RELIGIONI, Storia delle

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1981)

RELIGIONI, Storia delle (XXIX, p. 29)

Alfonso M. Di Nola

Definizione e fase critica di sviluppo. - Una definizione della s. d. r., nell'attuale sviluppo, non può eludere il problema della crisi d'identità e di fondabilità scientifica che ha investito la disciplina dopo la sua disordinata crescita; e la soluzione di tale problema è condizionata dalla chiarificazione dei rapporti che essa ha avuto o deve avere con altre metodologie e scienze che riguardano, sotto angolature diverse, l'analisi del comportamento religioso.

La s. d. r., proprio nel suo originario significato di "scienza dell'oggetto religioso" (Religionswissenschaft), consolidatosi nell'area germanica, si distacca dalle storie delle singole religioni (cristiana, buddistica, induistica, bambara, ecc.), con le quali mantiene fondamentali relazioni. Le storie delle singole religioni si qualificano come discipline propriamente idiografiche e descrittive che ricostruiscono lo sviluppo di un contesto magico-religioso in determinate aree spaziali e temporali. Esse non hanno interesse a reperire nozioni e categorie generali, valide, cioè, al di fuori della specificità storica dei dati analizzati. Ma utilizzano anche termini e categorie accolte senza preoccupazione euristica di definizione e di precomprensione, quali, per es., "rito", "mito", "magia", "fede", ecc., che sono recepite come precostituite e che, invece, divengono, in parte, l'oggetto specifico della s. d. r. come. disciplina autonoma. Ne consegue che i criteri di analisi applicati dagli storici delle singole religioni ai loro propri ambiti geografici e cronologici possono variare in rapporto alla diversità delle qualificazioni che la s. d. r. attribuisce a quei termini e a quelle categorie. Vi è, quindi, un territorio d'interferenza fra s. d. r. e storia delle singole religioni nel senso ora indicato (ricezione delle ipotesi storico-religiose da parte degli storici delle singole religioni). Parallelamente non è possibile fondare una s. d. r. senza il diretto riferimento ai risultati della ricerca storica nei diversi settori culturali-religiosi: il che significa che la s. d. r., se si propone fra i suoi fini l'individuazione di categorie generali verificabili in tutte le religioni, non può prescindere dai dati storici delle singole religioni che soli le consentono di misurare e comprendere queste categorie nel loro sviluppo reale e nella loro oggettività mateiiale. Nel fondo di tale diversa relazione fra s. d. r. e storie delle singole religioni urge l'incertezza epistemologica del come sia possibile, una volta accettata l'irrenunziabilità della fondazione storica della s. d. r., ricavare le categorie dai dati. In assoluto lo storico delle religioni, poiché parte da materiali idiografici, specifici storicamente e variabili culturalmente, dovrebbe avere il quadro completo di tutti i dati sincronici e diacronici che legittimino la definizione di categorie come "mito" o "rito" in modelli che possano essere applicati a tutte le aree storiche possibili. In pratica tale difficoltà fortemente pregiudicante l'intero impianto metodologico si supera (o si evade) strutturando le proprie definizioni nomotetiche su una quantizzazione o campionatura limitata di dati storici, con l'utilizzazione, per es., della propria esperienza di specializzazione in un preciso ambito cronologico e temporale. Tale ipotesi metodologica di lavoro, correntemente applicata, risolvendosi nella generalizzazione (di tipo nomotetico) di concetti tratti da uno o più ambiti storici (di tipo idiografico), può dare origine a interpretazioni sbagliate. Fino a epoca recente, per es., si è data costante rilevanza, nel lavoro storico-religioso, alla nozione o idea di Dio, come a fatto primario e categoriale dell'esperienza religiosa. Proprio piegandosi alla devianza metodologica ora denunziata, si partiva dalla tradizione ebraico-cristiana occidentale, nella quale l'idea di Dio è chiaramente sviluppata, e si trasformava una nozione propria delle religioni di quella tradizione in categoria generale, indirizzando la ricerca verso il reperimento di essa anche in aree che non l'hanno mai avuta (per es., ampie zone del territorio australiano e neoguineano). È quindi molto viva l'esigenza di sottoporre continuamente alla verifica storica il valore e l'applicabilità dei concetti generali proposti soltanto come ipotesi interpretative e non assunti come forme normative generalizzanti. Lo storico delle religioni opera, in sostanza, lungo una linea euristica carica di rischi e di incertezze: riduce a modelli tendenzialmente nomotetici i dati idiografici, e tuttavia i dati elaborati, appartenendo alla storia e non alla natura, restano irripetibili e non ricostruibili sperimentalmente, così che la fondatezza delle definizioni non è assoggettabile alla verifica sperimentale propria delle scienze naturali e resta accettabile soltanto nella misura in cui trovi conferma proprio nel confronto con altri dati irripetibili, diversi da quelli sui quali le categorie sono state elaborate.

Un altro punto d'impatto che ostacola attualmente una precisa delimitazione dei compiti e delle funzioni della s. d. r. è la crescita della fenomenologia della religione, disciplina autonoma di matrice filosofica con la quale la s. d. r. viene spesso a confondersi. La fenomenologia delle religioni, quale appare, per es., in G. van der Leeuw e in M. Eliade, opera su uno strato presunto come prestorico, universale e assoluto, che è l'essere religiosamente come esigenza o condizione dell'uomo in generale. Presuppone, perciò, una "religione" o "religiosità" nel senso di Erlebnis esistenziale che precede e spiega i contesti storici nei quali si cala e si fa concreta. Il livello differenziante che si pone fra le due discipine va, pertanto, individuato nella diversità delle rispettive posizioni in confronto del fatto religioso, che per i fenomenologi costituisce una realtà ontologicamente a sé, un modo di essere dello spirito, del pensiero pensante, dell'intuizione o della ragione, in ogni caso trascendente, in senso filosofico, le singole formazioni storiche e contingenti in cui si manifesta, mentre per gli storici delle religioni il fatto religioso è una figura fittizia o una categoria metodologica i cui tratti possono essere desunti unicamente dai contesti storici. Il differenziamento non appare, tuttavia, sempre chiaro anche perché s. d. r. e fenomenologia trattano concorrenzialmente gli stessi concetti generali (rito, mito, fede, esperienza, ecc.). Si verifica, così, l'emergenza di un territorio sincretistico o confuso, nel quale le due discipline perdono i loro contorni specificanti. È, per es., il carattere di molta parte della produzione di M. Eliade, che trasforma lentamente il suo primo impegno storico-religioso in una programmazione fenomenologica progressivamente crescente, nella quale la varietà e l'irripetibilità dei dati storici sfumano in valenze simboliche: il suo Trattato di storia delle religioni (Parigi 1949; trad. it., Torino 1954) è, nonostante il suo titolo, un'analisi fenomenologica di grandi tematiche (astri, sole, luna, madre, ecc.).

Ulteriori difficoltà incidenti sulla definizione della disciplina conseguono dagli sviluppi imponenti dell'antropologia culturale e sociale, con la quale la s. d. r. non può evitare un rapporto di chiarimento. Prima che l'antropologia avesse tentato una definizione del concetto di cultura, non era messa in questione la legittimità di una ricerca che, come quella storico-religiosa, interviene su elementi culturali, propriamente i magici e i religiosi, che vengono astratti, desunti e sradicati dai contesti e analizzati come adatti e sufficienti a essere compresi in una loro presunta autonomia dialettica. Ma il concetto di cultura che, nel suo modello minimo, rispecchia, pur nella controversa diversità delle definizioni avanzate dagli antropologi, l'interfunzionalità e la reciproca dipendenza di tutti gli elementi che formano un quadro storico, pone in crisi la metodologia storico-religiosa: è ancora possibile l'analisi autonoma di elementi assimilati fittiziamente per le loro analogie formali senza aver presente il riferimento a tutte le altre componenti del quadro culturale? Attualmente lo storico delle religioni non può più operare su un'area di dati fittiziamente costituita, ma deve avere presente la rete interrelazionale e l'esigenza di rappresentarsi non già la "religione", ma la "cultura" nella sua intierezza scoperta lungo la falsariga dei dati magici e religiosi. Tale esigenza comporta un ampliarsi della metodologia di ricerca che resta correlata a una grande varietà di strumenti, da quelli propriamente storici, a quelli economici, geografici, artistici, linguistici, che consentono di evitare la frammentazione dell'unità culturale esaminata e il rimando a un ipotetico e astratto homo religiosus che prescinde dell'unità di tutti gli atteggiamenti e comportamenti umani.

