MILLE, Spedizione dei

Enciclopedia Italiana (1934)

MILLE, Spedizione dei

Walter Maturi

Epica spedizione garibaldina, che distrusse il regno delle Due Sicilie e diede la spinta decisiva alla formazione dell'unità d'Italia. L'appellativo di Mille fu consacrato assai presto dalla tradizione, ma ufficialmente essi si chiamarono cacciatori delle Alpi, perché molti provenivano da quel corpo di volontarî ed erano ancora freschi i ricordi della campagna garibaldina del 1859.

Il disegno d'iniziare la liberazione del Mezzogiorno dai Borboni con un colpo di mano era nella tradizione mazziniana: i fratelli Bandiera avevano tentato di attuarlo nel 1844, C. Pisacane nel 1857 e lo stesso Mazzini l'aveva invano proposto a Garibaldi nel marzo 1854. E mazziniano fu, infine, anche il primo ideatore della spedizione dei Mille, il siciliano Francesco Crispi, che si era però distaccato dal maestro e cominciava a far parte per sé stesso. Nel dicembre 1859 Crispi parlò della cosa al Fabrizi e tanto s'infervorarono dell'impresa che riuscirono a persuadere il Farini, dittatore di Modena, e si fecero dare delle commendatizie per il Rattazzi, primo ministro sardo. Il Rattazzi si sarebbe lasciato convincere, se non fosse stato sviato dalle obiezioni di un altro patriotta siciliano, il La Farina, segretario della Società Nazionale, e il Crispi fu fatto allontanare da Torino dal Cavour, che era succeduto al Rattazzi. Ritiratosi a Genova, il Crispi riprese a costruire la sua tela e si mise d'accordo coi mazziniani di quella città, capo attivissimo dei quali era il Bertani. Interpellato da essi tre volte se fosse disposto a mettersi alla testa d'una spedizione in Sicilia, per tre volte Garibaldi rispose (24 gennaio, febbraio e 15 marzo 1860) che non credeva quell'epoca opportuna a fomentare nuovi moti in qualsiasi parte d'Italia, ma che, se scoppiassero, era pronto a sostenerli, purché avessero per motto "Italia e Vittorio Emanuele".

Il 4 aprile 1860 insorse a Palermo Francesco Riso il fontaniere: la rivolta in città fu subito domata, ma ebbe delle ripercussioni nelle campagne, nelle quali non riuscì subito ai borbonici di spegnere l'incendio. In soccorso dei ribelli era corso da Genova Rosalino Pilo e tanto Cavour quanto i mazziniani genovesi sentirono che occorreva fare per loro qualche cosa. Cavour da un lato fece scrivere da re Vittorio una lettera a re Francesco II (15 aprile) per consigliargli una politica liberale, dall'altro meditò una spedizione in Sicilia da affidare però al Ribotti o al La Masa piuttosto che a Garibaldi, in cui non aveva politicamente fiducia. Crispi e Bixio supplicarono invece Garibaldi di soccorrere l'isola prontamente (7 aprile) ed egli chiese subito a Milano (8 aprile) armi e denari al "Fondo per un milione di fucili", sottoscrizione nazionale da lui promossa con il proclama del 1859, e un vapore a G. B. Fauché, amministratore della compagnia Rubattino (9 aprile). Garibaldi tuttavia esitava ancora: un altro disegno lo distraeva: impedire, anche con la forza, che Nizza divenisse francese. A lungo ondeggiò tra la passione per la piccola e quella per la grande patria. Vinse la grande patria, ed egli, recatosi a Villa Spinola a Quarto, si mise a preparare a tutt'uomo la spedizione. I volontarî affluivano da ogni parte, ma le armi mancavano. Massimo d'Azeglio, ligio alla legalità com'era, non permise che dal Fondo per un milione di fucili fossero inviatì a Genova i buoni fucili Enfield di cui esso disponeva, e si dovette ricorrere al La Farina, che fornì 1500 cattivi fucili della Società nazionale. La partenza fu fissata per il 28 aprile, ma il 27, essendo pervenuta dalla Sicilia la notizia della fine dell'insurrezione delle campagne, Caribaldi decise di non partire più, e ci volle tutta l'energia e la presenza di spirito del Crispi, che trovò modo di farsi inviare migliori notizie dall'isola, per farlo ritornare sulla sua risoluzione il 30 aprile. Cavour, che aveva seguito trepidante e incerto questi preparativi, dopo un colloquio col re, che ne era invece entusiasta (Bologna, 2 maggio), diede il suo nulla osta. Simulando un atto di pirateria, nella notte dal 5 al 6 maggio, Bixio, d'accordo col Fauché, s'impadroni nel porto di Genova di due piroscafi del Rubattino, il Piemonte e il Lombardo, e a Quarto s'imbarcarono su di essi Garibaldi e i volontarî, che di poco superavano i mille. Erano per lo più giovani della Lombardia e della Liguria, le due rocche forti della democrazia italiana. Partivano con sole 90.000 lire in cassa, senza munizioni, senza provvigioni, senza una benché minima organizzazione.

