AGGREGAZIONE, Stati di

Enciclopedia Italiana (1929)

AGGREGAZIONE, Stati di

Antonio Sellerio

AGGREGAZIONE, Stati di (fr. états d'agrégation; sp. estados de agregación; ted. Aggregatzustände; ingl. states of matter).

I. - Introduzione sintetica.

1. - Come si presentano i corpi. - L'esperienza quotidiana ci ha suggerito di distinguere i corpi, rispetto alla loro consistenza, in tre categorie. Un pezzo di zolfo, o di piombo, abbandonato a sé stesso, conserva inalterato il volume e la forma. Vediamo invece che l'acqua, l'alcool, ecc. assumono le svariate forme dei recipienti in cui sono contenuti, ossia non hanno una forma definita. Hanno bensì un volume definito, o, per essere più esatti, un volume specifico

definito: avendo chiamato v il volume dell'unità di massa e μ la densità. In virtù di questa proprietà, negli usi comuni, i liquidi si misurano travasandoli in campioni di volume, come il litro. Infine l'aria, l'anidride carbonica, ecc., introdotti in un recipiente, ne assumono non solo la forma ma anche il volume. Si suol dire pertanto che la materia si presenta in tre stati di aggregazione:

solido, quando ha forma propria e volume proprio;

liquido, quando non ha forma propria, ma ha volume proprio;

aeriforme o gassoso, quando non ha né forma propria, né volume proprio.

I liquidi e gli aeriformi vengono associati in un'unica denominazione: fluidi.

Questa classificazione è sufficiente - salvo casi rari - per la pratica, e perciò nella scienza si può mantenere, e si mantiene, per un primo orientamento; ma non regge a un esame approfondito, perché non è né completa, né univoca. Vi ritorneremo, nel n. 3, dopo aver data una scorsa ad alcuni fatti.

a) Deformabilità statica. - Consideriamo di nuovo il piombo, ma non in piccoli pezzi: immaginiamo di averne in grande quantità e di fabbricare un enorme fungo, alto alcune diecine di metri. Questo, abbandonato a sé stesso, a poco a poco, sotto l'azione del proprio peso, si deformerà; epperò, tenendo il criterio della deformabilità spontanea, il piombo appare solido o liquido, secondo che viene considerato in piccoli o in grandi pezzi.

Se vogliamo segnare distinzioni fra i corpi secondo la deformabilità, dobbiamo cercare una base più scientifica, mettendo in relazione le deformazioni con gli sforzi. Questo, in un ambito ristretto, forma argomento della teoria dell'elasticità. In essa, si chiama solido un corpo che oppone un'adeguata resistenza ad ogni azione che tenda a modificarne la forma, di modo che, cessata l'azione deformatrice, le reazioni destate tra le varie particelle le riconducono nelle primitive posizioni, e il corpo riprende la figura primitiva. Solido qui è sinonimo di elastico. Esempî: acciaio, gomma o caucciù. A fondamento della teoria dei fenomeni elastici, sta la legge enunciata nel 1678 da Robert Hooke ut tensio sic vis, traducibile: gli scostamenti sono proporzionali agli sforzi.

Questa legge vale anche per i liquidi, in quanto essi oppongono una grande resistenza alle forze di compressione che tendono a far diminuire il volume; tanto che la loro comprimibilità, che si può rivelare solo con appositi apparecchi come il piezometro (di cui la prima idea si attribuisce a F. Fontana, 1730-1805), viene spesso trascurata in idrodinamica

Si chiamano poi plastici o anelastici i corpi che oppongono una resistenza inadeguata alle azioni deformatrici; di modo che le subiscono, e al loro cessare restano permanentemente deformati. Esempî: la pasta con cui si fa il pane, la pece.

Si osservi però che la distinzione fra corpi elastici e anelastici è solo quantitativa. Da un canto, tutti i corpi, se gli sforzi a cui vengono assoggettati sono sufficientemente piccoli, cioè inferiori a un certo limite di elasticità, seguono la legge di Hooke. Infatti, la pasta da pane è capace di compiere delle piccole oscillazioni quando la madia venga scossa: indizio sicuro di elasticità. D'altro canto, un pezzo di ghiaccio sottoposto a forti pressioni si deforma al pari dei corpi pastosi. Tipica è la seguente esperienza di G. Tammann (1902): in un cilindro, munito di un pistone a tenuta imperfetta, si fa solidificare dell'acqua, la si porta a una diecina di gradi sotto lo zero, e si esercitano sul pistone delle pressioni molto forti (fino a 1300 kg/cmq). Il ghiaccio, in queste condizioni, scorre nell'intercapedine fra cilindro e pistone formando un tubo; per la spiegazione v. n. 2, a. Anche i metalli, sotto forti pressioni, possono scorrere (esperienze di Tresca).

b) Isotropia, anisotropia. - Cristalli. - Se mettiamo una sorgente sonora nell'aria o nell'acqua, ci accorgiamo che il suono si propaga egualmente in tutte le direzioni. Constatazioni analoghe possiamo fare riguardo ad altri fenomeni, e concludiamo che i fluidi ordinarî sono isotropi. Se invece prendiamo un cristallo di spato d'Islanda (CaCO3 cristallizzato nel sistema detto romboedrico o esagonale), riconosciamo, mediante opportune esperienze, che la luce viaggia, nelle diverse direzioni, con velocità differenti. E anche nel campo della meccanica (sfaldabilità) il cristallo si comporta differentemente nelle diverse direzioni. Esprimiamo questi fatti dicendo che i cristalli sono anisotropi. Quelli del 1° sistema (detto regolare o a simmetria cubica), quali il diamante e il salgemma, si comportano, dal punto di vista ottico, come l'acqua o il vetro, ma non si possono chiamare isotropi perché le proprietà meccaniche variano con la direzione e si presentano le solite discontinuità caratteristiche dei piani di sfaldabilità.

Le ricerche moderne hanno messo fuori dubbio che la materia nei cristalli è ordinata in un reticolo spaziale definito dai vertici di parallelepipedi eguali e adiacenti, che si ripetono ordinariamente. Ognuno degli atomi o gruppi di atomi - elettricamente carichi o no - che costituiscono il cristallo, occupa, nella posizione di equilibrio, un vertice del reticolo (es., n. 22, 23).

Queste idee erano state sostenute già da Bravais (1850), e con esse si spiegava la regolarità dei cristalli rispecchiata nelle leggi cristallografiche di Haüy (intorno al 1790); ma la conferma sperimentale e la formulazione esatta si è avuta solo da quando M. v. Laue (1912), pensando i cristalli come finissimi reticoli naturali, divinò che essi potessero dar luogo coi raggi X a figure di diffrazione, analogamente a quanto avviene in ottica per i reticoli artificiali. Il suo metodo, e quelli derivati (Bragg, Debye e Scherrer per le sostanze in polvere), hanno permesso di determinare in moltissimi casi la forma e le dimensioni del reticolo.

Così la materia si può trovare in completo ordine, come nei cristalli, oppure trovarsi in completo disordine come nel caso delle particelle di un gas (n. 9), che vagano incessantemente da un punto all'altro del recipiente in cui sono contenute, urtandolo e urtandosi scambievolmente. Non bisogna credere però che gli atomi o gruppi atomici siano fissi nei vertici del reticolo spaziale: essi vibrano incessantemente e i vertici rappresentano solo le posizioni medie. Abbassando la temperatura, le condizioni di movimento cambiano, e si è trovato recentemente che a temperature molto basse la materia tende ad assumere, e qualche volta assume addirittura, uno stato limite denominato solido ideale, a caratteri particolarmente semplici (n. 14).

Se si sperimenta su un pezzo di marmo o di zucchero o di metallo, si trova un comportamento isotropo; ma con l'aiuto del microscopio o dei raggi X, si riconosce che i corpi considerati sono cosiituiti da un agglomerato di microcristalli orientati in tutti i modi, cosicché grossolanamente non si avverte l'anisotropia. Secondo W. Voigt, queste sostanze vengono denominate quasi isotrope.

Infine alcuni corpi possiedono la facoltà di cristallizzare in sistemi differenti, corrispondenti a un diverso assetto reticolare. Tale fenomeno dicesi polimorfismo; o anche allotropia, quando si tratta di elementi. Es.: carbonato di calcio (sistema trimetrico: aragonite; sistema esagonale: spato d' Islanda), carbonio (sistema regolare: diamante; sistema esagonale: grafite), zolfo, ghiaccio, ecc.

c) Viscosità. Vetri. - I fluidi sono molto scorrevoli cioè oppongono una resistenza molto piccola alle forze tangenziali, le quali tendono a far scorrere o scivolare uno strato sull'altro; tanto che spesso vengono considerati come perfetti cioè privi di viscosità o attrito interno. Ma la mancanza di viscosità non può servire a caratterizzare i fluidi perché non è completa: da acqua, a pece, ad acciaio si va per gradi insensibili, e i metalli possono scorrere come liquidi, se vengono sottoposti a pressioni sufficientemente elevate. La viscosità dei liquidi cresce quando questi vengono raffreddati e accade che essa, pur mantenendosi funzione continua della temperatura, da un certo punto in poi cresca molto rapidamente. Così, con l'abbassarsi della temperatura, si può arrivare a un punto tale che la sostanza non sia più capace di scorrere, se non assoggettata a enormi sforzi; offre allora l'aspetto di un solido. Presentano questo fenomeno in modo più appariscente molti silicati che raffreddandosi dànno i vetri, corpi che comunemente vengono designati come solidi amorfi. Studiando termicamente il fenomeno (n. 2) alcuni fisici, fra cui G. Tammann, sono venuti alla conclusione che lo stato in cui si viene a trovare la materia nelle condizioni viste si debba considerare come un prolungamento dello stato liquido. Anche meccanicamente si ha prova di ciò: i fili di vetro, sollecitati a torsione per molto tempo, restano contorti quando cessa la sollecitazione. Questo indica che le molecole hanno la stessa possibilità di movimento dei liquidi ordinarî, ma a causa della eceessiva viscosità i movimenti sono lentissimi. La migliore conferma però si è avuta dall'analisi fatta coi raggi X: si è constatato infatti che, nelle condizioni considerate, la materia non ha reticolo spaziale.

d) Liquidi cristallini. - Da poco tempo si è trovato (Reinitzer 1888, Lehmann 1889) che alcune sostanze, pur avendo la consistenza e scorrevolezza dei liquidi, presentano spiccati caratteri di anisotropia, specialmente dal punto di vista ottico (birifrangenza). Impropriamente esse furono denominate cristalli liquidi; oggi si chiamano liquidi cristallini. Ovvero, secondo Friedel, si parla di stati mesomorfi, e se ne distinguono due: smettico (dal gr. σμῆγμα "sapone") quello più lontano, nematico (dal gr. νῆμα "fibra") quello più vicino allo stato liquido.

La natura dei liquidi cristallini è ancora oggetto di controversie. Secondo l'opinione più accreditata, si tratta di sostanze le cui molecole hanno presso a poco la forma di aghi, i quali potendo scorrere facilmente solo in una direzione, mantengono nel muoversi una orientazione comune. A sostegno di questa opinione si possono addurre i seguenti fatti: 1°. Solo i composti organici a catena molto lunga sono, secondo Vorländer, sostanze mesomorfe: es. oleato di ammonio CH3−(CH2)7−CH=CH−(CH2)7−CO2−NH4. 2°. Il comportamento ottico è quello dei cristalli birifrangenti che hanno un solo asse ottico e vengono perciò detti uniassici; l'asse ottico qui sarebbe l'asse dell'ago. 3°. Se si fa scorrere un liquido cristallino in un tubo molto sottile, con velocità sufficientemente bassa perché il moto sia laminare (regime di Poiseuille), si trova che l'attrito interno ha un valore eccezionalmente basso; se si accresce la velocità, in modo che il movimento diventi turbolento, l'attrito interno cresce assumendo i valori consueti.

Circa la differenza fra smettico e nematico, v. n. 2, e).

2. - Trasformazioni. - Escluderemo dal nostro studio i processi in cui avvengono reazioni chimiche; i corpi saranno sempre considerati allo stato puro (elementi chimici o composti), salvo qualche raro caso di cui si farà esplicita avvertenza.

a) Fusione e solidificazione. - Mettiamo su un fornellino un crogiolo contenente dei pezzi di piombo. La temperatura sale, ma arrivata a circa 334° C. si arresta, e il solido gradatamente si trasforma in liquido, cioè comincia la fusione, detta qualche volta brusca. Il calore, che intanto si continua a somministrare, viene impegnato nella trasformazione, e solo quando essa è completata la temperatura riprende a salire.

Il calore che abbiamo somministrato all'unità di massa della sostanza, in tutto il processo, si può distinguere in tre parti: quella occorrente per riscaldare il solido (il cui calore specifico c, è, in generale, funzione di t), dalla temperatura t1 di partenza alla temperatura di fusione, cioè

quella occorrente per trasformare, alla temperatura invariata ϑ, 1 grammo di solido in liquido, denominata calore diffusione r; quella per riscaldare il liquido (avente il calore specifico c′.) da ϑλ alla temperatura finale t2, ossia

Si ha perciò

Se poi togliamo dal fuoco il crogiolo, avverrà il processo inverso: quando la temperatura sarà scesa a 334° avrà luogo la solidificazione, e quando la sostanza sarà divenuta tutta solida, la temperatura riprenderà la discesa.

La costanza della temperatura unica di fusione e solidificazione è preziosa per il controllo dei termometri. È notorio che lo zero sulla scala Celsius si fissa e si controlla mediante il ghiaccio fondente.

Se la pressione p invece di essere quella atmosferica normale è diversa, ϑ varia, cosicché fra queste due grandezze ci sarà una dipendenza p = ϕ (ϑ); ϑ però ordinariamente varia pochissimo. Per es., per l'acqua, decresce al crescere della pressione; con un migliaio di atmosfere la solidificazione o la fusione avvengono a circa −8° C.

Per molto tempo si spiegò in questo modo la plasticità del ghiaccio ed il movimento dei ghiacciai (Helmholtz, 1865): dove la pressione è forte il ghiaccio fonde, l'acqua liberata scorre e va a solidificarsi nei meati ove trova pressione minore, saldandosi così al resto della massa (fenomeno del rigelo). Notiamo però che la plasticità può presentarsi - e si presenta nella esperienza di Tammann (n. 1, a) - prima che avvenga la fusione. Quando gli sforzi tangenziali superano un certo valore, avviene lungo un piano del reticolo cristallino uno scorrimento, o scivolamento, di un pezzo di cristallo contro il rimanente, analogo allo scivolamento di un pezzo di ferro contro una calamita; senza, per altro, che si produca il distacco, il quale richiede sforzi maggiori e distribuiti diversamente.

b) Discontinuità palesi o nascoste. - Quando un corpo è assoggettato a trasformazioni, può darsi che le sue proprietà variino con continuità, ma può avvenire anche il contrario. E in questo caso bisogna fare una distinzione: se la grandezza Y che si considera funzione di X subisce per X = A un brusco salto, diremo che si ha una discontinuità palese; se invece essa non subisce un salto, ma l'andamento varia, diremo che si ha una discontinuità nascosta.

A chiarimento, rechiamo le fig. 1 e 2, nelle quali Y è rappresentata in funzione di una delle possibili variabili indipendenti, ad es. tempo, temperatura, ecc. Nella fig.1, Y ha una discontinuità palese; nella fig. 2, Y ha una discontinuità nascosta, ma la sua derivata

ha una discontinuità palese.

Se siamo p. es. a - 20° C. e somministriamo uniformemente calore a un pezzo di ghiaccio, la densità, considerata in funzione della temperatura, ha una discontinuità palese, perché a 0° C. si forma acqua liquida che è più densa; considerata invece in funzione del tempo, può avere solo discontinuità nascoste. In ogni modo, si profitta delle discontinuità palesi o nascoste per determinare il punto di fusione, poiché il passaggio dallo stato cristallino (macroscopico) allo stato liquido o viceversa, implicando la distruzione o la formazione di un reticolo spaziale, è accompagnato sempre da discontinuità, almeno in qualcuna delle proprietà del corpo. Nel caso dei metalli si potrà profittare p. es. della discontinuità presentata dalla conduttività elettrica (che per lo più diminuisce con la fusione), o di quella - molto minore - presentata dal potere termoelettrico.

Una delle grandezze che c' interessano maggiormente è il contenuto termico J a pressione costante, detto semplicemente funzione termica o anche entalpia, definita come la quantità di calore necessaria per portare il corpo dalla condizione che si vuol considerare come iniziale a quella che si considera come finale, mantenendo invariata la pressione p che incombe su di esso. Fissato il valore della pressione, J è ovviamente una funzione crescente della temperatura e si può calcolare mediante la (1), se c, c′ sono i calori specifici alla pressione costante stabilita e t1 è la temperatura iniziale. Costruendo il diagramma che dà J in funzione della temperatura, si troverà nel punto di fusione una discontinuità del tipo della fig. 1. Il primo tratto corrisponde al termine

della (1) ed è rettilineo se c è costante, l'ultimo tratto corrisponde al riscaldamento

del liquido; il salto brusco corrisponde alla fusione, ed è eguale ad r. Se fosse, eccezionalmente, r = 0 mancherebbe la discontinuità palese, ma ne avremmo una nascosta (fig. 2) perché, essendo in generale c c′, le due tangenti in a sono distinte.

Per la determinazione pratica del punto di fusione, si suole leggere a intervalli la temperatura, a partire dallo stato solido, e rappresentarla in funzione del tempo. Se la quantità di calore assorbita dalla sostanza è proporzionale al tempo, il diagramma che collega tempo e temperatura coincide, salvo la scala, con quello che collega J e t ovvero Q e t; presenta perciò la discontinuità palese, cioè un arresto di temperatura. A causa delle dispersioni di calore, o di speciali esigenze sperimentali, qualche volta per determinare ϑ bisogna ricorrere a metodi indiretti.

c) Vaporizzazione e condensazione. - Se in una bacinella esposta all'aria libera lasciamo un po' d'acqua, questa dopo un tempo più o meno lungo sparisce, perché le particelle che si trovano alla superficie passano allo stato di vapore, e si spandono più o meno rapidamente nell'ambiente. Questo fenomeno dicesi evaporazione.

Se invece mettiamo la bacinella sul fuoco, vediamo che la temperatura sale, ma ad un certo punto il termometro segna un arresto, e contemporaneamente dall'interno del liquido si svolgono numerose bolle di vapore che si aprono quando, cacciate dalla spinta di Archimede, arrivano alla superficie. Questo fenomeno di vaporizzazione, che ha luogo in tutta la massa liquida, dicesi ebollizione e presenta una discontinuità perfettamente analoga alla fusione brusca; il calore che occorre per trasformare in vapore l'unità di massa del liquido, alla temperatura costante di ebollizione, dicesi calore di vaporizzazione e rappresenta un altro salto che subisce il contenuto termico J della sostanza. Anche qui, fra pressione e temperatura di vaporizzazione c'è una relazione che si può rappresentare allo stesso modo, p = ϕ(t). A differenza però di quanto avviene per la fusione, la temperatura di ebollizione varia molto con la pressione; e precisamente cresce con essa (n. 7). Di questo si profitta p. es. per determinare l'altezza delle montagne facendo bollire l'acqua in un apparecchio (Regnault, 1845) munito di termometro e denominato ipsometro: alla pressione di 760 mm. di mercurio che regna presso a poco al livello del mare, l'acqua bolle notoriamente alla temperatura di 100° C. (così si controlla il punto 100 della scala Celsius); sul monte Bianco (4807 m., pressione circa 420 mm. Hg), l'acqua bolle a circa 84° C.

Le leggi che regolano la trasformazione liquid0 → vapore sono più facili a determinarsi quando la vaporizzazione si fa avvenire nel vuoto. L'esperienza più comune consiste nel far perveriire delle goccioline di liquido nel vuoto torricelliano, che si ha sopra il mercurio, in una camera barometrica. La gocciolina, p. es. di etere, evapora e il mercurio scende: il suo abbassamento misura la pressione esercitata dal vapore. Mandando altro liquido, esso a un certo punto non vaporizza più, e si dice che il vapore è saturo. Sia p il valore raggiunto dalla pressione. Se si spinge in su il mercurio nella canna, p. es. sollevando il pozzetto, o usando altro artifizio in modo da diminuire il volume della camera torricelliana, la pressione p non cresce; al contrario di quanto siamo soliti di vedere con l'aria ed altri corpi gassosi. La diminuzione di volume ha qui l'effetto di costringere parte del vapore a condensarsi in liquido. Se poi si fa scendere il mercurio nella canna, in modo da aumentare il volume della camera barometrica, una parte del liquido evapora, e quando cessa la trasformazione, la tensione del vapore riprende il valore primitivo. Dunque, quando un liquido e un vapore sono in presenza e c'è equilibrio, cioè non avviene né vaporizzazione né condensazione, la pressione esercitata ha un valore p ben determinato, che dicesi tensione del vapore saturo. In queste esperienze c'è un sottinteso: quello di mantenere costante la temperatura. Se essa varia, p varia molto, e precisamente fra le due grandezze sussiste la stessa relazione p = ϕ(t) che regola l'ebollizione. Si trova infatti che un liquido bolle quando la tensione del suo vapore (saturo) eguaglia la pressione a cui il liquido è sottoposto. L'acqua nelle condizioni normali bolle a 100° C., appunto perché a questa temperatura la sua tensione di vapore è pari a 760 mm. di mercurio.