Le problematiche epistemologiche fin qui accennate consentono d'indicare la storia delle r. come una disciplina storica o scienza umana diretta a reperire i tratti comuni o le categorie storicamente verificabili del comportamento religioso (i cosiddetti "tipi" che costituiscono la tipologia storico-religiosa) attraverso il metodo comparativo e ai fini di comprendere il momento religioso della vita culturale, come dato privilegiato in una ricerca che non può rinunziare, tuttavia, alla comprensione dell'intero quadro.

Il metodo comparativo, che resta uno strumento specifico della disciplina, va distinto dal facile comparativismo, dal rischio, cioè, di affidare le definizioni tipologiche ad analogie puramente formali fra dati assunti al di fuori di ogni preciso referente storico.

L'oggetto della s. d. r. resta il dato o fenomeno religioso e magico, circa l'estensione del quale è opportuno fare qualche ulteriore precisazione. Fin dalla sua origine la s. d. r. ha accolto una classificazione delle culture che, allo stato attuale degli studi antropologici, non è più credibile. Essa privilegiò, fra le sue fonti, le religioni dei popoli cosiddetti superiori, antichi, contemporanei e moderni: i primi tentativi di Religionswissenschaft si muovono lungo una linea di ricerca che tocca i popoli indoeuropei, il mondo classico, il buddismo, l'induismo, l'ebraismo, il cristianesimo, l'islamismo. Ma nell'evoluzione della disciplina, già nel secolo scorso, subito apparve utile il rimando comparativo a materiali dei popoli senza scrittura o primitivi e ai patrimoni propri degli strati subalterni europei, che costituivano oggetto di studio del folklore.

Tuttavia la s. d. r. resta tuttora ancorata alle sue originarie linee di sviluppo, operando prevalentemente sui materiali delle cosiddette Hochkulturen, anche se la nozione stessa di Hochkultur, sorta nella couche di una classificazione fortemente etnocentrica, appare in gran parte vanificata e superata. Il dato magico-religioso si trova, così, ancora a essere contemporaneamente investito dai metodi analitici e interpretativi di tre differenti discipline che si sono congelate in forma di specializzazione e che trattano, in sostanza, problematiche analoghe o identiche, presupponendo la finzione di un uomo, oggetto della ricerca, tripartito in tre livelli, quello delle Hochkulturen, quello delle culture etnologiche e quello degli strati subalterni delle culture europee. S. d. r., storia delle tradizioni popolari (nella parte che si riferisce alla religione e alla magia), etnologia (come etnologia religiosa), come concorrenti nel medesimo oggetto di studio, riflettono schematizzazioni non più credibili e giustificabili, che impediscono, in ultima analisi, la comprensione del fenomeno religioso nella sua dinamica unitaria.

Scuole e correnti interpretative. - Il 7 maggio del 1941 moriva a Cambridge sir J. G. Frazer, il maggior rappresentante del metodo comparativo anglosassone (comparative religion), il quale nel 1913 aveva portato a compimento, con l'ultimo volume (Balder the Beautiful), la grande raccolta de Il Ramo d'oro, la cui prima redazione, in due volumi, risaliva al 1890.

Frazer esprime le posizioni di un comparativismo non scientificamente controllato e la sua influenza - spesso negativa - è stata ampia nella storia degli studi. Questa influenza derivava più che dall'attendibilità delle ipotesi interpretative (radicate in premesse spiccatamente evoluzionistiche e positivistiche), dall'imponenza dei materiali raccolti e sistemati in opere nelle quali il discorso comparativistico, sottratto a un rigoroso controllo storico, circolava in forme facili e fluenti, destinate a suggestionare ambienti anche lontani dagl'interessi storico-religiosi. La corrente della Comparative religion è oggi continuata in Inghilterra, con l'adozione di strumenti filologici più adeguati, da molti studiosi, fra cui emerge E. O. James.

Un anno prima che Frazer ponesse termine alla sua opera maggiore, E. Durkheim pubblicava Les formes élémentaires de la vie religieuse (Parigi 1913), la più significativa trattazione che inserisce nella s. d. r. le teorie della scuola sociologica francese.

Ne Les formes élémentaires l'impostazione evoluzionistica è diretta a individuare "la religion la plus primitive et la plus simple qui soit actuellement connue". Le premesse metodologiche di Durkheim hanno eccezionale rilievo perché testimoniano il definitivo superamento di classificazioni gerarchiche e valutative dei contesti religiosi, insistentemente presenti nella tradizione filosofica di origine hegeliana (il cristianesimo come culmine della storia dello spirito). "È postulato essenziale della sociologia, dichiara Durkheim, che ogni istituzione umana non può fondarsi sull'errore e sulla menzogna... I riti più barbari e più bizzarri, i miti più strani traducono qualche bisogno umano, qualche aspetto della vita individuale e sociale... Non vi sono, dunque, religioni che possono essere qualificate come false. Tutte sono a loro modo vere, tutte corrispondono, sebbene in maniere differenti, a condizioni poste dall'esistenza umana" (op. cit., ed. del 1960, p. 3). Con un errore logico-storico, che pesa su tutte le scuole del tempo (assunzione secondo la quale ciò che è presuntivamente primo nel tempo è anche il più semplice sotto il profilo conoscitivo), Durkheim fa corrispondere la religione più semplice, come modello minimale dei valori contenuti in tutte le religioni possibili, a quella dei primitivi in genere. I risultati della ricerca così condotta lo portano alla formulazione di alcuni principi generali: a) le categorie del pensiero (spazio, tempo, principio di contraddizione, ecc.) non sono innate, ma hanno un'origine storico-evolutiva individuabile proprio nell'ambito dell'esperienza religiosa; b) la religione è fatto eminentemente sociale fondato sulle "rappresentazioni religiose" ("rappresentazioni collettive che esprimono realtà collettive"; e in corrispondenza i riti sono "modi di agire che nascono soltanto in seno di gruppi riuniti e sono destinati a suscitare, a trattenere o a ricostituire alcuni stati mentali di questi gruppi". Esclusa la validità dei tentativi di definire la religione in funzione dell'esperienza personale del "sacro" o del "misterioso", ovvero in funzione di un'idea di Dio naturale e universale (critiche contro Spencer, Max Müller, Lang e Schmidt), Durkheim ne tenta una definizione positiva o analitica, indicando, nei fenomeni religiosi, la fondamentale distinzione fra credenze e riti. Le credenze necessariamente presuppongono una classificazione delle cose, reali o ideali, in due classi, in due opposti generi, designati dai due distinti termini "sacro" e "profano". Il pensiero religioso opera nell'ambito di tale classificazione bipartita della realtà, la cui portata significante è di difficile determinazione. Sacro non è soltanto il mondo degli esseri personali divini, ma un cerchio di realtà infinitamente varie e differente da religione e religione. La distinzione fra i due livelli può essere rilevata in rapporto alla gerarchia attribuita alla realtà: sono sacre le cose considerate superiori in dignità a quelle profane. Di qui la definizione durkheiminiana di religione come "sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, ossia separate, interdette, credenze e pratiche che uniscono in una medesima comunità morale chiamata chiesa tutti coloro che vi aderiscono" (op. cit., p. 65). La dicotomia di sacro-profano appare a Durkheim particolarmente evidente nel totemismo, che egli, influenzato dalle scoperte etnologiche, crede essere la struttura più semplice e storicamente primordiale della vita religiosa. Scelto il totemismo australiano come base del suo discorso (ed è la scelta più fallace del suo sistema), segue le linee indicate per rappresentarsi la religione come fatto che, attraverso la dinamica sacro-profano, costruisce e struttura il "sociale" o la società costituendo le norme di comportamento e fondando le obbligazioni morali collettive.