A tutto ciò si provvide con lo sbarco a Talamone (7 maggio). S. Türr, il diplomatico della spedizione, si recò al forte di Orbetello e riuscì a ottenere dal comandante, tenente colonnello G. Giorgini, tutte le munizioni che egli aveva, un centinaio di carabine Enfield, due cannoni di bronzo e una vecchia colubrina. Altri due pezzi Garibaldi scovò nell'antica torre di Talamone e formò così la sua artiglieria. Si diede al piccolo esercito una struttura: i Mille furono divisi in otto compagnie. Si formarono i corpi scelti: i carabinieri genovesi e le guide; né si trascurarono il genio (una dozzina e mezza d'ingegneri), il servizio sanitario e l'intendenza, alla cui testa fu posto Giovanni Acerbi. S'inviò a Grosseto il commissario Bovi per gli approvvigionamenti. Ai volontarî s'insegnò sommariamente l'esercizio sulle rive del mare. Infine si selezionò politicamente la spedizione, lasciando liberi di andarsene quelli che non accettavano il programma "Italia e Vittorio Emanuele". L'unico errore che Garibaldi commise a Talamone fu quello d'inviare lo Zambianchi a invadere lo Stato Pontificio. Semplice diversione o reale intenzione d'attaccare contemporaneamente il Papa e i Borboni con un'azione concentrica? Comunque, anche se non chiara e sbagliata, tale mossa non ebbe le conseguenze disastrose che temevano gli uomini di parte moderata: se la Francia si allarmò, si allarmò per l'impresa di Garibaldi in genere, non per quella dello Zambianchi in specie. Riforniti di carbone i due piroscafi a Porto Santo Stefano, si proseguì la rotta per la Sicilia.