Quando il vapore ha una tensione Pv 〈 ϕ(t), esso dicesi non saturo: tale era, ad es.. appena si introdusse la prima piccolissima goccia nella camera barometrica ricordata sopra.

L'aria è più o neno umida e la sua pressione P, per la legge di Dalton, risulta da quelle che eserciterebbero separatamente l'aria secca e il vapore; chiamandole Pa e Pv, si ha P = Pa + Pv,. Quando è Pv = ϕ(t) = p, cioè quando il vapore raggiunge la massima tensione compatibile con la temperatura t, l'aria è satura di umidità e un apporto estraneo di vapore o un abbassamento di temperatura produce la condensazione; fenomeno che vediamo in grande nella pioggia. Ci spieghiamo ora facilmente come a tutte le temperature avvenga l'evaporazione superficiale dei liquidi. Supponiamo che sia t = 20° C. - nel qual caso la tensione del vapore saturo d'acqua è circa 18 mm. di mercurio - e che il vapore esistente nell'aria abbia una tensione di 10 mm. Lasciando l'acqua esposta all'aria, la superficie evapora perché c'è lo squilibrio di pressione 18 − 10 = 8, e siccome l'ambiente è aperto, i vapori vengono portati via o per la naturale difflusione degli aeriformi o per le correnti d'aria; lo squilibrio si ripristina continuamente e l'evaporazione prosegue. Essa ci riesce manifesta solo con certi liquidi, perché gli altri (olio, mercurio, ecc.) hanno alle temperature ordinarie una tensione di vapore saturo eccessivamente bassa.

d) Liquefazione, temperatura critica, gas e vapori. - Nel linguaggio comune gli aeriformi si sogliono chiamare vapori quando provengono da corpi che d'ordinario ci si presentano allo stato liquido o solido; esempî: vapor d'acqua, di zolfo ecc. Gli altri, come l'aria e l'ossigeno, si sogliono chiamare gas. Fra questi poi, fino a una sessantina di anni fa, si faceva un'altra distinzione: coercibili erano detti quei gas, come l'anidride carbonica (CO2), che si lasciavano facilmente liquefare, incoercibili o permanenti quelli, come l'ossigeno, l'idrogeno, ecc., che non si erano liquefatti malgrado l'enorme pressione di 3000 atmosfere impiegata (J. H. Natterer, 1844).

Dalle ricerche di Thomas Andrews (1869) è risultato, come vedremo meglio al n. 6, che queste distinzioni sono troppo soggettive: tutti gli aeriformi possono passare allo stato liquido purché la temperatura sia eguale o inferiore a un certo valore, che varia dall'una all'altra sostanza ed è chiamato temperatura critica.

In seguito a questa scoperta fondamentale, si è adottata la seguente distinzione:

gas si chiamano gli aeriformi che si trovano al di sopra della temperatura critica; essi non possono passare allo stato liquido, comunque si accresca la pressione (es. ossigeno alle temperature ordinarie);

vapori si chiamano gli aeriformi che si trovano alla temperatura critica, o al di sotto; comprimendoli opportunamente, se è necessario, passano allo stato liquido.

Il passaggio da vapore a gas, o viceversa, avviene senza discontinuità.

I gas, nelle esperienze di modesta precisione, mostrano un comportamento molto semplice (n. 5), che si può spiegare facilmente mediante la teoria cinetica (n. 9); ma aumentando la precisione si palesano - quando la rarefazione non è molto spinta - delle discrepanze che si spiegano teoricamente e di cui occorre qualche volta tener conto nelle applicazioni. Le discrepanze sono ancor più sentite nei vapori; pertanto si è trovato comodo distinguere gli aeriformi reali dai gas ideali o perfetti, i quali ultimi rappresentano a rigore un caso limite.

e) Sublimazione e altre trasformazioni dei solidi. - Alcuni solidi, come naftalina, canfora, iodio, ecc., quando vengono riscaldati all'aperto, si trasformano direttamente in vapore, senza passare prima per lo stato liquido; si dice allora che sublimano e si definisce il calore di sublimazione, in modo analogo a quanto è stato fatto per il calore di vaporizzazione.

Inversamente, quando i vapori delle sostanze suindicate vengono a contatto con una parete fredda, passano direttamente allo stato solido. Questi fenomeni si utilizzano nell'industria (fiori di zolfo, sublimato corrosivo HgCl2). La sublimazione, per altro, non avviene esclusivamente con le poche sostanze che la manifestano nelle condizioni ordinarie. Essa è regolata da leggi analoghe alla vaporizzazione, cioè è graduale (come l'evaporazione dei liquidi all'aperto), o intensa e quasi brusca (come l'ebollizione) secondo i valori della pressione ambiente e della temperatura; in condizioni opportune di pressione e temperatura, tutti i cristalli possono sublimare (n. 7).

Nella sublimazione avviene di colpo la rottura dei legami reticolari che definiscono il cristallo, cioè ogni particella che si svincola passa dalla massima schiavitù alla massima libertà (stato aeriforme). Nella fusione la rottura dei legami è meno progredita. Più graduale ancora si può pensare che sia nei casi in cui si presentano gli stati mesomorfi. Le diverse specie di legami non si rompono simultaneamente, e in un primo tempo si conserva una serie di piani reticolari paralleli; le molecole non possono saltare dall'uno all'altro ma sono libere di vagare in uno stesso piano mantenendo gli assi paralleli (si interpreta così lo stato smettico, n. 1 d). In un secondo tempo, se la sostanza riceve calore, si distruggono i piani reticolari e resta solo il parallelismo degli assi molecolari: si ha lo stato nematico. Infine si scioglie anche questo vincolo e si presenta lo stato liquido. Tutti questi passaggi sono discontinui.

Sono pure discontinue le trasformazioni allotropiche dei corpi.

Riscaldando lo zolfo ottaedrico (densità 2,07) alla pressione ordinaria, la temperatura allorché raggiunge il valore 95°,4 C. si arresta. Si inizia allora la trasformazione in zolfo prismatico (densità 1,96) con assorbimento di una determinata quantità di calore, che - riferita all'unità di massa - dicesi calore di trasformazione.

f) Fenomeni di ritardo. - Da quanto abbiamo visto in questo numero, risulta che in molte operazioni termo-meccaniche, appena certe grandezze raggiungono dati valori, il corpo subisce un cambiamento: orbene, accade alcune volte che quei valori limiti vengano oltrepassati, senza che il cambiamento abbia luogo. La sostanza si trova allora in una situazione precaria detta metastabile, che può durare a lungo, ma cessa quasi di colpo se si introducono certi agenti che agevolano il meccanismo della trasformazione, come i lubrificanti nelle macchine, senza però entrare nel bilancio energetico. I ritardi non hanno solo interesse teorico: si presentano certamente in natura in molti fenomeni meteorologici bruschi, e, su scala più piccola, in alcuni processi industriali.

Molto semplice è il provocare il ritardo alla ebollizione. In un palloncino di vetro, pulito con molta cura, si faccia bollire per lungo tempo l'acqua, in modo da scacciare tutta l'aria disciolta, o aderente - malgrado le precauzioni - alla parete per il potere che hanno i solidi di trattenere i gas alle loro superficie. L'ebollizione diviene sempre più difficile, finché a un certo punto cessa del tutto, e la temperatura sale ben oltre i 100° C. Il liquido si dice soprarriscaldato. Se, in un modo qualunque, vi si fa arrivare dell'aria - per il che basta spesso gettare nel palloncino un frammento solido qualunque - si vedono subito sprigionarsi grosse bolle, e la temperatura si abbassa riprendendo il valore che ha nell'ebollizione normale (spiegazione: n. 20).

Il ritardo alla condensazione si presenta quando nello spazio in cui sta il vapore non si trovano corpuscoli minutissimi, intorno a cui si possa formare la prima pellicola di liquido (n. 20). Da esperienze di Aitken (1888), C. T. R. Wilson (1897) ed altri, è risultato infatti che la condensazione di solito si inizia intorno al pulviscolo atmosferico; ed è questa la ragione per la quale dopo la pioggia l'aria, liberata dal pulviscolo che si è depositato a terra insieme con le gocce, appare limpida. Ove il pulviscolo manchi, il vapore può divenire soprassaturo; la sua tensione Pv, supera quella che ha il vapore saturo a pari temperatura Pv > ϕ(t), senza che avvenga la condensazione. L'esperienza si può mettere in una forma così semplice (Bruhat, Thermodynamique) da essere alla portata di tutti. In una boccetta di vetro, nel cui fondo si trovi un po' d'acqua, l'aria viene alternativamente compressa e rarefatta mediante una pera di gomma adattata al collo. Durante l'aspirazione, l'aria si raffredda e si intorbida perché il vapore si condensa intorno al pulviscolo e forma la nebbia, durante la compressione diviene più limpida perché si riscalda e le goccioline evaporano. Orbene, dopo un certo numero di prove, il fenomeno non si verifica più, perché il pulviscolo viene a mancare e la nebbia non si forma: il vapore nell'aspirazione rlmane soprassaturo.

Passiamo ora al ritardo alla solidificazione. È notissima un'esperienza di Fahrenheit: egli riempì d'acqua un pallone di vetro, lo chiuse bene e lo tenne a lungo - evitando ogni specie di scosse - esposto a temperature molto inferiori a 0° C. senza che si formasse il ghiaccio. Questo fenomeno dicesi sopraffusione. Se nel liquido sopraffuso si mettono germi, cioè cristallini della stessa sostanza o di una sostanza isomorfa, avviene bruscamente la solidificazione e la temperatura risale verso il valore normale ϑ. Volendo ripetere l'esperienza di Fahrenheit in un pallone aperto, conviene proteggere l'acqua con uno straterello di olio, giacché il contatto con l'aria favorisce la congelazione; il che si spiega supponendo che nel pulviscolo atmosferico esistano minutissimi cristallini isomorfi col ghiaccio.

Nella trasformazione dallo stato solido al liquido non si presentano ritardi.

La sopraffusione, in alcuni casi, può essere così spinta da simulare la solidificazione, perché la viscosità del liquido cresce enormemente, e si hanno i vetri (n.1, c). In tale processo, come pure nel suo inverso che è la fusione pastosa, facilissima a osservarsi nei tubi di vetro detto fusibile, non si presenta nessuna di quelle discontinuità che caratterizzano la solidificazione e fusione brusca ordinaria; questa è la ragione termica che suggerì di considerare i vetri come liquidi sopraffusi, prima ancora che si conoscessero i raggi X come mezzo di analisi. I liquidi sopraffusi, e in particolare i vetri, tendono - come tutti i corpi che sono in condizioni metastabili - a raggiungere l'assetto normale. Se si tiene alla fiamma l'estremità di un tubo di vetro, accade spesso di notare che essa perde la trasparenza e diviene bianca. Questo fenomeno dicesi deve rificazione: è dovuto al fatto che, col crescere della temperatura, diminuisce la viscosità e allora le particelle, divenute mobili, seguono lo stimolo di qualche germe cristallino esistente, e la sostanza si trasforma prontamente in un fragile agglomerato di cristalli orientati in tutti i modi. Riscaldando, si osserva ora non la fusione pastosa, solita del vetro, ma quella brusca con temperatura di fusione ben definita.

I germi cristallini si producono spontaneamente in seno alla massa del liquido sopraffuso. G. Tammann ha determinato, in molti casi, la velocità di autogenerazione, cioè il numero ν di germi che si formano nell'unità di tempo e di volume, in funzione del surraffreddamento τ = ϑ − t, essendo ϑ la temperatura di fusione o solidificazione normale. Da principio ν è piccolissimo. Col crescere di τ, da un canto cresce l'instabilità e quindi il numero dei germi, ma d'altro canto aumenta la viscosità, che impedisce l'ordinamento delle molecole in gruppi orientati, cosicché τ coll'aumentare di τ prima cresce e poi decresce, passando per un massimo (p. es. ν = 100 al minuto e al cmc. per un certo valore τg). La curva rappresentativa è molto stretta intorno a questo massimo, cioè ν ha valori molto bassi per poco che ci discostiamo da τg. Oltre a ν, ha importanza la velocità di cristallizzamione u la quale si può determinare (Gernez, 1882) surraffreddando il liquido contenuto in un tubo ad U molto stretto. Raggiunta la temperatura voluta, si innesta un cristallino ad una delle estremità del tubo e si osserva con quale velocità si avanza il limite visibile fra la parte liquida e quella solidificata. Anche u ha un massimo, per altro molto appiattito, il quale non coincide col massimo di ν; e precisamente si trova più a destra.

Guidato da queste constatazioni, Tammann è riuscito a ottenere moltissime sostanze nelle condizioni di un vetro, raffreddando il liquido rapidamente, in modo da oltrepassare il valore τg. Così facendo, quando il surraffreddamento è moderato (τ vicino a τg), si producono molti germi, ma non si dà loro il tempo di svilupparsi, essendo piccola la velocitá di cristallizzazione; quando poi il surraffreddamento è più avanzato, (τ molto superiore a τg), la velocità di cristallizzazione è grande, ma mancano i germi spontanei. Se inveee si ha interesse a costringere un liquido sopraffuso a cristallizzare, eonviene (Tammann, 1914) creare in esso un gradiente di temperatura, in modo che in qualche punto della massa capiti il valore tg = ϑ − 6τg; dai germi formati ivi in abbondanza la cristallizzazione si propagherà al resto della massa.

3. - Classificazioni razionali. - Da quanto abbiamo visto, risulta che il eampo di variabilità della materia è delimitato da due condizioni estreme che sono rappresentate dal solido ideale e dal gas ideale. Le condizioni intermedie sono svariate, cosicché se gli stati di aggregazione devono essere definiti da una maniera speciale di comportarsi della materia nelle sue varie manifestazioni, ne abbiamo non meno di 9 e cioè:

Abbiamo detto non meno di 9 stati, perché se la sostanza presenta il polimorfismo (n.1, b), le sue diverse forme cristalline differiscono per simmetria, reticolo spaziale, comportamento, e devono essere considerati come stati distinti.

La divisione indicata è molto minuta. Tammann va all'estremo opposto: considera due stati di aggregazione come distinti, solo quando non è possibile andare dall'uno all'altro senza incontrare qualche discontinuità. Secondo questo criterio, i liquidi e gli aeriformi formerebbero un unico stato, perché vedremo in seguito che, operando opportunamente, si può mutare un liquido in aeriforme in modo continuo. Invece la trasformazione di un cristallo in fluido, implicando il dissolvimento della struttura reticolare, avverrebbe sempre con discontinuità. Così avremmo:

diversi stati anisotropi (cristalli);

un solo stato fluido (vetri, liquidi, aeriformi).

Questa classificazione presenta qualche inconveniente: uno in relazione ai liquidi cristallini, i quali sembra che rappresentino un vero stato liquido anisotropo; ma la questione è sub iudice. Un altro trae origine dall'opinione di alcuni fisici, i quali ammettono l'esistenza di passaggi continui dallo stato cristallino a quello liquido (isotropo); le esperienze fatte finora e le ragioni addotte da Tammann sembrano però contrarie a questa ipotesi. Comunque sia, osserviamo che le classificazioni sono, fino ad un certo punto, arbitrarie. Affinché si possano chiamar razionali, occorre che siano fissati bene i concetti che ne formano la base. Nella trasformazione del ghiaccio in acqua non varia né temperatura né pressione, eppure bisogna spendere una energia misurata dal salto che subisce il contenuto termico JbJa = r; questa energia, che è rilevante (per 1 grammo occorrono circa 80 piccole calorie, pari a circa 34 kgm.), permette alle molecole di mutare il loro assetto o la loro aggregazione. Noi dunque riteniamo sia opportuno fondarsi soprattutto sulle discontinuità di J, cioè della funzione termica o contenuto termico a pressione costante (n. 2, b), le quali si manifestano nei bruschi arresti di temperatura (fusione, ebollizione, ecc.) e nei calori di trasformazione.

Precisamente stabiliamo:

1. Ogni stato di aggregazione corrisponde a una delle regioni in cui viene suddiviso il campo di variabilità di una sostanza, nei fenomeni termo-elastici (variabili: pressione, volume specifico, temperatura).

2. Nell'interno di una stessa regione non devono cadere discontinuità palesi (n. 2, b) del contenuto termico J.

In base a questi criterî, adottiamo tre o più stati di aggregazione, e cioè:

uno o più stati solidi (cristalli);

uno stato liquido (o eventualmente più);

uno stato aeriforme.

Questa classificazione ha, fra l'altro, il vantaggio di avvicinarsi a quella tradizionale (n.1) di solidi, liquidi, aeriformi, suggerita dall'esperienza comune e introdotta nelle nostre abitudini. Però la precisa e la completa nei seguenti punti:

1. Stato solido implica reticolo spaziale, dunque per una medesima sostanza ce ne possono essere diversi (polimorfismo).

2. I vetri sono liquidi sopraffusi (n. 1, c; n. 2, f).

3. Se si presenta il mesomorfismo (n. 1, d), abbiamo diversi stati liquidi.

Nei nn. 7, 8, le delimitazioni dei diversi stati appariranno più chiare sotto veste geometrica.

II. - Comportamento termo-elastico dei corpi puri.

4. - Richiami di termodinamica. - a) Robert Mayer stabilì nel 1842 che il calore è una forma di energia; questo principio di equivalenza ci autorizza a misurare calore, lavoro, energia nella stessa unità, con che le equazioni riescono più semplici e chiare.

Avvertiamo però che, in pratica, nelle misure termiche e meccaniche si adottano unità diverse, cosicché occorre spesso fare i passaggi, tenendo presente che

Il primo principio della termodinamica stabilisce che quando un corpo, o sistema di corpi, riceve dall'esterno una quantità di calore Q, questa serve a far variare una certa grandezza Σ che chiamasi energia totale del corpo (o sistema), e inoltre a far compiere allo stesso un lavoro esterno L. In simboli:

Σ è una funzione di stato, cioè una grandezza che si può esprimere in funzione delle variabili indipendenti che definiscono le condizioni del sistema in un dato istante, cosicché se si tratta di una trasformazione infinitesima l'elemento δΣ è niente altro che il differenziale d Σ della funzione Σ; il che non può dirsi invece per Q, L. Per una trasformazione infinitesima, si ha:

Il caso più semplice, sul quale fermeremo la nostra attenzione, è quello di un corpo nel quale non avvengano fenomeni elettrici, magnetici, ecc. o variazioni di forza viva visibili, e l'energia totale si riduca solo a quella parte che proviene dall'agitazione e dalle forze molecolari e che si chiama propriamente energia interna U; e inoltre che il corpo lavori solo vincendo la pressione esterna p a cui è soggetto, nel qual caso si vede facilmente che è:

Così il primo principio della termodinamica assume per una trasformazione finita la forma

e per una trasformazione infinitesima:

Il secondo principio della termodinamica, dovuto a Sadi Carnot (1824) e Rudolph J. E. Clausius (1854), ci dice che o Q diviso per la temperatura assoluta T è il differenziale esatto di una funzione S chiamata entropia, cioè

Ricordiamo che fra la temperatura assoluta T, definita rigorosamente in termodinamica, e quella centigrada passa approssimativamente la relazione

In omaggio a Lord Kelvin, che ideò la scala assoluta, le temperature assolute vengono indicate con K.

Da (4) e (5) segue

Le grandezze U e S, definite - come è facile riconoscere - ognuna a meno di una costante additiva arbitraria, sono, al pari di p, T, t e del volume specifico

(n. 1), funzioni di stato. (L'arbitrarietà della costante in certi casi si toglie, ricorrendo per la U alla teoria della relatività (Einstein); e per la S al principio di Nernst, detto talora terzo principio della termodinamica).

