Stati Uniti

Lessico del XXI Secolo (2013)

Stati Uniti


Storia. – Il 20 gennaio 2001 George W. Bush si insediava alla Casa Bianca diventando il quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti. A conclusione di una tornata elettorale controversa e giocata sul filo del testa a testa – e divenuta anche battaglia giudiziaria – lo sfidante democratico Al Gore il 13 dicembre 2000 aveva infatti rinunciato a un nuovo conteggio delle schede e deciso di accettare i risultati in nome dell’unità nazionale. Si chiudeva così un decennio caratterizzato dalla presenza del democratico Bill Clinton alla Casa Bianca mentre il nuovo presidente Bush, il cui credo politico era improntato alla dottrina del , conferiva nell'immediato un cambio di rotta alla politica statunitense, sia in chiave interna sia internazionale. Sul fronte interno, infatti, si adoperava subito per una riduzione fiscale, soprattutto per le fasce più ricche della popolazione considerate il motore dell'economia di mercato, e per un abbattimento del welfare e del ruolo attivo dello Stato nella vita dei cittadini; sul fronte estero si rifiutava di ratificare entro il 2010 gli accordi di Kyoto (v. protocollo di Kyoto) del 1997 sulla riduzione delle emissioni di gas serra e insisteva nella linea proposta in campagna elettorale, per la quale gli Stati Uniti erano la superpotenza democratica destinata a fungere da garante dell'equilibrio mondiale e della pace internazionale, posta al di sopra delle relazioni e degli accordi tra gli stati e autorizzata ad agire anche unilateralmente. Questa nuova visione politica degli Stati Uniti venne definitivamente suggellata con gli attentati dell'11 settembre 2001, quando l'imponenza e la tragicità dell'evento offrirono all'amministrazione Bush l'occasione per il riconoscimento di una nuova missione, quella di guidare il mondo nella guerra al terrorismo internazionale. Si giunse così rapidamente alla decisione di attaccare l'Afghanistan retto dai talebani, i fondamentalisti islamici che davano rifugio a Osama Bin Laden (Usāma ibn Lādin), capo dell'organizzazione terroristica al-Qā‛ida e responsabile dell'attacco terroristico; agendo autonomamente, seppure con l'avallo delle Nazioni Unite, gli USA diedero inizio a una guerra che da un punto di vista militare durò molto poco, ma che, non affiancata da un’efficace politica di peacekeeping e di aiuto alla popolazione afghana, apparve in realtà dall'esito mancato (lo stesso Bin Laden sfuggì alla cattura). Se è vero infatti che il regime dei talebani crollò molto rapidamente e la popolarità del presidente giunse nell’immediato a livelli altissimi, la guerra in Afghanistan impantanò le forze statunitensi in un focolaio di crisi che a più riprese nel corso del primo decennio del 21° secolo rischiò pericolosamente d'infiammarsi. Nonostante questo, il 2002 fu un anno favorevole per l'amministrazione Bush, che riuscì a far approvare il National security strategy con cui veniva teorizzato il diritto alla guerra preventiva per difendere il Paese, focalizzandosi su tre scenari principali: il conflitto israelo-palestinese, i programmi nucleari della Corea del Nord e quindi l'Iraq, considerato esponente di spicco della triade di stati (Iraq, Iran e Corea del nord) definita . Proprio l’urgenza di determinare un cambio di regime in Iraq per favorire un generale processo di pacificazione mediorientale rappresentò un punto di svolta nella politica estera statunitense. Come già nella campagna afghana si trattava di fare sfoggio di una straordinaria esibizione di forza di fronte al mondo, ribadendo come l’egemonia degli Stati Uniti non fosse in discussione, si inaugurava una ‘lotta per la libertà’, come più volte veniva annunciato dallo stesso Bush, che avrebbe impegnato gli Stati Uniti a difendere il loro territorio e a esportare la democrazia nel mondo, una missione che si sposava perfettamente con gli obiettivi geopolitici da raggiungere in Medioriente. Malgrado nello stesso periodo l'economia nazionale cominciasse a entrare in una fase di lento declino, minando