L'11 maggio i Mille giunsero a Marsala. Era già compiuto lo sbarco dal Piemonte e per un quarto anche quello del Lombardo, quando arrivò la corvetta a vapore napoletana Stromboli. Per fortuna nel porto erano ancorate due navi da guerra inglesi, l'Argus e l'Intrepid e la loro presenza sconcertò il comandante della corvetta, Guglielmo Acton, che si decise ad aprire il fuoco sui due legni garibaldini troppo tardi. Gl'Inglesi giovarono a Garibaldi solo indirettamente; direttamente non fecero alcun passo per impedire all'Acton di sparare, né erano situati in modo da essere danneggiati dal suo fuoco. A Marsala i garibaldini non trovarono alcuna resistenza, ma l'accoglienza della popolazione non fu quale l'avevano sognata: la Sicilia storico-letteraria dei Vespri. Le differenze regionali dei temperamenti e dei dialetti stridevano vivacemente, ma al disopra delle prime superficiali impressioni si elevava la profonda umanità dell'Eroe, che andava paternamente dissipando quelle differenze e quelle recriminazioni municipali. Spinto dal Crispi, il decurionato di Marsala offrì a Garibaldi, da parte della Sicilia, la dittatura in nome di Vittorio Emanuele re d'Italia, ma solo a Salemi egli l'assunse solennemente (14 maggio). L'accoglienza di Salemi, preparata moralmente dal La Masa che vi precedé l'arrivo dei Mille, fu molto più entusiastica di quella di Marsala. Nella marcia su Salemi e a Salemi si congiunsero ai garibaldini squadre d'insorti siciliani, comandate dai baroni Santanna e da Giuseppe Coppola di Monte San Giuliano. Il Sirtori, capo di Stato maggiore di Garibaldi, li organizzò in compagnie e li battezzò cacciatori dell'Etna, ma essi furono chiamati dai Siciliani, e il nomignolo passò alla storia, picciotti. A Garibaldi si strinse con infinita devozione fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano dei padri riformati, che simboleggiò la passione antiborbonica del clero siciliano ed ebbe un'efficacia morale immensa sulle plebi isolane. Si chiarivano sempre più, insomma, i rapporti tra garibaldini e siciliani, ma solo un successo, un successo in campo aperto avrebbe trascinato tutta l'isola dalla parte di Garibaldi e avrebbe deciso dinnanzi all'opinione europea, che era tutta fissa sulla Sicilia, se Garibaldi fosse un nuovo Don Chisciotte del patriottismo italiano o un Guglielmo il Conquistatore. Di ciò l'Eroe ebbe la sensazione netta: quindi a Calatafimi la sua ferma volontà di vincere o morire combattendo (15 maggio). Vinse, dopo un durissimo scontro di quattro ore, ed entrò in Alcamo (17 maggio), dove conquistò l'animo degli abitanti assistendo nel duomo a una funzione religiosa e lasciandosi benedire da fra Pantaleo. Ad Alcamo si diede forma al governo dittatoriale con l'istituzione della segreteria di stato, affidata al Crispi, dalla quale dipendevano i governatori dei due distretti liberati, A. M. Mistretta per Mazzara e Stefano Santanna per Alcamo. Venne abolita l'imposta sul macinato, con grande gioia dei contadini, ma con gran disastro delle finanze dittatoriali, poiché quell'imposta costituiva la metà delle entrate del bilancio dell'isola. Fu bandita la coscrizione obbligatoria, che restò lettera morta, e fu creato un tribunale di guerra per giudicare provvisoriamente dei reati (18 maggio). Venne inviato il La Masa a sollevare le popolazioni attorno a Palermo, mentre Garibaldi si poneva in marcia per Monreale. Ma, disfatta una colonna dei suoi il 21 maggio dal von Mechel, vinto e ucciso Rosalino Pilo sulle alture di Monreale, Garibaldi si ritirò al Parco, e, minacciato d'aggiramento anche al Parco, ripiegò precipitosamente su Piana dei Greci (24 maggio).

A Piana dei Greci decise di liberarsi dei cannoni e dei bagagli per poter operare più liberamente su Palermo, congiungendosi con le squadre che aveva raccolte il La Masa e che ascendevano a circa 3000 uomini, e, mentre V. Giordano Orsini con le impedimenta proseguiva la ritirata verso Corleone, egli, col grosso dei suoi, deviò per Marineo e Misilmeri e si unì con il La Masa sulle alture di Gibilrossa. Il von Mechel prese la colonna dell'Orsini per la colonna principale e la molestò fin oltre Corleone non occupandosi più di Garibaldi. La famosa beffa di Corleone fu immaginata, quindi, dall'Eroe per liberarsi da tutto ciò che poteva rendere più lenta la sua marcia e non per attirare in un tranello il von Mechel, la cui dabbenaggine non era stata probabilmente da lui preveduta (Agrati).

Da Gibilrossa, nella notte dal 26 al 27 maggio, e dopo una furibonda lotta durata tre giorni, nella quale fu validamente secondato dal popolo di Palermo insorto, obbligò il generale borbonico Lanza a chiedere un armistizio (30 maggio), che fu più volte prorogato finché, il 6 giugno, venne firmata la convenzione con la quale il nemico s'impegnò ad evacuare la città. Conquistata Palermo, il problema del governo dell'isola si complicò: un ministro non bastava più, e, pur restando Crispi il ministro dirigente col portafoglio dell'Interno, venne creato un vero ministero con Andrea Guarnieri alla Giustizia, mons. Gregorio Ugdulena all'Istruzione e culto, il barone Casimiro Pisani agli Esteri, Domenico Peranni alle Finanze, Giovanni Raffaele ai Lavori pubblici, Salvatore Calvino per interim alla Guerra e marina finché fosse tornato l'Orsini da Corleone (2 giugno).

