o sottosviluppato. In che senso esso può essere definito ‛precapitalistico', e perché tende alla stagnazione? Con tali questioni si sono confrontati sia i sociologi che gli economisti. Secondo alcuni autori, il settore di sussistenza ha essenzialmente le caratteristiche di una società semifeudale (v. Bhaduri, 1973), in quanto la classe dei proprietari terrieri deriva i suoi redditi in parte dai canoni d'affitto riscossi dai mezzadri e in parte dall'usura, ossia prestando denaro ai contadini poveri a tassi di interesse altissimi e tenendoli in uno stato di perenne indebitamento. Tale sistema, inoltre, si dimostra refrattario all'innovazione e al cambiamento, perché i proprietari fondiari temono che l'innovazione, migliorando le condizioni dei contadini, comporti la perdita dei redditi derivanti dall'usura.

Sulla base di un approfondito studio antropologico su due villaggi indiani, Trude Epstein (v., 1967) ha cercato di analizzare le peculiarità del settore rurale nelle economie in via di sviluppo facendo riferimento al tipo di istituzioni e al sistema delle transazioni commerciali e dello scambio. In particolare, l'autrice contrappone due sistemi di organizzazione rurale: il ‛sistema contrattuale' e il ‛sistema consuetudinario di ricompense e obblighi'. Nel primo, che è tipico delle economie industrializzate, gli scambi avvengono sulla base di contratti, che le parti sono libere di accettare o di rifiutare; inoltre, si tratta in genere di contratti a breve termine, che consentono quindi la flessibilità e il margine d'azione necessari per l'adattamento alle condizioni esogene. Nel sistema consuetudinario, per contro, gli obblighi vengono fissati dalla tradizione e dalle norme sociali, che spesso sono state definite molto prima che gli attuali agenti entrassero in scena. Così, ad esempio, il proprietario terriero potrebbe avere nei confronti degli affittuari degli obblighi che non ha mai formalmente accettato. Dal canto loro, gli affittuari potrebbero avere dei doveri verso il proprietario terriero che sono fissati dall'esterno, e talvolta addirittura ereditari. Ciò spiega perché in questo sistema un individuo possa nascere schiavo. Secondo la Epstein, inoltre, il sistema consuetudinario è avverso all'innovazione, in quanto quest'ultima comporta la ridefinizione dei doveri e degli obblighi. I villaggi indiani studiati dall'autrice, ad esempio, erano restii ad adottare il metodo delle risaie nonostante la sua maggiore resa. Tale metodo richiede infatti un surplus di lavoro e di fatica, in quanto il contadino deve preoccuparsi di collocare le piante alla distanza adeguata. Nel sistema consuetudinario, invece, i lavoratori non sono obbligati a sottoporsi a questa fatica supplementare, e i proprietari terrieri dal canto loro, data la natura della consuetudine invalsa, non sarebbero in grado di pagare un extra per tali prestazioni.

Vi sono anche altre spiegazioni della stagnazione, ma si tratta di un fenomeno talmente complesso da avere senza dubbio una pluralità di cause che interagiscono e si rafforzano a vicenda, e nonostante gli economisti tendano a ignorare i fattori sociali, esso è indubbiamente legato in larga misura al sistema di norme sociali dominante in una data regione.

6. Ambiente e sviluppo sostenibile

Un'altra importante dimensione del sottosviluppo che sinora non abbiamo preso in considerazione è quella ambientale. La complessa interconnessione tra sviluppo e ambiente è un campo di indagine relativamente nuovo, che si è imposto all'attenzione a causa del crescente contrasto tra il mondo industrializzato e i paesi in via di sviluppo in merito alla gestione di risorse collettive come le fonti energetiche, le foreste e l'aria. Si tratta di un contrasto recente, perché solo di recente abbiamo preso coscienza dei problemi ambientali. Si è dovuto aspettare l'inizio degli anni settanta perché l'International Council of Scientific Unions dichiarasse che l'effetto serra, causato dalle emissioni di biossido di carbonio, costituisce una minaccia globale, e richiede un'intensificazione dell'attività di ricerca e l'adozione di politiche concertate. Il mondo industrializzato ha esortato i paesi in via di sviluppo a limitare le emissioni di CO$2. A ciò essi hanno ribattuto che, in termini assoluti, le emissioni di biossido di carbonio delle nazioni industrializzate sono di gran lunga superiori a quelle dei paesi poveri; non è giusto, inoltre, che i paesi industrializzati, una volta compiuto essi stessi il processo di industrializzazione, cerchino di fermare le nazioni che ne seguono l'esempio.