Ci sono altre grandezze molto importanti dello stesso tipo. Ponendo

riconosciamo che anche J è una funzione di stato e il suo differenzialc, per la (6), è dato da:

Se eseguiamo una trasformazione isobarica, cioè a pressione costante, si ha da (6) e (8)

la quale dice che il calore messo in gioco in queste trasformazioni è misurato dalle variazioni che subisce J. Vediamo perciò che la funzione J, definita da (7), è niente altro che il contenuto termico a pressione costante (n. 2, b).

Un'altra funzione di stato che ha per noi grande interesse è quella definita da

che chiameremo potenziale di Gibbs; giacché Willard Gibbs si servì molto di essa, o più precisamente di −G, nei suoi studî termodinamici (1876). Il differenziale ha, per (6), l'espressione

b) La termodinamica si applica sia all'equilibrio, sia alle trasformazioni, e in particolare ai cambiamenti di stato. Se il corpo si presenta in un solo stato di aggregazione, si dice che esso costituisce un sistema omogeneo; se è un miscuglio di diversi stati di aggregazione si dice che forma un sistema eterogeneo, e ognuno degli stati presenti forma una fase. Un miscuglio ad es. di ghiaccio e acqua liquida forma un sistema a due fasi. Il fumo bianco che esce da una pentola, o da una locomotiva, apparentemente forma una sola fase, ma non è così. Esso è un miscuglio di acqua allo stato aeriforme ed aria, che sono trasparenti, e di minutissime goccioline liquide che rendono il mezzo torbido e biancastro. Si hanno dunque due fasi: di speciale vi è solo la superficie di separazione fra le parti liquide (un enorme numero di sferette), e la parte aeriforme è molto frastagliata.

Sappiamo dall'esperienza che quando si ha un miscuglio di due fasi che sono tra loro in equilibrio o che si trasformano una nell'altra con sufficiente lentezza (trasformazioni reversibili), la temperatura del miscuglio dipende unicamente dalla pressione (n. 2). Si ha cioè un legame che scrivemmo nella forma

o anche, introducendo la temperatura assoluta

Si può venire alla stessa conclusione, anche senza ricorrere all'esperienza, ma per brevità tralasciamo la dimostrazione termodinamica.

Nei camhiamenti di stato, si suole mantenere costante la pressione (es. ebollizione alla pressione atmosferica, n. 2); per conseguenza (11), è anche costante la temperatura, e da (10) si ha d G = 0, G = costante. Se ne trae facilmente una conseguenza. Indicando con Ga il potenziale di una delle due fasi riferito all'unità di massa, con Gb quello dell'altra fase (ad es. a liquido, b vapore), si avrà alla stessa pressione e temperatura Ga = Gb, indi per la (10):

Essendoci riferiti all'unità di massa abbiamo denotati i volumi con v. Dalla definizione (5), indicando con ra,b il calore di trasformazione, (n. 2), si ha:

sostituendo nella precedente, si ricava la celebre equazione di Benoît Clapeyron (1834):

Ricordiamo che ra,b misura (n. 2, b) la discontinuità della funzione termica:

Questa discontinuità ha una duplice origine. Applicando la (3) al cambiamento di stato a pressione costante, si ha

che scriveremo

Una parte del calore ra,b serve, come si vede, per far compiere al corpo il lavoro esterno di espansione p (vbva) e risulta negativa se nel cambiamento di stato il corpo si contrae (es. ghiaccio → acqua); l'altra cioè parte, ρa,b, che viene chiamata calore interno di trasformazione, ha una ragione d'essere molto più profonda, giacché dipende dalle modificazioni che subisce l'assetto molecolare.

5. - Equazione di stato per 1 gas perfetti. - Fra le grandezze p, v, T, U, S, J, G che possono servire a fissare le condizioni in cui si trova la materia, le più direttamente accessibili all'esperienza sono le prime tre: p, v, T. Orbene l'esperienza - fatta qualche riserva per i solidi (n. 21) - insegna che la densità

varia con la pressione e con la temperatura; ossia che tra queste due variabili e il volume specifico v esiste una dipendenza, rappresentabile sinteticamente con

che dicesi equazione caratteristica, o equazione dello stato fisico.

Il più celebre esempio è quello dei gas perfetti: celebre sia perché díede impulso a tutta quella parte della termodinamica che riguarda il comportamento termometrico-elastico dei corpi, sia per la sua grande semplicità. Vediamo come si deduce dall'esperienza. Robert Boyle (1661) ed Edme Mariotte (1676) avevano trovato che, mantenendo costante la temperatura, il volume di un gas varia in ragione inversa della pressione; in altre parole, durante una trasformazione isotermica (ossia a temperatura costante), il prodotto p V resta costante. Questa legge si può rappresentare graficamente portando in ascissa il volume e in ordinata la pressione corrispondente. Detti p1 e V1 i valori iniziali di p e V, e A1 il punto di coordinate p1 e V1, l'equazione p V = cost. = p1 V1 rappresenta l'iperbole equilatera passante per Ai. In seguito, Alessandro Volta (1792) trovò che l'aria si dilata uniformemente, cioè che, mantenendo invariata la pressione, l'aumento di volume per ogni grado è lo stesso, e per conseguenza l'aumento totale è proporzionale alla variazione della temperatura; poco dopo (1802), Louis Joseph Gay Lussac aggiunse che tutti i gas si dilatano allo stesso modo. L'aumento totale, partendo da 0° ed arrivando a 100°, è circa 100/273 del volume primitivo, cosicché la legge di Volta e quella di Gay Lussac si possono compendiare dicendo che nelle trasformazioni isobariche il volume, per ogni grado di aumento di temperatura, cresce di 1/273 del volume che aveva il gas alla temperatura 0° del ghiaccio fondente. Facciamo ora due trasformazioni, p. es. quelle indicate nel seguente prospetto:

Applicando le leggi elementari riferite sopra, si ha:

ossia

la quale mostra che il prodotto della pressione per il volume è proporzionale alla temperatura assoluta. Il coefficiente di proporzionalità

oltre che dalle unità di misura, dipende, come V0, dalla quantità di materia, cioè dalla massa.

Il principio di Amedeo Avogadro, enunciato nel 1811 sotto forma d'ipotesi, ed assurto poi al valore di legge per le numerose conferme, stabilisce che a parità di pressione, volume e temperatura, tutti i gas contengono egual numero di molecole. Pertanto, se conveniamo di riferirci sempre a uno stesso numero N di molecole, il coefficiente di proporzionalità, sopra considerato, assume un valore unico per tutti i gas; e si potrà scrivere

dove R è una costante universale, Ã il volume occupato dalle N molecole.

Vediamo come si è scelto N. I numeri che in chimica si chiamano pesi molecolari, e che indicheremo genericamente con mol, rappresentano effettivamente pesi misurati in una certa unità: se dunque prendiamo masse in grammi, proporzionali, o addirittura eguali ai valori mol, avremo lo stesso numero di particelle. La massa mol di una sostanza dicesi grammomolecola: essa ha il valore 2 all'incirca per l'idrogeno (molecola biatomica H2), 32 per l'ossigeno O2, ecc. Il numero costante di particelle che contiene, e che ha il valare enorme

dicesi numero di Avogadro, o - raramente - di Loschmidt, dal nome del fisico che ne diede per primo una valutazione (1865). Il quoziente mol/N rappresenta la massa straordinariamente piccola di una molecola; quella dell'ossigeno ad es. è circa 5, 10-23 g. Il prodotto p V è, come si vede da (2), omogeneo ad una energia; in dipendenza dell'unità che si sceglie per essa, si ha

Il quoziente

dicesi costante di Boltzmann.

Essendo

la (15) si può scrivere

che è la forma più generale. Se poi si considera il volume specifico

posto

si ha

Una qualunque delle (14), che son tutte usate, costituisce l'equazione caratteristica F (p, v, T) = 0, dei gas detti ideali, o perfetti. Essa è suscettibile di una immediata interpretazione geometrica, giacché, portando su tre assi cartesiani ortogonali i valori delle tre variabili p, v, T, si ottiene una superficie di secondo grado, che viene detta superficie caratteristica del gas perfetto.

Sarebbe certo comodo se si potesse estendere quello che si è detto a tutti gli stati che un corpo può assumere; ma non si è trovata - e non può esistere - una funzione di forma semplice definita analiticamente, la quale abbracci tutto il campo di variabilità. Pertanto la F = 0 sta a indicare non questa o quella forma funzionale, ma l'insieme delle varie forme funzionali atte a rappresentare la dipendenza fra p, v, T in campi ristretti (p. es. una per lo stato aeriforme, una per i miscugli liquido + vapore, ecc.). Le corrispondentì porzioni di superficie, saldate fra loro, costituiscono la superficie caratteristica F (p, v, T) = 0, del corpo dato. Ne daremo nel n. 8 un saggio schematico (fig. 9).

Intanto osserviamo che nelle esperienze e nei grafici, riuscendo incomodo tenere tre variabili, si preferisce fissare il valore di una di esse e far variare le altre due. Si può allora ricorrere alla rappresentazione piana; ogni curva in cui si tiene costante qualche grandezza vien detta isolinea.

6. - Esperienze di Andrews. - Fissiamo l'attenzione sulle isoterme T = cost. di un fluido, che nel caso dei gas perfetti abbiamo visto essere iperboli equilatere p v = cost. come la curva A1 A della fig. 3.

Andrews (n. 2, d) ebbe la felice idea di determinare le isoterme dell'anidride carbonica, sostanza che si può osservare facilmente come aeriforme, come liquido, e come miscuglio. Si è poi riconosciuto, per merito di molti fisici - Ramsay, Cailletet, Amagat e, fra gli italiani, Angelo Battelli (intorno al 1900) - che i risultati trovati da Andrews per l'anidride carbonica valgono - salvo i valori numerici - per tutte le sostanze, cosicché basta limitarsi a una esposizione schematica generale (fig. 4).

Le temperature

delle diverse isoterme si susseguono in ordine crescente. A temperature sufficientemente basse, come T1, l'isoterma del fluido presenta tre segmenti distinti. Il primo, A1 B1 quasi rettilineo, si riferisce allo stato interamente liquido. Questo tratto è molto ripido perché i liquidi sono pochissimo compressibili (n.1, a), quindi a variazioni grandi di pressione corrispondono piccole variazioni di volume. Il coefficiente di comprimibilità (isotermo):

alla pressione ordinaria ha p. es. per l'acqua a 18° il valore 4,8.10-11; per il mercurio 0,39.10-11, ecc. In prima approssimazione, i tratti come Ai Bi si possono pensare rettilinei e paralleli all'asse delle p.

In Bi comincia la prima traccia di vapore: se si fa crescere il volume disponibile e si provvede a mantenere sempre costante la temperatura (mediante somministrazione di calore), si genera nuovo vapore finché in B1′ tutto il liquido è sparito. Sappiamo che, durante ogni passaggio di stato, quando la pressione resta costante, anche la temperatura resta costante (nn. 2, 4); appunto per questo il tratto B1 B1′ dell'isoterma è parallelo all'asse delle ascisse (p = cost.). In B1′, il vapore è ancora saturo (n. 2, c), ma se a partire da B1′ si accresce ancora il volume, essendo sparita l'ultima traccia di liquido, il vapore diviene non saturo; esso si comporta presso a poco come un gas e si ha un tratto B1C1 poco dissimile da un'iperbole. Manifestamente le ascisse O M1 di B1 e O M1′ di B1′ rappresentano il volume specifico del liquido e del vapore, alla temperatura T1 e alla pressione p1; il segmento B1 B1′ = M1 M1′, misura la differenza tra questi volumi specifici.

Passando a temperature superiori, si hanno da principio isoterme dello stesso tipo, p. es. A2 B2 B2C2 con un tratto B2 B2′ a pressione costante; ma arrivati a una certa temperatura Tk, che è quella critica (n. 2, d), cessa ogni distinzione fra liquido e vapore, i volumi specifici coincidono, e il tratto a pressione costante si riduce al punto critico K.

È molto significativa un'esperienza di Natterer (già citato, n. 2, d). Se si prende la massa 1 di un liquido, si chiude in un tubo di vetro avente esattamente il volume vk = O V (fig. 4) e si riscalda - si segue cioè la linea isometrica Vk K - alla superficie di separazione fra liquido e vapore si vede il solito menisco. Arrivati però in vicinanza di K, il menisco, che sta presso a poco nel mezzo del tubo, si distingue male e in K sparisce del tutto: liquido e vapore coincidono.

Continuando l'ispezione della fig. 4, notiamo che l'isoterma critica A K C ha in K un flesso con tangente parallela all'asse dei volumi.

A temperatura T > Tk le isoterme si presentano come rami di iperbole più o meno deformate, es. A3 C3; gli scostamenti dalla forma dell'iperbole p v = cost. sono tanto meno sentiti, quanto più alta è la temperatura.

I punti B1 B2 K B2 B1′ determinano una linea che dicesi curva dî saturazione. Essa, e l'isoterma critica A K C, dividono il piano p, v in 4 regioni. In (1) esiste il solo stato liquido, in (2) miscuglio liquido + vapore saturo, in (3) vapore non saturo, in (4) gas.

Le esperienze di Andrews gettarono uno sprazzo di luce in ua campo molto vasto della termologia. Si capì quel che bisognava fare per liquefare gli aeriformi ancora ribelli, detti allora gas permanenti, incoercibili. Se si segnano due punti, uno nella regione gassosa (4) e uno nella regione (1)-(2) dove esiste il liquido, e si congiungono con un tratto qualsiasi, si vede che questo tratto necessariamente attraversa l'isoterma critica. Questo significa che un gas non può essere liquefatto, se non si provvede ad abbassare la temperatura al disotto del valore Tk, relativo al gas che si considera. Si spiegano così gli insuccessi di coloro che avevano tentato di liquefare i gas preoccupandosi solo di aumentare la pressione.

Dalla fig. 4 si ricava un'altra conseguenza importante. Nei cambiamenti ordinarî liquido ⇄ vapore si entra nella regione di saturazione circoscritta dalla curva B1 B2 K B2, B1′ e si incontrano (n. 2) discontinuità palesi: es., trasformazione L G a pressione costante. Ma i diagrammi di Andrews mostrano che si può andare dallo stato liquido - punto L - a quello gassoso - punto G - contornando la regione di saturazione, senza penetrarvi; es.: linea L A1 D G composta di una compressione isoterma L A1, di una espansione isobarica A1 D e di un raffreddamento isometrico D G; così si evita la discontinuità. Si sintetizza questo risultato, dicendo che vi è continuità fra stato liquido e stato aeriforme (James Thomson, 1871); si può incontrare una discontinuità, come avviene ordinariamente, o no, secondo le modalità con cui si opera il passaggio.

7. - Il piano p, T e il piano v, T. - a) Se il corpo si trova tutto in una sola fase, per es. è liquido, il modo più semplice per accertare la dipendenza fra pressione e temperatura è quello di fissare volta per volta il volume e determinare il coefficiente di tensione riferito a una condizione iniziale (p′, T′) e definito da

Se è β′ = cost., come accade, approssimativamente, in un ambito largo per i liquidi e i solidi, si ha manifestamente

da cui

Le trasformazioni isometriche, v = cost., in questo caso sono rappresentate nel piano p, T da rette.

Analogamente, per stabilire la dipendenza tra volume e temperatura conviene studiare la dilatazione a pressione costante, determinando il valore del coefficiente di dilatazione

se esso è costante si avrà:

L'espressione [i + a′ (t - t′)] dicesi binomio di dilatazione.

Nei gas perfetti abbiamo evidentemente a′ = β′ e il valore comune è 1/273, se la temperatura di riferimento è quella del ghiaccio fondente; secondo la (14), le linee isometriche (v = cost., p proporzionale a T) nel piano p, T sono rette uscenti dall'origine (fig. 4 sinistra); lo stesso dicasi delle linee isobariche (p = cost.) nel piano v, T.

Notiamo che fra α′, β′ ed il coefficiente χ definito da (18), sussiste una relazione. Si può mostrare facilmente che l'esistenza di una equazione caratteristica F (p, v, T) = 0 porta alla conseguenza:

Introducendo le (18), (19), (21) in questa, si ha:

che si può scrivere, più semplicemente

o, usando in luogo di α′, β′ i coefficienti che alcuni autori chiamano termodinamici,

ovvero lavorando in vicinanza del punto di partenza (v v′, p p′).

Riferiamoci alle condizioni normali (temp. 0° C., pressione ordinaria ≅ 106 dine/cmq.) e teniamo presenti i gas perfetti, α = β =

per confrontarli con i liquidi molto lontani dalla temperatura critica. In questi, α è minore, poniamo 20 volte, ma χ è molto minore, poniamo 40000 volte; quindi (24), tanto β quanto

saranno maggiori circa 2000 volte. Nella fig. 4 sinistra, dal punto b1, oltre all'isometrica del vapore, esce l'isometrica del liquido; poiché il

di questo è molto grande, l'isometrica appare quasi una retta parallela all'asse delle p. Nel punto b2 invece, che è più vicino alla temperatura critica, le due isometriche sono meno discoste, e si fondono poi in K.

Es.: mercurio alla pressione ordinaria a = 1,80 • 10-4, e sappiamo (n. 6) χ = 0,39 • 10-11, onde:

Questo significa che se si costringe il mercurio a mantenere invariato il proprio volume, per ogni grado di aumento di temperatura si ha un aumento di pressione di 46 • 106 dine/cmq. pari a poco più di 45 atmosfere. Ciò dà un'idea degli enormi sforzi di origine termica nei liquidi. Lo stesso dicasi per i solidi (n. 21).

Qualche sostanza ha un comportamento irregolare, ed è notorio quello dell'acqua, la quale presenta un massimo di densità μ, ossia un minimo di volume specifico

a circa 4° C. In questo punto è evidentemente

ossia α = 0, e per (24) anche β = o. Prima di 4°, i valori α, β sono negativi, dopo di 4° sono positivi.

b) Se poi abbiamo un miscuglio di due fasi b, c nel piano (p, S) interessa trovare la relazione (11), ovvero (11′):

indipendente dal volume, la quale regola l'equilibrio. In forma differenziale essa è data dall'equazione (12) di Clapeyron. Per integrarla, occorrerebbe conoscere come variano rbc, vb, vc in funzione di T. Nel caso in cui la fase c sia aeriforme, si può trovare la (11′) in forma approssimata, trascurando il volume specifico vb della fase densa, supponendo r costante, e infine calcolando il volume specifico vc, del vapore come se si trattasse di un gas perfetto, ponendo cioè per la (14″)

Sostituendo e integrando fra limiti T1, T:

formula dovuta a van der Waals (1880) e applicabile alla sublimazione (fig. 5), e con minore approssimazione alla vaporizzazione o condensazione.

Il prodotto

rappresenta il calore di trasformazione riferito alla grammomolecola.

Per avere nel caso liquido ⇄ vapore un'idea sull'entità delle semplificazioni adottate, si osservi la fig. 4 nella quale si vede che il volume specifico vb del liquido non è più trascurabile di fronte a quello del vapore quando siamo vicini alla temperatura Tk; e inoltre si tenga presente che il calore di vaporizzazione r, il quale si annulla nel punto K, ove non c'è più distinzione fra liquido e vapore, a temperature molto più basse è considerevole e poco variabile. Per es. per l'acqua, (pk = 207 kg./cmq., tk = 365, Tk = 638), a temperature vicine ai 100° C., si ha, secondo una nota formula di Henri Regnault (1810-1878),

La (25) si può dunque accettare solo quando siamo molto lontani dalla temperatura critica Tk. In vista della importanza pratica che ha la determinazione della funzione p = Φ(T), sono state proposte molte altre formule. Spesso si ricorre alla rappresentazione grafica. Nella fig. 5 e nella fig. 4 sinistra è raffigurato l'andamento generico della curva, la quale termina al punto critico.