anche la stabilità sociale interna, Bush, proponendosi come il presidente di guerra, riuscì a vincere le elezioni di medio termine (novembre 2002), e i repubblicani ottennero anche la maggioranza al senato, che approvò così, rapidamente, l'istituzione di un ministero per la Sicurezza interna e la lotta al terrorismo: la missione per l'espansione della democrazia venne così ulteriormente suggellata, legittimando de facto l'inizio della guerra all'asse del male. Seguirono mesi di intense trattative diplomatiche, ma nel marzo del 2003 gli Stati Uniti decisero comunque di attaccare l'Iraq senza l'avallo delle Nazioni Unite, appoggiati solo da Gran Bretagna, Spagna, Italia, Portogallo, Danimarca e Polonia, generando una crepa in seno all'Alleanza atlantica e lanciandosi in una guerra dall'esito incerto. L'azione militare si rivelò breve e in un mese pose fine al regime di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn), ma la guerriglia, che incendiò l'Iraq all'indomani della deposizione del rais, continuò a scuotere l'Iraq per i successivi quattro anni, rendendo difficile il tentativo statunitense di pacificazione di tutto il territorio. Penalizzato dalla situazione irachena, peggiorata anche dopo l'emergere dello scandalo del carcere di Abū Ghraib, Bush si presentò alle presidenziali del 2004 facendo appello alla difesa dei valori etico-morali, indicati come paradigmi della solidità e della rettitudine della democrazia statunitense e capaci, in questo senso, di rassicurare e dare stabilità a una Nazione ferita. La grande capacità di mobilitazione popolare attorno ai temi della lotta al terrorismo e la consueta riluttanza dell’elettorato degli Stati Uniti a cambiare amministrazione durante un conflitto contribuirono alla vittoria di Bush, ma il secondo mandato si mostrò subito come un fallimento. Infatti, il proseguire della guerra in Iraq in posizione sempre più sfavorevole, l'emergere di scandali all'interno della maggioranza, l'inefficienza e la disastrosa gestione dei soccorsi per l'emergenza successiva al passaggio dell'uragano Katrina nel golfo del Messico e nella zona di New Orleans nell'agosto del 2005, fecero nettamente scendere la popolarità del presidente, tanto che, nel 2006, all'elezioni di medio termine i repubblicani persero sia alla camera sia al senato. Il dibattito sul fallimento delle campagne militari in Afghanistan e in Iraq investì pesantemente l’amministrazione repubblicana: infatti se era vero che le armi avevano cancellato i regimi nemici dei talebani e di S. Hussein, il caos e la guerra civile avevano preso il loro posto rappresentando una minaccia ben più grave per la stabilità della regione. Segnale di un significativo cambio di rotta nella condotta di guerra furono sia la nomina di D. H. Petraeus a capo delle forze armate in Iraq (2007), sia l'avvio di una nuova strategia di pacificazione nel territorio iracheno attraverso un’apertura politica agli insorti sunniti e un forte dispendio di denaro per vincere l’ostilità dei leader tribali. Nonostante il successo di questa iniziativa l’immagine presidenziale di Bush si andò via via sgretolando, riportando al centro della scena i democratici. Questi ultimi, nuovamente investititi dalle aspettative di rilancio del sogno statunitense, intrapresero le consuete consultazioni primarie, che attirarono l’attenzione mediatica del Paese su due figure nuove nella competizione presidenziale: una donna, Hilary Rodham Clinton, e un afroamericano, Barack Hossein Obama. Fu lui, all'alba del 5 novembre del 2008, a divenire il nuovo presidente degli Stati Uniti, invertendo drasticamente la rotta fino a quel momento seguita nel decennio di amministrazione Bush. Il programma con cui Obama venne eletto, infatti, era incentrato principalmente su sostegno all'occupazione, alleggerimento del carico fiscale per le famiglie e le imprese, su un principio di welfare e sulla possibilità di investimenti pubblici nelle infrastrutture e nelle energie rinnovabili, tutti pilastri economici, politici e sociali in gran parte estranei alle ideologie