Intanto si addensava sul capo di Cavour la bufera della diplomazia urtata dall'audacia della spedizione. L'Austria non poteva muoversi senza provocare la Francia e si limitava con la sua azione diplomatica a garantirsi il Veneto: nei convegni di Töplitz (luglio) e di Varsavia (ottobre), essa tentò invano ottenere dalla Russia e dalla Prussia la garanzia di quel possesso, ma fu più fortunata presso l'Inghilterra, che si adoperò a impedire per il momento ogni ulteriore espansione del movimento italiano. La Prussia, quanto alla questione di fatto, non vedeva di mal'occhio il formarsi d'un forte stato italiano e a Töplitz e a Varsavia si rifiutò di garantire all'Austria la Venezia, ma, quanto alla questione di diritto, doveva protestare altamente perché un diverso contegno avrebbe allarmato i principi tedeschi, timorosi che essa potesse nel futuro seguire verso di loro la stessa politica spregiudicata che i Savoia seguivano verso i principi italiani. La Russia, amica tradizionale dei Borboni di Napoli, per i suoi fini antinglesi, lontana, non poté fare altro che forti pressioni presso Napoleone III, dipingendogli l'impresa dei Mille come un'impresa fomentata dagl'Inglesi.

Spinto dalla Russia, dall'opinione pubblica francese e dal culto dei buoni procedimenti diplomatici, Napoleone III dové sobbarcarsi al compito di difensore dei Borboni, ma troppo era fatalista, troppo sentiva nella politica la forza delle cose, troppo gli premeva l'amicizia inglese, perché osasse realizzare fino in fondo ed energicamente quel compito. L'Inghilterra, infine, temette dapprima nell'impresa dei Mille un trucco tra Cavour e Napoleone per dar Genova o la Sardegna alla Francia in cambio dell'annessione della Sicilia e di Napoli all'Italia, ma, rassicurata su questo punto, si andò a poco a poco convertendo alla idea dell'unità fino a farsene paladina in ultimo. Questa la situazione diplomatica europea, nella quale Cavour doveva inserire il suo gioco per sventare gli ultimi tentativi di salvataggio della monarchia di Napoli.

