Spesse fiate vegnonmi a la mente

Enciclopedia Dantesca (1970)

Spesse fiate vegnonmi a la mente

Mario Pazzaglia

Sonetto della Vita Nuova (XVI 7-10), su schema abab abab; cde cde, presente, oltre che nella tradizione ‛ organica ' del libro, anche in quella ‛ estravagante ' che fa capo al codice Escorialense e III 23, con scarse varianti redazionali, che D. De Robertis giudica di autore. Conclude l'importante episodio costituito dai sonetti Tutti li miei penser, Con l'altre donne, Ciò che m'incontra (capitoli XIII-XVI), ossia il momento più spiccatamente patetico in senso cavalcantiano del libro; ma si connette più direttamente agli ultimi due, dove pure il discorso è rivolto a Beatrice, pur non rifacendosi più all'episodio del ‛ gabbo ', e precede immediatamente la crisi risolutiva dalla quale nascerà lo stilo de la loda.

Secondo la prosa, nasce dalla volontà del poeta di completare la descrizione del proprio stato, dicendo ancora quattro cose (XVI 1): il dolore che nasce in lui quando la fantasia, mossa dalla memoria, immagina le oscure qualità (v. 2) che Amore produce in lui; l'assalto crudele di Amore che non lascia nulla di vivo nel suo animo se non uno spirto (v. 7) che parla di Beatrice; il recarsi del poeta, affranto da questa battaglia (§ 4), a veder lei, nella speranza di trovare conforto; il conseguente tremore e la sconfitta definitiva delle sue residue potenze vitali. Ma questi temi sono avvivati nella lirica dalla concatenazione compatta e drammatica. Le prevalenti connessioni coordinative e paratattiche assumono un ritmo concitato e progressivo, con insorgenze patetiche intense (vv. 5-8, 10, 12-14), che fanno del sonetto quasi il climax della breve silloge. Solido e armonicamente bilanciato è l'impianto: la fronte descrive gli effetti prodotti nell'animo del poeta dal pensiero di Beatrice, la sirima quelli prodotti dalla presenza di lei. Ciascuna parte è a sua volta suddivisa in due momenti: proposizione narrativa e sua ulteriore intensificazione lirica, che delinea il carattere sconvolgente della passione.

Notevoli anche qui gli echi cavalcantiani: la pietà che il poeta prova per sé stesso (v. 3), l'assalto di Amore (v. 5), la vita che lo abbandona (v. 6), i vv. 7-8, il pallore esangue del viso (v. 10), il tremore e il senso conclusivo di morte (vv. 13-14). Cfr. TUTTI LI MIEI PENSIER PARLAN D'AMORE.

Bibl. - Oltre ai commenti alla Vita Nuova, a Barbi-Maggini, Rime 67-68, a Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, II 71-72, 83-85, cfr.: A. Marigo, Mistica e scienza nella Vita Nuova di D., Padova 1914, 55-56; M. Corti, La fisionomia stilistica di G. Cavalcanti, in " Rendic. Accad. Lincei " s. 8, VI (1950) 530-551; D. De Robertis, Il canzoniere Escorialense e la tradizione " veneziana " delle rime dello Stil novo, in " Giorn. stor. " suppl. 27, Torino 1954; ID., Il libro della " Vita nuova ", Firenze 1961 (1970²), cap. IV (e cfr. anche " Studi d. " XXXIV [1957] 243-244); B. Nardi, D. e G. Cavalcanti, in " Giorn. stor. " CXXXIX (1962) 481-512 (rist. in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 109-219); G. Contini, Cavalcanti in D., in G. Cavalcanti, Rime, Verona 1968, 85-107 (rist. in Varianti e altra linguistica, Torino 1970, 443-445).