La scuola sociologica, superata la fase originaria d'interesse prevalentemente sociale, ha avuto grande sviluppo negl'indirizzi storico-religiosi della Francia. Nell'orbita delle dottrine sociologiche entra il pensiero di L. Lévy-Bruhl (1857-1939) che aveva iniziato con ricerche di tendenza positivistica e comtiana. Lévy-Bruhl, che fonda l'interpretazione nota sotto la denominazione di prelogismo (rigettata, almeno in parte, dallo stesso autore negli ultimi anni), resta fedele all'ipotesi durkheiminiana delle rappresentazioni collettive come forma di pensiero differente da quello individuale e avente diretto rapporto con l'evoluzione del gruppo sociale.

Trovandosi tuttavia in presenza di un più ricco materiale etnologico Lévy-Bruhl si è chiesto in quale senso le strutture così qualificate da Durkheim conservano la loro validità: se, cioè, le rappresentazioni collettive dei primitivi possano essere giudicate come analoghe a quelle proprie della nostra mentalità civilizzata (Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, Parigi 1910,19519, p. 28 ss.). Poiché affrontiamo, egli dice, i dati delle culture primitive con gli strumenti conoscitivi della nostra mentalità, corriamo il rischio di non comprenderli. Questo problema preliminare metodologico (sul quale vedi La mentalité primitive, Parigi 1922,196015, p. 506), che è quello dell'incomunicabilità conoscitiva di vari livelli di cultura, viene risolto da Lévy-Bruhl indicando i criteri fondamentali che devono presiedere all'utilizzazione critica del materiale etnografico (controllo dei testi e delle testimonianze; liberazione del materiale dalle sovrapposizioni linguistiche e ideologiche degl'informatori, ecc.). Ma la via maestra è, per lo studioso, l'individuazione dei caratteri essenziali della mentalità primitiva. Questa è essenzialmente mistica in un senso particolare dato al termine. Questa mentalità parte da impressioni sensibili, che sono identiche per i primitivi e per noi, ma, dopo tale primo contatto con il reale sperimentato, prende un cammino diverso da quello che segue l'evoluzione del nostro pensiero. Il primitivo, come noi, ha interesse alle cause dei fenomeni che emergono nella sua sfera di esperienza, ma non le cerca nella nostra stessa direzione. Vive in un mondo nel quale innumeri presenze occulte agiscono o sono pronte ad agire. Mondo visibile e mondo invisibile costituiscono per lui un'unica realtà, e gli avvenimenti del mondo visibile dipendono, in ogni istante, dalle potenze del mondo invisibile: il primitivo ricerca la causa reale nel mondo delle potenze invisibili (op. cit., p. 510 ss.). In tale senso la mentalità primitiva ha carattere mistico e prelogico e corrisponde a un mondo mentale più complicato del nostro: in esso il reale e il di là dal reale sono confusi e soggetti a continue intersecazioni. Prelogismo e direzione mistica dello spirito si manifestano nella partecipamone, che Lévy-Bruhl ha variamente definita. Essa è, in effetti, un'attitudine propria delle strutture psicologiche dei primitivi, un modo d'implicare tutti gli oggetti e gli esseri, che vengono all'orizzonte dell'esperienza, in una trama di connessioni nelle quali gioca un ruolo di primo piano non l'elemento conoscitivo, ma quello emozionale. La partecipazione, come legge, regola le operazioni della mentalità primitiva, proprio come la legge di non-contraddizione è alla base delle nostre operazioni logiche. Lévy-Bruhl esclude, tuttavia, la possibilità di far riferimento a un'altra logica o a una logica alternativa (Les fonctions mentales, cit., p. 68). Ma non esita a qualificare il tipo di logica da lui scoperto come mistico, quando si consideri in particolare il contenuto delle rappresentazioni, e come prelogico. Prelogico non va inteso nel senso che questa mentalità costituisce una specie di stadio anteriore nel tempo all'apparizione del pensiero logico, ma significa che la mentalità primitiva non è costretta, come la nostra, a evitare sempre la contraddizione. Essa obbedisce alla legge di partecipazione. I Carnets postumi (Parigi 1949), nei quali lo studioso tracciava i suoi appunti per la preparazione di una nuova opera, non costituiscono l'abiura della teoria indicata, ma documentano vari livelli di revisione e di approfondimento di essa. Lévy-Bruhl non disconosce, in essi, la differenziazione essenziale sussistente fra i due orientamenti di pensiero, quello civilizzato e quello primitivo, ma modifica la netta opposizione fra di essi e soprattutto rinunzia alla terminologia che aveva fino allora adottata e che era alla base di gravi equivoci. Egli conferma: "Il loro spirito [dei primitivi] è orientato differentemente dal nostro" (op. cit., p. 67). Nell'esperienza ordinaria essi agiscono secondo le nostre stesse regole logiche, ma resta il problema della loro esperienza mistica, nella quale il punto di vista dell'epistemologia conoscitiva occidentale è assolutamente secondario, quasi occultato dalla presenza e dalla prepotenza delle forze avvertite come soprannaturali. Ora è disposto a dichiarare che non possono essere costituite e presunte radicali diversità nello spirito umano, la cui struttura è la medesima in tutte le società conosciute e "dunque non si può parlare di carattere prelogico" (op. cit., p. 62). Le ipotesi avanzate, egli sostiene, non devono essere completamente rigettate, ma piuttosto vanno rielaborate superando la dicotomia "un peu simple et brutale" in cui erano state avanzate nel 1910 (op. cit., p. 69). La rilevanza storico-religiosa del pensiero di Lévy-Bruhl appare quando si abbia presente che, in ultima istanza, le forme religiose devono essere considerate, secondo le ipotesi dello studioso, anche nella nostra società come dinamiche mentali assoggettate alla legge di partecipazione della mentalità primitiva. Esse costituirebbero il momento "primitivo" all'interno della nostra epistemologia scientifica.

Dalla stessa matrice sociologica deriva, in Francia, la scuola trifunzionalista di G. Dumézil, che, affrontando l'analisi della mitologia delle popolazioni di lingua indoeuropea, riconosce che non è oggi possibile fare mitologia comparata se non riconsiderando le strutture sociali di base (magico-religiose, economico-religiose, politico-religiose) che sottostanno alla narrazione.