Facciamo un piccolo passo indietro, e cerchiamo innanzitutto di comprendere il rapporto tra ambiente e sottosviluppo. Supponiamo che un paese povero inizi una rapida crescita - essendo quest'ultima misurata in termini di reddito o consumo annuo. Tale crescita può essere illusoria in due sensi. In primo luogo, nel caso in cui essa avvenga a prezzo di un deterioramento dell'ambiente, se adottiamo un indice globale del benessere che faccia riferimento, oltre che al consumo annuale di beni e di servizi, anche alla qualità dell'ambiente, si scopre che non vi è stata alcuna crescita nella qualità globale della vita. In secondo luogo, se la crescita del consumo annuale si basa sullo sfruttamento indiscriminato di alcune risorse primarie, come il petrolio e le foreste (le quali, tra le altre cose, contribuiscono alla salubrità dell'aria), anche se nell'immediato non si registra alcun deterioramento dell'ambiente, una crescita di questo tipo non sarà sostenibile che per un tempo molto limitato, in quanto l'esaurimento delle risorse in questione ne determinerà l'arresto e potrebbe addirittura minacciare la sopravvivenza della specie umana. È questo il problema del cosiddetto ‛sviluppo sostenibile' (v. ecologia). Lo sviluppo insostenibile può apparire del tutto identico a quello sostenibile per un periodo di tempo anche piuttosto lungo, ma viene realizzato a prezzo di una sconsiderata ipoteca sul futuro. Alcuni economisti hanno cercato di calcolare, nella crescita di una nazione, la quota che viene finanziata ipotecando il futuro, ma si tratta di calcoli assai difficili da effettuare sul piano pratico.

Che questa sia una possibilità reale, ossia che il progresso delle società possa metterne a rischio la sopravvivenza futura, è dimostrato sia da quanto sta accadendo oggi, sia dalle testimonianze storiche. La misteriosa scomparsa di alcune civiltà altamente sviluppate - come ad esempio la civiltà maya nel IX secolo d. C. e quella dell'Indo intorno al 2000 a. C. - ha costituito per lungo tempo un enigma per gli antropologi. In un primo tempo si pensò alla guerra, a un'epidemia o a una catastrofe naturale, ma oggi numerosi elementi sembrano indicare che la fine di queste civiltà fu determinata da uno sfruttamento indiscriminato dell'ambiente e quindi dall'esaurimento delle risorse.

Nel caso dei Maya, sembra oggi più che probabile che nel IX secolo d. C. la crescita demografica, associata a un'agricoltura intensiva, determinasse un impoverimento del suolo. Dal 790 all'830 il tasso di mortalità nelle città superò i tassi di natalità, la popolazione emigrò in altre regioni alla ricerca di cibo e la civiltà maya gradualmente si estinse. Come osserva in proposito Michael Coe: ‟la sovrappopolazione e il degrado ambientale avevano raggiunto un livello comparabile solo con la situazione che si sta venendo a creare oggi in molti dei paesi tropicali più poveri. L'apocalisse dei Maya - perché di un'apocalisse si trattò - ebbe sicuramente radici ecologiche" (v. Coe, 19935, p. 128).

I dati in nostro possesso dimostrano che stiamo rapidamente esaurendo risorse essenziali e inquinando l'atmosfera. Secondo le stime dei World development indicators 1997, a partire dal 1980 in India e in Cina sono stati distrutti rispettivamente 3.400 e 8.800 km2 di foreste ogni anno. Le stime relative agli Stati Uniti e alla Russia per lo stesso periodo sono rispettivamente di 3.200 e 15.500 km2. Le cifre sono ancora più allarmanti nel caso di molti paesi dell'America meridionale. La deforestazione sembra procedere più secondo le aree geografiche che non secondo il livello di povertà, ma non va dimenticato il fatto che nei paesi poveri gran parte della popolazione dipende dalle foreste per la sussistenza.

