Sport e tempo libero nelle regioni italiane

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Sport e tempo libero nelle regioni italiane

Fabio Masimo Lo Verde

Rispetto a quanto accaduto in altri Paesi, lo studio delle pratiche e dei consumi nel tempo libero, oltre che più specificamente della pratica sportiva, in alcuni periodi ha suscitato in Italia un ampio interesse, in altri invece assai scarso (Lo Verde 2009). In questa sede intendiamo sottolineare come i consumi nel tempo libero e la partecipazione alle attività sportive costituiscano evidenze empiriche della modalità con cui, per un verso, si declinano le differenze regionali italiane ma, per altro verso, si manifestano la continuità e la parziale disomogeneità culturale del Bel Paese, ancora fondamentalmente diviso, in termini di standard di vita e di consumo anche della pratica sportiva, in un più ampio e articolato dualismo Nord-Sud.

La ‘questione regionale’, che fu oggetto sia di dibattito scientifico (si pensi ai diversi lavori di Lucio Gambi in proposito, sui quali ci soffermeremo in seguito), sia di dibattito politico (la ‘regionalizzazione’ dell’Italia, che in chiave più o meno federalista fu al centro di incontri e scontri in sede costituente fra i diversi schieramenti politici), si manifesterà proprio in una sorta di cleavage fra centro e periferia. Tale partizione affiorerà e scomparirà generata ora da interessi mossi da esclusiva volontà di gestione politico-amministrativa, ora da rivendicazioni per il riconoscimento identitario di matrice più etnico-linguistica e/o culturale, o ancora – come intercettato negli ultimi vent’anni da movimenti e partiti di diverso orientamento localistico – come spinta autonomistica di matrice più specificamente territoriale, ancorata a vocazioni e insediamenti produttivi di particolari aree regionali.

Ricostruire la dinamica dei consumi di sport e tempo libero nelle regioni italiane sin dalla loro istituzione in sede costituente non è dunque compito facile, proprio in ragione dell’importanza attribuita alla stessa idea di regione quale entità politico-amministrativa nell’immaginario della classe politica. È dunque difficile rintracciare materiali bibliografici che abbiano come oggetto di studio le regioni, in quanto, benché siano disponibili informazioni statistiche come i dati regionali, su questo livello territoriale mancano lavori specifici, mentre molti studi si sono focalizzati piuttosto sui comuni e sulle province, la cui rilevanza è percepita come più significativa in ragione di un diffuso campanilismo che si è declinato soprattutto a livello comunale e, al più, provinciale. Trovare storie regionali della pratica sportiva, anche professionistica, o informazioni sul consumo di tempo libero a questo livello di aggregazione territoriale diventa dunque attività rischiosa rispetto agli obiettivi prefissati.

A ogni modo, è ciò che si è provato a fare in questa sede, nel tentativo di corroborare l’ipotesi formulata da altri (Putnam, Leonardi, Nanetti 1985) – e poi confermata – secondo cui la riforma regionale ha avuto in Italia un impatto variabile causando risposte diverse a seconda dei livelli iniziali di sviluppo economico, della tradizione politica e della composizione sociale delle singole regioni (p. 17). E ciò è altrettanto riscontrabile nel caso delle dinamiche in cui si sono declinate la domanda e l’offerta di sport e di tempo libero nelle diverse regioni.

Prima di tutto viene presentata una breve ricostruzione storica delle modalità di consumo del tempo libero in Italia dal dopoguerra a oggi, con qualche scandaglio che fornisce brevi informazioni a livello di disaggregazione regionale. Successivamente si affronta invece il rapporto fra politiche nazionali e politiche regionali destinate specificamente all’attività sportiva, ciò che sembra avere coniugato le tendenze presenti nelle pratiche culturali già esistenti nei contesti regionali, evidenziandone le diverse vocazioni, con le diverse politiche regionali e nazionali dello sport e del tempo libero, da una certa epoca in poi divenute soprattutto di competenza regionale. L’obiettivo è fornire informazioni che possano in futuro mettere in relazione la diffusione dello sport praticato nelle diverse regioni italiane con il tipo di politiche locali implementate, nonché di interpretare il diverso tipo di rapporto fra domanda e offerta di sport nelle regioni italiane in funzione del modo in cui si è declinata la socializzazione alle pratiche del tempo libero che si sono radicate nella cultura locale.

L’analisi mette in luce come la diversa collocazione delle politiche per lo sport e il tempo libero sia da mettere in relazione con alcuni aspetti: il continuo squilibrio esistente fra approcci ‘minimalisti’ e ‘massimalisti’ nella volontà di devoluzione ed esercizio regionale su cui è concentrato il dibattito in riferimento a più specifiche politiche di programmazione; una diseguale allocazione di risorse disponibili di origine sia regionale sia nazionale; una meno efficiente spesa complessiva effettuata in alcune regioni. Nell’ultima parte si tenta di costruire una mappatura delle identità regionali rispetto alle pratiche del tempo libero e dello sport. Ciò che si vuole evidenziare è la dinamica del consumo della pratica sportiva e con essa la diversa modalità in cui i cambiamenti nel consumo sono ascrivibili a fattori endogeni e/o esogeni.

Breve storia del tempo libero in Italia

All’indomani della scelta repubblicana, l’Italia non deve affrontare solamente le conseguenze economiche e politiche della sua partecipazione alla Seconda guerra mondiale dalla quale esce sconfitta, ma anche i problemi legati a una necessaria riorganizzazione della vita pubblica – e, per molti aspetti, anche di quella privata – degli italiani. Il regime fascista infatti si era prefissato, fra gli altri obiettivi, quello di costruire un ‘nuovo cittadino’, e per farlo aveva tentato di appropriarsi sia del tempo pubblico delle masse sia di quello privato. La ricreazione, improntata sul modello d’oltremare di una socialità pubblica fortemente ancorata al ruolo sociale, cioè alla professione svolta, era stata organizzata attraverso diverse iniziative che avevano lo scopo di regolamentare appunto le pratiche del tempo libero. Fra queste, nel 1925, l’istituzione dell’Opera nazionale del dopolavoro (Impiglia 1998), il cui obiettivo, non proprio implicito, era innanzitutto quello di «colonizzare il tempo libero», soprattutto per evitare la diffusione di idee socialiste, assegnandovi dunque un compito educativo, quello di «formare al patriottismo».

Da una prospettiva regionalista, al dopolavoro si attribuiva il ruolo di vettore culturale delle tradizioni locali, al più regionali, da contrapporre, con palese contraddizione rispetto alla sua matrice originaria, alla prorompente diffusione delle mode e degli stili di consumo del tempo libero d’oltreoceano, fra cui la fruizione di musica d’importazione americana e di film hollywoodiani.

La rivalutazione e la pratica delle ‘arti popolari’, avevano allora costituito uno degli obiettivi del regime, e nel tempo libero le attività che era possibile praticare, oltre a quelle ginniche, erano proprio le arti popolari. Il folclorismo, cioè la riscoperta delle tradizioni popolari locali e regionali, e lo spirito ginnastico, cioè l’orientamento alla cura e alla cultura del corpo con approccio quasi militare, erano alla base delle teorie che dominavano gli indirizzi delle pratiche del tempo libero nell’Italia fascista.

A ogni modo, al di la della specificità del tipo di offerta pubblica in epoca fascista «il tempo libero diventava […] la compensazione sociale alla privazione della libertà politica e della libertà sindacale, un modo per alimentare forme di gratificazione della sfera privata che non solo occupavano il tempo lavorativo, ma potevano anche garantire al regime una blanda forma di accettazione dello status quo da parte degli interessati, oppure un certo grado di consenso» (Cavazza 2009, pp. 102-03).

Era stato inventato il ‘sabato fascista’, da contrapporre al ‘sabato all’inglese’ (p. 85), un giorno della settimana in cui le attività di istruzione per i giovani si accompagnavano ad attività sportive e di educazione fisica. Lo sport era così diventato strumento di controllo, di disciplina e, attraverso il sabato fascista, di «educazione del cittadino» (Pivato, Tonelli 2001, p. 94). E con la stessa retorica fascista erano stati esaltati giovanilismo, sportività, dinamismo, velocità e disprezzo del pericolo,tutti aspetti che, a detta dei mass media dell’epoca, si incarnavano nella stessa biografia del duce, la cui quotidianità veniva propagandata come quella di un «atleta perfetto». La pratica sportiva era diventata il modo migliore per impiegare il tempo libero in attività altrettanto produttive, finalizzate a dare vita a un nuovo tipo di cittadino-atleta-soldato.

In breve, con il fascismo era stata avviata la «nazionalizzazione del tempo libero» (p. 97). E con ciò si intende la volontà di preordinare le modalità di consumo del tempo diverso da quello lavorativo anche nello spazio privato, oltre che pubblico. Anche fra le mura domestiche il tempo libero avrebbe dovuto essere dedicato ad attività fasciste o da «fascistizzare» (Forgacs 2000), in cui la rigida separazione fra pratiche maschili e femminili e pratiche giovanili e senili, oltre che «sane» e «insane» in quanto orientate a migliorare o meno lo «spirito fascista», avrebbe assunto una più netta e marcata differenza.

D’altra parte, l’offerta pubblica di svago di massa era stata, perfino durante la Seconda guerra mondiale, alquanto variegata oltre che imponente. Si era assistito anche a un processo di ‘democratizzazione’ dell’accesso al tempo libero voluta dal regime, intendendo con questa espressione una più diffusa possibilità di fruizione di pratiche ludiche e di evasione, anche per le classi popolari precedentemente escluse. L’invenzione del «treno popolare» (Scarpellini 2008) era stata una di queste. Si era trattato, ovviamente, di politiche per l’integrazione del dissenso, anche se gli spettacoli erano costituiti da opere classiche che esaltavano l’«italianità», meno la sua «regionalità». Controllare il tempo libero attraverso le attività ricreative, rimaneva così il modo migliore per costruire processi di legittimazione politica di massa (Cavazza 2009).

In breve, all’indomani della nascita della Repubblica la classe dirigente italiana, per un verso doveva richiamarsi a quell’unità di prospettiva nazionale ritenuta necessaria per la ricostruzione e, per altro verso – pur registrando ed evocando la rilevanza della ‘specificità regionale’ italiana, sancita anche nella Costituzione e con esplicito intento antifascista che si richiamava a Gaetano Salvemini (1873-1957) e ad Adriano Olivetti (1901-1960) – doveva dar conto di un «folklorismo di Stato», ma contemporaneamente allontanarvisi. Questo tratto infatti avrebbe inevitabilmente riesumato parte dei contenuti dell’ideologia e della retorica fascista secondo cui le regioni non avevano una ragion d’essere, che invece apparteneva alle realtà «locali», «comunitarie» (Cavazza 1997), anche se spesso meno definite geograficamente o di dimensioni più ridotte.

Il vuoto ideologico in cui si vennero a trovare alcuni gruppi sociali si appalesò, insomma, nell’assenza di una forma ufficiale di organizzazione del tempo libero, che aveva invece scandito, durante il fascismo, il ritmo della vita quotidiana di molti italiani. Proprio intorno al tempo libero ‘spontaneo’ e liberato da imposizioni di Stato si organizzarono dunque le politiche di integrazione e di aggregazione dell’Italia postbellica.

Pur se con differenze regionali già evidenti, la situazione economica non era certo florida. E non lo fu soprattutto dal 1948 al 1953. La sconfitta della Seconda guerra mondiale, le città semidistrutte, una povertà e arretratezza diffusa, soprattutto, anche se non soltanto, nelle regioni del Mezzogiorno, la scarsità e/o assenza di materie prime, un’industria non del tutto sviluppata e territorialmente concentrata soprattutto in una sola macroarea e il dissesto finanziario, costituivano problemi di non facile soluzione a cui rispondere prima di altro. Ciò nonostante, a partire dal 1954, e poi in misura formidabile dal 1958 al 1963, si assistette a quello che viene chiamato il ‘miracolo economico’, quasi a indicare l’inaspettata, imprevedibile e quasi mistica trasformazione dell’economia italiana di quegli anni.