Conosciuta la presa di Palermo nei consigli del re di Napoli, si decise (30 maggio e 1° giugno) di chiedere la mediazione francese e venne inviato a Parigi il De Martino. Nel colloquio di Fontainebleau del 12 giugno Napoleone III consigliò al De Martino di dare la costituzione a Napoli e l'autonomia alla Sicilia e di allearsi col Piemonte. Questi consigli furono accettati da Francesco II (21 giugno) e il 25 giugno furono promessi lo statuto a Napoli e l'autonomia alla Sicilia e venne creato un nuovo ministero, di cui fu capo lo Spinelli, ma anima Liborio Romano. Per non perdere la Sicilia, Cavour da un lato fece allestire e partire a spese della Società Nazionale le spedizioni Medici e Cosenz in aiuto di Garibaldi, dall'altro inviò il La Farina in Sicilia per ottenerne l'immediata annessione al regno d'Italia e pose come condizione dell'alleanza sardo-napoletana l'abbandono della Sicilia a sé stessa. Ma Garibaldi espulse (7 luglio) dalla Sicilia il La Farina, rifiutandosi di compiere l'annessione prima d'aver liberato tutto il Mezzogiorno e gli stati papali, e con le truppe del Medici e di E. Cosenz riportò una brillante vittoria a Milazzo (20 luglio), che liberò tutta la Sicilia, salvo la cittadella di Messina, dai Borboni. La Francia, allarmata dai propositi di Garibaldi, obbligò Vittorio Emanuele II a scrivere a Garibaldi una lettera per indurlo a non passare lo stretto e propose all'Inghilterra d'impedire anche con la forza un eventuale passaggio dello stretto. Ma re Vittorio insieme con la lettera ostensibile inviò a Garibaldi per mezzo del conte Litta Modignani un biglietto segreto, in cui lo esortava a fare tutto il contrario (22 luglio), e l'Inghilterra respinse la proposta francese (25 luglio) in quanto la concerneva. Napoleone III allora dichiarò solennemente che non intendeva fare cosa sgradita all'Inghilterra la cui alleanza era la pietra angolare della sua politica. Chiarito l'orizzonte diplomatico, Cavour manifestò il 1° agosto al Nigra e ad Emanuele d'Azeglio per la prima volta il grande disegno d'invadere con le truppe piemontesi le Marche e l'Umbria per dominare la rivoluzione italiana. Per attuare tale piano, validamente secondato dal Ricasoli, impedì che le spedizioni di volontarî del Pianciani e del Nicotera, allestite dal Bertani col denaro che Garibaldi aveva trovato nella zecca palermitana, fossero avviate contro lo stato papale e le indusse a prendere la via della Sicilia per rinforzare Garibaldi. Con tali forze, l'esercito garibaldino ascese a circa 21.000 uomini ed era in grado di passare lo stretto, tanto più che le Calabrie e la Basilicata (Lucania) si erano ribellate. Il 19 agosto avvenne lo sbarco a Melito e cominciò la marcia trionfale attraverso il Mezzogiorno con la presa di Reggio (21 agosto), la resa dei generali Melendez e Briganti con 3500 uomini a Villa S. Giovanni (23 agosto) e la capitolazione del generale Ghio con 10.000 uomini a Soveria Mannelli (30 agosto). Cosenza, Catanzaro, Monteleone, si liberarono dai presidî borbonici prima dell'arrivo dei garibaldini. Bande di Calabresi, capitanate dai signori del luogo, lo Stocco di Catanzaro, il Morelli di Cosenza, il Pace di Castrovillari, si congiunsero a Garibaldi, che il 6 settembre entrava a Salerno e il 7 a Napoli. Intanto Cavour, ottenuto da Napoleone III il nulla osta a Chambery (28 agosto) faceva invadere l'Umbria e le Marche (11 settembre). I rapporti tra Cavour e Garibaldi s'inasprirono. I consiglieri civili di Garibaldi, Mazzini, che era giunto a Napoli il 17 settembre, Cattaneo, e soprattutto Bertani e Crispi lo esortavano a spezzare ogni legame con Cavour, ma i suoi migliori luogotenenti, Türr, Medici, Cosenz, Sirtori, Bixio erano tutti cavouriani. Vinsero i primi, e Garibaldi sciolse il ministero moderato che aveva formato a Napoli, ne creò uno più arrendevole, rifiutò l'annessione immediata della Sicilia, sostituì il prodittatore Depretis col Mordini e si spinse a chiedere al re il congedo di Cavour. Gli fu rifiutato. Intanto i borbonici si scontravano in gran giornata coi garibaldini al Volturno (1-2 ottobre). Napoli fu salva, ma Capua non fu presa, né poteva essere presa con i suoi mezzi da Garibaldi. Con Gaeta e Capua in mano al nemico non era possibile andare a Roma. Garibaldi accettò francamente le conseguenze politiche della situazione militare, rinunziò, per il momento, al suo programma massimo: proclamare in Campidoglio la completa unità della patria. Andò incontro al re (26 ottobre), entrò con lui a Napoli e nelle sue mani depose la dittatura.

Bibl.: L'elenco alfabetico dei Mille in Gazzetta ufficiale, 12 novembre 1878, n. 266, supplemento. - Trattazioni generali: G.C. Abba, Storia dei Mille, Firenze 1904 (artisticamente la più bella narrazione della spedizione fino alla presa di Palermo); G. Macaulay-Trevelyan, Garibaldi e i Mille, trad. it., Bologna 1909; id., Garibaldi e la formazione dell'Italia, trad. ital., Bologna 1911 (la migliore opera storica); C. Agrati, I Mille nella storia e nella leggenda, Milano 1933 (fino alla presa di Palermo; il lavoro più recente). - Testimonianze sincrone: A. Dallolio, La spedizoine dei Mille nelle memorie bolognesi, Bologna 1910; M. Menghini, La spedizione garibaldina di Sicilia e di Napoli nei proclami, nelle corrispondenze, nei diari e nelle illustrazioni del tempo, Torino 1907.