La scelta sociologica di Dumézil è, del resto, documentata nella stessa storia del suo insegnamento accademico che, iniziato nel 1935 come "corso di mitologia indoeuropea" alla École pratique des hautes études di Parigi, sotto la pressione di precise esigenze che portano a riscattare il fatto religioso dal suo isolamento disciplinare e a considerarlo nelle sue implicazioni storico-sociali, diviene "studio comparativo delle religioni dei popoli indoeuropei" e, in rapporto ai metodi e ai risultati, "filologia comparata" e "sociologia indoeuropea" (Tarpeia, Parigi 19472, p. 25 ss.). Dumézil tende a recuperare i frammenti di un'antica religione comune indoeuropea, ricavabili dalle strutture proprie delle varie società parlanti idiomi indoeuropei. Ci troviamo, egli dice, in presenza di sistemi religiososociali completi e autosufficienti, quali l'indiano-vedico, il latino e il greco, spazialmente distanti fra loro, appartenenti a epoche diverse. Il problema del recupero della "religione comune", difficile ma non insolubile, va affrontato avendo presente che un materiale comune indoeuropeo è, soprattutto linguisticamente, individuabile in alcune "unità intermedie" che si sono conservate prima dei punti di partenza delle singole "storie nazionali" lungo il corso delle migrazioni dalla sede centrale. Prima, cioè, delle storie "nazionali" dei Persiani, dei Greci, degli Sciti, dei Celti, ecc., si rileva l'esistenza di alcune formazioni etno-linguistiche accomunanti popoli che successivamente si sono evoluti e separati in loro proprie storie. Unità intermedia è, per es., quella indoiranica, attestata dalla concreta possibilità di ricostruire un comune vocabolario religioso indo-iranico sul parallelismo dei termini dei veda e dell'Avesta. Unità intermedie sarebbero i Celti e gl'Italioti. Tali premesse filologiche portano alla definizione di una metodologia sociologica nella quale il discorso di Durkheim si sostanzia di riferimenti e di connessioni precisi. La società dell'unità intermedia appare strutturata in una tripartizione classista dalla quale dipende la rappresentazione del mondo divino. In India la tripartizione si acutizza nella forma delle tre caste in cui ogni gruppo arya è suddiviso. La classe dei preti (brāhmana), quella dei guerrieri (kṣatriya) e quella degli agricoltori (vaiśya) costituiscono i tre organi dalla cui cooperazione dipendono il benessere e la continuità della vita del gruppo. Nella società iranica riappare la medesima struttura tripartita e quadripartita (ove si abbia presente la comprensenza di una classe dei servi, all'origine autoctoni non assoggettati dai conquistatori ariofoni). Per una tripartizione della società scita, Dumézil rileva il passo di Erodoto (IV, 5-6) nel quale un fondatore culturale dei tempi eroici, Targitaos, figlio di Zeus e della figlia del fiume Boristene, ebbe tre figli, sotto il regno dei quali precipitarono dal cielo degli oggetti d'oro, un aratro, un giogo, un'ascia e una coppa, simboleggianti, ai fini della tesi trifunzionalista, l'agricoltura, la milizia, la funzione sacerdotale e magico-sacrale. Il gioco corrisponderebbe a un'ulteriore funzione del guerriero scita o avrebbe un significato agricolo accessorio. La tripartizione si esprime in proiezioni mitologiche (a livello di figure divine) e in proiezioni cosmico-religiose. Dietro gli organi sociali, che rappresentanto le classi, sono figure divine, che non appaiono sempre le medesime, perché variano in conseguenza delle rielaborazioni sacerdotali e degli adattamenti cui, nell'evoluzione storica, ricorrono le scuole teologiche. La tripartizione, che, secondo Dumézil, è accertabile a vario livello documentario, presso gl'Indiani, gli Sciti e gl'Iranici (unità intermedia indo-iranica), va studiata nella ricerca di possibili estensioni ad altri gruppi. Sembra, perciò, recuperabile presso la società romana sulla base del celebre Ordo sacerdotum di Festo, nel quale la lettura duméziliana riconosce la triade antichissima dei flamines dialis, martialis, quirinalis, corrispondente alla triade divina di Dium (Jupiter), Mars e Quirinus (in rapporto con le tre classi dei sacerdoti, dei guerrieri e degli agricoltori). Il sistema duméziliano è stato criticato per il suo schematismo e per la sua rigidità (vedi, per es. G. Devoto, Origini indoeuropee, Firenze 1962, p. 64), ma Dumézil lo ha assoggettato a una continua revisione. All'interno delle società indoeuropee la tesi della sicura presenza dello schema tripartito, che prevale nelle opere anteriori al 1950, è da accogliersi ora nel senso che tale ideologia non comporta necessariamente la divisione tripartita dei gruppi storici di denominazione indoeuropea. L'ideologia, laddove se ne accerti la presenza, potrebbe essere rilevata soltanto come ideale (e potrebbe non essere stata mai calata nella realtà). Diviene, per lo studioso francese, "un mezzo per analizzare, per interpretare le forze che assicurano il corso del mondo e la vita degli uomini" (Mythe et épopée, vol. I, Parigi 1968, p. 15). In questo senso lo schema non è necessariamente delle sole culture indoeuropee, ma, in forme diverse, potrebbe essere accertato, sulla base di verifica storico-religiosa, all'interno di molte altre società.

Una sintesi degli sviluppi della s. d. r. nei paesi di lingua germanica non può non aver presente l'incidenza delle scuole psicoanalitiche sulla disciplina. Nel 1913 S. Freud pubblica in un unico volume, con il titolo Totem und Tabu. Einige Ueberstimmungen im Seelenleben der Wilden und der Neurotiker, quattro saggi che erano già apparsi sulla rivista Imago nel 1912. Le teorie storico-religiose di Freud (che corrispondono al salto dal piano della pura tecnica psichiatrica a un tentativo, poco convincente, di visione totale del mondo) si comprendono soltanto in funzione di un'ipotesi che lo studioso austriaco aveva formulato nel 1907: quella sul rapporto analogico fra i cerimoniali ossessivi (azioni compiute coattivamente da alcuni nevrotici) e gli aspetti rituali di alcuni comportamenti religiosi, così che il rituale nevrotico diviene un equivalente patologico del rituale religioso, laddove la religione può essere considerata una nevrosi ossessiva universale. Posteriormente l'analisi clinica di casi di nevrosi infantile lo portava a individuare la portata analogica dei comportamenti infantili con quelli religiosi.

In Totem und Tabu e più precisamente nella parte più rilevante sotto il profilo storico-religioso (IV. Die infantile Wiederkehr des Totemismus), le equivalenze bambino = nevrotico = uomo religioso si ampliano nell'orizzonte etnologico ed espongono Freud a rischi dei quali egli non si accorge. La sua documentazione etno-religiosa è, infatti, molto carente ed egli assume, per dati incontrovertibili, ipotesi che erano state azzardate dai primi ricercatori dei riti totemici. Inoltre, accogliendo un'altra illusione metodologica che caratterizza gran parte delle scuole dell'epoca, non solo s'indirizza verso la ricerca di un principio psicologico e cronologico della vita religiosa, ma crede d'individuare questo primum temporale nel totemismo, facendone, come del resto aveva fatto Durkheim, la forma primordiale e più elementare in cui storicamente si esprime la vita religiosa. Il nuovo orizzonte aggiunge ai termini di equivalenza sopra indicati quello di "selvaggio" o "primitivo", così che è accolta per sempre l'omologia fra psicologia infantile, psicologia nevrotica e psicologia dei primitivi. Nei primi due saggi di Totem und Tabu, Freud individua i meccanismi di desiderio, represso e trasferito, che sono alla base dei fatti religiosi, nei quali viene diagnosticato, nella sua forma culturale, il complesso edipico. I tabu sarebbero le autodifese repressive che i primitivi (in senso cronologico e in senso sincronico) si sono imposti in presenza del desiderio incestuoso. Nel quarto trattato di Totem und Tabu, il conflitto tendenziale fra desiderio (incestuoso) rimosso e impulsione a realizzarlo si risolve socialmente nella fondazione della religione, più precisamente del totemismo che è assunto, secondo una definizione data da Wundt, come fase di transizione fra l'umanità primordiale e l'epoca degli dèi e degli eroi. Partendo dall'esame di un caso clinico di zoofobia, Freud giunge al rilievo di due elementi analogici fra esso e la cultura totemica: a) identificazione completa del soggetto con l'animale totemico; b) atteggiamento ambivalente del soggetto nei riguardi dell'animale totemico. Il salto logico inspiegabile che egli ora compie è la particolare qualificazione dell'animale totemico. Si sente autorizzato a introdurre nel totemismo il padre al posto dell'animale e tenta di spiegare la sua illazione. Il totem, egli dice, è comunemente designato dagli Australiani come antenato, e indicarlo ora come padre, ossia genitore in senso naturale, significa soltanto attribuire un senso letterale al termine antenato, che gli etnologi avrebbero accolto acriticamente. In conseguenza i due comandamenti totemici (proibizione di uccidere l'animale e di sposare una donna dello stesso totem) divengono la trasposizione socializzata dei due divieti infranti da Edipo, il quale ha ucciso il padre (= totem) e ha sposato la madre. Tali divieti corrispondono ai due desideri primari del bambino, la cui rimozione insufficiente o il cui risveglio sono causa di tutte le nevrosi. Il che significa assumere che il totemismo nasce dalle stesse condizioni che originano il complesso di Edipo. Ma Freud non si ferma all'analisi delle tabuizzazioni totemiche. Egli passa oltre, considerando i comportamenti positivi, non negativi, del totemismo, e cioè i cerimoniali di pasto sacramentale totemico, che deve ora spiegare in funzione della sua teoria sui riti. Parte dalla lettura di The religion of the Semites (Londra 1889,18942) di William R. Smith, il quale aveva avanzato l'ipotesi che il pasto totemico (ossia dell'animale tabuizzato) è elemento integrante e originario della cultura totemistica ed è la forma primaria del sacrificio collettivo, atto proibito all'individuo in quanto tale e giustificato solo quando l'intero gruppo se ne assume la responsabilità.