Finora abbiamo avuto

il che significava che la tensione del vapore saturo cresce con la temperatura; e cresce rapidamente. Se passiamo invece all'equilibrio solido ⇄ liquido, possono presentarsi diversi casi. Se nella fusione avviene aumento di volume, com'è d'ordinario, si ha vb > va e dall'equaz. (12) di Clapeyron segue

(fig. 5 al di sotto di M), come nella vaporizzazione. Se invece il liquido ha volume specifico maggiore del solido (circostanza che si presenta in pochi casi come ghiaccio, bismuto, ghisa), si ha

cioè la temperatura di fusione o solidificazione si abbassa al crescere della pressione. Si tratta ordinariamente però di piccole variazioni (n. 2, a), cosicché per un buon tratto la curva di fusione o di solidificazione non differisce molto da una retta parallela all'asse delle p, (fig. 5). Si pone allora la domanda: può presentarsi il caso va = vb? Nell'equilibrio liquido ⇄ vapore ciò si verificava nel punto critico. La ragione fisica dell'esistenza di questo punto è la mancanza di reticolo spaziale tanto nel liquido quanto nell'aeriforme: fra questi due stati isotropi non c'è differenza sostanziale, e appena si producano condizioni tali che i volumi specifici e le temperature dei due stati di aggregazione coincidano, la coincidenza deve essere perfetta anche nel resto. Infatti nel punto K vediamo r = 0. Nell'equilibrio cristallo ⇄ liquido, secondo G. Tammann, la coincidenza perfetta fra la fase che ha il reticolo e la fase che ne è priva non si può avere; e non si può presentare un punto critico. Potrà avvenire vbva = o, ma allora sarà r ≠ 0 e secondo la (12) si avrà

cioè la temperatura di fusione e solidificazione presenterà un massimo (M, fig. 5); potrà viceversa avvenire r = 0, ma se si presenta questo caso si avrà vbva ≠ 0, e secondo la (12) sarà

cioè si troverà un massimo di p (punto N, fig. 5).

Queste considerazioni sono state in parte già confermate dall'esperienza, poichè in qualche caso, adoperando delle pressioni di migliaia di kg/cmq, si è riusciti a trovare il massimo M (E. A. Block, 1913, col sale di Glauber); la parte punteggiata dalla curva di fusione rappresenta l'andamento supposto da Tammann in base alle considerazioni sopra accennate. Il tratto vicino ad N non è stato osservato finora.

c) Osserviamo la fig. 5. Lungo la curva di sublimazione c'è coesistenza di solido e aeriforme, lungo la curva di ebollizione coesistenza di liquido e aeriforme, lungo la curva di fusione coesistenza di solido e liquido. Nel punto d'incontro, A, possono stare in equilibrio tutte tre le fasi; per questa ragione A dicesi punto triplo. Tre fasi possono dunque essere in equilibrio in una condizione ben determinata di pressione e temperatura, quindi anche di volume (equilibrio invariante di Gibbs).

Le coordinate del punto triplo per l'acqua sono t = 0°,007, p = 4,6 mm. Hg, cosicché a poca distanza dalla temperatura di fusione ordinaria (t = 0°; p = 760 mm. Hg) possiamo avere insieme ghiaccio, acqua, vapore.

Denotiamo rispettivamente con a, b, c, le tre fasi solida, liquida, aeriforme. Dall'equazione (12) di Clapeyron segue che i tre coefficienti angolari

nel punto triplo A sono all'incirca proporzionali a

e poiché in A è evidentemente rac = rab + rbc > rbc e la differenza vbva è piccola, ne segue che la curva più inclinata nell'asse T deve esser quella di fusione, meno inclinata quella di sublimazione, meno ancora quella di ebollizione; appunto come nella fig. 5.

Le linee segnate delineano nettamente i tre stati solido, liquido, aeriforme, secondo la classificazione da noi adottata (n. 3). Esse sono linee di discontinuità per la funzione termica J, salvo la retta K K′, che è l'isoterma critica.

Nella fig. 6 la retta tratteggiata rappresenta la pressione dell'aria nell'ambiente. A temperatura molto bassa le due sostanze I, II si trovano allo stato solido. Riscaldandole all'aria, emettono vapori in piccola quantità, come i liquidi che evaporano all'aperto (n. 2, c); arrivando in X, la sostanza I sublima senza subire la fusione, e la temperatura si arresta finché dura il cambiamento di stato; la II invece fonde in Y (primo arresto di temperatura), e bolle poi in Z (secondo arresto di temperatura). Volendo ottenere la fusione e l'ebollizione di I bisogna accrescere la pressione ambiente e la temperatura; volendo far sublimare II, bisogna diminuirla.

d) Dal punto di vista termodinamico, lo studio delle curve di equilibrio si fa ricorrendo al potenziale G (n. 4, a). Abbiamo detto che G è una funzione di stato; essa si deve poter esprimere mediante due variabilì indipendenti, p. es. p, T. Indicando con f, g, h tre simboli funzionali, avremo per le tre fasi:

e quindi in coordinate p, T, G, tre superficie. Sappiamo (n. 4, b) che quando due fasi sono in equilibrio i valori G coincidono; epperò nell'equilibrio fra le fasi a, b, sarà: f (p, T) = g (p, T); cioè le superficie Ga, Gb si taglieranno. La linea d'intersezione, proiettata nel piano p, T, rappresenta, in questo piano, l'equilibrio fra le due fasi a, b. Analogamente si ottengono le altre due curve d'equilibrio. Se le tre superficie Ga, Gb, Gc hanno un punto in comune, si ha il punto triplo A che è la sua proiezione.

In un punto qualunque del piano p, T, il quale non cada su una curva di equilibrio, esiste, di regola, un unico stato di aggregazione, quindi un unico valore G; ne segue che le superficie Ga, Gb, Gc, nell'incontrarsi, di regola, non si oltrepassano. Fanno eccezione i casi di metastabilità (n. 2, f). Nella fig. 5 la curva di ebollizione, che corrisponde all'intersezione Gb, = Gc, oltrepassa il punto A, invadendo la regione che dovrebhe essere riselvata al solido; manca così la solidificazione, ossia il liquido è sopraffuso. Tenendo presente la regola termodinamica che di due fasi è più stabile quella che ha una potenziale G minore, si deduce che nel tratto A D si avrà Ga Gb, e si arriva alla conclusione che la superficie G del corpo ha una piega in corrispondenza di A K ed una tasca in corrispondenza della regione a; cioè, si sdoppia lungo O A M N in due falde di cui la più bassa - più vicina al piano p, T - è relativa allo stato solido.

Abbiamo accennato, nel n.1, b e nel n. 2, e, al polimorfismo: in questo caso la superficie G diviene molto più complicata, perché si hanno diversi stati solidi (cristalli) e diverse curve di equilibrio, le quali si possono incontrare a tre a tre formando diversi punti tripli, come si vede nella fig. 7 relativa allo zolfo. L'ordinata qui misura non p, ma log p; si suol fare così per rendere chiara la figura, malgrado le grandi variazioni di p. Se m è il numero totale delle fasi in cui il corpo si presenta, il numero massimo di punti tripli è dato ovviamente dalle combinazioni di m oggetti a tre a tre, ossia è

È molto interessante la questione - ancora oscura - dei punti tripli del carbonio, specialmente perché è connessa con la liquefazione del carbonio e la produzione artificiale del diamante per via termica; argomento di cui si sono occupati molti fisici fra cui Despretz (1849), Henri Moissan, O. Lummer, Ryschkewitsch, H. Alterthum (1925), ecc. e in Italia Michele La Rosa (1909-1911).

Tornando al caso semplice di tre soli stati di aggregazione, si presenta la domanda: qualunque sostanza ha un punto triplo? Ciò equivale a chiedere se le tre superficie Ga, Gb, Gc si taglino in un punto. A priori si può dire: nell'ipotesi che due curve di equilibrio s'incontrino in un punto A, anche la terza passerà per quel punto. Non è detto però che l'ipotesi debba verificarsi, e pare che effettivamente in qualche caso non si verifichi, cosicché mancherebbe il punto triplo. Intendiamo alludere alla solidificazione dell'elio, ottenuta nel 1926 da W. H. Keesom nel laboratorio criogenico di Leida, comprimendo l'elio liquefatto. Kamerling Onnes, a cui si deve la solidificazione di molti gas e la liquefazione dell'elio (1908), aveva già cercato nel 1921 di solidificare quest'ultimo, abbassando la pressione e la temperatura; nel caso della fig. 5, sarebbe entrato nella regione solida (a), traversando il confine lungo la curva di sublimazione O A. Il suo insuccesso e il successo di Keesom si spiegano, secondo la fig. 8 dedotta dalle esperienze di Keesom. La curva di fusione e quella di ebollizione non tendono a incontrarsi - a giudicare dai dati che possediamo finora - in un punto A come nella fig. 5. Manca il punto triplo A, manca la curva di sublimazione, e la curva di fusione a temperatura bassa tende a un valore p = cost. che è intorno a 25 atmosfere; cosicché se si vuole ottenere la solidificazione bisogna elevare la pressione al di sopra di 25 atm. e bisogna passare per lo stato liquido: es. linea G S isoterma.

8. - Forma della superficie caratteristica. - Nei due ultimi paragrafi, considerando le tre variabili p, v, T, con le quali si suol definire lo stato di un corpo puro, abbiamo notato quanto vi era di essenziale circa le isolinee nel piano p, v, e nel piano p, T; possediamo così elementi esuberanti per comporre la superficie caratteristica.

Gioverà la seguente considerazione. In un miscuglio eterogeneo in equilibrio siano presenti due fasi a, b (es.: ghiaccio + acqua liquida, ovvero acqua liquida + vapore, ecc.). Chiamiamo T1 la temperatura, p1 = Φ(T1) la pressione. Le due fasi abbiano rispettivamente le masse Ma, Mb, con Ma + Mb = M, i volumi specifici va, vb; detto

il titolo ponderale dell'una, sarà

quello dell'altra.

Il volume totale V e il volume specifico

del miscuglio saran dati rispettivamente da:

Per fissare le idee, la superficie caratteristica si suol riferire alla massa unitaria, cosicché a noi interessa il volume di questa, che è v. La (26) ci dice, come del resto era ovvio a priori, che v può assumere tutti i valori da va (per x = 0), a vb (per x = 1); dunque la parallela all'asse v condotta per il punto del piano T, p di coordinate (T1, p1) ha in comune con la superficie caratteristica infiniti punti. Essi costituiscono un segmento rettilineo normale al piano p, T ossia parallelo all'asse delle v. Lo stesso si può ripetere per ogni altro punto della curva di equilibrio di p = Φ(T) tracciata nel piano (p, T); quindi si conclude che nella superficie caratteristica F (p, v, T) = 0, ogni regione di equilibrio eterogeneo è rappresentata da una superficie cilindrica normale al piano p, T, e che per traccia su questo piano la corrispondente curva di equilibrio.

La fig. 9, che è affatto schematica, si riferisce al caso semplice di un corpo che si presenti in tre soli stati di aggregazione: solido, liquido, aeriforme, senza condizioni metastabili. In essa si vedono le tre superficie cilindriche (6), (7), (2), relative ai miscugli, le quali si proiettano sulle tre curve di equilibrio nel piano p, T segnato a parte a sinistra e si saldano lungo la retta c2 d2′ che si proietta nel punto triplo C2 D2. Le isoterme si presentano nella figura in vera forma e grandezza; per chiarezza si son dovute però alterare un poco le proporzioni del disegno, cosicché i liquidi e i solidi appaiono più compressibili di quanto siano in realtà. La superficie è limitata verso destra da un piano v = cost.; la linea d'intersezione è sensibilmente retta (e prolungata andrebbe a tagliare l'asse delle v), perché negli aeriformi, quando il volume è costante, la pressione è proporzionale alla temperatura assoluta. Per analoga ragione, avendo tagliata la superficie verso l'alto con un piano p = cost., la parte b5 b7 della linea d'intersezione che cade nella regione gassosa è sensibilmente un segmento rettilineo, che prolungato va a tagliare l'asse della p; invece le parti che cadono nella regione del liquido o del solido sono sensibilmente segmenti v ≅ cost., cioè quasi paralleli all'asse delle T.

La regione (5) che si riferisce allo stato solido è sensibilmente piana. Infatti dalla (18), per valori χ piccoli e poco variabili si ha v′ = v0′ (i - χp) dove v0′ è il volume specifico alla temperatura t′ e a pressione nulla; combinando quest'equazione con la (22), si ha per una coppia generica (p, t):

ossia, data la piccolezza di χα′:

che è lineare nelle variabili p, T, v.

La stessa equazione vale - con approssimazione molto minore - per i liquidi in un ambito ristretto lontano dalla temperatura critica.

Merita infine attenzione il punto m e la sua proiezione M. La figura è fatta nelle stesse ipotesi della fig. 5. Al di sotto di M durante la fusione avviene aumento di volume (esempio linea c3 c3′), e secondo l'equazione di Clapeyron p cresce con T.; al di sopra di M avviene il contrario.

Se si presentassero condizioni metastabili, le due falde interessate, invece di fermarsi allo spigolo comune, si oltrepasserebbero (n. 7).

III. - L'agitazione termica della materia.

9. - Teoria cinetica dei gas perfetti. - La conoscenza delle proprietà di un corpo si acquista per via sperimentale. Nei fenomeni che a noi interessano, la termodinamica serve mirabilmente a coordinare i fatti e semplificare le esperienze. Essa però deve contentarsi di restare alla superficie, mentre il nostro spirito sente il bisogno invincibile di penetrare l'intimo delle cose e di formarsi dei modelli. Da questo bisogno è nata la teoria cinetica dei gas, la quale in un secondo tempo ha allargato il suo campo, così da dare origine a una teoria cinetica della materia; attualmente le parti più sviluppate sono quelle estreme (gas e solidi).

Il punto di partenza è l'ipotesi, manifestata già da alcuni filosofi antichi, che la materia invece di essere continua, come appare ai sensi, sia costituita da tante particelle staccate - le molecole - dotate di incessante agitazione. A sostegno di questa ipotesi, che acquistò credito sul principio del sec. XIX in seguito alla scoperta delle leggi delle combinazioni chimiche, si è avuta anche una testimonianza diretta nei movimenti browniani. Il botanico Brown, nel 1827, constatò che alcune particelle ultramicroscopiche, come granellini di polline, sospese in un liquido rivelano un movimento incessante. Esso si spiega subito quando si ammetta che una particella sia circondata da altre particelle che la urtano, così da trovarsi press'a poco nelle stesse condizioni di una palla nel gioco del calcio (foot-ball). Recentemente il moto browniano è stato constatato anche nei gas, mediante minutissime goccioline d'acqua condensate sul fumo di tabacco (L. de Broglie 1908).

Il primo che abbia saputo dar veste matematica alle idee sulla discontinuità della materia, applicandole ai gas, fu Daniel Bernoulli (1730), il quale spiegò la pressione che esercita un gas mediante gli urti ripetuti delle molecole contro le pareti del recipiente.

A questo punto è opportuno il teorema del viriale. Si abbia una folla di particelle di massa m contenute in un volume relativamente piccolo, e suppongasi raggiunto il regime stazionario. Ogni particella, dotata inizialmente di una energia cinetica, si muove in linea retta, deviando quando passa molto vicino alle pareti o alle altre particelle (urto fittizio), ovvero addirittura quando tocca e rimbalza (urto proprio). L'ipotesi del regime stazionario significa che, malgrado l'incessante movimento, in ogni elemento di volume si hanno condizioni medie costanti; questo si può benissimo ammettere, perché, dato il grandissimo numero di particelle, quando una abbandona il suo posto o cambia di velocità, subentra subito un'altra. Siano, in un certo istante, x, y, z le coordinate del centro di gravità di una particella; u, v, w, le componenti della velocità,

X, Y, Z le componenti della forza agente sulla particella. In virtù dell'equazione fondamentale

si può scrivere:

e similmente per le altre componenti, perciò sommando per tutte le particelle:

La derivata che compare al secondo membro è nulla, perché nel regime stazionario la configurazione globale si può considerare come invariata, cosicché si ha

Posto

l'equazione si può anche scrivere

cioè: l'energia cinetica di traslazione ha il valore opposto del viriale delle forze.

Premesso ciò, distinguiamo le forze agenti su di un gas in interne ed in esterne che si esercitano dalle pareti del recipiente. Quanto alle prime, osserviamo che per la legge di azione e reazione le forze mutue fra due molecole 1, 2 danno al viriale il contributo:

È lecito ammettere in prima approssimazione: 1° che le dette forze siano trascurabili, salvo al momento del contatto; 2°. che le molecole siano quasi puntiformi, cosicché quando si toccano sia x1 - x2, l'y1 = y2, z1 = z2. In queste ipotesi, l'espressione fra parentesi quadra si annulla e il viriale delle forze interne sparisce. Per calcolare il viriale delle forze esterne, supponiamo che il recipiente in cui sta il gas sia un piccolo parallelepipedo di lati a, b, c, e prendiamo gli spigoli come assi coordinati. Detto p il valore della pressione, il gas subisce sulle facce di ascisse x = 0, x = a normali all'asse x, rispettivamente le forze + pbc; - pbc. Esse danno al viriale il contributo

lo stesso si ha per le altre due coppie di facce, cosicché il teorema del viriale dà:

Data l'uniforme distribuzione, Σ sarà proporzionale al volume, che qui è abc, cosicché indicando con Σ′ l'espressione relativa all'unità di volume, avremo:

ossia

A questo importante risultato si può giungere in maniera più intuitiva, mettendo meglio in rilievo la parte che hanno gli urti contro le pareti, ma il metodo del viriale, seguito da Clausius, ha il pregio di prestarsi a generalizzazioni; perciò è uno strumento sicuro in simili ricerche.

La (27) si legge: la pressione in seno a un gas è uguale a 2/3 dell'energia cinetica di traslazione relativa all'unità di volume (prescindendo dagli eventuali moti d'insieme di tutta la massa). La (27) si può mettere sotto una forma un po' diversa introducendo l'affollamento n, cioè il numero di particelle riferito ad 1 cmc. e la velocità efficace l.. definita da

la quale ovviamente ha un significato di media (quadratica); se tutte le molecole si movessero con la stessa velocità Ω, la forza viva di traslazione del gas rimarrebbe inalterata. Si ha così:

o anche, introducendo il volume V di una grammomolecola (massa mol, n. 5) e il numero

di Avogadro:

Arrivati a questo punto, si ritrova immediatamente la legge sperimentale di Boyle e Mariotte (p V = cost.), se si ammette che a temperatura costante l'energia cinetica di traslazione sia costante. Dal confronto dell'equazione ottenuta con l'equazione caratteristica p à = R T, concludiamo che la forza viva media di traslazione

relativa a 1 grammomolecola ha per tuttì i gas lo stesso valore

quella relativa ad una singola molecola ha pure un valore unico

dove k è la costante di Boltzmann (n. 5). Segue che, a parità di temperatura, si muoveranno più velocemente le particelle più leggiere; e precisamente da

si ha

Così, alla temperatura del ghiaccio fondente, per l'idrogeno (H2; mol = 2,016) si trova Ω = 1840 m/sec., per l'ossigeno (O2; mol1 = 32),

Una prova quasi diretta della (31) si ha nel fenomeno dell'effusione: le velocità con cui i diversi gas sfuggono da orifizî sottili stanno in ragione inversa delle radici quadrate delle densità dei gas (legge di Graham).

10. - Energia interna e calori specifici dei gas perfetti. - Per conoscere il comportamento termo-meccanico di un gas perfetto - come di ogni altro corpo - non basta l'equazione caratteristica nn. 5, 9; occorre avere degli altri dati energetici, per esempio l'espressione dell'energia interna U in funzione di due delle variabili p, v, T. Interviene qui una esperienza di James P. Joule (1851), la quale - in forma poco diversa - era stata già eseguita da Gay Lussac. Due recipienti R′, R″, (fig. 10), uniti mediante un cannello chiuso da un rubinetto, stanno immersi in un calorimetro ad acqua. In R′ è un gas compresso, R″ è vuoto. Aprendo il rubinetto, il gas fluisce da R′ verso R″ finché si stabilisce l'equilibrio delle pressioni. Se il gas in questa operazione si riscaldasse o raffreddasse, lo stesso avverrebbe dell'acqua del calorimetro. Invece si trovò che questa mantiene invariata la temperatura, quindi la temperatura del gas è rimasta costante; in virtù della (14″), è rimasto invariato anche il prodotto pv = RT. Intanto l'equazione fondamentale (3), Q = ΔU + L, applicata al sistema dei due recipienti, siccome non è avvenuto alcuno scambio di calore o di lavoro con l'esterno, cioè col calorimetro (Q = 0, L = 0), dà:

Deduciamo che quando variano singolarmente la pressione o il volume, l'energia interna del gas non cambia se il prodotto p v = RT resta costante. Dunque U può dipendere non da p, v singolarmente, bensì dal loro prodotto, ossia da T. Questa legge di Joule si può esprimere nella forma

La conclusione fu un poco affrettata, giacché l'esperienza non poteva avere la precisione sufficiente per condurre a una proposizione tanto importante. La (32) è dunque solo approssimata (n. 17), e poiché l'ammetterla non urta contro alcun principio teorico, essa insieme con l'equazione caratteristica (14″) serve in termodinamica come definizione del gas ideale.