Per le memorie, i diarî, le biografie dei singoli principali personaggi, v. sotto le rispettive voci.

Questioni particolari: per la parte di Cavour: A. Luzio, Garibaldi, Cavour, Verdi, Torino 1924 (per Cavour); R. Mirabelli, Giornale d'Italia, 14 maggio 1907 e Corriere della sera, 29 luglio 1907 (contro Cavour); A. Messeri, Rassegna storica del Risorgimento, 1913, pp. 279-309 (status questionis); P. Fauché, G.B. Fauché e la spedizione dei Mille, Roma 1905 (per Fauché); A. Codignola, Il Lombardo e il Piemonte, in Rassegna storica del Risorgimento, 1931 (contro il Fauché, per Rubattino); una vera letteratura v'è sulle polemiche tra Siciliani e continentali per la quale v. sicilia: Storia. - Storia militare: O. Baratieri, Calatafimi, in Nuova Antologia, i giugno 1884; F. Brancaccio, Garibaldi a Talamone, in Memorie storiche militari, 1909; T. Cava, Difesa nazionale napoletana, Napoli 1863 (una delle migliori opere di parte borbonica); C. Cesari, La campagna di Garibaldi nell'Italia meridionale, Roma 1928; R. Corselli, La manovra di Garibaldi su Palermo, in Bollettino uff. stor., 1927; F. Cuniberti, Storia militare dei Mille, Palermo 1880; Roma 1893; W Rüstow, La guerra italiana del 1860, tard. ital., Milano 1867; Ufficio storico dello Stato maggiore, Garibaldi condottiero, Roma 1932. - Storia diplomatica: per la politica piemontese: N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia, VIII, Torino 1872; per la politica napoletana: id., Il conte C. Cavour. Documenti editi ed inediti, Torino 1863; per la politica delle corti del Nord: A. Stern, Geschichte Europas, 1815-71, IX, Stoccarda e Berlino 1923; per la politica francese: P. De La Gorce, Histoire du second empire, Parigi 1894-1905; per la politica inglese: oltre il Trevelyan e la letteratura ivi citata, G. P. Gooch, The late correspondance of lord John Rusell, Londra 1925; per il dualismo franco-inglese, brillante colpo d'occhio in P. Silva, Il Mediterraneo dall'unità di Roma all'unità d'Italia, Milano 1933, 2ª ed. - Storia amministrativa e politica: manca un buon lavoro sulla dittatura di Garibaldi nelle Due Sicilie e i suoi prodittatori. Cfr., intanto, M. Rosi, Il Risorgimento italiano e l'azione d'un patriota, cospiratore e soldato (il Mordini, prodittatore in Sicilia dopo Depretis), Roma 1906; C. Maraldi, La rivoluzione sicialiana del 1860 e l'opera politico amministrativa di Agostino Depretis, in Rassegna storica del Risorgimento, 1932, pp. 434-574. - Fine del regno delle Due Sicilie: G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, III e IV, Roma 1864-67; N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del regno di Napoli, Napoli 1889; R. De Cesare, La fine d'un regno, 3ª ed., Città di Castello 1908 (la prima è del 1895); F. Guardione, Il dominio dei Borboni in Sicilia dal 1830 al 1861, II, Torino 1907; H.K. Whitehouse, Collapse of the Kingdom of Naples, New York 1899. Per le cause sociali e morali che spiegano la facile conquista del regno delle due Sicilie, cfr. B. Croce, Storia del regno di Napoli, 2ª ed., Bari 1931; G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano, ivi 1911; L. Franchetti e S. Sonnino, La Sicilia nel 1876, Firenze 1876; nuova ed., Firenze s.a. [1925].