L'uccisione dell'animale, omologato al dio, diviene, così, un omicidio e dev'essere affrontato con le debite precauzioni rituali. Nell'interpretazione di Freud l'animale totemico ucciso serve, in realtà, a sostituire il padre e intorno ad esso si esplicitano le costellazioni affettive: da un lato sussiste la proibizione di uccidere l'animale, dall'altro lato la festa che segue all'uccisione di esso. Vi è, cioè, un atteggiamento affettivo ambivalente, che è lo stesso che caratterizza il complesso paterno presso i bambini e si prolunga talvolta nevroticamente nell'età adulta. Accogliendo l'ipotesi sull'orda primitiva avanzata inizialmente da Darwin e poi sviluppata da Atkinson (in appendice a A. Lang, Social origins, Londra 1903), al principio dell'umanità, nella prima struttura associativa, che è l'orda, un padre violento, geloso, tirannico, tiene in suo potere tutte le femmine e allontana dal gruppo i figli maschi a mano a mano che essi sono sessualmente maturi e, quindi, istintivamente tendono al possesso sessuale delle femmine del padre. Va detto che Freud osserva che la struttura dell'orda non è mai rilevabile etnologicamente o storicamente, poiché, attraverso l'indagine etnologica, conosciamo soltanto associazioni di uomini già organizzati in forme differenti da quelle dell'orda e già sottoposti alle limitazioni del sistema totemico. Quindi l'orda è da accogliersi soltanto come ipotetica condizione che è prima delle strutture totemiche osservabili e dalla quale presuntivamente tali strutture sono derivate. Nell'indagine sul fatto religioso retrogradiamo, così, per ipotesi, da un'associazione di eguali o comunità fraterna di tipo totemistico, che è l'unica forma sociologica documentabile (secondo Freud), a una presuntiva orda nella quale il padre tirannico viene un giorno soppresso e mangiato dai figli che erano stati da lui scacciati. Questo fatto, l'uccisione e la manducazione del padre, è il seme di una grande trasformazione che, ponendo termine all'orda, dà avvio alla vera e propria società e agli elementi che la caratterizzano (religione totemica, arte, comportamento sociale, ecc.). Ora il padre ucciso è anche il modello invidiato e odiato dei membri che costituiscono la nuova associazione fraterna che si evolve dall'orda. Essi realizzano, attraverso la consumazione della carne del padre, la loro identificazione con lui e si appropriano delle forze di lui. Il pasto totemico, che è forse la prima festa dell'umanità, è la commemorazione-riproduzione di quest'atto, "memorabile e criminale che è servito di punto di partenza di tante cose: organizzazioni sociali, restrizioni morali, religione". La banda fraterna ha, nei riguardi del padre ucciso, sentimenti contraddittori, che sono quelli del complesso ambivalente dei bambini e dei nevrotici. Odia il padre che si oppone violentemente al bisogno di potere e alle esigenze sessuali dei singoli giovani figli sessualmente maturi, ma lo ama e lo ammira. Dopo averlo ucciso, si dà a manifestazioni affettive esagerate che si concludono nel pentimento e nel sentimento di colpa. Così il morto diviene più potente di quanto non lo fosse in vita e, con la sua presenza, determina le tabuizzazioni. Ciò che il padre aveva vietato quando era in vita, i figli se lo vietano ora da sé in forza di un'obbedienza retrospettiva. Sconfessano il loro atto, proibendo l'uccisione del totem e rinunziando a raccoglierne i frutti, poiché si autointerdicono i rapporti sessuali con le femmine del padre o del gruppo. In tale senso il sentimento di colpa determina l'emergenza delle due proibizioni totemiche (uccisione del totem; divieto di rapporto sessuale con le donne del gruppo), che corrispondono ai due sentimenti repressi nel complesso edipico. La religione totemica è il risultato della coscienza di colpevolezza dei figli, come tentativo destinato a smorzare questo sentimento e a ottenere la riconciliazione con il padre offeso a mezzo di un'obbedienza retrospettiva. Già in Totem und Tabu, nelle ultime pagine del IV trattato, Freud annunzia le future applicazioni delle sue tesi, quando osserva che tutte le religioni ulteriori (in senso evoluzionistico che assume il totemismo come prima forma storica e psicologica di religione) sono tentativi per risolvere lo stesso problema e reazioni contro il grande avvenimento con cui comincia la realtà. L'elemento paterno avrebbe, così, un grande ruolo nel sorgere dell'idea di Dio. Fra l'animale totemico e il dio sussistono molteplici rapporti. Si avanza, così, già in Totem und Tabu, l'ipotesi che, se il totem è sostituzione del padre, il dio è forma ulteriore e sviluppata di tale sostituzione. L'elevazione al rango di dio del padre una volta assassinato diviene un tentativo di espiazione molto più serio del patto totemico. Con l'istituzione delle divinità paterne la società privata del padre si trasforma in società patriarcale. La famiglia diviene la ricostituzione dell'orda primitiva, in cui i padri riacquistano, in parte, i privilegi che hanno perduto attraverso il delitto primordiale.

Il pensiero di Freud fu sviluppato, in direzione storico-religiosa, soprattutto dall'area ortodossa della scuola psicoanalitica. O. Rank già nel 1912 aveva applicato la tecnica d'indagine psicoanalitica ai miti d'incesto (Das Inzestmotiv in Dichtung und Sage, Lipsia-Vienna 1912) per estenderla, sempre nei canoni del freudianesimo rigido, ad altri ambiti mitologici e culturali (Psychoanalitische Beiträge zur Mythenforschung aus den Jahren 1912-1914, Lipsia-Vienna 19222), 1929; Das Trauma der Geburt, ivi 1922, trad. it. Il mito della nascita degli eroi, Napoli 1922). T. Reik affrontava i temi dell'idea di dio, del carattere ossessivo del dogma e del meccanismo psicoanalitico del rito in sue opere fondamentali (Probleme der Religionspsychologie, I. Das Ritual, 1928, poi in edizione inglese modificata: Ritual, psychoanalitic studies, 1946, su cui la trad. it. Il rito religioso. Studi psicoanalitici, a cura di F. Ferrarotti, Torino 1949; Der eigene und der fremde Gott, Vienna 1923; Dogma und Zwangsidee, ivi 1927).