Gli indici di produzione e di reddito cominciarono a crescere. L’industria siderurgica triplicò la produzione, così come l’industria chimica e petrolchimica, l’edilizia e l’industria leggera. E anche i consumi cominciarono a crescere e, nonostante alcuni squilibri territoriali si fossero addirittura incrementati (come evidenziato nella Nota aggiuntiva sui Problemi e prospettive dello sviluppo economico e della programmazione in Italia presentata al Parlamento il 22 maggio 1962 in occasione della Relazione generale sulla situazione economica del Paese esposta da Ugo La Malfa, allora ministro del Bilancio), l’evidente sviluppo economico trascinava ormai le speranze degli italiani.

È soprattutto un comparto industriale, collegato anche alle forme e alle pratiche di consumo del tempo libero, a guidare più decisamente il miracolo economico: l’industria automobilistica. Sono gli anni della grande motorizzazione di massa. Prima gli scooter (la Vespa), poi le utilitarie (in una prima fase la Seicento e in seguito la Cinquecento che sarebbe diventata così popolare) saranno i mezzi di trasporto attraverso i quali si modificheranno le abitudini quotidiane degli italiani e il loro modo di consumare il tempo libero, soprattutto nei giorni della fine della settimana, che cominciavano a chiamarsi weekend.

Gli annuari disponibili dell’ACI (Automobile Club d’Italia) evidenziano che tra il 1946 e il 1956 il numero di vetture circolanti in Italia cresce di 6,9 volte e fra il 1956 e il 1966 di altre 6,2 volte. La Lombardia è la regione con il più elevato numero di vetture. Ma le vetture crescono di numero in maniera meno significativa nel ventennio fra il 1946 e il 1966 rispetto a quanto non avviene in regioni come Piemonte, Lazio, Valle d’Aosta, Abruzzo e soprattutto Sicilia e Sardegna, dove il loro numero nei primi dieci anni della Repubblica aumenta di dieci volte. Con una sorta di convergenza rispetto alla crescita, le regioni che non hanno potuto crescere nel primo decennio recuperano nel secondo.

Le distanze geografiche sembrarono dunque ridursi e così anche quelle fra le regioni. L’immaginario collettivo inserirà tra le proprie possibilità quella di viaggiare autonomamente, con la propria famiglia, da soli, con amici. Conoscere le regioni italiane, le loro differenze, le specificità riconoscibili sia attraverso la fruizione dell’enorme patrimonio artistico o naturale regionale, sia attraverso la conoscenza della cultura, di usi e costumi propri delle varie regioni, nonché la frequentazione delle diverse cucine regionali diventerà un obiettivo del ‘vacanziere’ italiano, che nel ventennio successivo investirà molto più tempo e denaro in queste attività.

Gli anni del boom sono quelli in cui le donne riducono il tempo dedicato ai lavori domestici, grazie all’introduzione – e al facilitato accesso all’acquisto – di elettrodomestici e di ausili vari. Dopo anni di stenti e di povertà, finalmente cominciava a esserci un discreto benessere, che consentiva di avere maggiori risorse, in termini sia di tempo sia di denaro, da destinare ad attività ricreative e, lentamente, anche alla cura di sé. L’individualizzazione comincia a delinearsi nella tarda modernità attraverso queste prime pratiche di consumo del tempo libero femminile e alla sua definitiva ‘democratizzazione’: fare shopping, curare il proprio corpo, abbellirsi, dare spazio alla propria creatività, e così via. Lentamente il leisure time si consuma orientandosi verso l’autogratificazione ludico-estetica. Ma soprattutto in forma sempre più individualizzata.

È il cinema – come era stato durante il regime fascista, e anche prima – il più amato tra i mezzi di intrattenimento pubblico, e continua a costituire un veicolo di socialità e sociabilità, oltre che di riproduzione di una nuova cultura, meno retorica e lontana dagli stereotipi inventati dal fascismo. Di fatto, la frequentazione del cinema diventa «un rito settimanale» (Pivato, Tonelli 2001, p. 121). Il numero di sale cinematografiche, ancora nella metà degli anni Cinquanta, continua a essere elevato, ma in tutte le regioni si registra (da quella data fino al 1995, quando il trend si invertirà nuovamente), una lenta diminuzione del loro numero. È sempre la Lombardia a mantenere il primato del numero di sale e la Valle d’Aosta ad averne il numero minore. A queste però vanno aggiunte le sale parrocchiali, ancora diffuse in tutte le regioni, ma soprattutto nel Lazio.

Il numero di biglietti venduti si ridurrà solo quando la televisione comincerà a costituire la principale fonte di intrattenimento privato degli italiani, e dunque dagli anni Sessanta in poi.

Della ‘potenza educatrice’ del cinema la Chiesa e lo Stato si erano già accorti. Se ne individuavano però, anche i pericoli, considerandolo un rischioso veicolo per la diffusione di quegli stili di vita e di consumo del tempo libero importati soprattutto dagli Stati Uniti attraverso il cinema hollywoodiano. La battaglia era condotta sia dai cattolici sia dai comunisti che speravano di allontanare gli stili di consumo italiani dai modelli americani, frutto di una cultura ‘asservita al capitalismo’, o poco consona alle morigerate abitudini cattoliche italiane.

D’altra parte, il cinema registrava e riproduceva anche i cambiamenti in atto nella società italiana, una società ancora contadina e localistica, proiettata verso un futuro immaginato come tempo di crescita e sviluppo, di ‘ricostruzione’, di industrializzazione e di diffusione, finalmente, di libertà civili e democratiche.

Il 1954 sarà un anno che segnerà la svolta nella dinamica dei consumi del tempo libero. Se la radio risultava ormai diffusa capillarmente, altrettanto ci si attendeva che sarebbe successo con la televisione. Anche in questo caso, se ne fruiva dapprima in forma collettiva e spesso in luoghi pubblici (i bar, i circoli, le associazioni ricreative, raramente anche le parrocchie e le sezioni di partito). Nel 1954 gli apparecchi televisivi presenti in Italia erano 16.000; tre anni dopo la quantità risulta quintuplicata, arrivando a 78.000 (Pivato, Tonelli 2001, p. 126). Assistere a un programma diventa così un altro rito collettivo, festoso e giocoso, proprio perché consumato collettivamente. In quegli anni, insomma, «la tv si trasforma in uno strumento di socialità che rafforza il sentimento di gruppo e, nello stesso tempo, uniforma un pubblico eterogeneo attraverso l’ascolto collettivo. La televisione nasce per essere fruita non singolarmente, ma in compagnia, soprattutto fuori dalle proprie case, come momento centrale del tempo libero» (p. 127).

Fra il 1955 e il 1975 il numero di abbonati raddoppia nel primo decennio e poi di nuovo nel secondo. Lombardia, Piemonte, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana sono le regioni più ‘mediatizzate’, se si conta il numero di abbonati. Ma il dato va certamente tarato al netto dell’evasione, che nelle diverse regioni si può sospettare fosse già elevata, come lo è ancora oggi. Fra il 1955 e il 1965 in alcune regioni il numero di abbonati si decuplica, in altre aumenta di venti volte, in Lombardia più di cento volte. Non succederà altrettanto nei decenni successivi, e non a causa di una minore o più lenta diffusione, quanto in ragione di una saturazione del numero di famiglie abbonate e di un’elevata evasione. I personaggi televisivi dei telequiz, quelli dell’intrattenimento, della canzone, del giornalismo, ricordano, con le loro sonorità vocalizzate e una prossemica inconfondibile, la loro origine regionale. Alla dicotomia cittadino/campagnolo che sembrava connotare – insieme a quella del cretino/furbo, da una parte, e del colto/incolto, dall’altra – la bozzettistica teatrale di un’epoca che stava cambiando, si affianca ora quella del siciliano e del lumbard, del pugliese e del piemontese, del calabrese e del veneto, del sardo e del ligure. Le regioni entrano di prepotenza nell’immaginario collettivo attraverso una TV che amplifica quelle differenze che i giovani maschi italiani avevano imparato a riconoscere e a caratterizzare durante gli anni della leva obbligatoria. Differenze che si potevano ora ritrovare nella bozzettistica televisiva.

Con quel tipico spirito fazioso e partigiano, ma anche goliardico e divertito, che connota la popular culture italiana, si costituivano fazioni che difendevano ed esaltavano le qualità dei concorrenti dei telequiz con lo stesso stile e con gli stessi argomenti con i quali nel Cinquecento, nelle piazze cittadine, si difendevano ed esaltavano i campioni del pallone con bracciali, o il tale o talaltro cantante lirico nell’Ottocento, o il campione ciclistico di quegli anni, al quale contrapporre l’antagonista del momento. Ed è una contrapposizione che allarga i confini del campanile fino a quelli della regione, attraverso un’offerta di identità incarnata nel campione o nel personaggio televisivo che ne rappresenta l’unicità in un’Italia ormai del tutto unita.

Un altro rito si consumava e la socialità e la sociabilità si adattavano e ricodificavano i significati che provenivano dalla nuova ‘tecnologia della visione’. E forse, come ha sostenuto qualcuno, sarà proprio la TV a fare veramente l’unità, facendo conoscere l’Italia e gli italiani agli italiani stessi e dando vita a quella omogeneità linguistica che metterà in discussione la rilevanza dei dialetti regionali. L’Italia delle regioni riscoprirà invece i dialetti e l’intrattenimento popolare che, come ogni altra specificità regionale estremizzata per finalità estetico-ludiche, contribuirà a diffondere quei contrassegni culturali e linguistici topici più che tipici della varietà regionale italiana, di cui ci si vergognava e si andava fieri nello stesso tempo. Franco e Ciccio esprimeranno ‘sicilitudine’ quanto le pièces teatrali di Gilberto Govi mandate in TV incarnavano lo spirito ligure. E altrettanto regionali, perché lumbard, sono i personaggi di Nanni Svampa e delle sue antologie di canzoni, o di Walter Chiari (per quanto nato nei pressi di Verona) e i personaggi urbanizzati da lui rappresentati; così come Macario, adotta quasi esclusivamente il piemontese come sua lingua ufficiale di spettacolo. Una ‘regionalità spicciola’, bozzettistica e allegra, spensierata e acuta, ma che servirà per costruire un’unità nella differenza di suoni e dell’immaginario locale, che comincia a connotarsi come un’armonia per l’intrattenimento di tutti, piuttosto che come una cacofonia dell’incomunicabilità.

Nel 1966, il 60% delle famiglie italiane possiede un apparecchio televisivo, il 31% un’automobile (di cui solo il 13% operai). Fra il 1954 e il 1970 il numero di abbonati raggiunge i 10 milioni e i consumi di tempo libero diventano sempre più domestici, anche per via della crescita del tempo dedicato alla fruizione ‘mediale’. Si diffonde inoltre il consumo di giornali e riviste, insieme a quello televisivo, radiofonico e cinematografico.

Lo stile di vita nell’Italia del boom stava ormai mutando e con esso anche le pratiche di consumo del tempo libero. Un’approssimazione agli stili di vita d’oltreoceano era percepibile proprio a partire dall’analisi delle nuove forme di consumo. Ancora una volta, la politica si accorge dell’importanza del nuovo mezzo tecnologico per l’orientamento ideologico. E dunque Chiesa e partiti si lanciano nuovamente nella colonizzazione del tempo libero attraverso il controllo, indiretto o diretto, dell’offerta televisiva, come avevano fatto con il cinema. Controllo che si articolerà al punto da volere costituire, dopo la nascita delle Regioni, un Comitato regionale di controllo di questa emittenza.