Riferiamoci all'unità di massa e supponiamo di fare una trasformazione infinitesima a volume costante. Essendo nullo il lavoro di espansione pdv, da (4), (32) segue:

che, confrontata con la definizione di calore specifico a volume costante

L'equazione fondamentale (4), in cui si traduce il primo principio della termodinamica, nel caso dei gas perfetti diviene

Poichè U dipende esplicitamente solo dalla temperatura, lo stesso sarà, per (33), del calore specifico cv. Il comportamento del gas sarà perfettamente noto quando si conosca c in funzione della temperatura. Qui la termodinamica non giova più e bisogna invocare o l'esperienza o la teoria cinetica. La prima mostra che nei gas monoatomici, (es. argon), c, è costante; per i gas che si possono considerare vicini alle condizioni ideali, c varia poco con la temperatura, cosicché in molte applicazioni pratiche si suppone

e allora questa equazione con la (34) e con l'equazione caratteristica (14′′) basta per qualunque studio termo-meccanico. Nelle applicazioni più precise, e soprattutto quando T varia molto, si tien conto della variabilità di c.

La fig. 11 reca alcuni esempî; essi si riferiscono a pressioni piccole, di modo che i gas si possono considerare come perfetti; le esperienze sull'idrogeno sono dovute ad Eucken (1912).

L'ordinata in figura è il prodotto

che rappresenta la capacità termica della grammomolecola e suole chiamarsi calore molecolare.

Si considera pure come fondamentale il calore specifico a pressione costante cp, il quale si deduce facilmente da cv,. Infatti da (34) per una trasformazione a pressione costante si ha:

E poiché dall'equazione caratteristica (14″) per p = cost. si deduce

segue:

o anche

Se avessimo adottato per il calore e il lavoro unità differenti, invece di (36′) avremmo ottenuto:

Questa importante relazione dovuta a Mayer (citato n. 4), gli servì per determinare l'equivalente meccanico E della caloria.

11. - Equipartizione dell'energia. - a) Il secondo punto d'appoggio della teoria cinetica è il teorema dell'equipartizione dell'energia dovuto a J. C. Maxwell (1859) ed a L. Boltzmann (1872), e valido per solidi, liquidi e gas. Pensiamo di nuovo a un insieme di particelle contenute in un dato volume e dotate di energia, che in generale sarà cinetica e potenziale. Facciamo astrazione dall'energia comune a tutte le particelle: per esempio se il corpo ha un moto di traslazione trascuriamo quella parte di energia cinetica che è dovuta a questo moto e non varia dall'una all'altra particella; e così pure trascuriamo l'energia potenziale di gravità se tutte le particelle si trovano sensibilmente alla stessa altezza sul livello del mare. Prendiamo di mira la parte d'energia che può variare o dall'una all'altra particella, o in una stessa particella a causa degli urti: se la sua espressione contiene l parametri, diremo che la particella ha l falcoltà. (Di solito, si usa la locuzione gradi di libertà, ma può dar luogo ad equivoci). Ciò posto, il teorema afferma che, nelle condizioni di regime, ad ogni facoltà spetta in media la stessa energia, la quale dipende esclusivamente dalla temperatura.

Ammesso questo, il valore dell'energia si può precisare immediatamente deducendolo dal caso particolare dei gas perfetti. L'energia di traslazione di una molecola

dove u, v, w, sono le componenti della velocità baricentrica, contiene tre parametri; e poiché il valor medio della detta energia è, come sappiamo,

segue che per ogni parametro sarà la terza parte. Dunque, per ogni facoltà:

b) Si traggono subito conseguenze importantissime riguardo ai calori specifici.

Per riscaldare di d T a volume costante la grammomolecola di un gas, occorre fornire la energia:

d'altra parte questa stessa energia, se l sono le facoltà di una molecola, sarà espressa da

Abbiamo quindi:

ossia (16):

Confrontiamo brevemente la teoria con l'esperienza.

Molecole monoatomiche. - È il caso dei gas rari elio, argon, ecc. e dei vapori metallici. Qui l'idea più spontanea è di considerare le molecole come puntiformi, cosicché trascurando, poichè si tratta di gas perfetti, le attrazioni mutue e quindi l'energia potenziale, una particella ha la sola energia cinetica del suo baricentro: abbiamo tre facoltà. Se poi l'atomo si pensa come una sfera, esso ha libertà di rotare, ma l'energia di rotazione, se la sfera è perfettamente liscia, rimane invariata, cosicché le facoltà sono ancora tre. Facendo nella (39′) l = 3, viene

La figura 11, per quanto si riferisce all'argon, va perfettamente d'accordo con questa conclusione. Da cv mol = åv, = cost. segue anche che i calori specifici cv: dei diversi gas e vapori monoatomici sono inversamente proporzionali ai pesi atomici (che qui coincidono coi pesi molecolari), conformemente all'esperienza.

Molecole poliatomiche. - Una molecola poliatomica rigida ha 6 facoltà perché occorrono 3 parametri per fissare il vettore velocità del baricentro, dal quale vettore dipende l'energia traslatoria, e tre parametri per fissare il vettore rotazione dal quale dipende l'energia rotatoria. Se però gli atomi sono due soli, sensibilmente puntiformi (molecola a forma di manubrio), potendosi astrarre, nel computo dell'energia cinetica, dal movimento di rotazione intorno all'asse della molecola (la giustificazione secondo la teoria dei quanti si vedrà nel n. 12), si pone:

e si ha:

La fig. 11 concorda con questo risultato, in quanto åv = mol. cv mantiene sensibilmente lo stesso valore per i diversi gas biatomici, e questo valore, in un intervallo medio di temperatura, non si discosta molto da quello trovato; non concorda in quanto l'esperienza dà åv, variabile con la temperatura. Su quest'ultimo punto ci fermeremo in seguito.

Analogamente, per molecole rigide con più di due atomi, siccome abbiamo visto che è l = 6 si deve avere

E in parecchi casi l'esperienza non si discosta molto (H2O 5,94; NH3 6,47, ecc.).

Rapporto dei calori specifici fondamentali.

Combinando (36′), (39), si trae:

e per conseguenza (Boltzmann):

Per i gas monoatomici (l =3), si dovrà avere

per i biatomici a molecole rigide

per i poliatomici a m olecole rigide

Al crescere del numero delle facoltà, il rapporto

deve diminuire, tendendo a raggiungere il valore 1. Dalla testimonianza dei fatti togliamo per temperature comprese fra 0° a 100°:

Qui l'aderenza fra la teoria e i fatti è assai confortante. I valori elevati poi del prodotto cv, mol = åv; che si presentano con molecole complesse (p. es. benzolo C6 H6, åv = 23,3) si possono spiegare attribuendoli in parte alla non rigidità della molecola e in parte alle attrazioni fra le molecole che qui son molto grosse: infatti queste due circostanze concorrono ad aumentare il numero l dei parametri.

Elementi chimici allo stato solido (cristallino). - Da numerose ricerche risulta che sono formati da atomi vibranti intorno alle loro posizioni di equilibrio (forma del reticolo, n. 22). L'energia vibratoria di ogni atomo in questo movimento è espressa da 6 parametri: tre che fissano l'energia potenziale (funzione delle tre coordinate) e tre che fissano l'energia cinetica. Poiché abbiamo ricordato in principio di questo numero che il teorema dell'equipartizione vale per qualunque stato di aggregazione, applicandolo al caso attuale si deve avere:

Questa (sostituendo a cv, il calore specifico cp, che nei solidi è maggiore solo di poco e portando la costante a 6,4), è in fondo la legge di Dulong e Petit scoperta empiricamente nel 1819, la quale ha reso segnalati servizî nella determinazione dei pesi atomici. L'averla giustificata teoricamente costituisce un altro successo del teorema d'equipartizione.

La teoria cinetica, di cui noi abbiamo dato qualche profilo, ci si presenta dunque come un meraviglioso strumento, che ci permette di scrutare i segreti della costituzione dei corpi. Essa consente di coordinare i risultati dell'esperienza, e in alcuni casi la ha precorsa (es. legge di Maxwell sulla viscosità).

Non si può tuttavia negare che in alcuni punti si scosti in modo non trascurabile dalla realtà, così da richiedere ritocchi e completamenti.

c) Torniamo infatti alla fig. 11. Intorno alla temperatura ambiente (T ≅ 300 K, pari a t = 33° C.) il calore molecolare cv, per i gas biatomici ha, in cifra tonda, il valore costante 5 come vuole la teoria, ma al crescere di T cresce in modo non trascurabile. Questa anomalia si può giustificare, supponendo che al crescere della temperatura venga a poco a poco rallentandosi nelle varie molecole il legame rigido che rendeva solidali le coppie di atomi, cosicché essi possano allontanarsi e avvicinarsi; subentrano nuove facoltà e åv, cresce. Più grave - e insanabile - è il dissidio fra la teoria e i fatti per quanto riguarda il tratto fortemente discendente dalla curva, il quale si presenta alle temperature basse. La diminuzione di cv indica una diminuzione delle facoltà in prossimità dello zero assoluto, c raggiunge il valore che spetta alle molecole monoatomiche dotate di sola traslazione (l = 3). Le molecole non possono rotare, ossia alle due facoltà relative alle rotazioni non spetta nessuna energia, contrariamente al teorema d'equipartizione.

Ancor più gravi sono le divergenze nel caso dei solidi. Era noto da tempo che alcuni di essi - segnatamente il diamante - si scostano dalla legge di Dulong e Petit e che cv. decresce un poco con la temperatura; ma grande fu la sorpresa quando si seppe che W. Nernst, volendo verificare una teoria proposta da Einstein (nn. 13, 14) sperimentò a temperature vicine allo zero assoluto, e trovò per il diamante e altri corpi åv = 0.

Questo risultato, importante anche per altre ragioni, rese chiara la necessità di modificare la teoria cinetica, giacché esso non è affatto conciliabile col teorema d'equipartizione. Né si può ammettere che gli atomi, col diminuire della temperatura, si raggruppino formando dei complessi rigidi sempre più grandi fino a perdere del tutto la libertà di movimento, perché un solido siffatto dovrebbe divenire incompressibile, contrariamente all'esperienza. Osserva del resto giustamente Eucken che anche per altra via si vede che il teorema d'equipartizione non si può sostenere fino alle ultime conseguenze. Le ricerche moderne hanno mostrato che ogni atomo è composto di altre particelle (elettroni e protoni) in numero talora assai cospicuo, cosicché se il teorema di equipartizione dovesse applicarsi fino a queste ultime particelle che ora conosciamo, il numero delle facoltà sarebbe molto maggiore di quanto abbiamo visto. Cadrebbe allora completamente l'accordo fra teoria ed esperienza: una molecola monoatomica di elio ad es. avrebbe meno gradi di libertà di una - pure monoatomica - di argon, e i calori molecolari åv, che sappiamo essere eguali, sarebbero invece fortemente differenti.

12. - Intervento dei quanti. - Il compito di ritoccare la teoria cinetica fu felicemente assunto dalla teoria dei quanti ideata nel 1900 da Max Planck per spiegare le leggi sull'irraggiamento del corpo nero, e utilizzata nel 1907 da Albert Einstein per trovare le leggi sui calori specifici dei solidi e dei gas.

Il postulato fondamentale (Planck) è il seguente. Se esiste in un sistema un oscillatore lineare a frequenza ν0, l'energia di questo è necessariamente un numero intero di quanti h ν0. In altri termini:

Segue immediatamente un corollario: quando la frequenza ν0 è troppo grande, cioè quando l'energia di cui può disporre un oscillatore è inferiore al prodotto h ν0, si avrà q = 0, ossia l'oscillatore non potrà entrare in vibrazione. Il postulato di Planck è stato esteso (Bohr-Sommerfeld) in modo che possa applicarsi non solo ai movimenti rettilinei, ma anche ad altri moti più complicati. Nel caso della rotazione intorno a un asse fisso, si viene alla conclusione di quantizzare il doppio dell'energia cinetica, ossia continua a sussistere la legge (42), ove però si cambi h in

Vediamo subito una applicazione. Nel calcolare il calore specifico dei gas o vapori monoatomici abbiamo dovuto supporre gli atomi o puntiformi, o sferici - perfettamente lisci - in modo da trascurare l'energia di rotazione intorno al centro di gravità, cosicché i parametri invece di essere 6, come nelle molecole poliatomiche rigide, sono 3. Ma gli atomi non sono né punti, né sfere levigate. La difficoltà si supera quantizzando il moto rotatorio. Detto I il momento di inerzia rispetto a un asse baricentrico della molecola monoatomica, ϕ??? la velocità angolare, la corrispondente frequenza sarà

L'energia cinetica è

e quantizzando avremo:

da cui

I è piccolissimo ed anche facendo q = 1 si ha un valore troppo grande, in confronto all'energia disponibile, perciò praticamente manca la rotazione. (Secondo considerazioni più recenti, le rotazioni non mancano, ma la corrispondente energia ha un valore costante, cosicché in ogni modo non compare nel riscaldamento o raffreddamento, e non entra nel computo dei calori specifici). Per la stessa ragione, fu lecito trascurare, nelle molecole biatomiche rigide, la rotazione intorno alla retta congiungente i due atomi.

Veniamo ora ai moti oscillatorî che si riscontrano nei solidi, e anche nei gas a molecole non rigide. Un oscillatore lineare ha un solo grado di libertà nel senso ordinario della meccanica, ma due facoltà, perché un parametro fissa la posizione e l'energia potenziale, e uno fissa la velocità e l'energia cinetica; cosicché la sua energia media secondo la teoria cinetica, (38), è

Trattandosi di un valore medio, alcuni oscillatori avranno una energia un po' inferiore, altri una energia un po' superiore; rarissimi saranno quelli con energia molto maggiore di k T'. Una volta accettato il postulato dei quanti, (42), potremo dire: se la temperatura è bassa in modo che k T sia piccolo di fronte ad h ν0, gli oscillatori che hanno energia vicina a quella media, k T, taceranno e vibrerà solo qualcuno dei rari oscillatori aventi energia eccezionalmente grande. Se la temperatura si abbassa, gli oscillatori di frequenza ν0 tacciono uno dopo l'altro, e l'energia complessiva del moto vibratorio considerato (frequenza ν0) sparisce. Abbassando sufficientemente la temperatura, arriverà un punto in cui accadrà lo stesso per tutte le altre frequenze; si conclude così che a temperature molto basse l'energia vibratoria è nulla. Se, partendo da valori T bassissimi, si fa crescere la temperatura, a poco a poco si destano i vari moti periodici e si destano per primi i più lenti (h ν piccolo). Il numero di oscillatori di frequenza ν che partecipa alla vibrazione e l'energia complessiva dipendono dunque da ν e da T.

Elaborando la teoria, si trova che l'energia media di un vibratore lineare è data non da 2 ε = k T come vuole la legge di equipartizione, ma da

Per conseguenza, le (38) nel caso dei moti periodici vanno modificate stabilendo che per ogni 1acoltà

A temperature sufficientemente alte perché il valore

divenga piccolo, si ha sensibilmente

cosicché si ricade nel valore dato dalla teoria cinetica. Il teorema di equipartizione, nel caso dei moti periodici, ci si presenta dunque come una legge limite.

Si può chiedere: si devono quantizzare i moti traslatorî?

Alcuni autori sono per l'affermativa e ammettono la degenerazione dei gas perfetti, la quale importa anomalie di comportamento in vicinanza dello zero assoluto; p. es. cade l'equazione p à = R T, e - secondo una recentissima teoria di E. Fermi - l'energia tende per T = 0 ad un valore costante, cosicché anche nei gas cv tende a zero. Ma l'esperienza non ha detto l'ultima parola.

Restando, per quanto concerne la traslazione, sul terreno classico, l'energia termica, interpretata come energia di incessante agitazione, ha per una grammomolecola l'espressione

dove la prima sommatoria si rifsrisce alle componenti di moto non quantizzabili, la seconda a quelle dei moti quantizzabili, ed ε, ε′ hanno le espressioni (38), (44); la seconda Σ in (45) vale a rigore solo per i moti oscillatorî; in linea approssimata la accetteremo anche per i moti rotatorî, la cui quantizzazione, in generale, presenta delle difficoltà.

13. - Ritorno ai calori specifici dei gas perfftti. - L'energia termica, (45), di una grammomolecola è qui, con la riserva fatta in fine del numero precedente:

Segue:

o per disteso

È bene tener presente:

Fissiamo l'attenzione su un gas biatomico. Oltre alla traslazione, abbiamo una rotazione intorno a un asse normale all'asse molecolare, la quale implica due facoltà, e una oscillazione degli atomi lungo la loro congiungente, la quale importa altre facoltà.

Poniamo

L'esperienza ci dice, fig. 11, che il comportamento medio dì cv è vicino a quello che compete alle molecole biatomiche rigide; quindi il legame che congiunge i due atomi è energico e la frequenza, ν2, dell'oscillazione è piuttosto alta. Scriviamo

a) Temperature bassissime:

Sussiste, avevamo detto nel numero precedente, la sola traslazione:

Infatti da (47), (48) per T ≅ 0 si vede che i moti quantizzati non danno nessun contributo al calore molecolare.

b) Temperature basse:

L'oscillazione non si fa ancora sentire, ma la rotazione sì; cv, cresce (valori quantizzati).

c) Temperature medie:

Essendo

l'energia rotatoria obbedisce sensibilmente al teorema dell'equipartizione; conformemente alla (38), che vale per valori di T grandi relativamente a ν, essa contribuisce con

nell'importo del calore molecolare åv; questo assume così all'incirca il valore

dato dalla teoria cinetica per m0lecole biatomiche rigide.

d) Temperature elevate:

Il calore specifico aumenta perché si desta l'energia oscillatoria (quantizzata).

e) Temperature elevatissime

Essendo il rapporto

piccolo, anche l'energia oscillatoria obbedisce all'equipartizione e contribuisce con

nel calore molecolare åv; questo assume così il valore

che dà la teoria cinetica per molecole con 7 gradi di libertà.

La fig. 11 mostra che l'accordo qualitativo fra teoria ed esperienza è buono; la temperatura elevatissima alla quale åv raggiungerebbe il valore 6,95 nei gas studiati non è stata raggiunta. La verifica quantitativa del calore specifico inerente alle oscillazioni si è potuta eseguire per l'acido cloridrico HCl, giacché si è avutto modo di calcolare la frequenza ν2 in base a osservazioni ottiche (bande di assorbimento). Si è trovato ν2 = 0,87.1014, corrispondente a una lunghezza d'onda λ2 = 0,000347 cm. (= 3,47 micron; infrarosso). Con questo valore si è calcolato åv. per temperature elevate (regione d). Si ha:

14. - I solidi a temperature bassissime. - I calori specifici si hanno da (47) o (47′), sopprimendo il termine

relativo alla traslazione. Se per semplicità si suppone che nel solido regni una unica frequenza ν0, la (47′), ricordando che le facoltà sono 6 e che N k = R (17), dà

che è la formola originaria di Einstein. Da essa, in virtù di (48) (49), per temperature molto basse si ha subito la legge di Nernst

e per T → ∞ la legge di Dulong e Petit

appare dunque che quest'ultima è una legge limite, valida per temperature sufficientemente alte. Come si vede, la teoria di Einstein è molto più vicina alla realtà della teoria sui calori specifici dedotta dalla legge di equipartizione di Maxwell-Boltzmann. Essa è stata ulteriormente migliorata da P. Debye (1912) il quale ha ritenuto che, dati i molteplici legami fra le varie particelle vibranti, si stabiliscano non una ma diverse frequenze, e nel solido si propaghino diversi sistemi di onde con velocità intermedie fra quella delle vibrazioni acustiche trasversali (diapason, corde di pianoforte) e quella delle vibrazioni longitudinali (corde strofinate per il lungo). Considerando dunque non una sola frequenza per ogni corpo, ma tutto uno spettro, Debye trova per E, cv formole un poco diverse da quelle di Einstein. Tuttavia si conserva una delle proprietà importanti della (50), e cioè che il calore molecolare åv = mol • åv dei solidi viene espresso mediante una unica funzione dell'argomento

da corpo a corpo varia solo ν0, che qui è la frequenza dominante.