Una serie di particolari modifiche alle tesi originarie freudiane veniva apportata da G. Roheim, con conseguenze notevoli anche nell'interpretazione del rito. Roheim (Die Psychoanalyse primitiven Kulturen, in Imago, XVIII, 1932; in ingl. in The intern. Journ. of psychoanalysis, I-II, 1932; The riddle of the Sphynx, trad. di Money Kirle, Londra 1934; The eternal ones of the dream, ivi 1945; trad. franc. Héros phalliques et symboles maternels dans la mythologie australienne. Essai d'interprétation psychoanalytique d'une culture archaïque, Parigi 1970; The Oedipus complex, magic and culture, in Psychoanalysis and the social sciences, New York 1950) attribuisce un nuovo significato al complesso di Edipo, che nasce non più da un sentimento di colpa ereditariamente trasmesso, ma da un trauma creato individualmente nella vita di ciascun uomo. Il complesso è di ordine biologico e appartiene all'evoluzione naturale della psiche umana, non coinvolgendo, così, i presupposti dell'orda primitiva. Il trauma viene connesso al cosiddetto processo di fetalizzazione descritto da L. Bolk (Das Problem der Menschenwerdung, Jena 1926), che considera l'uomo, nella sua struttura psichica, un feto antropoide che ha raggiunto la condizione puberale. Tale fenomeno è effetto del principio generale del ritardo, per il quale più una specie è avanzata, più la sua organizzazione corrisponde a uno stato rudimentario dello sviluppo fetale. Il soma e il germe reagiscono in forma differente alle influenze ritardanti e l'uomo, alla nascita, viene a trovarsi più sprovvisto degli animali inferiori e più bisognoso della protezione dei genitori. Tuttavia, poiché la costituzione germinale umana (a differenza di quella animale inferiore) è meno ritardata, il bambino è sensibile allo stimolo sessuale derivante dai genitori in un'età in cui non è ancora ontogeneticamente pronto a svilupparlo. Ne risulta un processo di soddisfazione simbolica degli stimoli, che giustifica la tendenza dell'uomo a cercare sul piano mitico e rituale la soddisfazione dei suoi conflitti endopsichici; e, insieme, una rimozione dei traumatismi che la coesistenza con i genitori ha determinato nell'infanzia. La funzione generale del rito sarebbe dunque la riduzione dell'angoscia dell'uomo derivata dalla sua situazione infantile.

Minore influenza avevano le tesi che Freud aveva definito negli altri suoi saggi di problematica religiosa. In essi si ampliano ulteriormente alcuni indirizzi interpretativi che appaiono già presenti in Totem und Tabu, più precisamente nel terzo articolo pubblicato nell'opera (Animismus, Magie und Allmacht der Gedanken). Tutto lo sviluppo culturale umano gli si presentava in funzione del "desiderio di essere ciò che non si è", con una conseguente serie di soluzioni fittizie allo stimolo di tale desiderio, soluzioni che sono le religioni della fase animistica e della fase del dio personale. Soltanto la scienza, come salutare conclusione di un ciclo di erronee soluzioni, consente all'uomo di rinunziare ai fantasmi che si è creato e di prendere possesso razionale di sé medesimo e della realtà. Egli delinea, così, una teoria delle equivalenze dell'idea di onnipotenza, tipica delle religioni, con l'idea di potenza evidente nelle nevrosi, ma anche in particolari paranoie. Tale teoria si dispiega nei saggi Die Zukunft einer Illusion del 1927, Das Unbehagen in der Kultur del 1930 e Der Mann Moses und die monotheistische Religion, le cui prime due parti appaiono in Imago nel 1937, mentre la terza parte è pubblicata a Londra nel 1939. La nuova prospettiva freudiana si amplia in direzione dell'analisi delle formazioni culturali in generale, considerando in esse la funzione negativa del momento religioso. Quella che nelle più antiche trattazioni era proposta come un'omologia ipotetica (nevrosi = religione) viene ora data come identificazione, secondo la formula che presenta la nevrosi come una religione personale e la religione come una nevrosi collettiva. In Die Zukunft einer Illusion si ripropone il tema fondamentale della natura edonistica dell'uomo, guidata dal Lustprinzip o principio del piacere ed esprimentesi nella catena dei desideri. La religione si origina dalla debolezza dell'uomo, impotente di fronte alle forze naturali esterne e di fronte alle forze istintive insorgenti dall'interno. In una fase primitiva dello sviluppo umano, egli non è ancora in grado di realizzare il dominio delle forze esterne mediante gli strumenti scientifici, e delle forze interne mediante la razionalizzazione, e ricorre, perciò, a una loro neutralizzazione mediante altre forze affettive subcoscienti. La religione attesta, perciò, la primitiva incapacità di affrontare il mondo sul piano razionale. È un'illusione derivata dall'esperienza cui ogni individuo soggiace nell'infanzia. Sentendosi esposto a forze pericolose, non controllabili, non comprensibili, l'uomo torna all'esperienza del bambino, che si sentiva protetto dal padre, modello della saggezza e della forza, che gli dava amore e sicurezza a condizione che egli osservasse i suoi ordini ed evitasse di trasgredire le sue proibizioni. In tale senso la religione è ripetizione di esperienze dell'infanzia e corrisponde alla fase d'infantilismo dell'umanità. Il dio di ogni religione è la proiezione mitizzata del padre, e cioè la fittizia soluzione che l'uomo, in uno stato analogo a quello dei nevrotici e dei bambini, trova al suo conflitto. Per ciò stesso la religione ha un effetto assolutamente negativo, impoverendo l'intelligenza, ritardando lo sviluppo del pensiero critico e offrendo una via facile, per quanto inutile, a evadere i problemi di rapporto con il reale. Solo quando l'uomo rinuncerà all'illusione dell'esistenza di un dio paterno e provvidente e si renderà conto di essere solo nell'universo, riuscirà a superare l'immediata impressione di abbandono e di solitudine e ad affrontare razionalmente il reale. È posta, così, una sostanziale contiguità di strutture fra religione e delirio, poiché l'uomo religioso resta un delirante e un sognatore che, non potendo realizzare la sua personale felicità in questo mondo, rinnega il mondo, interrompe il rapporto con il reale, costruisce un mondo migliore in cui si nasconde, come il malato che riesce a trasfigurare, nelle fasi deliranti, gli aspetti di una realtà insopportabile.

Parallelamente alle ipotesi freudiane hanno esercitato, lungo gli ultimi decenni, radicale influenza su alcune correnti storico-religiose C. G. Jung e la sua scuola. In Jung i filoni di origine naturalistica e sperimentalistica della prima fase vanno lentamente affievolendosi per dare spazio sempre maggiore a interessi religiosi che prevalgono nei principali suoi scritti degli ultimi trent'anni. La religione, per Jung, va analizzata avendo costantemente presente il principio della realtà psichica oggettiva, una realtà, cioè, che prescinde dal giudizio di valore ontologico sull'esistenza in sé dell'oggetto che entra nell'ambito della coscienza. La realtà psichica si oggettivizza sempre più chiaramente quando a definirla concorrono il consensus gentium, cioè la presenza della medesima nozione appresa o del medesimo atteggiamento psichico non più di un solo individuo, ma di intere collettività. In tale senso è possibile dire che Dio è una realtà psichica soggettiva perché fondata sul consensus gentium.