Come da tradizione, fra i divertimenti collettivi in luoghi pubblici il ballo rimane in Italia una delle pratiche più diffuse già dai primi anni Sessanta, soprattutto fra i giovani. Ma lo sono anche l’ascolto di musica, l’organizzazione di feste, la frequentazione di locali notturni, la gita fuori porta, in Vespa o in Cinquecento, in bici o in treno; o, ancora, il cinema. E, non da ultimo, la fruizione di spettacoli sportivi.

Fra i protagonisti dell’Italia del boom economico ci sono proprio i giovani e le donne, le cui esigenze di cambiamento nelle modalità di consumo del tempo libero saranno fondamentali per il mutamento italiano. E si tratta di giovani che si distinguono meno per l’appartenenza regionale che per quella esistente fra aree urbane e aree rurali. Ciò che distingue le pratiche del consumo del tempo libero fra i giovani è insomma l’appropriazione o meno di stili di vita urbani. Rimangono però differenze e divari fra le macroaree (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole), divari che ora cominciano a delinearsi in forma assai più marcata rispetto al passato.

Il ballo diventa anche uno strumento di ribellione, con il rock’n roll, che in Italia si diffonde capillarmente attraverso i dischi, ormai acquistabili a prezzi più accessibili, e attraverso la radio. E dunque si ripropone il problema del controllo sociale del tempo libero giovanile. Al punto da fare nascere una ‘questione giovanile’ che anche in Italia esploderà, sull’onda della protesta parigina, nel 1968. Nel frattempo, cattolici e comunisti attribuiscono responsabilità gli uni agli altri dell’incapacità di governare tale questione giovanile e cercano, separatamente, soluzioni per tentare di smussare il dissenso che si esplicita nel tempo libero della ‘gioventù bruciata’, mettendo a disposizione le strutture associative e i luoghi per la sociabilità, dalle sedi del partito agli antichi, e mai tramontati, oratori, diffusi in quasi tutte le regioni italiane già dalla seconda metà del 19° sec. (si pensi all’esperienza di don Bosco e dei Salesiani).

La crescita di disponibilità di due importanti risorse, tempo e denaro, fa sì che anche lo sport diventi un business importante, soprattutto se inteso come insieme di spettacoli a cui assistere e per i quali si è disposti a pagare un biglietto di ingresso.

Gli annuari statistici dello spettacolo della SIAE confermano che tra il 1955 e il 1965 Lombardia, Veneto, ma anche Campania, Puglia e Sicilia vedono aumentare il numero di spettatori di spettacoli sportivi e soprattutto di tifosi che si recano allo stadio per assistere alla partita di calcio. E le differenze regionali si evidenziano anche nelle differenze del numero di città presenti fra le rappresentative dello sport più amato dagli italiani. Una sola rappresentativa, però, manterrà la tradizione di una denominazione regionale, l’Associazione sportiva Lazio.

Gli anni Sessanta si chiudono con un trionfo del consumo di sport in TV e negli stadi; con un aumento della temperatura sociale, generato dalla contestazione giovanile del 1968; con la richiesta di maggiore legittimazione politica e sociale avanzata da parte delle donne; e con un lento cambiamento negli stili di consumo anche dello sport praticato dagli italiani nelle diverse regioni che, dagli anni Cinquanta in poi, cominciavano a dotarsi di impianti per la pratica sportiva. Il tempo libero, e ci riferiamo soprattutto a quello dei giovani, viene diviso – e non fra gli stessi individui – fra quello praticato da gruppi che si dedicano alla politica e gruppi che si dedicano al consumo dei prodotti culturali di un’industria ormai consolidata. Cresce il numero di coloro che, per es., si orientano verso la lettura di evasione (Pivato, Tonelli 2001, p. 137; Colombo 1998, pp. 246 e segg.), cioè verso il consumo anche individuale di tempo libero: fumetti, rotocalchi, fotoromanzi e romanzi rosa sono prodotti ricercatissimi. Per un verso, dunque, si assiste a un’ulteriore politicizzazione del tempo libero da parte del movimento di contestazione giovanile o al suo indirizzo verso attività e pratiche che comunque manifestino la posizione antagonista rispetto al sistema dominante. E dunque con una critica a tutte le forme di consumo del tempo libero integrato e fondamentalmente disimpegnato, visto come lo spazio dell’ingerenza del potere economico e del tempo ‘asservito al mercato’. Ciò avviene soprattutto nelle regioni in cui il livello di crescita economica è stato più consistente e l’industrializzazione è giunta a uno stadio ormai avanzato, quali il Piemonte, la Lombardia, la Liguria, l’Emilia-Romagna e in parte la Toscana. E soprattutto nelle aree urbane di queste regioni. Per altro verso, si assiste invece a un consumo ancora diffuso di pratiche e di forme ‘integrate’ che, per quanto assai criticate, costituiscono comunque le modalità di buona parte dell’offerta per il tempo libero intercettata dai giovani che vivono nelle regioni ancora in ritardo nella fase di sviluppo.

Negli anni Settanta, la svolta ‘regionalista’ si concretizza, dunque, nell’istituzione delle regioni. In molte di queste, soprattutto nel Mezzogiorno, ciò determina non solo la devoluzione di alcune funzioni – in realtà, vedremo, inizialmente poche – ma soprattutto la nascita di un’economia avvinghiata alle presunte esigenze della nuova pubblica amministrazione regionale, tutta da inventare e da ingigantire, e a una dinamica occupazionale che vede nel terziario pubblico il ruolo che nelle città e nelle regioni più industrializzate era stato del secondario: un regolatore degli stili di vita, ma orientati qui alla scarsa condivisione di un tempo sociale pubblico e più a una sua privatizzazione, a un suo restringimento in pratiche consumate all’interno di cerchie limitate della socialità.

Gli anni della crisi petrolifera si fanno sentire nell’Italia da poco regionalizzata. Fra il 1971 e il 1978 il numero di vetture circolanti nelle regioni continua a crescere, ma non con la stessa intensità dei decenni precedenti. E la ‘convergenza’ rispetto all’uso di vetture e al loro possesso diffuso nelle diverse regioni è un dato incontrovertibile.

Dopo la crisi degli anni Settanta, negli anni Ottanta gli stili di vita e di consumo della ‘società affluente’ si diffondono anche in Italia. Sono gli anni in cui i consumi tornano a crescere e si tratta proprio dei consumi di beni e servizi per il tempo libero e per lo svago. Il cinema rimane un luogo di distrazione e di entertainment, ma anche di presa di coscienza per l’impegno politico o per la riflessione, come lo era stato negli anni del neorealismo. E soprattutto la televisione catalizza buona parte del consumo di tempo libero a disposizione degli italiani, un tempo in realtà cresciuto per gli uomini più che per le donne, e più per le donne residenti nelle regioni settentrionali che per quelle residenti nelle regioni meridionali. L’offerta televisiva cresce per via dell’ingresso delle TV private: dapprima quelle locali, limitate dalla possibilità di mandare trasmissioni coprendo soltanto il livello regionale; in un secondo tempo con un’offerta che diviene invece nazionale, anche se ‘in differita’. E anche questa nuova offerta determinerà una svolta epocale nell’immaginario italiano, pur se declinato con differenti forme di encoding/decoding del messaggio e del contenuto televisivo, spesso funzione delle diverse culture regionali che intervengono nel processo di decodifica.

Anche l’offerta di intrattenimento e di informazione televisiva tende a radicarsi sul livello regionale e, soprattutto nelle regioni con più forti istanze di autonomia amministrativa, si tende a offrire un’informazione che verte sul territorio regionale. In questi stessi anni nasce la terza rete nazionale dove assume maggiore rilevanza l’informazione prodotta dalle sedi regionali. L’occupazione dei luoghi della decisione politica regionale diventa, per le culture politiche territoriali, la prima forma attraverso la quale mettere in atto le politiche per il territorio, fra le quali rientrano certamente quelle che, come vedremo, diventano quasi di ‘esclusiva’ competenza regionale, come quelle per la cultura, lo sport, il turismo.

Gli anni Ottanta si concludono con la caduta del muro di Berlino e con la fine di un equilibrio mondiale fondato sulla tensione fra potenze antagoniste. Un equilibrio che aveva visto l’Italia come ago della bilancia del potere militare e politico internazionale e che, a causa di culture politiche territoriali che si erano radicate proprio a livello regionale, sembrava, ma solo apparentemente, volere pendere ora verso una parte, ora verso l’altra nell’organizzazione degli stili di vita e, più in generale, del tipo di regime. Saranno proprio i cambiamenti e i travasi di consenso tipici dell’espressione di culture politiche territoriali verso altre, nuove, formule movimentistiche, sempre più ‘devolute’ a livello regionale, a riorganizzare gli equilibri politici interni fra centro e periferia, che rischiavano ormai di rompersi. E a ridisegnare anche le modalità in cui si offrivano politiche per il tempo libero e per lo sport nel nuovo scenario a rischio di implosione, connotato ancora dalle differenze fra regioni sviluppate e ‘moderne’ del Nord e regioni a più lenta e spesso bloccata modernizzazione del Sud del Paese.

Gli anni Novanta si aprono anzi con una fine e non con un inizio, ovvero con la fine della prima repubblica, che in quasi tutte le regioni si era insediata attraverso istituzioni partitiche e forme di imprenditoria politica, fra clientele, scambi e malaffare, fra identità e interessi più o meno esprimibili come coagulazione di un’area regionale. Ma durante lo stesso periodo in alcune regioni si erano anche radicate forme sane di partecipazione civica, di partecipazione politica e di associazionismo di diverso tipo. Tali attività esportavano dalla periferia al centro modelli e stili di vita che favorivano la reciprocità mediata da diverse forme associative, comprese quelle sportive e del tempo libero che, a livello regionale, cominciavano a pesare, assai più di quanto non fosse avvenuto in passato, nel definire le nuove modalità di consumo e di investimento del tempo libero.

Nonostante la presenza di una TV ormai pervasiva, sia nella varietà dell’offerta, sia nella quantità di tempo destinato alle trasmissioni nell’intero arco della giornata, ormai tendente a coprire le ventiquattr’ore, negli anni Novanta aumentano i frequentatori del teatro, del cinema, dei musei e delle mostre, dei concerti e degli spettacoli sportivi, delle discoteche e dei pub. È ancora nello spazio pubblico che si spende parte del tempo libero a disposizione, nonostante la diffusione di una ‘sociabilità ristretta’ all’interno della quale si distribuiscono le persone di tutte le fasce di età. Permangono alcune differenze nelle forme di consumo sulla base dell’età, del genere, della condizione occupazionale, del titolo di studio. E, non da ultimo, della regione di residenza.

Anche in questi anni Lombardia, Piemonte, Veneto, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Toscana e Lazio vedono crescere più significativamente il numero di biglietti venduti per spettacoli teatrali e concerti musicali. Meno sensibile, seppure presente, la crescita in altre regioni. Cominciano a delinearsi inoltre differenze regionali più marcate nelle politiche per il tempo libero, sia in termini di strategie complessive disegnate, sia in termini di risorse a queste destinate. Proprio su questo terreno anzi, le differenze saranno più marcate, delineando profili di regioni più ‘colte’ di altre nell’offerta di politiche per lo svago, spesso riconducibili all’ormai avvenuto radicamento di eventi culturali di livello cittadino che però esercitano un’attrazione che coinvolge l’intera regione, con un effetto di trascinamento che giova all’area nel suo complesso.