liberiste statunitensi e di certo invise alla vecchia guardia repubblicana. Obama, dietro lo slogan Yes we can, incarnò il desiderio di rilancio di una nazione su cui cominciava ad abbattersi il sentore della crisi economica e di un Paese che voleva riconquistare il suo ruolo sulla scena mondiale senza dover fare sfoggio di forza militare, un esempio di democrazia da esportarsi innanzitutto con l'aiuto della diplomazia e di un’indiscussa egemonia culturale. In questo senso, Obama cercò subito di scrollarsi di dosso anni di unilateralità in campo di politica internazionale, rilanciando i negoziati di pace per la questione israelo-palestinese, la lotta al riarmo nucleare e un'ipotesi concreta di soluzione alla questione irachena. Questi propositi gli valsero l’assegnazione del Nobel per la pace nel 2009 prima ancora di venire trasformati in realtà, conferimento che denotò ancor di più il profondo impatto emotivo che la sua elezione aveva avuto non solo negli Stati Uniti, ma nel mondo intero. Nel corso del tempo, tuttavia, l'avanzare della crisi economica e finanziaria generata dalla bolla dei mutui immobiliari , l'aumento esponenziale della disoccupazione, la necessità di un nuovo invio di uomini in Iraq e Afghanistan e il disastro ambientale più grande della storia statunitense, dovuto allo sversamento massivo di petrolio dalla piattaforma Deepwater horizon, nel Golfo del Messico (aprile 2010), fecero rapidamente calare la popolarità del presidente, portandolo a una sonora sconfitta nelle elezioni di medio termine (ottobre 2010), che costarono ai democratici la camera. Nonostante il pessimo risultato elettorale, nel corso dei due anni successivi Obama difese strenuamente i principali punti del suo programma, riuscendo lì dove nessuna amministrazione si era mai spinta prima di allora, ovvero nel varo di una riforma sanitaria che estese a trentadue milioni di statunitensi la copertura assicurativa. Di grande impatto emotivo è stata poi la cattura e uccisione di Bin Laden (maggio 2011), un risultato fortemente cercato allo scadere del decimo anniversario dell'11 settembre. Sulla stessa linea, l'uscita degli Stati Uniti dall'Iraq (dicembre 2011) e l'avvio del ritiro dall'Afghanistan, da completarsi nel 2014, come stabilito nel vertice NATO di Lisbona del 2010, hanno mostrato non solo la concretezza delle promesse elettorali, ma anche la disponibilità statunitense a forme di cooperazione internazionale per la risoluzione dei conflitti armati. L’attenzione mostrata verso la cosiddetta e il tentativo di contenere l’espansionismo cinese in Asia, dirottando parte delle attenzioni USA dal Medio Oriente al Sud-est asiatico, hanno determinato un ritorno di popolarità per Obama che, candidato alle presidenziali del 2012, ha vinto contro il repubblicano Mit Romney sia nel voto popolare, sia tra i grandi elettori, nonostante molti pronostici contrari. Gli Stati Uniti fotografati dal voto, tuttavia, restano in una situazione complessa, con il Congresso diviso e una ripresa economica lenta, elementi che al momento pesano come incognite sul futuro nazionale e, ovviamente, internazionale.

Economia. – L’aspetto che maggiormente ha caratterizzato l’economia degli Stati Uniti a partire dalla seconda metà degli anni Novanta è stata la formazione di un elevato debito del settore privato, e in particolare delle famiglie, che è andato a sommarsi ai già elevati saldi finanziari netti negativi del settore pubblico e del settore delle imprese. Il debito aggregato complessivo dell’economia statunitense (risultante dalla somma algebrica dei saldi finanziari netti delle famiglie, delle imprese e dello Stato) ha infatti raggiunto alla fine del 2007 una dimensione corrispondente a circa il 350% del PIL e solo nel periodo più recente, in seguito alla grave crisi economica e finanziaria del 2008-2009 (v. oltre), si è ridimensionato intorno al 300% del PIL. La crescita del debito aggregato si è inoltre riflessa sul disavanzo delle partite correnti che si è ampliato passando da 1,5 punti in percentuale del PIL nel 1995 a 