Su queste premesse Jung affronta i temi religiosi, intendendo per religione un atteggiamento generale di sottomissione a una realtà avvertita dall'individuo come superiore a lui o anche come l'insieme dei simboli, dei credo, delle dogmatiche, delle liturgie in cui tale avvertimento può assumere forma storica. Il gran passo che egli compie è lo sganciamento della vita religiosa dalla nevrosi e, quindi, dall'implicita valutazione negativa che appare in Freud. Nel suo primo saggio d'interesse religiosopsicoanalitico (Die Bedeutung des Vaters für das Schicksal des Einzelnen, 1909), è ancora profondamente immerso nel freudianesimo e la religione gli appare ancora come una forma di sublimazione della sessualità infantile, un reagire dell'adulto all'imago del padre. Ma già con Wandlungen und Symbole der Libido del 1911-12 siamo ben lontani dalle influenze freudiane. In questo scritto è proclamato il carattere di realtà psicologica delle rappresentazioni religiose, senza entrare nel merito della loro eventuale ontologicità. La divinità è rappresentazione di una carica di energia-libido che, per proiezione, è considerata oggetto. Ma corrisponde anche a tutto quanto nell'uomo supera l'uomo, all'universalmente valido come universalmente umano, a quello che, nella terminologia posteriore, sarà l'ideale massimo della totalità del Selbst e il termine di ogni processo d'identificazione. La religione ha e ha avuto una funzione salutare nella storia dell'incivilimento, proponendo appunto un termine di proiezione ideale, anche se è destinata a esaurirsi nell'ultima fase di evoluzione psichica umana, che è la realizzazione demitizzata della legge e dell'autonomia morale. Per quanto riguarda i suoi meccanismi, la vita religiosa è la manifestazione accessibile della dinamica del Selbst (conscio-inconscio) e della realtà ultima degli archetipi. Jung ha esplicitamente dichiarato che l'indagine psicologica è in grado di dimostrare l'esistenza di determinati modelli psichici (archetipi) e la loro analogia con le raffigurazioni religiose (immagini, simboli, dogmi, miti, ecc.): il che dà accesso ai contenuti esperibili che formano la base afferrabile dell'esperienza religiosa. Teoricamente tutta la metodologia d'indagine religiosa di Jung è in questa possibilità di riscontrare nei fenomeni religiosi i contenuti dinamici della vita psichica. Il mito gli si presenta come espressione di concetti morali non ancora emersi alla coscienza, ovvero come proiezione di dinamismi psichici. La psiche esprime la sua energia attraverso una dualità di progressione-regressione, ossia di dispiegamento dell'energia e di ritorno dell'energia su sé medesima e in sé. Quando studia i miti solari che erano stati esaminati da Frobenius (mito del sole divorato o dell'eroe che divora il sole) le raffigurazioni simboliche gli appaiono, in questo caso, la trascrizione arcaica dell'indicato dualismo, corrispondendo il sole notturno alla vicenda dell'energia che si ritira nell'inconscio e che sopporta prove per riemergere, e corrispondendo il sole sorgente alla fase di progressione e manifestazione dell'energia. Lo stesso Cristo diviene la proiezione dell'energia psichica nel suo duplice processo (Die Psychologie des unbewussten Prozesses, 1917). Già in Ueber Energetik der Seele del 1928 identifica l'energia-libido con la realtà di fondo della vita religiosa. La religione esprime, in forme simboliche, tale realtà vera psichicamente. Nelle forme religiose primitive essa è il mana, come energia indifferenziata, ma presto è sostituita dalle anime e dagli spiriti che rispettivamente risultano da processi di astrazione e proiezione (isolamento dell'energia dagli oggetti che la portano e dai soggetti dai quali essa promana). L'idea di dio invece, come propria delle religioni civilizzate, si origina dalla trasformazione degli archetipi in entità metafisiche. Ma le stesse religioni superiori costituiscono in sé una derivazione evolutiva delle religioni primitive, nel senso che trasformano in dogmi quelle esperienze che presso i primitivi sono avvertite in una forma simbolica indefinibile. Molti studiosi junghiani ritengono che Psychology and religion del 1938, poi revisionato nell'edizione tedesca del 1940, rappresenti un punto cruciale nell'evoluzione del pensiero di Jung, che avrebbe cominciato ad abbandonare le posizioni agnostiche prima professate. Nell'opera non elimina, tuttavia, la concezione della religione come proiezione, ma pone l'accento sul carattere coercitivo, obbligante, trascendente della realtà che è espressa nella proiezione. Supera, cioè, la sospensione del giudizio sulla realtà ontologica di quanto fino allora gli era apparso vero soltanto psicologicamente, e giunge a una nuova definizione: la religione è l'osservanza accurata e scrupolosa di ciò che Otto ha chiamato numinosum, essenza o energia dinamica non originata da alcun atto della volontà. La caratteristica di questa energia è l'afferrare il soggetto che "ne è sempre la vittima, piuttosto che il creatore". In effetti Jung, in questa nuova fase del suo pensiero, ha fatto del Selbst una realtà ipostatizzata e trascendente l'individualità umana e, per dirla in termini più chiari, ha attribuito al Selbst i caratteri propri della divinità, soprattutto il numinosum. Ma, nella sua perpetua oscillazione fra una congenita religiosità tendenziale e le pesanti esigenze naturalistiche, ha poi ripiegato sulla definizione, senza portarla alle estreme conseguenze ontologiche. Nello stesso scritto vi è un'altra innovazione iunghiana. Adottando la terminologia fenomenologica e alcuni motivi funzionalistici, egli ora non considera più la religione come una fase del processo d'identificazione totale, che deve necessariamente condurre alla moralità senza religione. La religione diviene un'esperienza irriducibile e funzionale, autonoma in sé, proprio perché esprime spontaneamente, nei simboli e nei dogmi, uno stato psichico presente e tende a realizzare il fine dell'uomo (l'identificazione del Selbst). Questi temi vengono rinnovati in tutte le ricerche di Jung dal 1935 in poi sui più disparati argomenti storico-religiosi, in prevalenza sull'alchimia, sul buddismo occultistico dei mandala e sulla liturgia e la tradizione cristiana.

Momento irriducibile e prevalente nella storia dell'uomo appare l'esperienza religiosa anche a un'altra scuola di area germanica che fa capo a R. Otto. In Das Heilige. Ueber das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen (Breslavia 1917, 195830; trad. it. di E. Buonaiuti, Bologna 1926, ristampa Milano 1966), in polemica con le teologie razionali cristiane, dichiara l'opposizione fra razionalismo e religione. Lo scopo dell'opera è stabilire se nell'idea di Dio l'elemento razionale supera quello irrazionale e lo esclude, o se avviene il contrario.

Il problema passa attraverso la definizione della categoria del sacro, propria del dominio religioso e spiegabile autonomamente. Questa categoria (il termine in Otto è di evidente origine kantiana) ha una qualità assolutamente speciale, poiché si sottrae a ogni struttura razionale ed è separata dai valori etici cui è connessa nel linguaggio corrente. L'elemento sacro, non razionale, non etico, appare il principio vivente di tutte le religioni, e la sua vitalità si manifesta in modo particolare nelle religioni semitiche, soprattutto in quella ebraica, dove è rappresentato dal termine qadosh, corrispondente al greco hagios e al latino sanctus e sacer. Ma poiché il termine sacro è già compromesso da una lunga evoluzione semantica che lo connette alle valenze morali, Otto propone l'adozione di un nuovo e più significante termine, il numinoso. La categoria non è agevolmente definibile, poiché, secondo Otto, essa è fondata su un'esperienza personale e individuale che dev'essere vissuta per essere compresa, e non può essere ridotta a spiegazione discorsiva. L'oggetto numinoso, che determina in noi l'emozione religiosa, ha una sua tipologia specifica, la quale presume, in ogni caso, l'irriducibilità dell'oggetto a conoscenza logica. La ricerca è, quindi, riportata all'individuazione delle "tonalità del sentimento" (ossia degli atteggiamenti psicologici) di fronte all'oggetto; e tale tonalità è l'elemento primario da cui deriva il "sentimento di dipendenza" che Schleiermacher aveva costituito in prima forma del fatto religioso. Di fronte all'oggetto numinoso, la prima reazione è quella del mysterium tremendum, il mistero che provoca il brivido, designante ciò che è nascosto di per sé all'accessibilità conoscitiva. Al tremendum si aggiunge subito un secondo carattere del numinoso, quello della majestas, ossia la super-potenza assoluta che determina il sentimento dello stato creaturale. Il terzo elemento è rappresentato dall'energia del numinoso, presente in particolare nella collera divina e determinante le espressioni simboliche di vita, passione, sensibilità, volontà, forza, movimento, eccitazione, attività e impulsione. La vita religiosa (eusebeia) si compone dei tre elementi ora detti.

Presso a poco negli stessi anni di crescita dell'irrazionalismo tedesco prende definitiva consistenza la scuola storico-culturale o viennese, di matrice cattolica, che ha avuto notevoli influenze in Italia e in Francia ed è stata quasi costantemente ignorata nei paesi anglosassoni. Il fine della scuola, che risale ai primordi del secolo, era l'applicazione del "metodo storico" nell'etnologia e nella storia delle religioni, in opposizione alle metodologie evoluzionistiche e psicologistiche. Animatore ne fu il padre verbita W. Schmidt (1868-1954), che fondò nel 1906 la rivista Anthropos, centro del nuovo indirizzo.