Il tempo libero diventa in quegli anni sempre più ancorato alla geografia e alla storia regionale. Nascono i ‘weekend postmoderni’, come scriverà Pier Vittorio Tondelli (Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, 1990), consumati sempre più spesso fuori porta, ma sufficientemente vicino da poter rispondere alle nuove logiche ‘mordi e fuggi’ dello svago a cui la nuova società affluente obbliga. Nascono i percorsi a tema per lo svago e la cultura: le strade del vino in Toscana, riproposte poi anche in Veneto e Sicilia; i percorsi enogastronomici del tartufo in Piemonte e nelle regioni centrali; quelli che uniscono il turismo naturalistico a quello gastronomico, come avviene in Campania, Calabria, Sardegna e Liguria; quelli che fondono turismo culturale ed enologico, come avviene in Piemonte e in Sicilia; ancora, quelli che mescolano il percorso mistico-religioso con quello artistico, come nel caso dell’Umbria, e quello storico-letterario con l’enogastronomico e più ‘marittimo’, come nei casi di Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo e Puglia; e inoltre si diffonde il weekend sportivo in Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Veneto, Friuli Venezia Giulia e in parte in Abruzzo. Le regioni insomma diventano il luogo geografico in cui consumare il tempo libero nella sua forma di time-out settimanale, oltre che divenire le istituzioni che lo promuovono.

L’investimento dei trent’anni precedenti in infrastrutture per la mobilità, per quanto non abbia sortito l’effetto spesso desiderato di una più capillare presenza di autostrade, ha dato però risultati apprezzabili. E i cambiamenti negli stili di mobilità durante il tempo libero messi in pratica dagli italiani sono ormai riscontrabili anche a una veloce lettura dei dati.

Lombardia, Lazio, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, ma soprattutto Campania e, in parte, Sicilia, vedono crescere nel decennio compreso fra il 1985 e il 1995 il numero di vetture circolanti. Non si tratta più di una crescita così significativa come negli anni del boom economico, ma quasi ogni famiglia italiana ha ormai almeno una vettura. E la usa anche per le vacanze, per le gite fuori porta, per i viaggi all’estero, non solo per raggiungere il luogo di lavoro.

I primi anni del 21° sec. sono sconvolti dalla paura del terrorismo internazionale e delle guerre globali, dalle preoccupazioni di una crisi economica che giunge da oltreoceano, dalla nascita di una Europa economicamente integrata ma con una forma di mediazione delle relazioni interne più cartacea che culturale e politica (per es., la moneta unica) e, a livello nazionale, di una cresciuta rilevanza politica del livello regionale di governo nella definizione e pianificazione delle politiche pubbliche. I consumi di tempo libero si connotano dunque sempre di più per il fatto di declinarsi in spazi e in tempi limitati ma ritenuti adeguati, almeno nei primi anni, quali quelli offerti dalla regione o dalle regioni limitrofe a quelle in cui si risiede. L’infrastrutturazione di servizi e beni per il tempo libero diventa capillare, soprattutto nelle regioni settentrionali, dove si radica ormai un’idea di tempo libero inteso come ‘tempo per sé’, per ciascuno, per la cura del proprio corpo, per coltivare le proprie passioni. Accanto all’aumento del numero di praticanti di sport nel tempo libero – come vedremo – aumentano anche i dilettanti di pratiche del tempo libero fra le più diverse, ma tutte soprattutto da consumare individualmente.

Ancora una volta, le differenze regionali sono riscontrabili soprattutto fra macroaree del Nord e del Sud del Paese, per quanto gli stili di consumo del tempo libero comincino a tendere alla convergenza. La differenza nei consumi fra regioni inizia a diventare solo funzione del tempo più che dello spazio che intercorre fra le regioni, con una modalità di adozione delle nuove pratiche di consumo culturale declinabile come processo imitativo che procede da Nord verso Sud (andamento trickling down). Ma i tempi di diffusione di questo andamento trickling down si vanno però sempre più riducendo. Permangono differenze proprio nella pratica sportiva, che però aveva già avuto una curva differente in funzione di altri fattori contingenti. Accanto alla cura del corpo, del benessere, delle arti liberali, delle nuove pratiche psicofisiche, degli sport ‘estremi’ e di quelli ‘minimi’, di quelli di tendenza e alla moda e di quelli tradizionali e un po’ demodé, nonché delle pratiche più moderne e meticciate provenienti da culture lontane, si diffonde in tutte le regioni d’Italia, sebbene con funzioni e valore semantico assai diversi, la pratica della cucina, divenuta un passatempo, ma anche una pratica culturale attraverso la quale conoscere le differenze: sia quelle etniche, sia quelle regionali, più tradizionali ma certamente radicate. Come i dialetti, le cadenze, le arti e le lettere, i personaggi e le diverse storie, anche le cucine regionali costituiscono oggetto di curiosità nel tempo libero nelle diverse regioni. La regionalità italiana viene infine vista per quello che è in questo secondo decennio del 21° sec.: una forza della differenza che non muta nel tempo e che rende unica l’Italia.

Il ruolo delle regioni nelle politiche per lo sport e il tempo libero

L’Italia repubblicana nasce dunque compressa fra spinte regionalistiche e volontà centralistiche che sembrano rievocare l’antico dibattito avviatosi dopo l’Unità. Ma la questione regionale fu tutt’altro che affrontata immediatamente, e ciò per ragioni sia politiche sia amministrative. Esisteva infatti un’annosa questione, che costituiva la preoccupazione della élite liberale dopo l’Unità e della classe politica postbellica in sede costituente, la quale contrapponeva una ritrosia a delegare alla periferia funzioni di governo a una posizione favorevole a farlo, proprio in ragione di una forma di governo democratico della gestione territoriale, considerata migliore se più prossima al livello periferico. A questa si aggiungeva l’altrettanto annoso problema dell’esistenza o meno di una questione regionale dal punto di vista scientifico. La questione, cioè, tutt’altro che esclusivamente politico-amministrativa, era anche oggetto di dibattito fra geografi, storici, economisti e linguisti, giusto per citare alcune discipline i cui esponenti si ritenevano chiamati in causa. E lo rimarrà negli anni di lì a poco a venire quando, per es., Lucio Gambi affronterà il tema della congruenza fra confini amministrativi, definiti dai compartimenti statistici che rimontavano all’annuario di Pietro Maestri del 1863 (Coppola 1997, p. 20; Treves 2004), e aggregazioni territoriali, costituite invece dalla realtà sociale, economica, linguistica e politica di territori che si identificavano talvolta a livello territoriale minore – come quello comunale – talaltra a livello paesaggistico (valli, pianure, pedemontane ecc.). In definitiva, l’attuazione dell’ordinamento regionale, cresciuto e consolidatosi negli anni di governo del centrosinistra, mostrava alcune specificità regionali che erano già emerse con la nascita delle regioni a statuto speciale, le uniche che si presentavano più esplicitamente come il risultato di reali istanze politico-territoriali e culturali meglio definite, sfociate o in una esplicita domanda separatista, o a partire dalla domanda di riconoscimento di una specificità linguistica.

Tali specificità regionali si articoleranno, dal 1970 in poi, e molto lentamente, in competenze amministrative su alcune specifiche aree di programmazione, fra le quali venivano fatti rientrare – per quanto in parte precedentemente presenti nella programmazione nazionale indirizzata ad aree subnazionali, come nel caso delle iniziative intraprese dalla Cassa per il Mezzogiorno – proprio il turismo, la cultura, lo sport e, come diremmo oggi, le pratiche del tempo libero.

L’area delle attività ricreative e sportive costituirà, come, per es., già nello Statuto siciliano, uno di quegli ambiti su cui, a titolo e con modalità diverse, le regioni vorranno mantenere, in maniera più o meno esclusiva, non sempre riuscendovi, competenza legislativa. In realtà l’articolo 117 della Costituzione prevedeva che fossero materia di legislazione concorrente aree specifiche quali l’ordinamento sportivo, oltre che altre fra cui la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione delle attività culturali. E dunque non specificamente alle regioni venne conferita attribuzione in materia di sport, sia nelle regioni a statuto ordinario sia in quelle a statuto speciale che hanno esercitato competenza in materia sportiva spesso collegandola al turismo. Come avvenuto nel caso della Sicilia che, con una legge del 1949 in cui istituiva l’assessorato del turismo e dello spettacolo, conferiva a questa struttura il compito di potenziare le iniziative e le attività sportive nella regione, soprattutto con lo scopo di incentivare un’offerta turistica precipua a queste collegata.

Fece eccezione il Friuli Venezia Giulia, l’unica regione autonoma a contemplare nel proprio statuto la competenza legislativa in materia di «istituzioni culturali, ricreative e sportive di interesse locale e regionale» (art. 4, 14° co., nella l. cost. 31 genn. 1963, nr. 1), e in parte il Trentino-Alto Adige che, in seguito alle modifiche apportate nel 1972 alle funzioni delle province autonome di Trento e Bolzano, previde una competenza di tipo concorrente per le due province in riferimento alle attività sportive e ricreative con relativi impianti e attrezzature (Blando 2009, pp. 29 e segg.).

In realtà, la vicenda delle politiche per lo sport in Italia è assai particolare proprio in ragione di uno spostamento continuo del baricentro del potere decisionale fra centro e periferia per un’area tematica che comunque, per molti anni, non è stata considerata di particolare rilevanza.

Fra il 1949 e il 1963 lo scontro fra spinte regionaliste e spinte centraliste per la realizzazione del modello di gestione politico-amministrativa dello Stato rifletteva un andirivieni politicamente ondivago, poiché cattolici e comunisti manifestavano interesse ora per l’uno, ora per l’altro modello, con scelte più che altro funzionali a ribadire un’opposizione ideologica fra le due parti (Putnam, Leonardi, Nanetti 1985, pp. 37 e segg.). Tale scontro aveva condotto al conferimento della gestione delle decisioni in ambito sportivo a un ente centralizzato, e cioè al Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), che già con r.d. 2 ag. 1943 nr. 743 era passato sotto la giurisdizione della Presidenza del Consiglio, pur essendo nato nel 1914 come organismo coordinatore degli sport praticati in Italia e fondamentalmente per preparare la partecipazione italiana alle Olimpiadi (Ascani 1979, p. 17).

Ai CONI verrà infatti attribuita non solo autonomia economica, ma il vero e proprio monopolio delle attività sportive, ciò che è stato recentemente oggetto di dibattito scientifico proprio in ragione di una modifica del nuovo rapporto instauratosi fra Regioni, Stato e CONI stesso come conseguenza della nuova produzione legislativa (Blando 2009) e per quanto una legge del 1975 (18 nov. 1975 nr. 764) trasferisse già alle regioni alcuni compiti che erano stati attribuiti all’Ente gioventù italiana, dalla legge stessa soppresso. Tra le competenze attribuite vi erano infatti la conservazione e l’incremento del patrimonio sportivo nazionale, il disciplinamento di attività sportiva di pubblico spettacolo, la sorveglianza sulle associazioni sportive affiliate o di rilevanza nazionale, nonché il perfezionamento atletico in vista delle Olimpiadi, competenze in parte poi passate a gestioni locali o a enti locali minori. Prescindendo dal fatto che ci vollero quasi trent’anni per vedere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il regolamento del CONI e delle Federazioni sportive nazionali (FSN), secondo gli studiosi (Ascani 1979; Blando 2009) il tentativo delle regioni fu quello di intervenire, sin dall’inizio, in una materia che veniva percepita comunque come più prossima ai livelli di governo devoluti, proprio perché si trattava di attività svolta da una popolazione insediata in spazi la cui fruizione costituiva uno dei servizi, anche sociali – che in molti casi avrebbe dovuto essere erogato, ma spesso non potendo esserlo in assenza di strutture adeguate –, la cui funzione veniva considerata di elevata rilevanza culturale ed educativa.