4,3 punti nel 2000, fino ad arrivare a 6 punti del 2006. In seguito alla crisi tali valori si sono ridimensionati, stabilizzandosi tra il 2010 e il 2012 intorno al 3% del PIL. Di conseguenza, anche la posizione patrimoniale netta degli Stati Uniti (data dalla differenza tra lo stock di attività estere detenute dai residenti e lo stock di attività statunitensi detenute all’estero) ha subito un progressivo deterioramento: già negativa alla fine del 1999 per un valore di 724 miliardi di dollari (7,8% del PIL), nel 2011 ha superato i 4000 miliardi di dollari (26,5% del PIL). Alla fine del primo decennio del 21° secolo gli Stati Uniti sono divenuti il Paese con il debito estero più alto al mondo, alimentato da una crescita della domanda di risorse (consumi, investimenti e spesa pubblica) costantemente superiore alla produzione interna. A fronte di questi squilibri e del conseguente accumulo di debito estero, gli Stati Uniti hanno mantenuto la capacità di rispettare i propri impegni di pagamento grazie alla disponibilità evidenziata dai paesi con avanzi delle partite correnti (Giappone, Cina, paesi produttori di petrolio, paesi del Sud-Est asiatico) a investire in titoli statunitensi in ragione sia dell’efficienza e dell’innovatività del mercato finanziario statunitense, sia della scelta di alcuni paesi (in primo luogo della Cina, divenuta il primo Paese creditore degli Stati Uniti), di accumulare riserve in dollari con il duplice obiettivo di alimentare la continua espansione della domanda statunitense per le loro esportazioni e favorire l’apprezzamento del dollaro allo scopo di mantenere competitivo il tasso di cambio. L’elevata disponibilità di risparmio di questi paesi (global saving glut, secondo la definizione del presidente della Federal reserve Ben Bernake) si è riversata nei primi anni del 21° secolo sul mercato obbligazionario statunitense, permettendo ai tassi di interesse di mantenersi su livelli eccezionalmente bassi e di alimentare indirettamente la crescita della bolla immobiliare che ha dato origine a una grave crisi dei mutui ipotecari.

L’economia del debito e l’esplosione della bolla dei mutui immobiliari. – I fattori che hanno favorito la crescita dell’indebitamento delle famiglie negli Stati Uniti sono vari e complessi. Hanno influito sicuramente i processi di deregolamentazione dei mercati finanziari che, attraverso lo sviluppo dei mercati e delle , hanno moltiplicato l’offerta di credito per le famiglie a costi decrescenti (v. anche ), grazie anche ai bassi tassi di interesse. Dal lato della 'domanda', inoltre, la crescita del debito è derivata della crescita stagnante dei redditi delle classi medie, che è risultata inferiore a quella dei consumi. Il tasso di indebitamento delle famiglie rapportato al reddito disponibile è salito dai 98 punti di inizio 2000 ai 138 di fine 2007, e questa crescita è risultata pressoché interamente riconducibile alla componente dei mutui ipotecari, la cui consistenza si è elevata nello stesso periodo di tempo da 64 a 101 punti percentuali. Dopo che, a partire dal 2001, la Fed ha ridotto i tassi di interesse per contrastare il rischio di recessione conseguente agli attacchi dell’11 settembre, l’abbondante liquidità e la contenuta domanda di credito da parte delle imprese (in ragione degli elevati profitti) hanno spinto le banche a ricercare redditività con investimenti più rischiosi. È aumentata l’erogazione di prestiti e in particolare quelli per l’acquisto di case concessi anche a soggetti inadempienti sotto il profilo dei flussi di reddito (v. ) in base alla presunzione che fossero garantiti dall’ascesa ininterrotta del mercato immobiliare. Ne sono scaturiti, prima della crisi, ingenti guadagni per le banche, ma la stretta creditizia attuata dalla Fed a partire dal 2005 e la flessione dei prezzi degli immobili iniziata nel giugno 2006 hanno provocato il default a catena di numerosi mutuatari e determinato il fallimento degli intermediari finanziari coinvolti dando l’avvio a una crisi finanziaria destinata a estendersi a livello mondiale.