Si può anche dire, posto

dove θ ha il significato di una temperatura ed è una costante individuale di ogni solido, che åv è una funzione universale della temperatura ridotta &out;t

Per f si intenderà approssimativamente la forma (50) di Einstein, esattamente la forma di Debye che è più complicata. La (51) mostra che due solidi confrontati a parità di &out;t, cioè confrontati a temperature proporzionali alle rispettive costanti θ, hanno eguali calori molecolari: e questo stabilisce fra i solidi una corrispondenza analoga a quella che vedremo regnare fra i fluidi (n. 16). Si può anche dire: se si portano in un grafico come ordinate i prodotti mol • cv = åv dei diversi solidi e come ascisse non i valori T, ma i valori

si avrà una unica curva. La fig. 12 mostra che molti corpi soddisfano a questa legge; la linea segnata è il grafico della funzione di Debye. Altri corpi (es. zolfo) non soddisfano a questa legge; per molti di essi si è potuto esprimere åv mediante una somma di due o tre funzioni f (2) calcolate con altrettanti valori θ diversi.

Si chiamano solidi semplici i corpi che soddisfano alla (51); le loro vibrazioni costituiscono uno spettro normale in cui predomina una unica frequenza ν0.

È notevolissimo che i valori di ν0 si possono ottenere sperimentalmente anche per altre vie (velocità delle onde acustiche, raggi ultrarossi restanti di Rubens temperatura di fusione, n. 22, b) e l'accordo è soddisfacente; per i cristalli NaCl l'ordine di grandezza è 6.1012 vibrazioni al secondo.

La formola a cui giunge Debye per l'energia termica E, a temperatura bassa si può scrivere (con un errore inferiore ad 1% per

e derivando rispetto a T

che è la (51) per temperature basse.

Le formole (52) (53) sono notevolissime perché mostrano che a temperature basse l'energia di agitazione termica E e il calore specifico cv, sono rispettivamente proporzionali a T4, T3.

Sembra anzi accertato che a temperature sufficientemente basse queste leggi valgano indifferentemente per tutti i solidi intesi anche in senso volgare (vetri nn.1-3); e inoltre il coefficiente di dilatazione termica α (n. 7) varia pure proporzionalmente a T3. Si è venuti così alla nozione di solido ideale definito da:

Per T ≅ 0, l'energia termica è sensibilmente nulla, il volume ha un valore costante, e in generale le proprietà termo-meccaniche sono costanti rispetto a T. Ciò definisce l'estremo inferiore degli stati della materia.

IV. - Proprietà speciali dei diversi stati di aggregazione.

15. - Comprimibilità degli aeriformi reali. - Il modo migliore per cogliere a prima vista le differenze di comportamento tra gli aeriformi reali e i gas perfetti è quello di ricorrere ai diagrammi costruiti da Émil H. Amagat, in base alle esperienze da lui eseguite sull'anidride carbonica C O2 (1880), sull'etilene C4 H4, e su altri gas.

In questi diagrammi - fig. 13 - l'ascissa è p, l'ordinata il prodotto p v = y. Ogni curva corrisponde a un valore T = cost., cioè rappresenta in coordinate p, y una isoterma. Le curve a tratto intero si riferiscono a CO2, l'ascissa va letta in basso, l'ordinata a sinistra; le curve punteggiate si riferiscono a C4 H4, e le coordinate vanno lette sugli altri due lati del rettangolo.

Se fosse vera la legge di Boyle p v = cost., (n. 5), invece di curve si avrebbero rette parallele all'asse delle ascisse; cosicché risulta chiara la differenza tra gas perfetti e aeriformi reali: si noti per altro che nel disegno le scale vengono scelte espressamente in modo da lumeggiare più le differenze che le somiglianze. A 100° C., mentre la pressione va da zero a 800 atmosfere, il prodotto p v = va da un minimo ad un massimo che stanno presso a poco come 1:2.

La curva trasversale che rassomiglia ad una parabola è il luogo dei minimi di y. In un punto M di minimo l'isoterma ha un trattino y = cost., cioè nelle vicinanze di M è seguita la legge di Boyle. In un punto a sinistra, come A, il prodotto pv decresce al crescere di p, cosicché il gas è più comprimibile di un gas perfetto; in un punto invece che sta a destra, come B, è meno comprimibile. Al crescere della temperatura, le curve si appiattiscono, cioè diminuiscono gli scostamenti dalla legge di Boyle. Ad una temperatura che sta fra 500° C. e 600° C. e oltrepassa perciò la figura, la curva dei minimi taglia l'asse delle ordinate in un punto (detto di Boyle); a partire da quella temperatura, le isoterme hanno sempre

cosicché a temperatura sufficientemente elevata il gas è meno compressibile di quelli ideali. Tutti gli aeriformi presentano nelle linee generali lo stesso comportamento, e solo varia dall'uno all'altro il campo dentro cui si presenta questo o quel fenomeno. Per l'aria ad es. il punto di Boyle è a circa +55° C., cosicché l'aria, alla temperatura ambiente e per pressioni moderate, è più comprimibile di un gas perfetto, mentre alla temperatura dell'acqua bollente è meno comprimibile. L'idrogeno ha un punto di Boyle molto basso (circa −166° C.), cosicché esso si presenta come meno comprimibile di un gas perfetto, a meno che non si sperimenti a temperatura bassissima. Le differenze fra il comportamento dei gas perfetti e degli aeriformi reali vanno dunque in certi casi in un senso, in altri in senso opposto; tutto sommato, e tenuto conto delle scale dei grafici, vediamo che entro limiti non molto ristretti siamo ancora autorizzati a considerare gli aeriformi come gas ideali. Per conseguenza, il modello di gas posto fin qui a base della teoria cinetica (n. 9), deve essere non abbandonato, ma modificato.

Si tratta, in sostanza, di abbandonare le semplificazioni in virtù delle quali si ottenne dal teorema del viriale l'equazione (27′) 1/3 nm•Ω2 che si portò poi a coincidere con l'equazione di stato p &mis1;k = R T. Le ipotesi semplificatrici furono due: molecole libere, salvo al contatto, molecole puntiformi. Esse si possono accettare quando la pressione è debole, perché allora lo spazio disponibile è grande e le particelle sono relativamente piccole e lontane una dall'altra. Anche la temperatura elevata avvicina al caso ideale, perché allora le molecole, avendo una grande velocità e quindi una grande forza viva, deviano meno dal cammino rettilineo, a causa delle azioni mutue. Nel caso generale, abbandonate le dette ipotesi, interverranno nel calcolo del viriale le forze interne; assumendo per esse l'una o l'altra forma analitica, si avrà una o un'altra equazione di stato.

Il primo che sia riuscito - con metodo però diverso - a trovare una equazione soddisfacente fu il van der Waals (citato n. 7). nel 1873.

16. - L'equazione di van der Waals riferita ad 1 grammomolecola è:

dove A, B sono costanti individuali speciali per ogni gas, da determinarsi empiricamente. Ad esempio, misurando le pressioni in atmosfere e i volumi in cmc.:

Se invece l'equazione si riferisce alla massa unitaria, bisogna dividere R, B, Ã per mol, ed A per mol2.

a) Senza dare la dimostrazione rigorosa della (54), notiamo che si può anche intuitivamente render ragione dei termini correttivi.

Nell'interno di un fluido qualunque, le attrazioni che una particella M, (fig. 14), subisce da parte delle compagne hanno una risultante nulla, quindi non producono azioni dinamiche. Infatti se r è il raggio dentro cui si fanno sentire le attrazioni molecolari - nei liquidi si può apprezzare

- la sfera di raggio r descritta intorno ad M è uniformemente riempita di particelle. Se M invece si trova sulla superficie terminale, le forze di attrazione sono provocate soltanto da una mezza sfera, ed hanno una risultante f diretta verso l'interno. Una forza analoga, ma un po' minore, risentono tutte le altre particelle che hanno dalla superficie una distanza minore di r. A causa dunque delle forze di coesione, la pressione p′ che regna nell'interno di un gas, e che determina il suo stato fisico, è realmente maggiore di quella, p, che si misura all'esterno; cosicché nell'equazione dello stato fisico, invece di p, metteremo p′ = p + c. La correzione c, che è - come la p - riferita all'unità di superficie, è ovviamente proporzionale al numero di particelle contenute nell'unità di volume, cioè all'affollamento

ed alla forza f che sente ogni particella. Ma f è a sua volta proporzionale al numero di particelle contenute nella semisfera di raggio r, e quindi allo affollamento; cosicché in definitiva, secondo van der Waals, la correzione c è proporzionata ad n2, ossia inversamente proporzionale al quadrato del volume, come è appunto in (54).

Il termine correttivo

si può chiamare pressione intrinseca (preferiamo questo all'aggettivo internî, usato comunemente, il quale può ingenerare confusione).

In quanto al volume proprio delle particelle, è chiaro che esso agisce nel senso di diminuire lo spazio disponibile per le escursioni delle molecole ed aumentare in pari tempo il numero degli urti. La pressione perciò invece di essere data da

sarà maggiore, come se il volume à del recipiente fosse diminuito. Si giustifica così la (54). Il valore B, secondo la teoria, rappresenta il quadruplo della somma dei volumi delle singole particelle considerate come sfere di diametro σ, e vien chiamato covolume; cioè si ha

Dal valore di B, si può dunque determinare il diametro delle molecole. Così per l'argon (B =30,2), assumendo N = 6,06•1023, (n. 5), si trova σ = 2,88.10-8 cm, in buon accordo col valore ottenuto per altre vie (p. es. viscosità). L'ordine di grandezza delle altre molecole non è molto diverso.

Ricordiamo, n. 6, che le esperienze di Andrews mostrarono in modo indubbio la possibilità di passare in maniera continua dallo stato liquido allo stato aeriforme. La continuità fra questi due stati risulta ancora più manifesta guardando la fig. 9; essa desta il convincimento che le parti riguardanti il liquido e l'aeriforme formerebbero anche al di sotto della temperatura critica una unica falda continua, rappresentabile con unica espressione analitica F (p, v, T) = 0, se non fossero interrotte dalla superficie cilindrica, relativa all'equilibrio liquido ⇄ aeriforme. Ispirandosi a questi concetti, van der Waals ritenne addirittura che fra liquidi e aeriformi non vi fossero differenze qualitative. Secondo lui, le particelle hanno le stesse condizioni di movimento, ma quando son molto vicine, come nei gas fortemente compressi o nei liquidi - che egli in fondo considerava come gas molto densi - le forze interne f e il covolume B delle particelle si fanno sentire. Pertanto, una volta introdotti questi elementi, cioè f, B nel calcolo, l'equazione ottenuta (54) deve valere indifferentemente per lo stato aeriforme e lo stato liquido.

Conosciuta la (54), molti fisici, fra cui in Italia il Battelli già citato (n. 6), si occuparono di mettere in vista le concordanze o le discordanze coi fatti naturali, studiando il comportamento di varie sostanze; altri cercarono di modificare leggermente l'equazione, come fece il Clausius ricordato nel n. 4, ovvero di cambiarla del tutto. In conclusione però, tenuto conto del vasto campo abbracciato e delle importanti nozioni a cui ha dato origine, l'equazione originale (54) di van der Waals resta ancora la migliore equazione di stato. Perciò ci fermeremo un poco su di essa.

Cominciamo con l'osservare che a pressioni basse e temperature alte il gas ha un volume grande, quindi

sparisce in confronto di p, e nello stesso tempo B sparisce in confronto di V. Si ritorna così alla solita equazione p à = R T, che appare nella sua vera veste di una legge limite.

Confrontiamo ora la (54) con le curve di Amagat (fig. 13).

Posto y = p Ã, si ha:

Poiché

sono correzioni, possiamo usare minori scrupoli nel calcolo di esse e servirci dell'equazione p à = R T. Si ha così

e a temperatura costante:

con A′, B′ costanti. Secondo questa equazione, le curve di Amagat dovrebbero essere delle iperboli. La fig. 13 dice chiaramente che questo risultato, quantunque non perfettamente conforme al vero, è di gran lunga più approssimato di quello a cui condurrebbe l'equazione dei gas perfetti (y = p v = cost., retta parallela all'asse delle p).

Studiamo la forma delle isoterme nel piano p, V di Clapeyron. A temperature elevate, se la pressione non è molto forte, le curve differiscono poco dalle iperboli p V = cost.; di mano in mano che la temperatura decresce, esse si vanno deformando, finché a un certo punto se ne presenta una la quale ha un flesso con tangente parallela all'asse delle V. Se confrontiamo questa fig. 15 con le curve di Andrews (fig. 4), non tardiamo a riconoscere che l'isoterma considerata è quella critica. Questa osservazione ci mette in grado di determinare i valori critici Ãk, pk, Tk quando sian note le costanti A, B, o viceversa. Infatti nel punto K, essendo la tangente parallela all'asse delle V ed essendovi per giunta un flesso, dovranno esser soddisfatte, oltre alla (54), le due equazioni

ed abbiamo così tre equazioni nelle incognite pk, vk, Tk. La risoluzione non presenta alcuna difficoltà e dà

Continuiamo ora a far decrescere la temperatura. Al di sotto di Tk, le curve sono del tipo A1 B1 X1 Y1 Z1 B1 C1. Come si possono interpretare? Si pensa che il tratto a forma di S, cioè B1 X1 Z1 B1′ - sul quale torneremo - rappresenti condizioni instabili, difficili ad osservarsi; si osserveranno invece, d'ordinario, condizioni medie, rappresentate da un segmento B1 B1′ rettilineo, corrispondente all'equilibrio stabile fra liquido e vapore. Con tale modifica, l'equazione (54) rappresenta approssimativamente i fluidi in tutta l'estensione del campo di variabilità; i tratti come A1 B1 in cui è piccolo il volume e piccola la comprimibilità, raffigurano lo stato liquido, i tratti come B1C1 si riferiscono ai vapori non saturi; il luogo dei punti B1 B1, è la curva di saturazione (fig. 4).

b) La posizione del segmento rettilineo B1 Y1 B1′, la cui ordinata p = cost. deve misurare la tensione di vapor saturo alla temperatura T, alla quale si riferisce l'isoterma che si considera, si determina mediante una regola di Maxwell: le due aree tratteggiate devono essere uguali. Si immagini infatti di potere eseguire la trasformazione isoterma B1 X1 Y1 Z1 B1′ e di ritornare in B1 lungo il tratto rettilineo B1Y1 B1.

Secondo il principio di Carnot, n. 4, il lavoro totale lungo un ciclo isotermo (una sola sorgente) deve essere nullo, quindi l'area ʃ p • d V racchiusa fra il segmento rettilineo e il tratto ad S deve essere nulla.

Stabiliti così i punti B1, B1′, si trova che i due tratti B1 X1; B1Z1 i quali fanno parte della S, possono avere riscontro nei fatti naturali giacché rappresentano fenomeni di ritardo, ossia condizioni metastabili; il tratto finora escluso da una interpretazione fisica sicura si riduce a quella parte X1 Y1 Z1 della S, nella quale al crescere del volume Lrescerebbe anche la pressione. L'archetto B1 X1 rappresenta precisamente un liquido soprariscaldato (n. 2, f), a temperatura T1; l'archetto B1B1 un vapore soprasaturo alla stessa temperatura. Vi è di più. Se si diminuisce ancora il parametro T, la (54) dà curve che tagliano l'asse dei volumi, e nei tratti come H J si hanno pressioni negative. In realtà, anche questo fatto si può interpretare fisicamente, giacché i liquidi oppongono una certa resistenza alle forze di trazione, le quali hanno riscontro, all'interno del corpo, a pressioni negative. Per es. quando un barometro è ben costruito, se si porta il mercurio a contatto con la sommità della canna, può rimanere sospesa una colonna di mercurio ben più lunga dei 76 cm. che corrispondono alla pressione atmosferica (liquidi stirati).

c) Nella (54) sono visibili due costanti A, B individuali di ogni singolo gas, ma ve ne sta nascosta una terza. Se infatti l'equazione si riferisce non ad una massa mol variabile dall'una all'altra sostanza, ma sempre alla stessa massa 1, l'equazione conterrà, come abbiamo avvertito, il numero mol; dunque il comportamento di un gas nel campo p, v, T è definito da tre costanti individuali: A, B, mol. Orbene, dividendo p, v, T per i corrispondenti valori critici e chiamando volume, pressione e temperature ridotti i rapporti:

la (54) si trasforma in

che è l'equazione di van der Waals ridotta. È notevolissimo che in essa sono sparite le costanti individuali giacché i coefficienti sono numeri fissi (3,1/3, 8/3).

Questo significa che l'equazione vale senza alcun mutamento per tutti i fluidi, o anche: se sui tre assi coordinati, invece delle variabili p, v, T, si prendono &out;p, &out;u, &out;t, si ha una superficie caratteristica unica, valida per tutti i fluidi. Se ne deduce che qualunque costruzione geometrica o diagramma, valida per un dato fluido, varrà anche per un altro, se si cambiano le scale; si può anche dire che i diagrammi relativi ai diversi fluidi si potranno far coincidere, scegliendo opportunamente la scala del disegno. Un saggio si ha nella fig. 13 di Amagat. Van der Waals è venuto ad altre conclusioni interessanti. Se prendiamo due fluidi in condizioni di pressione, volume e temperature differenti, ma tali che siano soddisfatte due delle tre equazioni

sarà soddisfatta, in virtù della (56), anche la terza. Si dice allora che i due fluidi sono in due stati corrispondenti; essi sono rappresentati da un unico punto della superficie caratteristica ridotta. Appare manifesto che molte delle distinzioni, che siamo soliti di fare tra i fluidi, hanno carattere accidentale o soggettivo: tutti i fluidi obbediscono ad un'unica legge e sono pertanto confrontabili fra loro, quando si prendono in condizioni corrispondenti, definite mediante i rapporti col rispettivo punto critico. Se la vita normale si svolgesse a pressione e temperatura diversa dalle ordinarie, l'anidride solforosa SO2, p. es., che per noi è un aeriforme, ci si presenterebbe nel campo elastico-termometrico (variabili p, v, T) con le stesse proprietà dell'acqua che maneggiamo. Anche dal punto di vista calorimetrico-energetico, due fluidi che si trovino in istati corrispondenti presentano analogie; per esempio per T = 1 (temperatura critica) il calore di trasformazione (2, a; n. 4) è, per tutti, r = 0.

Come si vede, l'equazione di van der Waals, anche se non trova sempre un riscontro perfetto con la realtà, serve a portare molto ordine nella multiforme varietà della natura, e costituisce una preziosa guida nelle ricerche.

17. - L'energia interna negli aeriformi reali. - Abbiamo visto, n. 10, che l'energia interna - la quale verrà qui riferita alla grammomolecola - nei gas perfetti dipende esplicitamente solo dalla temperatura, o se si vuole dal prodotto p • V, e non separatamente da p, V; cioè si ha:

Nei fluidi reali invece, in virtù delle forze di coesione, dobbiamo aspettarci che l'energia interna, anche mantenendo costante la temperatura, muti al mutare p. es. del volume; precisamente deve crescere con esso perché il lavoro fatto per allontanare le molecole, vincendo le forze interne di coesione, si muta in energia. E infatti, se nella equazione generale:

che ci fornisce la termodinamica, si calcola la derivata

usando l'equazione p à = R T dei gas perfetti, si ritrova

se si usa l'equazione (56) di van der Waals, si trova un valore > 0; e precisamente per 1 grammomolecola

Vi è di più: se si accetta che la (54) valga anche per i liquidi, nel passaggio isotermo dallo stato liquido a quello aeriforme, integrando la (57′), si avrà:

ma la variazione di energia interna (13) in questo caso è niente altro che il calore interno di vaporizzazione, riferito ad una grammomolecola, onde si potrà calcolare:

Uno dei modi per avere indicazioni dirette sull'energia interna è quello di far espandere i fluidi nel vuoto, come praticarono Gay Lussac e Joule (n. 10); ma abbiamo detto che queste esperienze non si prestano a conclusioni precise. È evidente la ragione: entra in gioco una massa di gas troppo piccola. Pertanto Joule stesso e Thomson (lord Kelvin) nel 1852 modificarono il processo ricorrendo a un efflusso continuo. Un tubo, isolato termicamente dall'ambiente, era diviso in due camere per mezzo di un filtro molto spesso, disposto normalmente all'asse del cilindro: il gas compresso, contenuto in una delle camere, veniva costretto a passare nell'altra, e si osservava se durante l'attraversamento avveniva variazione di temperatura. La termodinamica insegna che nel processo indicato rimane costante il contenuto termico, n. 4,

che riferiamo anche esso alla grammomolecola; ossia

Per i gas perfetti da p à = R T; d U = åv d T, si trae:

e siccome è åv + R = åp ≠ 0, si conclude d T = 0. L'esperienza dice appunto che in quegli aeriformi, i quali si avvicinano di più al comportamento ideale, l'effetto Joule-Thomson è molto piccolo. Viceversa, se non sapessimo nulla dell'energia interna, conoscendo dalla termodinamica che U + p V non varia nel processo e constatando con l'esperienza che T non varia, concluderemmo che non variano il prodotto p à (= R T) e la U; ritroveremmo così il risultato U = f (T). In realtà la temperatura varia più o meno, cosicché negli aeriformi reali l'energia interna dipende esplicitamente dalla temperatura e da un'altra variabile, p. es. il volume. L'esperienza ha mostrato che, nelle condizioni di partenza usuali, gli aeriformi (salvo pochissime eccezioni, come idrogeno ed elio) si raffreddano nel processo Joule-Thomson. Per esempio, se si opera alla temperatura media di 0° C. e si mantiene fra le due camere separate dal filtro una differenza di pressione di 10 atmosfere, si ottiene con l'aria un abbassamento di temperatura di 2°,7 e con l'anidride carbonica un abbassamento di circa 14°. L'effetto Joule-Thomson ha anche una grande importanza pratica, perché Hampson, e specialmente von Linde nel 1895, ne hanno tratto profitto per rendere industriale la liquefazione dei gas, come l'aria, che erano chiamati una volta incoercibili.