A ogni modo, la legislazione finalizzata alla promozione delle attività sportive nel tempo libero fu prodotta con difficoltà sia negli anni in cui, dopo la costituzione formale, il processo di devoluzione era ancora assai lontano, cioè fino al 1963 circa, sia dopo l’istituzione delle regioni a statuto ordinario. E questo accadeva anche in considerazione dei molteplici vincoli che derivavano dalla mancanza di trasferimento dei poteri (Ascani 1979, p. 56), cosa che ne generò un intervento frammentato e subordinato spesso ad altre materie come il turismo e le attività culturali alle quali lo sport risultava spesso accorpato. Veniva però individuato, come obiettivo non raggiunto ancora in mano al decisore politico, quello di «realizzare un intervento capace di far prendere coscienza a tutto il mondo sportivo del fatto che le regioni erano in grado di fare avanzare un nuovo governo della politica sportiva italiana» (p. 57). Dunque sia il mondo sportivo, a livello locale, sia, soprattutto, il governo centrale dovevano prendere coscienza dell’importanza di una prossimità di livello regionale e locale per implementare politiche sportive efficaci. Più sensibili al problema, dunque, le regioni, che cominciarono da subito a inserire l’accesso all’attività sportiva come un ‘diritto sociale’.

Da una parte, le regioni si sarebbero mosse implementando iniziative legislative dirette ad accrescere la dotazione infrastrutturale e il sovvenzionamento di attività per la realizzazione di attrezzature e impianti sportivi, benché fossero soprattutto i comuni – proprietari nella maggior parte dei casi degli impianti (nel 1964 quasi l’80%), come risulta da un’indagine ISTAT-CONI di quegli anni – a continuare a muoversi per lo sviluppo dell’impiantistica sportiva. I comuni, infatti, dal 1979, grazie al d. legisl. 10 nov. 1978 nr. 702 (convertito con l. 8 genn. 1979 nr. 3), potevano accedere con la Cassa depositi e prestiti a forme di credito agevolato per la costruzione di impianti sportivi, possibilità che era loro precedentemente inibita per motivi amministrativi mentre veniva concessa loro quella di accedere a mutui dell’Istituto per il credito sportivo (ICS), un ‘istituto a servizio dello sport’, a cui partecipava anche il CONI. Dall’altra parte, le regioni si sarebbero mosse verso la promozione finalizzata alla crescita della domanda di pratica sportiva nel tempo libero.

Le diverse velocità e intensità nel disegno e nella implementazione di politiche sportive da parte delle regioni sono ancora più palesi se si tiene conto delle attività di promozione, soprattutto in ragione della differente connotazione che assunsero, sin dall’inizio, se indirizzate alla crescita della pratica sportiva di livello dilettantistico o piuttosto di quella di livello professionistico. Viene infatti evidenziato (Ascani 1979, p. 59) come in alcune regioni si tendesse allo sviluppo della promozione di attività formative e al dilettantismo (come nel caso dell’Umbria, del Piemonte, della Toscana e della Puglia) e in altre al finanziamento di attività e di manifestazioni sportive di tipo agonistico e professionale, come nel caso della Campania. Si rendevano palesi, dunque, e sin da subito, filosofie fondamentalmente differenti rispetto alla funzione dello sport inteso come veicolo di produzione di un’identità culturale che avrebbe potuto declinarsi anche a livello regionale. Vi sarebbero state regioni che avrebbero promosso più esplicitamente l’attività dilettantistica e subordinatamente quella professionistica, e ciò anche in ragione della presenza di un più sedimentato partecipazionismo associativo sportivo regionale, che aggregava quel tipo di domanda di sport ricreativo ‘dal basso’; e regioni che invece avrebbero finito per favorire la diffusione di un’idea di sport soprattutto come spettacolo, di cui la massa avrebbe potuto fruire in luoghi deputati, come gli stadi i palazzetti.

Tra il 1974 e il 1979 le regioni producono comunque alcune iniziative legislative assai interessanti (Blando 2009), soprattutto in ragione del mutamento del clima nei confronti della devoluzione, sebbene con risultati parziali derivanti dal procedere assai lento. Tra questi, il d.p.r. 616 del 1977, che trasferiva alcune funzioni amministrative dello Stato alle Regioni, comprese quelle inerenti alla promozione di attività sportive e ricreative nonché alla realizzazione di impianti e attrezzature, per quanto ricompresi nella materia del turismo e dell’industria alberghiera.

Fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta è il potere programmatorio a costituire oggetto di attenzione, ed è visto più in generale come area di crescita della partecipazione locale alle decisioni di politica pubblica nazionale e come ‘salto culturale’ verso un’efficienza le cui ricadute fossero percepibili nei territori. In diversi settori su cui si prevedeva l’intervento nel d.p.r. 616, le politiche regionali si configureranno più generalmente come tipiche della «fase manageriale» (Putnam, Leonardi, Nanetti 1985, p. 80) dell’evoluzione verso il decentramento. E ciò soprattutto incentrandosi su alcuni pilastri enucleabili come prime aree di intervento di politica regionale per lo sport (Blando 2009, p. 34; Leggi regionali per lo sport, 1974).

A ogni buon conto, le regioni furono chiamate a legiferare – in maniera più o meno legittima, anche in considerazione del rapporto che dovevano mantenere con il CONI – in merito a questioni che più specificamente riguardavano sia la formazione all’agonismo, sia il sostegno dell’attività sportiva dilettantistica, ma concentrandosi, come si è detto, in alcuni casi sull’una, in altri casi più sull’altra. In realtà, più spesso a scapito della seconda, anche in considerazione del fatto che i destinatari territoriali finali delle iniziative di politica dello sport erano i comuni e gli enti locali, in base a quanto previsto dalla normativa nazionale vigente (Blando 2009, p. 36). Si rileva anzi che i «mutamenti anche profondi avvenuti nella legislazione regionale, così come erano enunciati negli statuti, nella scelta cioè di una pratica sportiva agganciata ad una dimensione civica, cedevano il passo alle politiche di sostegno degli sport più diffusi e popolari, vissuti nella loro dimensione spettacolare ed emozionale» (p. 38), e ciò, probabilmente, anche in ragione di una loro maggiore redditività dal punto di vista elettorale.

Nell’articolazione della provenienza delle politiche per lo sport, dunque, si riaffermava il complesso rapporto fra centro e periferia, e più specificamente fra il potere nazionale e quello regionale, in mezzo al quale si collocava, comunque, tutta l’attività del CONI, la cui connotazione sembrava ormai mutare verso un orientamento soprattutto regolativo dell’ambito agonistico. Per quel che riguarda gli ambiti educativo, formativo e anche associativo e partecipativo – trattandosi di oggetti di regolazione connessi al divertimento e al consumo del tempo libero, dunque a quello ‘dilettantistico’ della pratica sportiva – proprio le regioni venivano chiamate a svolgere una funzione importante. Tuttavia, per ogni tipo di attività che potesse avere ricadute dirette nell’alveo della pratica agonistica – compresa la progettazione e realizzazione di impianti sportivi – il ruolo centralistico del CONI, il cui parere rimaneva obbligatorio e vincolante per la realizzazione dell’impiantistica, risultava certamente assai importante, a cominciare dalla disponibilità di finanziamento a mezzo dell’Istituto del credito sportivo, del cui consiglio di amministrazione il CONI faceva parte. E ciò veniva riaffermato anche attraverso una sorta di divieto, per le regioni, di contribuire alla realizzazione di iniziative che fuoriuscissero dall’ambito del cosiddetto sport sociale, come per es. il finanziamento di progetti per la realizzazione di impianti sportivi per l’esercizio di attività agonistica di livello professionistico (Blando 2009).

Tale funzione di vigilanza del CONI sulla pratica sportiva, inoltre, si espliciterà in seguito a varie modifiche della normativa effettuate tra il 1999 e il 2004. Ciò che interessa in questa sede è quanto inerisce alla presenza nel territorio regionale di istituzioni e, soprattutto, di enti per la promozione sportiva, ai quali vengono accomunate le federazioni sportive, che costituiscono un indicatore della diffusione di una maggiore o minore cultura della pratica sportiva nelle regioni. Questi enti, infatti, per essere riconosciuti dal CONI – condizione essenziale per potere svolgere la loro funzione in ambito agonistico – devono essere capillarmente presenti nelle regioni mantenendo una serie di vincoli importanti (Blando 2009). Ciò che, in qualche modo, riporta anche la diffusione spontanea di pratica sportiva con finalità ‘quasi agonistica’ comunque sotto l’egida di un’istituzione che, per quanto federale, avocava alla sede centrale il controllo ultimo di tutta l’attività sportiva.

Gli anni successivi all’introduzione della riforma del titolo V della Costituzione evidenziano un ulteriore cambiamento di passo nel disegno e nella progettazione delle politiche per lo sport, e più in generale per il tempo libero, nelle regioni a partire da quanto già stabilito nel d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 112, che demandava alle regioni l’elaborazione dei programmi riguardanti la realizzazione di impianti sportivi, facendo però gravare sulle stesse e sugli enti locali tutti i relativi costi. In breve, veniva concessa la possibilità di realizzare impianti, ma con propri fondi, ciò che spiega, per buona parte, la diversa concentrazione di impianti nelle varie regioni italiane e soprattutto il diverso andamento nella realizzazione di ammodernamenti, con una maggiore presenza di questi nelle regioni settentrionali e una minore in quelle meridionali e nelle isole, come registrato, ormai dal 2011, dall’Osservatorio nazionale per l’impiantistica sportiva (cfr. CNEL 2005).

A ogni modo, dal 1999 le iniziative regionali per l’attività sportiva sono cresciute significativamente, anche in ragione di quel trasferimento dal centro alla periferia della governance che rovesciava il criterio di riparto delle materie di competenza legislativa regionale e statale, e ciò sia per le iniziative che riguardavano lo sport, sia per le iniziative più generalmente finalizzate alla infrastrutturazione per lo svago e il tempo libero. Sembrava dunque che ormai si fosse delineata definitivamente la volontà di ampliare la potestà legislativa delle regioni, inserendo anche lo sport tra le aree di competenza regionale in maniera definitiva. Essendo quello inerente allo sport un ambito oggetto di legislazione concorrente, proprio perciò ‘diveniva’ oggetto di potestà legislativa delle regioni.

Questa devoluzione sembra avere incentivato la promozione dell’idea di sport come servizio sociale e mezzo per lo sviluppo culturale e civile della comunità, piuttosto che quella solo legata all’aspetto agonistico (Blando 2009, p. 50). La produzione normativa delle diverse regioni dunque si caratterizza per la volontà di regolamentare in maniera comunque organica e completa l’attività sportiva (p. 58). Vengono inoltre inserite nella pianificazione regionale iniziative per la promozione dello sport fra anziani e soggetti diversamente abili (come nel caso del Veneto), o per la promozione, attraverso lo sport, dell’immagine della regione (come nel caso della Puglia), o inerenti alla tutela del talento atletico (è il caso della Sardegna), o per la diffusione delle attività sportive per fini di tutela della salute (è il caso della Toscana); ancora, si promuovono azioni per l’ampliamento degli interventi sui giovani (come nel caso dell’Emilia-Romagna), o si sollecitano iniziative legislative che consentano l’uso degli impianti sportivi, realizzati con esplicita finalità principale di tipo agonistico, anche a tutti i cittadini affiliati ad associazioni o società sportive (come nel caso della Liguria), o, infine, azioni finalizzate a tutelare le associazioni storiche (come nel caso del Piemonte ). A queste si aggiungono poi iniziative più legate alla specificità del territorio regionale e delle diverse tradizioni sportive presenti come quelle inerenti alla tutela degli sport di montagna (Trentino-Alto Adige).