Le politiche economiche e la gestione della crisi. – L’esplosione della bolla speculativa sul mercato immobiliare statunitense ha generato effetti di un’ampiezza imprevedibile. Al declino dei prezzi immobiliari iniziato nella seconda metà del 2006 hanno fatto seguito rilevanti turbolenze finanziarie nell’agosto2007 che, pur tra fasi alterne, si sono protratte per circa un anno, per poi degenerare in una crisi finanziaria senza precedenti. Tale crisi si è manifestata dapprima in un crollo drastico e improvviso di prodotti finanziari ormai privi di mercato e successivamente in una brusca riduzione delle posizioni debitorie del settore privato (v. ) che ha portato all’ulteriore ribasso dei prezzi delle attività finanziarie e degli immobili. Il clima di pessimismo e diffidenza si è inoltre riversato sui mercati interbancari, che si sono bloccati a causa della diffidenza delle banche a prestarsi reciprocamente fondi senza garanzia, provocando in breve tempo una carenza di liquidità nel sistema economico. In un processo disordinato di contrazione del credito e di crolli di borsa (tra settembre e ottobre 2008 l’indice della Borsa di New York è sceso del 25%) alcuni tra i più grandi istituti bancari sono falliti o finiti in amministrazione controllata, e con essi decine di banche locali. Nelle fasi iniziali della crisi l’onere della stabilizzazione dei mercati è ricaduto interamente sulla Banca centrale che ha adottato misure di politica monetaria eccezionali per dimensione e natura, allo scopo di alleggerire i bilanci delle banche dai e ripristinare la fiducia tra gli operatori del mercato. A partire dal mese di settembre del 2008, in particolare, si è iniziato a fare ricorso a misure di alleggerimento monetario (v. ), dopo che la banca d’affari Lehman Brothers è stata lasciata fallire provocando ripercussioni sufficienti a scuotere l’intero sistema finanziario internazionale. La sola leva monetaria si è però rilevata insufficiente a ristabilire condizioni ordinate di funzionamento del mercato, anche perché nel frattempo la crisi finanziaria aveva contagiato l’economia reale, coinvolgendo anche il settore manifatturiero e in modo particolare l’industria automobilistica. Tra la fine del 2008 e la prima metà del 2009 l’economia ha subito flessioni superiori al 6% per due trimestri consecutivi che hanno provocato una flessione del PIL del -0,3% nel 2008 e del -3,1% nel 2009. Particolarmente gravi sono risultate le conseguenze sulla crescita dei disoccupati che tra la fine del 2007 e la fine del 2009 sono aumentati di quasi otto milioni di unità, portando il tasso di disoccupazione al 9,3%, un livello quasi doppio rispetto a quello di appena due anni prima. Il precipitare della crisi ha spinto l’amministrazione del presidente Bush ad abbandonare l’atteggiamento di ritrosia nei confronti di un intervento diretto nell’economia e a stanziare con l’Emergency economic stabilization plan, aiuti per oltre 700 miliardi di dollari al fine di sostenere operazioni di salvataggio e di ripulitura dai titoli tossici dei bilanci delle banche coinvolte nella crisi da attuare attraverso il contestato . Con l’elezione di Barack Obama nel gennaio 2009, tuttavia, la politica economica ha assunto un’impronta decisamente interventistica orientandosi in particolare verso obiettivi di riequilibrio distributivo a favore dei ceti medi, lotta alla disoccupazione e rafforzamento della disciplina dei mercati finanziari. Nel febbraio del 2009, viene emanato l’American recovery and reinvestment act (ARRA), un piano da 787 miliardi di dollari destinato a contrastare gli effetti avversi della recessione tramite sgravi fiscali a favore dei certi medi e sussidi alla disoccupazione e a sostenere le prospettive di sviluppo di lungo periodo dell’economia attraverso investimenti infrastrutturali nel sistema educativo, nel settore energetico e nella green economy. Allo stesso tempo vengono riprese le misure previste dal Troubled assets relief Ppan e integrate con altri provvedimenti, tra cui il Public-private partnership investment program, un fondo a capitale misto pubblico e privato che ha esteso fino a 1000 miliardi di dollari il sistema di garanzie a favore del settore bancario. Nel 2010, viene approvata la legge di revisione delle regole del sistema bancario e finanziario con cui si fissano dei limiti alle dimensioni delle banche e allo loro facoltà di effettuare investimenti rischiosi e si prevede la possibilità per la Banca centrale di assumere il controllo delle grandi società finanziarie in crisi e, in caso di necessità, di rilevarle (v. Dodd-Frank act).Nello stesso anno viene realizzata un’importante riforma del sistema sanitario, destinata ad assicurare la copertura mutualistica ai 32 milioni di cittadini sprovvisti di assistenza perché non rientranti nel programma pubblico Medicaid. La sconfitta dei democratici nelle elezioni di medio termine del novembre 2010 ha tuttavia tolto al presidente il controllo della Camera e da quel momento sono sorte numerose difficoltà per l’approvazione delle politiche finanziarie e l’innalzamento del 'tetto' al debito pubblico (il cosiddetto debt ceiling e cioè l’ammontare massimo di indebitamento federale, stabilito di volta in volta dal Congresso, la cui modifica richiede il voto di maggioranza di entrambe le camere), dovute alla posizione intransigente assunta dai deputati repubblicani legati al movimento del Tea party, fortemente contrario all’aumento della pressione fiscale, che hanno bloccato l’attuazione del programma di riforme di Barack Obama.