Strettamente connesse con l'energia interna sono le grandezze calorimetriche e in particolare i calori specifici fondamentali cv, cp. Il teorema di equipartizione e la teoria dei quanti, che abbiamo visto così fecondi nello studio dei gas perfetti e dei solidi, non hanno recato contributi efficaci nello studio dei fluidi reali, il che è spiegabile data la difficoltà di fissare dinamicamente i caratteri del moto delle loro particelle. Bisogna pertanto ricorrere alle esperienze, e attualmente fervono in alcuni laboratorî gli studî per correggere i valori antichi dei calori specifici, in vista dei cresciuti bisogni della tecnica. La termodinamica insegna poi che si possono limitare le esperienze, giacché, noto p. es. uno dei valori cp, cv, si ha subito l'altro in virtù dell'equazione generale:

dove le derivate parziali si calcoleranno mediante l'equazione caratteristica. Anzi, se questa si conosce esattamente, basta determinare come varia ad es. cp col variare di T per un valore p prefissato, per poter dedurre i valori cv, cp, in tutto il campo di variabilità.

18. - La coesione nei liquidi. - I liquidi hanno un posto intermedio fra i corpi le cui particelle sono vincolate a vibrare intorno a posizioni medie di equilibrio (solidi cristallini), e quelli che hanno le particelle libere del tutto (gas ideali), o quasi (aeriformi reali). Si capisce come, nella vastissima gamma compresa fra queste condizioni estreme dei movimenti, sia difficile fare delle ipotesi sulla natura del movimento delle particelle e fondarvi una teoria cinetica; per questa ragione, le nostre cognizioni sulla costituzione dei liquidi sono poco progredite. In molti casi si procede per estrapolazione, considerando lo stato liquido come un prolungamento dello stato aeriforme, e abbiamo visto nel paragrafo precedente che questa ipotesi ha reso buoni servizî per opera di van der Waals, quantunque un esame più minuzioso lasci molto meno soddisfatti.

Ma anche accettando l'ipotesi suddetta, in virtù della quale fra liquidi e aeriformi non vi sarebbero differenze qualitative, le differenze quantitative possono essere così profonde, che alcune proprietà, impercettibili in questi ultimi, siano invece visibilissime nei liquidi. Ciò accade in modo speciale per la coesione, la quale ci si rivela correntemente nei fenomeni della tensione superficiale. Si trova che la superficie terminale di un liquido si comporta in modo molto somigliante a una membrana elastica, stirata da una forza; questa viene riferita all'unità di lunghezza del contorno e vien presa come misura σ della tensione superficiale. La differenza principale, rispetto alla membrana, è che σ nei liquidi non varia quando la superficie si ingrandisce o si restringe. Il valore rappresenta in pari tempo il lavoro che bisogna fare contro le forze di coesione quando si vuole ingrandire di 1 l'area della superficie terminale di un liquido. Infatti, se sul pelo liquido immaginiamo tracciato p. es. un rettangolo, qualora non esistesse la parte del liquido esterna a questo, per ingrandire il rettangolo spostando parallelamente il lato a di un tratto b dovremmo applicare la forza σ α necessaria a controbilanciare la tensione superficiale; il lavoro σa • b da noi fatto, riferito all'aumento unitario di area, è appunto

La necessità di spendere questo lavoro si può capire quando si torni un momento a quel che abbiamo detto a proposito della fig. 14. Abbiamo visto che le molecole costituenti lo strato terminale sono soggette a una forza di coesione risultante, diretta verso l'interno della materia e proporzionale al quadrato dell'affollamento n. Ciò vale qualunque sia lo stato di aggregazione: nei liquidi in ragione della grande densità, questa forza ha un'importanza di gran lunga maggiore che nei gas, cosicché se nell'interno di un liquido si prende una massecola per portarla alla superficie e poi staccarla, mentre si attraversa lo strato terminale e la superficie libera si deforma e si ingrandisce, si devono vincere delle forze.

Se facciamo crescere la temperatura, lo stato liquido si avvicina a quello aeriforme e si confonde con esso quando si raggiunge la temperatura critica. Si può dunque prevedere che la tensione superficiale deve diminuire col crescere della temperatura ed annullarsi in vicinanza di quella critica. Ciò risulta espresso chiaramente in una legge che si può anche dimostrare in base alla nozione di stati corrispondenti, ma che fu trovata empiricamente da R. Eötvös (1886):

dove la costante K ha per moltissimi liquidi lo stesso valore; in unità c.g.s. è:

La temperatura T0 è circa 6 gradi più bassa di quella critica del fluido, cosicché poco prima di arrivare al punto critico svanisce la tensione superficiale. È notevole che ci sono sostanze le quali seguono la (58), ma la costante ha un valore più basso; il che si spiegherebbe pensando che in questi liquidi le molecole si associno, formando individui più complessi. E infatti questo fenomeno - detto polimerizzazione - è stato constatato in alcuni dei detti liquidi.

Sulla tensione superficiale si possono fare eleganti esperienze che vengono descritte nello studio della capillarità. Qui noteremo che in virtù della tendenza contrattile la superficie di un liquido tende ad assumere la minima area compatibile coi legami imposti. In assenza di campi di forze esterne, la superficie che a parità di volume presenta l'area minima è una sfera, e ciò spiega la forma delle gocce di pioggia, ecc. L'industria imita la natura nella fabbrica dei pallini da caccia, facendo gocciolare da alte torri piombo fuso che assume la forma sferica, e si solidifica lungo il percorso. Notiamo però incidentalmente che anche i solidi possono risentire fortemente la tensione superficiale: e cioè non solo quelle sostanze dette volgarmente solide che in realtà sono liquidi sopraffusi (è nota la tendenza contrattile dei bulbi termometrici), ma anche i solidi propriamente detti cioè cristallini. Così il rame, che fonde a circa 1082° C., nel separarsi dalle leghe di bismuto si presenta sotto 800° C. in cristalliti di forma poliedrica, ma sopra 800° in cristalliti sferiche (Tammann 1923).

Dopo quel che abbiamo ricordato sulla tensione superficiale possiamo rispondere facilmente al quesito: se non ci fosse la gravità che costringe i liquidi a raccogliersi nel fondo dei recipienti, avrebbero i liquidi un volume proprio, o tenderebbero a occupare tutto lo spazio disponibile come fanno i gas? Supposto che inizialmente nel recipiente si trovino particelle liquide liberamente vaganti, queste incontrandosi farebbero come due gocce quando si toccano, giacché la superficie che ha tendenza contrattile diminuisce tutte le volte che di due sferette se ne forma una sola. Pertanto - in assenza di gravità e di adesione fra liquido e pareti - dopo un tempo più o meno lungo tutte le particelle si raccoglierebbero formando un'unica sfera, a volume ben definito: perfettamente al contrario di quel che avviene per gli aeriformi.

La tensione superficiale è una delle manifestazioni delle forze di coesione; si potrebbe pensare di misurare queste direttamente, ricorrendo p. es. a esperienze di trazione. In verità, se sotto il piattello, p. es. sinistro, di una bilancia si pone un liquido e si cala il piattello in modo che venga bagnato, si trova che per risollevarlo, rompendo il liquido, bisogna mettere nel piattello destro un certo peso. Concettualmente questa esperienza non differisce molto da quella delle colonne liquide sospese nel vuoto barometrico (n. 17, b). Siamo però ben lontani dall'ottenere così la misura della coesione. Infatti quando si assoggetta un corpo a trazione, si destano in pari tempo degli sforzi che tendono a fare scorrere o scivolare una porzione rispetto all'altra tangenzialmente, e il numero E che misura la resistenza alla trazione (n. 21) è legato ai numeri K, n che misurano la resistenza alla compressione uniforme e allo scorrimento, dalla relazione

I liquidi, che sono scorrevolissimi, hanno n ≅ 0, e per conseguenza possono offrire piccolissima resistenza alla trazione. La misura della coesione si può ottenere meglio per via indiretta. Per esempio si può prendere l'equazione di stato dei liquidi data da Tammann per pressioni elevate:

e dare alla costante α la stessa interpretazione che ha nell'equazione (54) di Van der Waals il termine

correttivo della pressione: si può pensare cioè che α rappresenti la pressione intrinseca, n. 16, cioè la forza di coesione, riferita ad unità di superficie. Il suo valore risulta molto grande: p. es. per l'etere etilico è 2792 atmosfere.

19. - Analisi delle forze molecolari. - Visto che le forze di coesione sono così grandi, si presenta spontaneo il quesito: come mai le molecole non si portano a contatto? I liquidi dovrebbero avere un volume assolutamente invariabile, mentre sappiamo che il volume varia - sebbene di poco - al variare della pressione esterna e della temperatura.

Per rispondere al quesito, dobbiamo esaminare le forze che sono in gioco. Due masse qualunque si attirano con una forza che diviene apprezzabile quando la distanza è piccola. Lo stesso dobbiamo ammettere per le molecole; ma quando due molecole si urtano, rimbalzano; dunque esistono anche forze di repulsione che si rendono palesi a distanze piccolissime. La forza totale che si esercita fra due molecole e che chiameremo forza interna i, si potrà rappresentare in funzione della distanza, mediante un diagramma del tipo della fig. 16 e si potrà pensare come la risultante di due forze ad andamento più semplice, una attrattiva e l'altra repulsiva. Ma nei fluidi esiste inoltre l'agitazione termica come nei gas, e abbiamo visto che essa equivale ad una forza espansiva; la quale nei gas perfetti, ove agisce da sola, è capace di equilibrare la pressione esterna. Q sta forza di origine termica, che chiameremo τ, decresce al crescere del volume o anche della distanza media fra le molecole. Dunque in un fluido abbiamo: la forza interna i, quella di origine termica τ, che decresce col crescere del volume ossia della distanza molecolare media, e la pressione esterna p. Queste tre forze, intese come positive quando tendono ad allontanare le molecole, sono segnate nella fig. 17 insieme con la loro risultante

La figura mostra che ρ si annulla in tre punti, quindi si hanno tre possibilità di equilibrio. La posizione B si esclude perché, per poco che aumenti la distanza, cresce le forza tendente ad aumentarla ancora, quindi l'equilibrio delle molecole è instabile. La posizione C in cui mancano quasi le forze interne, (i ≅ 0; ρ = 0; τ ≅ p), e l'agitazione termica equilibra da sola la pressione applicata, corrisponde allo stato aeriforme. Similmente la posizione A corrisponde allo stato liquido. E poiché A è posizione di equilibrio stabile, è risolto il quesito posto, cioè le molecole tendono a conservare la distanza media O A. La curva in A è molto inclinata e occorrono grandi pressioni per fare spostare A un pochino verso sinistra; ciò dice appunto che i liquidi sono quasi incompressibili, come abbiamo detto altrove.

Nel caso dei vapori saturi, possono coesistere a una stessa temperatura tanto la fase liquida quanto l'aeriforme, quindi A, C rappresentano punti di equilibrio simultaneo. Se si ha un miscuglio, si stabilisce un equilibrio statico o dinamico: alcune molecole passano dallo spazio occupato dal liquido a quello occupato dal vapore; e nello stesso tempo altrettante molecole fanno il gioco inverso. La condizione di equilibrio si può impostare come segue. Chiamato dnw, il numero delle particelle che stanno in 1 cmc. del liquido e si dirigono verso la superficie del liquido presso a poco con una componente w della velocità, si vede facilmente che il numero di particelle che si dirigono verso 1 cmq. della superficie detta, nell'unità di tempo, è espresso da

Non tutte però riescono ad attraversare il pelo liquido, perché vengono trattenute dalla coesione, se non hanno una velocità superiore ad un certo limite L, cosicché il numero delle particelle uscenti dal liquido è:

Invece, se una particella di vapore si dirige verso il pelo liquido, lo attraversa, cosicché il numero delle particelle di vapore entranti (nell'unità di tempo) attraverso l'unità d'area è:

L'equazione dell'equilibrio si scrive:

Al crescere della temperatura cresce - e notevolmente - il numero delle molecole liquide che hanno una w superiore ad L, e cresce perciò il numero delle particelle che passano allo stato di vapore. Si spiega così come la tensione del vapore saturo, p = Φ(T), sia una funzione crescente. Anzi, calcolando, con qualche ipotesi semplificativa, gli integrali che compaiono nell'equazione dell'equilibrio, si perviene ad una espressione di Φ che si avvicina molto ai risultati sperimentali.

20. - Particolari sulla vaporizzazione e condensazione.

a) La tensione superficiale ha molta parte in questi fenomeni. Per trasformare in vapore un liquido, occorre somministrare a questo una certa quantità di calore (n. 2). Quando si tratta di una goccia, durante l'evaporazione la superficie diminuisce, e lo stesso avviene dalla energia superficiale. Come in una pietra che cade decresce l'energia potenziale, e il lavoro positivo fatto dalla gravità si muta in energia cinetica, così qui il lavoro positivo fatto dalla tensione superficiale contribuisce a fornire l'energia necessaria all'evaporazione.

Visto che da una superficie liquida convessa le molecole escono più facilmente, ne segue che per impedire l'evaporazione - ossia per raggiungere l'equilibrio - occorre una tensione di vapore maggiore della consueta. Si conclude che la tensione p′ del vapore saturo, a contatto con le superficie liquide convesse, è maggiore di quella normale p; al contatto con le superficie concave è minore. Questo risultato importante è dovuto a lord Kelvin (1870); per trovare il valore di p′ seguiremo presso a poco la via da lui indicata, supponendo che nel recipiente della fig. 18, privo d'aria e mantenuto a temperatura costante, si trovi un capillare bagnato dal liquido, il quale monta sino al livello B. Immaginiamo che una massecola evapori dalla superficie laiga A, si condensi in B, scenda per il capillare e ritorni in A. Per il secondo principio della termodinamica, n. 4, il lavoro totale è nullo, trattandosi di un ciclo isotermo, e il lavoro di gravità è per proprio conto pure nullo perché la massecola torna al punto di partenza. Dunque deve essere nulla la somma degli altri lavori, che sono: quello fatto dal vapore che si espande isotermicamente dalla pressione p = pA alla pressione p = pB, e quello fatto dalla tensione superficiale nel menisco B. Riferiamoci all'unità di massa, cioè al volume specifico v. Il primo dei due lavori è, (2),

e poiché:

si avrà:

ossia:

Il secondo lavoro è negativo, perché il menisco qui determina forze dirette verso l'alto, mentre invece il liquido depositatosi scende; il valore assoluto si ottiene evidentemente moltiplicando la forza verticale P relativa all'unità di superfcie per il volume depositato. In quanto a P basta osservare che, detto r il raggio interno del tubo, la parte di liquido che lambisce quest'ultimo forma come un anello elastico che tira verso l'alto con una forza 2 π r σ, la quale si distribuisce su tutta l'area sottostante; si ha perciò

e il lavoro riferito all'unità di massa che occupa un volume

è

Annullando la somma dei due lavori, abbiamo:

onde

La formula vale anche per le superficie convesse, se r si prende come negativo; nel qual caso si ha p′ > p, come si era visto intuitivamente.

b) Dopo ciò, si spiega il meccanismo dell'ebollizione, sia ritardata sia normale. Supponiamo che un liquido perfettamente puro si trovi a temperatura tale che la tensione normale del vapore saturo eguagli la pressione atmosferica; p. es. nel caso dell'acqua la temperatura sia 100° C., la pressione atmosferica 76 cm. di mercurio. Se in un punto interno alla massa sta per sprigionarsi del vapore formando una sferetta cava di raggio r piccolissimo, la tensione superficiale determina, come abbiamo visto, una pressione

che, essendo molto grande, soffoca la sferetta appena nata; e l'ebollizione non ha luogo. Se continuiamo a fornire calore al liquido, la temperatura di questo, poiché il calore non viene impegnato in alcun passaggio di stato, cresce. Solo quando la temperatura ha raggiunto un valore sufficientemente elevato, il vapore ha una tensione tale da vincere l'eccesso di pressione dovuto alla tensione superficiale, e si sprigiona violentemente: l'ebollizione ritardata si presenta tumultuosa. Con l'acqua, prendendo precauzioni speciali, si può arrivare a 180° C, alla pressione ordinaria: la violenza dell'ebollizione tumultuosa si può subito immaginare quando si pensi che a 180° il vapor saturo ha una tensione di circa 10 atmosfere.

Se invece, come avviene d'ordinario, nel liquido c'è disciolta aria o altro gas, questo facilita la formazione della bolla, perché la sferetta cava è occupata in parte dal vapore e in parte dal gas; il raggio non può assumere valori troppo piccoli, e per conseguenza la pressione

determinata dalla tensione superficiale non può raggiungere valori troppo forti. Così l'evaporazione viene immensamente facilitata. H. L. Callendar ha calcolato che bastano bolle di 1 millimetro di diametro perché il surriscaldamento dell'acqua sia quasi trascurabile, giacché in questo caso l'ebollizione avviene a 100°,05.

Considerazioni analoghe si possono fare per la condensazione. Abbiamo visto che le sferette liquide vaporizzano facilmente; tanto più, quanto più piccolo è il raggio. Quindi è quasi impossibile far condensare il vapore, a meno che non si trovino in esso dei corpuscoli i quali facciano da nuclei di condensazione (n. 2, f).

Secondo questo modo di vedere, si verrebbe però alla conclusione che ìl vapore da solo, cioè quando non vi sono nuclei, non può mai condensare; invece avviene il contrario, cioè se la tensione del vapore supera un certo valore o se si lascia il vapore per molto tempo, questo finisce col condensarsi. Questo fatto si può tuttavia mettere in accordo con quanto si è detto: a lungo andare, alcune molecole incontrandosi si riuniscono formando così aggruppamenti accidentali i quali agiscono come nuclei. Si può anche pensare all'intervento di molecole caricate elettricamente che sogliono trovarsi in piccola quantità negli aeriformi, per effetto di ionizzazione. In una sferetta carica di elettricità (dello stesso nome) le varie parti si respingono, tendendo così ad aumentare il volume; perciò la carica agisce in senso contrario alla tensione superficiale. La condensazione del vapore soprasaturo intorno a corpuscoli elettrici è stata utilizzata in varie ricerche interessanti la costituzione atomica, e col mezzo di essa J. J. Thomson ed H. A. Wilson riuscirono, come è noto, a determinare la carica e la massa dell'elettrone.

21. - Equilibrio fra un solido e l'ambiente. - Nello studio degli aeriformi, si parte dall'equazione caratteristica dei gas perfetti, che si viene successivamente correggendo, in modo da renderla più adeguata alla realtà; nello studio dei liquidi, non si conosce con esattezza l'equazione caratteristica F (p, v, T) = 0, ma si ha la certezza che essa esiste e si ha un'idea approssimativa della corrispondente superficie. Nello studio dei solidi, in senso lato, non solo non si conosce da principio l'equazione caratteristica, ma nemmeno si è certi che essa esista. Anzi vi sono forti ragioni, le quali inducono a pensare che in generale essa non possa esistere. Una molla d'acciaio, riscaldata al rosso e riportata alla temperatura iniziale, perde gran parte della propria elasticità, cosicché non si può dire che le reazioni elastiche dipendono dalla temperatura che regna all'istante considerato. Qui si tratta di trasformazioni fisico-chimiche irreversibili, che si possono riconoscere solo con mezzi molto accurati (analisi microchimica). Il bulbo di un termometro, riscaldato e poi riportato alla temperatura iniziale, in forza del gioco della viscosità e della tensione superficiale (n. 18), si avvia a riprendere il volume primitivo con grandissima lentezza; cosicché, osservandolo per un tempo non molto lungo, si può credere che esso sia in equilibrio, mentre non lo è. Ma anche limitandoci ai corpi purissimi e ai casi di vero equilibrio, abbiamo fenomeni di isteresi, i quali mostrano che lo stato di un solido in un dato istante non è completamente definito dalle condizioni dell'ambiente col quale esso è in equilibrio. Se si carica fortemente il pistone di un cilindro in cui si trova un gas, il volume diminuisce moltissimo, ma riprende il valore iniziale quando si scarica il pistone. Invece, comprimendo fortemente un blocco di rame, anche purissimo, esso si deforma in modo permanente, e allorché la pressione esterna riprende il valore primitivo, il volume del blocco non riprende lo stesso valore. Fenomeni analoghi si presentano nel magnetismo: se in un campo magnetico di intensità H variabile si trova un pezzo di ferro purissimo, non si può conoscere il suo stato magnetico in un dato istante, cioè il valore I dell'intensità magnetica (parametro interno) quando si conosce il valore di H (pîrametro esterno, direttamente accessibile alla nostra esperienza) nello stesso istante; lo stato magnetico del ferro dipende dalla storia delle vicende attraversate dal campo mentre vi si trova il ferro.