In definitiva le regioni rimangono titolari della potestà concorrente sulla promozione delle attività sportive e sugli impianti, ma non hanno alcuna competenza pertinente all’ordinamento sportivo che rimane di competenza del CONI, nonostante il decentramento attuato con la riforma della l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3 (Blando 2009). Ciò si è tradotto soprattutto in una possibilità di programmazione delle attività sportive con finalità diverse da quelle esclusivamente agonistiche, anche se il confine fra le attività agonistiche e quelle non agonistiche si è ormai ridotto, giacché rilevanti e molteplici sono le interferenze fra le due aree.

Non poche risultano comunque le politiche presenti nella programmazione regionale attuale. Molte regioni si sono dotate, per es., di osservatori regionali sull’attività sportiva che hanno assunto varie denominazioni (lo ha fatto anche il CONI). E ciò anche in ragione di un più generale cambiamento che connota il consumo di sport nell’epoca contemporanea, praticato oggi certamente meno dentro le istituzioni che hanno garantito l’offerta sportiva dilettantistica e più in maniera ‘privata’, a partire cioè da un’idea di consumo del tempo libero inteso soprattutto come ‘tempo per la cura di sé’. La varietà regionale nell’articolazione dell’offerta è dunque più significativa che in passato proprio a causa della diversa rilevanza che una maggiore o minore dotazione di spazi dedicati e di strutture adeguate per l’accesso e la fruizione individuale di pratica sportiva determina per i cittadini.

Le differenze della domanda e dell’offerta nelle regioni italiane dal dopoguerra a oggi

Le differenze regionali nella dotazione di impiantistica sportiva costituiscono, insieme alla programmazione di politiche per lo sport, un indicatore importante anche del diverso ruolo che ha assunto la pratica sportiva nella costruzione di una specificità culturale regionale. È stato già evidenziato come il dualismo Nord-Sud abbia costituito, rispetto alla dotazione infrastrutturale, una costante dal dopoguerra a oggi. La spesa e gli investimenti da parte delle regioni meridionali sono aumentati rispetto al passato, così come la dotazione di impianti, ed è ormai rilevante il numero di organizzazioni sportive (nelle diverse tipologie di federazioni, associazioni o società sportive); il numero di praticanti è inoltre cresciuto, e tuttavia si evidenziano differenze regionali che risollevano la questione della diversa velocità con cui, in passato ma ancora oggi, gli stili di vita ‘moderni’ – fra cui la pratica sportiva intesa come attività per la cura e la salute, oltre che per il gusto della competizione – tendono a diffondersi in Italia. Un’osservazione più attenta di questi tre aspetti conferma quanto appena affermato.

L’impiantistica sportiva

Nonostante la presenza di un Osservatorio nazionale sull’impiantistica sportiva istituito dal Tavolo nazionale per la governance dello sport nel 2011 e il fatto che il primo intervento legislativo nazionale per favorire un riequilibrio nella dotazione di impianti fra le diverse aree regionali del Paese risalga al 1987 (per la realizzazione degli impianti per i Mondiali di calcio del 1990), è poco agevole computarne la dotazione presente in ogni regione, anche in considerazione del fatto che molti spazi precedentemente non adibiti ad attività di outdoor recreation come la pratica sportiva non vengono considerati tali, ma come tali poi fruiti. E ciò riguarda soprattutto quegli spazi che vengono comunque utilizzati per attività sportiva non organizzata, peraltro in aumento anche nel nostro Paese, come sottolineato dal CNEL (2005, p. 31). Il primo censimento italiano degli impianti risale al 1956 (ISTAT 1960a). In questa rilevazione si distingue già fra impianti monosportivi e polisportivi, a indicare la diversa composizione e, a monte, anche la diversa strategia che organizzava la progettazione dell’impiantistica nelle diverse regioni italiane.

fig. 1

Gli anni compresi fra il 1956 e il 1961 sono anni di investimento pubblico finalizzato al potenziamento dell’impiantistica sportiva. Ed evidenti, già da allora, sono le differenze regionali. Ancora una volta, sono le regioni del Nord ad avere già una dotazione più consistente di impianti nel 1956. Ma il dato più significativo è costituito dall’intensità della crescita che fra regioni del Nord e del Sud è decisamente differente sia fra il 1956 e il 1959, sia fra il 1959 e il 1961, con le prime che vedono crescere il numero di impianti da una volta e mezza a tre volte durante intero periodo, mentre quelle del Sud e delle Isole più o meno di una volta o al massimo di una volta e mezzo (fig. 1).

La differenza di crescita, indicativa sia di diverse strategie politiche nazionali, sia di differenti strategie politiche locali e regionali, sembrerebbe dunque fortemente associata all’intensità variabile con cui la spesa pubblica di quegli anni si concentra nelle diverse aree regionali, non essendo ancora avviato il processo di istituzionalizzazione amministrativa delle regioni.

Ma il dato è destinato a cambiare nel corso degli anni successivi. L’ultimo censimento disponibile inerente alla dotazione dell’impiantistica sportiva rimane il Rapporto del CNEL nel 2005. Ogni regione ha poi implementato in seguito una serie di iniziative volte a censire autonomamente l’intera dotazione distribuita fra i diversi comuni, ai quali, secondo la normativa nazionale, spetta comunque la gestione degli impianti. Le Marche, per es., hanno effettuato già un censimento che fra il 2007 e il 2012 ha coinvolto tutti i comuni. Altrettanto hanno fatto il Piemonte, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia, l’Emilia-Romagna e la Sardegna, e sono in corso altre ricognizioni nelle altre regioni. A ogni modo, nel 2003 gli «spazi di attività sportiva» risultavano essere 148.880 e di questi 14.590, ovvero il 9,8%, «non attivi». Per quanto si tratti di impianti, come già indicato, risalenti a periodi precedenti, un ulteriore incremento che ha coinvolto direttamente le regioni è quello compreso fra il 1997 e il 2002 (CNEL 2005, p. 51).

Nel 1996, dopo l’attuazione delle numerose iniziative per lo sport databili fra la fine degli anni Ottanta e Novanta, gli spazi complessivi erano 144.280, costituiti da campi di calcio, campi da tennis, palestre, campi di bocce, campi polivalenti all’aperto, piste e pedane per l’atletica leggera, piscine, campi di calcetto e altri spazi, come più recentemente i campi di golf, sia di proprietà pubblica, sia privata e gestiti sia da enti pubblici, sia da privati (p. 92). Il maggior numero, fra l’11% circa e il 17% del totale, si colloca in Lombardia. Ad avere una dotazione fra il 6 e l’11% circa del totale sono Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Lazio, mentre hanno una dotazione compresa fra il 3 e il 6% circa il Trentino-Alto Adige, la Liguria, la Toscana e la Campania. Restano in coda, con una dotazione compresa fra quasi l’1% e poco più del 3 % varie regioni, ma spicca il dato riguardante la Valle d’Aosta, unica regione del Nord con una percentuale simile a quella delle regioni meridionali (ed esattamente come quella dell’Umbria, del Molise e della Basilicata). La maggior parte degli impianti (mediamente intorno al 65%) risulta costruita prima del 1980; una percentuale che si aggira intorno al 29% per le regioni centrali e settentrionali, e al 35% per quelle meridionali e insulari, è stata costruita nel decennio 1981-1990, mentre i rimanenti, in misura percentuale assai simile, fra il 1991 e il 2003 (p. 88).

Tra il 1996 e il 2003 gli incrementi nella dotazione risultano però significativi. Il Piemonte e il Molise vedono aumentare la dotazione di circa il 5% del totale; Calabria, Puglia, Toscana, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Liguria fra il 3,8 e il 4,8%, mentre è compreso fra il 2,8 e il 3,8% l’incremento in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Basilicata. Più basso, ma per ragioni certamente differenti da una regione all’altra, l’incremento di Trentino-Alto Adige, Sicilia, Abruzzo, Umbria.

Tabella 1 Interventi complessivi
fig. 2

Per la realizzazione o per l’intervento di ristrutturazione le amministrazioni regionali si sono rivolte sia all’Istituto del credito sportivo, sia alla Cassa depositi e prestiti. Lombardia, Piemonte e Campania sono le regioni che hanno fatto maggiore ricorso a questi enti, ma mentre le prime due si sono rivolte più frequentemente all’ICS, la Campania ha più spesso fatto ricorso alla Cassa depositi e prestiti. Più in generale, l’intervento dell’ICS è stato maggiormente significativo nelle regioni del Nord, a seguire in quelle del Sud e infine in quelle del Centro. Fra le regioni del Nord si sono rivolte meno all’ICS solamente Veneto e il Trentino-Alto Adige e fra quelle del Centro, l’Umbria (tab. 1 e fig. 2).

Il dato regionale inerente al rapporto spazi per 100.000 abitanti, evidenzia comunque quell’elevato divario esistente fra regioni settentrionali e meridionali, con le prime collocate al di sopra della media nazionale e al contrario le seconde notevolmente al disotto (pp. 75 e segg.). Nel caso del Piemonte il dato appare ancora più elevato – ma intervengono anche eventi che hanno avuto un effetto di trascinamento, quali l’organizzazione delle olimpiadi invernali nel capoluogo di regione piemontese. Così come molto più elevato è l’indice in Trentino-Alto Adige e in Valle d’Aosta – due regioni turistiche che intorno agli sport invernali hanno saputo costruire un’offerta importante, insieme a buone politiche per lo sport – e in Liguria, dove offerta turistica e sportiva si sono coniugate molto bene dall’inizio degli anni Novanta in poi.

Associazioni, federazioni, società sportive

Il quadro della distribuzione regionale delle società sportive nella loro diversa connotazione giuridica evidenzia ancora una volta la notevole differenza esistente fra le regioni italiane e comunque la distanza ancora presente nei percorsi di sviluppo fra Nord e Sud del Paese. La maggiore o minore concentrazione di queste pratiche può in qualche modo essere considerata come un indicatore della maggiore o minore ‘sportività’ della regione, ma soprattutto della maggiore disposizione ad acquisire stili di vita in cui l’attività motoria rientra fra le pratiche del quotidiano. Il che, per quanto insieme ad altri fattori, viene solitamente associato al grado di sviluppo umano di una società.

La storia delle federazioni e del loro insediamento nelle diverse regioni può inoltre fornire informazioni importanti sulle modalità con cui una certa pratica sportiva si è diffusa istituzionalmente, nonché delineare una diversa tradizione sportiva della regione. E, d’altra parte, può essere utile per capire il modo in cui si sono declinate le politiche nazionali e regionali per lo sport nelle diverse regioni italiane, come in parte rilevato in generale per le società sportive italiane (Colasante 2003).

Buona parte delle società e federazioni sportive nasce in Italia fra la metà e la fine dell’Ottocento, per continuare a diffondersi nelle diverse regioni durante tutto il primo trentennio del Novecento. Ma la storia delle federazioni sportive sembra essere più una storia ‘comunale’ che regionale e dunque, ancora una volta, di non facile ricostruzione in una chiave di lettura territoriale più ampia rispetto a quella vincolata ai confini del ‘campanile’. I dati a nostra disposizione sulle società e federazioni sportive ci consentono di confrontare esclusivamente i dati dell’ultimo decennio riguardanti il numero di Federazioni sportive nazionali (FSN) e le Discipline sportive associate (DSA) presenti nelle regioni, il numero di operatori (dirigenti societari, tecnici, ufficiali di gara, dirigenti federali, altre figure, quali il personale medico e paramedico che comunque risulta associato) e il numero di tesserati, fra i quali sono presenti sia gli atleti professionisti, sia i praticanti non professionisti.

fig. 4

Le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate. Nel 2001 il maggiore numero di società sportive si è registrato in Lombardia e Veneto e a seguire nel Piemonte, in Emilia-Romagna, in Toscana, nel Lazio, in Campania, Puglia e Sicilia. Vi è poi un gruppo di regioni (Liguria, Valle D’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Marche, Umbria Abruzzo, Molise, Basilicata e Calabria) dove si aggregano fra lo 0,5 e il 4% circa del totale delle federazioni presenti nel territorio nazionale (fig. 4).