Gli effetti dell’intervento pubblico e le prospettive di sviluppo. – La politiche di salvataggio del sistema finanziario e di stimolo fiscale hanno consentito all’economia statunitense di uscire dalla recessione in tempi relativamente rapidi. La crescita del PIL è proseguita senza interruzioni a partire dal terzo trimestre del 2009: all’inizio del 2011 l’economia aveva già completamente recuperato la caduta produttiva del 2008-2009 e nel 2012 ha fatto registrare un ulteriore incremento del 2,2%. La ripresa economica è stata sostenuta anche dalle successive ondate di quantitative easing le quali, tuttavia, hanno anche comportato una vera e propria esplosione delle componenti dell’attivo del bilancio della Fed (le cui dimensioni hanno raggiunto a metà del 2012 il 19% del PIL, contro il 7% di quattro anni prima) costituite in larga parte da titoli di qualità dubbia (come i Mortgage backed securities, v. MBS) dati come garanzia dalle banche e dalle agenzie governative. Gli interventi di stimolo fiscale hanno inoltre determinato elevatissimi deficit di bilancio, che nel periodo 2009-2012 hanno raggiunto in media il 10% del PIL (arrivando anche a toccare il 13% nel 2009) provocando la rapidissima crescita dello stock del debito pubblico. Quest’ultimo è quasi raddoppiato in sei anni, raggiungendo alla fine del 2012 il valore di oltre 16.400 miliardi di dollari (superiore al tetto autorizzato dal Congresso) pari a oltre il 107% del PIL. A questa crescita del debito pubblico ha corrisposto un graduale assorbimento delle posizioni debitorie del settore privato che dopo aver raggiunto nel 2007 una dimensione corrispondente a circa il 300% il PIL ha iniziato a diminuire progressivamente, scendendo al 250% nel 2012. Tale riduzione è derivata soprattutto dal processo di correzione dell’elevato debito delle famiglie che è calato di circa 17 punti percentuali in rapporto al reddito disponibile per effetto, soprattutto, delle insolvenze dei detentori dei mutui immobiliari. Di fatto si è verificata una sorta di nazionalizzazione del debito privato, che attraverso l’espansione della spesa pubblica ha permesso di sostenere la ripresa dell’economia e consentire allo stesso tempo il graduale assorbimento delle posizioni debitorie del settore privato. La ripresa economica non ha tuttavia generato risultati pienamente soddisfacenti sul mercato del lavoro. Alla fine del 2012 il numero dei disoccupati ufficiali era di 12,3 milioni (equivalenti a un tasso di disoccupazione del 7,9%) in diminuzione rispetto al picco raggiunto durante le fasi più acute della crisi, ma ancora ben distante dai livelli pre-crisi. Tale miglioramento, peraltro è da ascrivere più alla riduzione del tasso di occupazione (63,4% contro il 67% pre-crisi) e quindi alla crescita del numero di lavoratori 'scoraggiati' che hanno smesso di cercare attivamente un’occupazione, che a una effettiva ripresa del mercato del lavoro. Inoltre, malgrado il ricorso massiccio alle politiche di alleggerimento quantitativo per stimolare gli investimenti e l’occupazione (nel settembre del 2012 la Banca centrale ha annunciato un piano di acquisti di titoli cartolarizzati per 40 miliardi di dollari al mese fino a che non verrà registrato un netto miglioramento del mercato del lavoro) la nuova liquidità creata è rimasta 'intrappolata' nei circuiti monetari con effetti limitati sull’economia reale. Di conseguenza le prospettive di crescita dell’economia statunitense restano in larga parte legate all’espansione della domanda pubblica, a sua volta condizionata dal delicato nodo politico dell’approvazione del tetto del debito pubblico. Nel gennaio del 2013, infatti, un compromesso in extremis tra repubblicani e democratici ha scongiurato il rischio del precipizio fiscale (fiscal cliff) ovvero dei massicci tagli di spesa pubblica e di aumento delle aliquote fiscali che scattano automaticamente in caso di superamento del tetto di bilancio, ma la polarizzazione delle posizioni dei due schieramenti politici su orientamenti opposti riguardo alle politiche di stimolo rischia di far saltare in futuro il compromesso raggiunto.

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