Dunque un solido si può mettere in equilibrio con l'ambiente in infiniti modi; e i parametri interni, che definiscono lo stato del solido in un dato istante, non dipendono in modo univoco dai valori che assumono i parametri esterni, i quali definiscono allo stesso istante le condizioni dell'ambiente.

Manca così non solo il fondamento per una equazione caratteristica F (p, v, T) = 0, ma anche la possibilità dell'impiego corrente delle formule termodinamiche. Tuttavia, in moltissimi casi, le trasformazioni hanno un'ampiezza sufficientemente piccola perché possano essere considerate come reversibili; per es. una molla d'acciaio, riscaldata appena di una diecina di gradi e riportata alla temperatura primitiva, riprende le condizioni iniziali. In questi casi, è lecito servirsi della termodinamica nel modo consueto. Per es. si può approfittare dell'equazione (24).

Così, per il ferro (a ≅ 34.10-6, χ≅ 61.10-8 misurando le pressioni in kg/cmq.) si ha alla pressione ordinaria (p ≅ 1)

il che significa che riscaldandolo in modo da mantenere costante il volume, per ogni grado di aumento di temperatura si desta una pressione di 56 kg. Più spesso nelle costruzioni si tratta di sbarre soggette lateralmente a una piccola pressione invariata (atmosferica) e vincolata più o meno agli estremi. In questo caso possiamo ammettere, con le stesse limitazioni di sopra, che la lunghezza l della sbarra sia funzione della temperatura t e della forza F applicata agli estremi, cioè si abbia una relazione ψ (F, l, t) = 0.

Da questa si trae una relazione analoga alla (23), cioè:

che si può mettere in forma più comoda definendo:

coefficiente di allungamento a forza costante;

coefficiente di sforzo a lunghezza costante;

modulo di Young, o modulo di trazione a temperatura costante, dove S è la sezione trasversaìe della sbarra. Si ottiene così

Per una sbarra di ferro

misurando la forza in kg.), supposto p. es. . S = 10 cmq., si avrà:

Un riscaldamento di una dozzina di gradi produce uno sforzo superiore a 3 tonnellate.

Anche il secondo principio della termodinamica può essere applicato ai fenomeni considerati, e conduce a conseguenze interessanti. Per es. si trova, d'accordo con l'esperienza, che i solidi i quali riscaldati si dilatano (e sono la maggior parte) si raffreddano quando vengono stirati; quelli che riscaldati si accorciano (il caucciù, e alcune leghe metalliche), si riscaldano quando vengono compressi. Dal lato quantitativo, le verifiche sperimentali lasciano spesso a desiderare; il che è spiegabilissimo, perché abbiamo visto che solo in limiti ristrettissimi è lecito applicare ai solidi le equazioni della termodinamica. Del resto, anche la teoria della elasticità, fondata sulla legge di Hooke (n.1, a), vale solo entro limiti molto ristretti.

22. - Teoria cinetica dei solidi. - a) Abbiamo detto (n.1, b) che i cristalli sono costituiti da particelle di materia formanti un reticolo spaziale, cioè disposte secondo una tripla periodicità.

Quest'ordine, che non viene distrutto se non quando le sollecitazioni meccaniche o termiche oltrepassano limiti considerevoli, impone alla materia una grande regolarità; e le nostre conoscenze sullo stato solido - o meglio sugli stati solidi (n. 3), - hanno fatto i più rapidi progressi da quando si sono esclusi i solidi amorfi o vetri, che vengono considerati come un prolungamento dello stato liquido, e da quando si è potuto studiare col mezzo dei raggi X (n.1, b) il reticolo spaziale dei singoli cristalli. Come esempio semplicissimo di reticolo, citiamo quello dell'idrogeno cristallizzato: si pensi diviso lo spazio in tanti cubetti adiacenti e in ogni vertice si metta un atomo H. Pochi altri elementi cristallizzano così (N, Si); molti elementi hanno in più un atomo o nel centro di ogni cubo o nel centro di ogni faccia; altri elementi ancora, o composti, hanno reticoli più complicati.

Le posizioni così definite (per es. i vertici di un cubo), sono quelle medie o di equilibrio, intorno a cui le particelle vibrano incessantemente (n.1, b; n. 14). Proseguendo in queste idee, che abbiamo visto così feconde nello studio dei calori specifici, si presentano varî quesiti. In primo luogo: da che cosa sono determinate staticamente le posizioni di equilibrio? In secondo luogo, è noto che una massa esegue un moto pendolare quando è soggetta a una forza di richiamo

proporzionale allo spostamento e diretta in senso contrario, e la frequenza è

cosicché si domanda ancora: quali sono le forze di richiamo? A queste due domande si può dare subito una risposta, tenendo presente quanto si disse nel n. 19 a proposito della fig. 16, che conserva qui la sua validità come schema generale.

La condizione di equilibrio è data evidentemente dall'annullarsi della forza risultante i, cosicché

rappresenta la distanza atomica normale. Se un atomo si scosta dalla posizione di equilibrio, si destano forze attrattive (ramo A B N della curva i) quando è più lontano (x > a); repulsive (ramo A M) quando è più vicino (x a). Per un breve intervallo intorno ad A, la curva si può confondere con la sua tangente, epperò la forza i si presenta come proporzionale agli scostamenti. Così hanno risposta le due domande, e inoltre viene spiegata la legge di Hooke (n. 1, a).

La fig. 16 dice anche quando un solido si rompe.

Se noi cerchiamo di allontanare gli atomi, il corpo oppone una reazione adeguata allo sforzo esercitato da noi, ma quando la deformazione ha raggiunto il valore A B′, (la distanza atomica ha il valore O B′), la reazione elastica raggiunge un valore massimo B B′; se la forza applicata continua a crescere, la reazione elastica diminuisce (punti a destra di B′), cosicché non è più capace di mantenere l'equilibrio. La materia si snerva e presto avviene la rottura. In pratica, anzi, difficilmente si raggiunge il punto B, sia per l'imperfetta omogeneità dei materiali, sia perché nella trazione si destano, come abbiamo avuto occasione di ricordare nel n. 18, formula (59), anche degli sforzi tangenziali, i quali in un primo tempo deformano il reticolo spaziale; e quando poi hanno raggiunto una certa entità, fanno addirittura scorrere gli uni sugli altri i cristalli elementari (n. 2, a).

b) Vediamo come agisce il calore sul reticolo. In un piccolo ambito intorno al punto A, si può parlare di oscillazioni pendolari, come abbiamo visto; ma se la temperatura cresce, l'ampiezza delle oscillazioni cresce, l'atomo si scosta molto da A e non si può più considerare come soggetto a una forza proporzionale allo spostamento. Le forze di repulsione, che agiscono quando gli atomi son molto vicini (escursioni a sinistra di A), prevalgono su quelle di attrazione che agiscono quando gli atomi son molto lontani (escursioni a destra di A); e il corpo aumenta di volume. La dilatazione termica si spiega dunque col fatto della dissimmetria della forza interna i. Se la temperatura si fa crescere ancora, può darsi che le particelle vibranti, scostandosi molto dalle loro posizioni di equilibrio, capitino in posti dove risentono meno l'azione delle vecchie compagne e più quella di nuove compagne; allora, invece di tornare alle posizioni di equilibrio primitive, si mettono a vibrare intorno a nuove posizioni. Il reticolo cambia struttura e si presenta una nuova forma cristallina: si spiega così il polimorfismo (n. 1, b). Aumentando ulteriormente la temperatura, l'ampiezza delle oscillazioni aumenta a tal punto, che gli atomi si vengono a urtare l'un l'altro, disturbandosi reciprocamente e svincolandosi dalla posizione di equilibrio: avviene la fusione. Quando, al contrario, si abbassa la temperatura, le particelle, col diminuire dell'agitazione termica, vengono a trovarsi in condizioni favorevoli perché si possa stabilire un ordine e formare il reticolo. Se però nel liquido non si trova alcun germe cristallino, l'inizio di questo processo può richiedere un tempo lunghissimo: il tempo cioè che occorre affinché casualmente alcune particelle vengano a trovarsi simultaneamente nei vertici di un reticolo e diramino così le linee di forza simmetriche che faranno da guida alle altre particelle (n. 2, f, ritardo alla solidificazione).

Il meccanismo della fusione esposto, ha permesso a F. R. Lindemann (1910) di ricavare, nei casi semplici di sostanze monoatomiche, il valore della frequenza (62). Nel moto armonico, l'energia vibratoria è data notoriamente dal doppio del lavoro compiuto dalla forza nell'intervallo tra la posizione media e quella estrema; e d'altra parte essendo la temperatura di fusione sufficientemente elevata perché si possa ritenere valida la legge di Dulong e Petit, la stessa energia per un grammo-atomo è data da 3 R ϑ. Indicando con b l'ampiezza delle oscillazioni alla temperatura ϑ (fig. 19), abbiamo pertanto:

perciò la (62), osservando che è mol = N • m, diviene:

Alla temperatura ϑ gli atomi di raggio r si portano, come si è detto sopra, a contatto nell'oscillare, cosicché,

dove il coefficiente γ ha un valore costante, se si ammette, con Lmdemann, che la distanza atomica media a nei varî corpi sia proporzionale ad r. Mettendn al pnsto di b in un primo tempo γ a e in un secondo ternpo il volume di iln grammo-atomo, che per un reticolo cubico è dato da à = a3 N, si ha infine

Determinata la costante c per un corpo di cui si conosca r, la formula potrà evidentemente servire per gli altri corpi. Valori di r trovati per questa via sono - come si è detto nel n. 14 - in buona armonia con quelli ottenuti altrimenti.

23. - Energia interna dei solidi cristallini. - a) Il successo di queste teorie cinetiche fu di sprone alla ulteriore elaborazione. Il passo più importante da fare era quello di determinare la forma effettiva della curva i fig. 16; il che equivale a determinare separatamente la forza attrattiva e la repulsiva di cui i è la risultante.

Già nel 1903 G. Mie aveva supposto che l'una e l'altra ammeltessero un potenziale, analogo a quello della gravità. Il potenziale totale, secondo Mie, è della forma

con a, b > 0, e verosimilmente m = 1, n > 1.

Si ebbe in tal modo - senza tener conto degli studî più antichi (es. Cauchy 1828) - una teoria dello stato solido, ma questa poté acquistare un vero senso fisico e svilupparsi solo dopo che si conobbe la struttura reticolare e la costituzione dell'atomo.

Conclusioni sicure si hanno attualmente per i composti eteropolari (es. NCl′; Na Cl′, ecc.), nei quali le forze che tengono la compagine del reticolo e quelle che richiamano incessantemente le particelle alle loro posizioni di equilibrio si sono potute ricondurre ad azioni elettrostatiche. Meno chiari risultano i legami nelle molecole o nei solidi omopolari (es.: H2 e cristalli metallici a reticolo cubico semplice). Prenderemo in considerazione solo i primi, fermandoci sui cristalli del tipo classico Na Cl.

Il reticolo è rappresentato nella fig. 20.

I vertici dei cubetti sono occupati alternativamente da Na, Cl′ e lo spigolo a di ogni celletta si può determinare molto facila mente, quando si osservi che spostando di

le tre serie di piani visibili in figura si vengono a formare celle cubiche pure di spigolo a, in ognuna delle quali sta uno ione Na o uno ione Cl′. Una grammomolecola (massa mol, densità μ) contiene 2 N di queste cellette, cosicché si ha:

Per il caso particolare del Na Cl (essendo

), si trova:

I vertici del reticolo, cioè qui gli ioni Na, Cl′ sono alla loro volta edifizî complessi. Chiamiamo e il valore assoluto della carica di un elettrone. Secondo la teoria di Rutherford e Bohr, l'atomo Na è formato da un nucleo avente una carica +11 e, intorno a cui girano, come i pianeti intorno al sole, 11 elettroni; i primi 2 + 8= 10 elettroni sono più vicini e formano un insieme stabile; l'ultimo, che vien detto esterno, è vincolato meno fortemente e tende ad abbandonare l'atomo, trasformandolo in ione Na.

L'atomo Cl è formato da un nucleo avente una carica +17 e, intorno a cui girano 17 elettroni, di cui i primi 2 + 8 = 10 formano un insieme stabile; i rimanenti 7 elettroni, detti esterni perché sono più lontani, si trovano in una condizione poco stabile e tendono ad associarsi un altro elettrone in modo da formare un insieme stabile di 8 elettroni e trasformare l'atomo in ione Cl′. Quando un atomo Na incontra un atomo Cl, il primo cede un elettrone che viene acquistato dal secondo, e così si forma il composto Na Cl′, in cui i due ioni di segno opposto son tenuti insieme dall'attrazione elettrostatica: si spiega così l'affinità chimica. I due ioni non precipitano l'uno sull'altro, perché, se essi si avvicinano troppo, gli involucri elettronici che avvolgono i nuclei fanno sentire la loro repulsione. Questa teoria dell'affinità è stata svolta da Kossel, Lewis, Langmuir, ecc. Si suole ammettere inoltre dai chimici che gli 8 = 7 + 1 elettroni del Cl′ siano distribuiti sui vertici di cubetto che circonda il nucleo di Cl. Comunque sia, nella fig. 20 ogni vertice del reticolo si deve pensare non come un punto, ma come un piccolo sciame di cariche ±.

Passiamo al calcolo delle forze. Se ci mettiamo in un punto P suffcientemente distante dallo sciame Na, le distanze fra le diverse cariche dello sciame sono piccole, relativamente alla distanza media fra Na e il punto P, cosicché l'azione sopra P sarà presso a poco la stessa come se le cariche dello sciame fossero concentrate in un unico punto. Lo stesso si dirà per Cl′ cosicché, se fosse lecito considerare a come sufficientemente grande, applicando la legge di Coulomb ai due ioni Na Cl′ situati p. es. l'uno in B l'altro in O (fig. 20), si avrebbe:

corrispondente al 1° termine della formula (64) di Mie;

lavoro necessario per separare i due ioni portandoli a distanza infinita

Il calcolo del lavoro necessario per disgregare il reticolo, in questa ipotesi, è stato eseguito per la prima volta da E. Madelung (1918), il quale ha determinato prima il potenziale in un punto di un reticolo lineare formato da un allineamento come B, O, B′... di cariche a segni alternati, poi è passato a un reticolo piano considerato come un insieme di reticoli lineari paralleli, e in fine al reticolo a tre dimensioni. L'ipotesi però non si può sostenere a rigore, perché a non è sufficientemente grande; e per correggere il calcolo bisogna tener conto delle repulsioni tra gli involucri elettronici. Questo è stato fatto da M. Born (1919), il quale, per il tipo NaCl ha trovato che le forze repulsive ammettono un potenziale proporzionale a

cosicché il potenziale della forza risultante è dato da (64) con m =1, n = 9; le forze repulsive - che si ottengono derivando il potenziale - sono proporzionali a

I risultati definitivi sono i seguenti.

Lavoro necessario per disgregare 1 grammo-atomo, se esistessero le sole forze attrattive:

ossia mettendo e = 4,774 • 10-10 u. e s., usando per a la (65) e trasformando erg in grandi calorie

Energia necessaria allo stesso scopo, tenendo conto anche delle forze repulsive

La verifica diretta della (66′) non è facilmente eseguibile, perché bisognerebbe trasformare un cristallo, p. es. NaCl in vapore completamente scisso in ioni Na e ioni Cl′ e misurare l'energia impiegata. Qualche prova indiretta per via chimica (calore di reazione), ha dato risultati confortanti.

In quanto alla forza risultante, che agisce fra due massecole come O, B del reticolo, detta x in generale la loro distanza, variabile durante le oscillazioni e convenendo che la forza sia positiva quando è una repulsione, si trova approssimativamente

Nella posizione di equilibrio (x = a), la forza si annulla. È facile vedere che la curva che rappresenta i in funzione di x ha l'andamento desiderato, corrisponde cioè a quello della fig. 16.

b) Per dare un saggio sulla (67), vogliamo mostrare come si calcoli il coefficiente di comprimibilità cubica (18), che scriviamo

Comprimiamo il cubo della fig. 20, applicando una pressione p uniforme: il lavoro da noi speso, riferito a una celletta, è -p d V e risulta positivo perchè d V 〈 0. Lo stesso lavoro si può calcolare per altra via, pensando che si devono vincere le forze i che agiscono secondo i tre assi O A, O B, O C. Si ha perciò:

Eliminando V e tenendo presente la (67), si ricava:

e in conclusione si ha la formula semplicissima:

la quale, in fondo, è l'interpretazione elettrostatica di una formula energetica dovuta a Grüneisen.

Esempî:

Come si vede, la concordanza fra teoria ed esperienza, nei riguardi della (68), è ottima.

c) Una volta conosciuta la Φ, o mediante la formula generale (64) di Mie per i composti omopolari, o meglio mediante la (66′) per i composti eteropolari del tipo Na Cl′, possiamo assegnare l'espressione dell'energia interna U. Essa risulta da quella termica

la quale è come un brivido che anima tutta la materia costringendo le particelle a vibrare, e da quella elettrostatica Φ che collega tra loro le varie parti dell'edifizio solido e ne mantiene la compagine, cioè:

Per esempio, se si tratta di sostanze monoatomiche ed è lecito supporre che gli atomi oscillino con unica frequenza, per Φ si metterà la (64) di Mie e per E si userà l'espressione (43′).

Nella termodinamica, spesso è più comodo partire dall'energia libera definita da Helmholtz mediante l'espressione

dove

è l'entropia della massa m che si considera. Nel nostro caso si ha

ossia, indicando con

l'energia libera di un oscillatore di frequenza ν:

Per calcolare ogni singolo termine della sommatoria, si comincia col determinare l'entropia di un oscillatore:

Usando la (43′), si trova:

indi segue (Planck):

La F si esprimerà poi in funzione di p, v, T. Derivandola rispetto a v, per una formula generale della termodinamica

si ottiene una relazione fra p, v, T. Essa dmque non è altro che l'equazione di stato o equazione caratteristica del solido cristallino nel campo p, v, T.

Si arriva così nei solidi a quello che nei gas costituisce il punto di partenza. Questo risultato per la pratica ha poco interesse, soprattutto perché l'equazione caratteristica - anche per i solidi a struttura semplice - ha una forma molto complicata, ma dal punto di vista teorico è degno di grandissima considerazione. In primo luogo, perché conoscendo l'equazione caratteristica e i calori specifici si può approfittare delle equazioni generali della termodinamica nel modo che si pratica per i fluidi; in secondo luogo, perché le varie proprietà dei solidi appaiono collegate fra loro sempre più organicamente.

Bibl.: Gli argomenti generali svolti nel presente articolo formano materia comune ai trattati di fisica, termodinamica, fisico-chimica, per cui non occorrono altre indicazioni.

Per alcuni argomenti speciali si consultino, oltre agli autori citati qua e là nel testo, le opere seguenti: E. Tammann, Aggregatzustände, 1923; Kuenen, Zustandsgleichung, 1907; Born, Probleme der Atomydinamik, 1926. Per la dimostrazione del teorema d'equipartizione si vedano i trattati di teoria cinetica (fra i più moderni J. H. Jeans, The dynamical Theory of gases, Cambridge 1925), ovvero di calcolo delle probabilità, come G. Castelnuovo, Calcolo delle Probabilità, 2ª ed., Bologna 1926-28.

Molti dati numerici sono stati desunti da Eucken, Phys. Chem., 1922; alcune date da Pitoni, Storia della fisica, 1923.

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