Figura 3 Numero di tesserati

Nel 2010 l’unica variazione significativa è costituita dall’ingresso del Lazio fra le regioni con una presenza di FSN e DSA compresa fra il 7,8 e l’11,4% circa (fig. 5). In breve, dal punto di vista dell’insediamento territoriale, il decennio sembrerebbe confermare una certa stabilità nella modalità di insediamento regionale, senza quella crescita associativa che ci si aspetterebbe in ragione dell’aumento dei praticanti avvenuto nell’ultimo ventennio, come vedremo in seguito. Le difficoltà economiche di gestione delle società sportive possono in parte essere imputate come la principale causa di questa stabilità che appare in contraddizione con la diffusa e certamente maggiore attenzione che ormai si destina all’attività sportiva.

Gli operatori. Se guardiamo al numero di operatori, tale difficoltà di gestione sembrerebbe evidenziarsi più chiaramente. Il confronto nei quozienti per 100.000 abitanti fra il 2001 e il 2010 ne evidenzia infatti il calo significativo in buona parte delle regioni italiane.

In quasi tutte le regioni si registrano dei cambiamenti, ma si alternano incrementi significativi in alcuni casi (Basilicata, Piemonte, Marche, Toscana e Abruzzo), e decrementi altrettanto significativi in molti altri (Sicilia, Sardegna, Lazio, Emilia-Romagna, Liguria, Umbria e Friuli Venezia Giulia). È dunque presumibile che il nuovo intreccio, delineatosi nel decennio, fra programmazione di politiche nazionali e programmazione di politiche regionali per lo sport abbia influito anche su aspetti gestionali importanti, non ultimi quelli inerenti agli assetti organizzativi delle federazioni non più in grado, probabilmente, di sopportare una presenza di operatori che vada oltre un certo numero di unità.

I tesserati. Anche nel numero dei tesserati si evidenziano alcuni cambiamenti significativi fra il 2001 e il 2010. Mentre nel 2001 a spiccare per numero di tesserati è la Valle d’Aosta, e sono le regioni del Sud fino al Lazio a registrare un indice più basso, nel 2010 i tesserati aumentano nel Lazio, in Veneto, in Sardegna e in Liguria. L’incremento però coinvolge anche le regioni meridionali, che passano da un range di 3000-4800 circa a un range di 4000-6500 circa iscritti per 100.000 abitanti (figg. 3 e 4). Ma l’incremento è certamente più significativo in altre regioni, ciò che va certamente messo in relazione alle possibilità che le diverse federazioni hanno di ‘coltivare’ atleti in ragione della dotazione impiantistica complessiva, certamente inferiore nelle regioni del Mezzogiorno.

L’evoluzione della pratica sportiva nel tempo libero dal 1959 al 2011

L’Italia del dopoguerra è un Paese in cui la pratica sportiva è poco diffusa. Il tempo libero a disposizione è ancora scarso e tra gli stili di vita urbani è poco presente la tendenza a investirlo nella cura del corpo attraverso l’attività sportiva, per quanto non manchi, anche nelle aree rurali, l’interesse per l’attività agonistica (Maffiuletti 2009).

Tabella 2 Persone
3

In alcune città, soprattutto del Settentrione (Venezia, Torino, Genova, Milano, Trieste), si sono comunque insediate, dalla fine del secolo precedente, le federazioni sportive. Un’indagine dell’ISTAT risalente al 1959 (ISTAT 1960a) che escludeva gli atleti professionisti, ci dice che solo il 2,6% della popolazione italiana praticava sport a quella data (p. 30) e di questi più del 90% era costituita da maschi. Il 33% degli sportivi di allora praticava però uno sport poco assimilabile a quelli che oggi consideriamo tali, cioè la caccia, e il 22% circa il calcio, lo sport già da tempo fra i più seguiti da una elevata quantità di appassionati, insieme al ciclismo, che però registra solo il 2,9% di praticanti dilettanti, e all’automobilismo. Il resto degli sport praticati era costituito da sport natatori, nautici e acquatici (18,7%) e invernali, che si attestano all’11% (tabb. 2 e 3).

Immediatamente riscontrabile dunque la differenza, già da allora assai marcata, fra regioni del Nord e del Sud. La prima per numero di praticanti sul totale è la Lombardia, seguita da Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, il cui numero di praticanti risulta però aggregato in un‘unica regione statistica, così come quello di Toscana, Umbria e Alto Lazio e di Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Veneto, aggregati con la denominazione Tre Venezie. Seguono poi l’Emilia-Romagna e le Marche, anch’esse aggregate per il conteggio, e infine le regioni meridionali e insulari. Indicativo il fatto che il rapporto con il numero di praticanti per 100 abitanti va dal 4,1% di Toscana, Umbria e Alto Lazio, al 3,8% di Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, e orientativamente al 3% nelle altre regioni settentrionali fino all’1% del Lazio meridionale e della Campania. Spicca inoltre il dato percentuale della Sardegna che, fra le regioni meridionali, ha una percentuale più elevata. L’alta percentuale nelle tre regioni centrosettentrionali è spiegabile con il fatto che si tratta di sportivi particolari, che praticano quell’attività sportiva sui generis di cui si diceva e che costituisce una tradizione regionale in molte parti d’Italia, cioè la caccia. Tant’è che costituisce la prima pratica sportiva in quasi tutte le regioni italiane.

Appare evidente, inoltre, come nel 1959 fossero soprattutto le regioni meridionali ad avere il maggior numero di praticanti l’atletica leggera e pesante e il calcio, mentre gli sport natatori, nautici e acquatici erano frequentati soprattutto nelle regioni settentrionali (al Sud spicca comunque la Sardegna). In breve, sembrerebbe che la pratica fosse già da allora ‘funzione’ dell’impiantistica a disposizione, ma anche del costo della pratica sportiva stessa. Il calcio, meno costoso e praticabile anche in spazi non destinati specificamente a questa attività, ma polifunzionali e più facilmente riadattabili anche con l’ausilio di qualche attrezzatura in quegli anni, non era solo una passione meridionale, ma anche uno sport con minori barriere in entrata per chi voleva praticarlo, fattore che ha certamente una sua rilevanza per i risidenti nelle regioni del Sud. Viceversa, il nuoto e gli sport acquatici, che necessitano di impiantistica e attrezzature, e sono spesso meno frequentati nelle aree rurali, risultano più praticati nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali, pur essendo queste molto spesso dotate di una maggiore ‘offerta naturale’, quali i chilometri di costa. Rimane però la caccia la pratica sportiva più diffusa nel tempo libero maschile in tutte le regioni italiane.

Anche qualora si inserisca la caccia fra le attività sportive, nel 1959 comunque si trattava ancora di uno sport per pochi, praticato soprattutto da maschi e all’aperto. Il trend comincerà a modificarsi molto lentamente dalla fine degli anni Settanta e poco più celermente dalla metà degli anni Ottanta in poi, quando la stagione del riflusso, il secondo boom economico italiano e l’ormai sedimentato stile della società affluente favoriranno la diffusione di un’idea di ‘sport sociale’ fra gli operatori e i decisori pubblici. A ciò si aggiungerà la diffusione di una cultura del corpo finalmente non associata solo all’idea di un suo uso sportivo finalizzato all’agonismo estremizzato, quanto piuttosto di autonomo compiacimento nella sua cura, insieme a un’idea di pratica che contribuisca a favorire un benessere psicofisico generale. Significativo per il cambiamento in corso sarà l’incremento della partecipazione femminile, fino ad allora tendenzialmente più basso (Sassatelli 2003), se non limitatamente a tipi di sport in qualche modo ghettizzati fra quelli ‘rosa’ (ginnastica artistica, pallavolo ecc.) e contrapposti ai più seguiti – per numero di praticanti e di spettatori – ‘sport celesti’.

L’elemento più significativo nella dinamica del cambiamento non è infatti soltanto l’aumento della partecipazione alle attività sportive in generale, quanto l’aumento della partecipazione femminile, ciò che marcherà, ancora una volta in maniera evidentissima, le differenze di velocità nello sviluppo umano fra regioni del Nord e del Sud.

Gli strascichi della contestazione giovanile del 1968, ancora all’inizio degli anni Ottanta, sembravano voler mantenere vivo il monito che aveva guidato i giovani di allora a seguire stili di vita spesso critici, se non contrari, alla pratica sportiva, alla quale si riconosceva soprattutto un tratto carico di aggressività tipico di una certa idea di agonismo. Questa stessa idea, inoltre, si riteneva rispecchiasse una concezione del rapporto con il proprio corpo che si poneva in contraddizione con la visione contestataria. Il dibattito al riguardo seguiva un andamento ondivago, ora lasciando prevalere critiche all’idea di pratica sportiva in quanto esageratamente legata a un culto militarizzato del corpo, associato a un’ideologia fascista, autoritaria in generale; ora privilegiando la lettura dello sport come volontà di riscatto (appropriazione e ‘autonomizzazione’ della gestione del corpo) tipica dei movimenti femministi; e, ancora, prendendo, rispetto alla ‘fisicità’, quella tradizionale distanza che avrebbe inevitabilmente connotato il tratto psicofisico dell’intellettuale rivoluzionario (come in genere nelle ideologie di sinistra: cfr. Rossi 1986), modello cui si rifacevano molti giovani in quegli anni. Insieme alla scarsa abitudine al movimento ‘istituzionalizzato’ di una pratica sportiva, a limitare la partecipazione allo sport nel tempo libero intervenivano dunque anche retaggi legati a un habitus tradizionale ancora presente in quegli anni. Le differenze di partecipazione che si evidenziavano tra regioni settentrionali e meridionali erano dunque le stesse che distinguevano regioni in cui l’urbanizzazione si era ormai sedimentata, ed era riconoscibile anche dall’organizzazione negli stili di vita, e regioni in cui una certa ‘ruralità’ costituiva il tratto socioeconomico e socioculturale più marcato.

fig. 5

Dai primi anni Ottanta si cominciano però a registrare i primi segni di cambiamento, anche se in questi anni le regioni più sportive, se guardiamo al numero di praticanti, rimangono ancora quelle settentrionali. È sempre la Lombardia a guidare la graduatoria, con una percentuale di praticanti compresa fra il 12,9% e il 17% circa sul totale dei praticanti in Italia. Seguono Lazio, Piemonte e Veneto, e con percentuali più basse Toscana, Emilia-Romagna, Campania e Sicilia (fig. 5).