Per quanto riguarda le emissioni di biossido di carbonio, spesso i paesi poveri sono considerati i principali inquinatori. Se si considerano i chilogrammi di emissione per dollaro di PNL nel 1992, i valori per l'India e per la Cina risultano essere rispettivamente pari a 2,3 e a 6,6, assai superiori a quelli dei paesi sviluppati: le stime relative agli Stati Uniti e all'Italia, ad esempio, sono di 1 e di 0,5 chilogrammi. Tuttavia, la quantità di emissioni pro capite è assai maggiore nelle nazioni industrializzate. Nel 1992 le emissioni di biossido di carbonio pro capite in India, Cina, Stati Uniti e Italia sono state rispettivamente pari a 0,9, 2,3, 19,1 e 7,2 tonnellate. È stata formulata l'ipotesi che le emissioni per dollaro di reddito nazionale tendano ad aumentare durante la crescita economica, per poi diminuire. Se si costruisce un grafico delle due variabili, si vedrà facilmente la forma a U rovesciata che assume tale relazione (v. Hayami, 1997; v. fig. 1).

Ciò ha importanti implicazioni per quanto riguarda il rapporto tra inquinamento mondiale e crescita economica dei paesi sottosviluppati. Alcuni studiosi si sono chiesti se non esistano forme di energia alternative che consentano alle nazioni povere di ‛tagliare' la curva, arrivando al segmento discendente della U rovesciata senza dover percorrere sino in fondo quello ascendente. Ma non si tratta di un problema esclusivamente scientifico. Sottosviluppo e inquinamento sono alleati bizzarri. In India, ad esempio, la principale fonte energetica è rappresentata dal carbone, che, com'è noto, è un agente altamente inquinante dal punto di vista delle emissioni di biossido di carbonio. Nel caso di un paese ricco, si potrebbe pensare di ricorrere a una tassa per ovviare all'esternalità e conciliare gli interessi dell'utente con quelli delle altre nazioni e delle generazioni future. Tuttavia a un paese povero come l'India questa strategia resta preclusa. Il tentativo di impiegare una tassa per incentivare l'uso di altre forme di energia porterebbe gran parte della popolazione al di sotto della soglia della povertà e potrebbe persino determinare una crisi della bilancia dei pagamenti, in quanto l'India è costretta a importare circa la metà del carburante dall'estero.

7. Osservazioni conclusive

La maggioranza delle società antiche, partendo da un livello di pura sussistenza e di arretratezza economica, ha migliorato progressivamente le loro condizioni di vita. Due furono i motori di questa trasformazione: le innovazioni tecnologiche e una migliore organizzazione sociale. La comparsa di nuovi strumenti per la caccia, la pesca e l'agricoltura, l'invenzione della ruota e, molto più tardi, l'invenzione della stampa, furono tutte innovazioni che contribuirono al progresso economico. Ma altrettanto importanti furono i mutamenti sociali: l'uomo imparò a cooperare, a dimostrarsi affidabile, a rispettare i contratti; analogamente, l'istituzione dello Stato di diritto, l'affermarsi del governo e l'uso del denaro contribuirono a far uscire lentamente l'uomo da una condizione di vita ai margini della sussistenza.

Alla fine del XVIII secolo, una serie di importanti invenzioni e di rivoluzioni tecnologiche, accanto all'accumulazione del capitale, divenne il motore principale della crescita. In effetti la tecnologia ha compiuto progressi tali che, in linea di principio, sarebbe possibile oggi nutrire, dare un tetto e garantire altri beni e servizi essenziali a ogni individuo sulla Terra. Il sottosviluppo economico è evitabile come mai lo è stato nella storia del genere umano.

Se si considera la situazione odierna tenendo presente questo fatto, il quadro che si presenta è desolante. I due terzi dei paesi sono sottosviluppati, e un terzo della popolazione mondiale vive in condizioni di estrema povertà. Fame, povertà e vagabondaggio sono mali tutt'altro che scomparsi. Alla luce delle conquiste tecnologiche del mondo attuale, è chiaro che il sottosviluppo globale costituisce un fallimento dell'organizzazione sociale, politica ed economica. In questo senso, quindi, torniamo ai primi stadi del progresso umano: occorre puntare principalmente sull'innovazione dell'organizzazione politica e sociale.

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