File:L_Italia_e_le_sue_regioni_figura5percentualedipersone_fig_vol2_00320_005.jpgAnche rispetto al tipo di sport praticato si evidenziano differenze significative. Il numero più elevato di praticanti l’atletica leggera si colloca in Lombardia, Sicilia, Campania e Lazio (fra il 10 e il 13% circa); i praticanti il calcio si concentrano soprattutto in Lombardia e Lazio (fra il 10 e il 13%) e, a seguire, con una percentuale inferiore (fra 7 e il 10% circa), in Sicilia, Campania, Piemonte e Veneto; i praticanti di footing, podismo e jogging soprattutto in Lombardia e Veneto (fra il 13 e il 18% circa) e a seguire in Emilia-Romagna e in Piemonte (tra il 9 e il 13%); coloro che praticano attrezzistica si concentrano soprattutto in Lombardia ed Emilia-Romagna (fra il 13 e il 18%) e a seguire in Piemonte (fra il 9 e il 13%). Nuoto, pallanuoto e tuffi sono maggiormente praticati in Lombardia (una percentuale compresa fra il 17 e il 23%), con una differenza percentuale notevole rispetto alla regione che segue subito dopo, il Piemonte (fra l’11 e il 17%). Pallavolo, pallacanestro e pallamano ancora in Lombardia (fra il 12 e il 16% circa) e a seguire in Veneto, Emilia-Romagna, Lazio e Campania (fra l’8 e il 12 % circa). Infine, il tennis viene praticato soprattutto in Lazio e Lombardia (fra l’11 e il 17% circa) e a seguire in Campania, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte (fra il 6 e l’11% circa).

fig. 6

Il trend si modifica ulteriormente alla metà degli anni Ottanta. Risulta infatti complessivamente in crescita il numero di praticanti rispetto al triennio precedente, ma il numero maggiore di praticanti si concentra adesso in Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia-Romagna. Seguono, con percentuali fra di loro assai simili, le regioni del Nord-Ovest, Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria. Ancora, a seguire, le regioni del Centro (22% circa) e infine quelle meridionali. Ultima la Sicilia, con circa il 17% di partecipanti (fig. 6).

L’atletica leggera rimane uno sport più praticato nelle regioni del Mezzogiorno (soprattutto in Basilicata e in Sicilia, con una percentuale compresa fra il 10 e il 15%) così come il calcio in assoluto, che però resta di gran lunga lo sport più praticato, con un minimo compreso fra l’11 e il 19% nelle regioni del Settentrione e un massimo compreso fra il 26 e il 41% nelle regioni meridionali. Il cambiamento significativo riguarda ginnastica, attrezzistica e danza, che ora risultano presenti in tutte le regioni italiane, con percentuali più elevate in Calabria, Campania e Molise (tra il 21 e il 29% circa). Cominciano a crescere anche i praticanti del nuoto, della pallanuoto e dei tuffi, che raggiungono una percentuale compresa fra il 14 e il 20% in Lazio, Umbria, Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige. Anche jogging, footing e podismo vedono incrementare il numero di praticanti rimanendo però più diffusi nelle regioni settentrionali, con il picco di Liguria e Trentino-Alto Adige (fra l’8 e il 10% circa), e meno presenti nelle regioni meridionali. Il tennis vede crescere notevolmente in tutta Italia il numero di praticanti e, pur rimanendo una specificità delle regioni del Centro e del Nord-Ovest, comincia a diffondersi significativamente anche nelle regioni meridionali fra le quali spicca la Puglia, con percentuali di praticanti simili a quelle delle regioni del Centro-Nord.

I differenziali di crescita per tipo di sport praticato fra il 1982 e il 1987 evidenziano inoltre come, oltre all’aumento di praticanti, ci sia stato nelle regioni anche uno spostamento di interesse verso alcuni sport piuttosto che verso altri. In questo quinquennio l’atletica leggera ha incrementato complessivamente il numero di praticanti, soprattutto in Valle d’Aosta e a seguire in Emilia-Romagna, Toscana, Friuli Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige.

I praticanti calcio risultano in aumento, invece, soprattutto nel Mezzogiorno (Calabria, Basilicata e Abruzzo), ma a seguire anche in buona parte delle regioni italiane; meno significativamente, nello stesso periodo, nel Lazio, in Toscana, in Piemonte e in Veneto. Jogging e footing, ancora poco popolari negli anni Ottanta, crescono meno significativamente rispetto ad altri sport e in percentuale più alta in Toscana e Abruzzo. L’incidenza diventerà decisamente maggiore dalla fine degli anni Novanta in poi in tutte le regioni italiane. La ginnastica, nel quinquennio 1982-87, risulta crescere nel numero di praticanti soprattutto in Lombardia, in Veneto e nel Lazio, ma immediatamente a seguire, in tutte le regioni del Nord, a esclusione della Valle d’Aosta, e poco nelle regioni meridionali. Il nuoto acquista maggiore popolarità soprattutto al Nord e assai meno nelle regioni meridionali, verosimilmente in ragione delle possibilità di accesso a impianti, mentre è più omogenea la distribuzione dell’incremento di praticanti la pallamano, la pallacanestro e la pallavolo. Il tennis, invece, rimane in quegli anni uno sport praticato soprattutto nelle regioni settentrionali.

Figura 7 Percentuale di donne

Prescindendo dal tipo di sport, il dato più significativo rimane la differenza esistente fra le regioni settentrionali e meridionali se si prende in considerazione il genere dei praticanti. Per quanto gli anni Ottanta rappresentino una svolta significativa nella partecipazione femminile rispetto al triennio precedente, la distanza fra le regioni rimane però elevata (fig. 7).

Al minimo di differenza esistente fra maschi e femmine che praticano sport, presente nel Settentrione, si accompagna invece una massima differenza nelle regioni meridionali, dove la pratica sportiva sembrerebbe rimanere ancora quasi esclusivamente una modalità di consumo del tempo libero maschile piuttosto che femminile.

In breve, nel cambiamento avvenuto negli anni Ottanta si possono individuare alcuni tratti fondamentali: l’aumento del numero di partecipanti complessivo e, più specificamente (sebbene con differenze fra Nord e Sud ancora elevate), l’aumento della partecipazione femminile; la maggiore varietà nella domanda di sport e nell’offerta di tipi di strutture che consentono di praticare sport fra i più diversi; il costante divario nel numero di praticanti fra regioni del Sud e regioni del Nord d’Italia.

Gli anni Novanta vedono incrementare ancora il numero di partecipanti complessivo. E pur mantenendosi il divario Nord-Sud del Paese, sembrerebbe delinearsi una lenta ‘convergenza’, con incrementi significativi anche nelle regioni del Sud, effetto certamente più di una omologazione negli stili di vita urbani anche nelle città del Mezzogiorno – nelle quali gli stili di consumo del tempo libero tendono vieppiù a omogeneizzarsi a quelli già sedimentati nelle città settentrionali – che di una mutata cultura dello sport praticato e dello sport sociale. Il dato emergente segna un aumento del numero di uomini e donne che partecipa all’attività sportiva, che di anno in anno cresce costantemente. E questa volta il tasso di crescita complessivo è maggiore nelle regioni del Mezzogiorno piuttosto che in quelle del Settentrione.

Dal minimo del 13% circa della Sicilia nel 1997, si giunge infatti a un quasi 17% circa nel 2005. E più o meno simile appare la situazione nelle altre regioni meridionali, con le regioni del Nord-Est che vedono mediamente un praticante ogni quattro residenti; quelle del Nord-Ovest con uno ogni cinque e quelle del centro con poco meno di uno ogni cinque. Costante anche la crescita del numero di partecipanti in buona parte delle regioni nel 2011, così come il divario, tanto che le regioni del Sud appaiono in controtendenza giacché il numero di praticanti fra il 2005 e il 2011 diminuisce.

Tra il 1982 e il 2011 l’incremento di partecipanti è stato certamente significativo. Ciononostante, mentre in alcune regioni italiane la media dei praticanti è assimilabile a quella di altri Paesi europei, in altre si evidenzia una presenza di praticanti ben al di sotto della media europea. In queste regioni domanda e offerta di sport esprimono complessivamente valori più bassi, pur non mancando eccellenze sia nell’offerta di impianti e di servizi – oltre che tradizioni sportive locali significative espresse dal numero di FSN e di DSA – sia nella modalità in cui si è articolata la domanda, più concentrata su alcuni sport piuttosto che su altri nelle diverse regioni. Ne è prova il diverso differenziale di incremento complessivo avvenuto fra il 1982 e il 2011. A un incremento compreso fra il 9 e l’11% circa di Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia, a cui si affiancano, fra le regioni meridionali, Sardegna e Molise, si contrappone l’incremento percentuale minimo di praticanti di Sicilia e Campania e quello, di poco superiore, di Puglia e Calabria. Ciò va certamente messo in relazione sia al modo in cui si sono declinati gli stili di vita urbani nelle regioni meridionali, alla rilevanza cioè che lo sport ha assunto come ‘pratica sociale’ e come ambito di cura e attenzione per la salute – aspetti che si sviluppano in Italia a partire dalla rivoluzione dei consumi degli anni Novanta, con la nascita del ‘consumo critico’ e di qualità – sia alle politiche che le diverse regioni hanno potuto e/o voluto implementare in accordo, più o meno diretto, con le istituzioni centrali di governo.

Figura 8 Variazione percentuale

Queste sembrerebbero avere avuto un impatto maggiormente significativo in termini di capacità di mobilitazione e coinvolgimento – enucleabile dal maggior numero di praticanti e tesserati, oltre che di associazioni, federazioni e società sportive presenti – nel momento in cui si sono declinate come politiche per la tutela dello sport ‘sociale’, come area di investimento del tempo libero finalizzato al benessere psicofisico di una collettività intesa come ‘cittadinanza’, con la quale ‘co-costruire’ percorsi di tutela, manutenzione e fruizione dell’intera filiera dei servizi sportivi intesi come servizi per la salute. In definitiva, anche rispetto alla pratica sportiva si registrano differenze regionali significative sull’asse Nord-Sud (fig. 8), ricollegabili però alla diversa modalità in cui si sono articolate – dalla fase di programmazione a quella di implementazione – le politiche per lo sport nelle diverse regioni. Alcune regioni sembrano essere più sportive di altre (Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia-Romagna e in parte la Sardegna, la Toscana e il Lazio), nel senso che possiedono caratteristiche dell’offerta e della domanda di sport in generale più dinamiche. E in alcune di esse tale dinamismo è presente già nel periodo antecedente alla nascita del nuovo ordinamento regionale, come la Lombardia, il Piemonte, il Veneto e il Trentino-Alto Adige. La ‘sportività’ di queste regioni è anche riscontrabile attraverso la lettura dei dati che riguardano l’intera filiera, e dunque anche guardando al numero di associazioni, federazioni e società sportive presenti, alla dotazione impiantistica complessiva, al numero di praticanti rispetto al totale della popolazione presente, al numero di operatori e certamente, per quanto non trattato in questa sede, in base alla rilevanza economica e sociale che ha assunto tutto l’indotto e al numero di occupati del settore e dell’indotto stesso.

La deistituzionalizzazione della pratica sportiva, che si declina sia in una sua individualizzazione, sia in uno svincolarsi dai circuiti ufficiali quali l’iscrizione ad associazioni e federazioni sportive, assume oggi in Italia una connotazione ancora più particolare se si prendono in considerazione i ‘nuovi sport’ – soprattutto non agonistici, ma performativi e scenografici, fra i quali anche parte di quelli che vengono definiti sport estremi. La pratica di tali sport sembra diffondersi in tutte le regioni in cui la sedimentazione di quelli tradizionali è ormai avvenuta, ma anche in quelle dove è possibile praticarli per un più lungo periodo dell’anno. È il caso di molti sport estremi acquatici, montani e così via. I percorsi di pratica sportiva risultano in questi casi sempre più legati a una volontà di superamento di limiti o al raggiungimento di record, più che all’attività competitiva tipica di ogni forma di agonismo. Ma questo sembra essere un trend dello sport in genere, e di ciò che sta diventando nella sua forma non professionistica.

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Si ringraziano Marianna Siino e Marika La Greca, ricercatrici dell’Università di Palermo, e Roberto Foderà, funzionario dell’Ufficio ISTAT di Palermo, per il reperimento dei dati e la realizzazione delle mappe cartografiche.

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