La sua opera fondamentale Der Ursprung der Gottesidee, apparsa in un primo abbozzo nel 1912, raggiunge 12 volumi nell'edizione definitiva del 1926-55. La costruzione teorica di Schmidt, per quanto fondata su un'imponente serie di dati scientificamente controllati e per quanto ricca di intuizioni e di contributi decisivi nella storia dell'etnologia, rappresenta, in ultima analisi, un tentativo apologetico di piegare il dato etnologico alla tesi del cosiddetto monoteismo primordiale, in un quadro di origine teologica cattolica che si rappresenta la storia come decadenza dalla condizione d'iniziale perfezione, in cui l'uomo ha ricevuto direttamente la rivelazione dall'Essere Supremo, a progressive fasi di offuscamento della verità rivelata, che dànno origine alle religioni storicamente rilevabili. La tesi del monoteismo primordiale era, del resto, già presente nell'opera di J.-F. Lafitau (1670-1740: Moeurs des sauvages amériquains, Parigi 1724, 2 voll.). Di questo precedente Schmidt si avvale, come ricorre alle opere dello storico delle religioni A. Lang, che aveva preannunziato la primarietà dell'idea monoteistica (Magic and religion, Londra 1901; Myth, ritual and religion, ivi 1887; Custom and myth, ivi 1884; Tbe making of religion, ivi 1898). Pur dichiarando esplicitamente di non voler costruire ipotesi teoriche, Schmidt giunge a una forzata sistemazione del materiale etnologico secondo particolari schemi (quelli dei cicli culturali) dai quali, per quanto riguarda l'interpretazione dei fatti religiosi, giunge a deduzioni di tipo dogmatico. Parte da due assunti fondamentali: a) l'antichissima età etnologica dei popoli del grado cosiddetto "primitivo" dei cicli culturali; b) l'assunzione della religione di tali primitivi come punto di partenza per l'indagine sull'origine delle religioni. Tutti i cicli culturali posteriori ai primitivi (e cioè le culture primarie, secondarie e terziarie) non presentano mai una nozione dell'Essere Supremo così chiara, viva e determinata come presso il grado culturale primitivo. La credenza nell'Essere Supremo forma, perciò, un'antichissima cultura umana, che appartenne ai popoli che oggi chiamiamo primitivi quando ancora essi costituivano un'unità etnica e non si erano divisi nei vari territori attualmente da loro abitati. Questa religione dell'Essere Supremo o Grande Dio (Hochgott) è un vero e proprio monoteismo primordiale (Urmonotheismus). La nozione rivelata si è poi offuscata in un processo di decadimento che corrisponde alla formazione delle culture primaria, secondaria e terziaria. Così, per es., nella cultura artica originariamente l'Essere Supremo si presenta come signore degli animali di caccia e posteriormente da esso si distacca la figura di un genio protettore degli animali nel quale la presenza dell'idea del Gran Dio è solo labilmente residua. Analogamente l'idea si trasforma nelle figure del capostipite o antenato, che assume carattere lunare e talvolta femminile nelle culture matrilineari, o anche diviene la figura del sole mattutino nelle culture di cacciatori superiori patriarcali. In altre aree il problema dell'origine del male porta alla rappresentazione di un essere divino opposto a quello Supremo, in una dialettica conflittuale di male-bene, che è alla base dei dualismi religiosi. Quando Schmidt è risalito, attraverso la sintesi dei dati etnologici, a questo modello monoteistico primordiale, si pone per lui il problema della stessa genesi dell'idea di Dio, e accoglie l'ipotesi di una diretta trasmissione del modello agli uomini da parte dello stesso Dio, secondo il tema squisitamente biblico e cristiano della rivelazione (Manuale di storia comparata delle religioni, trad. it., Brescia 1938, p. 470 ss.). Le reazioni alla teoria schmidtiana furono aspre e numerose.

Una corrente interpretativa che ha radici nell'intuizionismo e nell'irrazionalismo è rappresentata dalla scuola morfologico-culturale (Kulturmorphologie) o scuola storico-religiosa di Francoforte, che risale a L. Frobenius (1873-1938) e ai suoi discepoli. Frobenius aderì inizialmente alle tesi del metodo dei cicli culturali, ma respinse subito gli aspetti statistici-quantitativi di esso, avvertendo la necessità d'individuare un rapporto organico e vitale fra i residui culturali. Egli affermò, allora, l'insignificanza degli oggetti materiali, e segnalò l'importanza dell'esperienza psichica e spirituale che è all'origine delle singole formazioni culturali: a questa esperienza diede il nome di paideuma, assunto anche a titolo della rivista della scuola.

La tesi è di carattere chiaramente irrazionalistico, poiché il paideuma, secondo una precisa definizione di R. Bianchi Bandinelli (prefazione alla trad. ital. di L. Frobenius, Storia della civiltà africana, Torino 1950), è "il sorgere e il trasformarsi di tutte le esperienze della coscienza commossa, secondo l'intimo orientamento delle forme di civiltà". Il discorso, cioè, non si riferisce più ai cicli culturali fondati su una pretesa sintesi di elementi materiali eterogenei; esiste, invece, una serie possibile di forme di civiltà rappresentate come complessi autonomi e culturalmente autosufficienti che sono giustificati e originati da una specifica esperienza-conoscenza primordiale, il paideuma. Le forme di civiltà vengono anche indicate come Weltbilder o Weltanschauungen, "visioni" o "rappresentazioni del mondo", secondo suggestioni di matrice diltheiana (l'intuizione poetica come vero motore della storia e la nozione di Erlebnis). La teoria di Frobenius è stata portata alle estreme conseguenze da A. E. Jensen (n. 1899) soprattutto nelle due opere Das religiöse Weltbild einer frühen Kultur (Stoccarda 1948; trad. it., Come una cultura primitiva ha concepito il mondo, Torino 1952) e Mythos und Kultus bei Naturvölkern (Wiesbaden 1951; trad. franc., Parigi 1954). Jensen, sempre in posizione critica nei confronti delle premesse ergologiche della scuola dei cicli culturali, ricerca, come qualificante una cultura, il complesso omogeneo e organico che può essere soltanto spirituale. Al principio della formazione di ogni civiltà vi sarebbe, secondo Jensen, un Ausdruck, "espressione" o forma spontanea di conoscenza mitica e affettiva della realtà, cui segue, in un decadimento dei valori primari, una fase di Anwendung o "utilizzazione", svuotata dalla carica emozionale propria dell'"espressione" e risolventesi nelle forme economiche e, per quanto riguarda il piano religioso, nelle forme rituali e culturali. Nella concezione del mondo che si evidenzia nella fase di "espressione" concorrono soprattutto appercezioni mitiche autentiche che sono affermazioni sulla natura del reale non paragonabili ad alcun enunciato scientifico. Nella fase di "utilizzazione" vi è una perdita di significato delle appercezioni mitiche. Tali principi metodologici sono applicati da Jensen alle formazioni culturali lunari o agricolo-lunari, che corrispondono, in linea di massima, alla cultura paleonigritica, o papuano-occidentale o africano-occidentale (detta anche esogamico-matriarcale), secondo le varie terminologie di Frobenius. La cultura lunare è da lui esaminata in Ceram e si caratterizza come una particolare visione del mondo, applicabile, per estensione, a tutte le culture agricole. Nella cultura ceramese una divinità femminile è uccisa, e per tale uccisione gli uomini perdono la loro originaria immortalità e acquistano la capacità di propagarsi attraverso la generazione. Il corpo morto del dema o essere divino ucciso dà origine alle piante alimentari, ma s'identifica anche con la luna e con il maiale, animale semidomestico dei Ceramesi. Questo avvenimento iniziale di natura mitica è il paideuma o momento di espressione, che giustifica e origina le posteriori fasi di utilizzazione. Determina, infatti, una specifica visione del mondo in cui prevale il ciclo morte-vita-sesso-piante alimentari e spiega la ripetizione rituale della vicenda originaria nelle periodiche cerimonie.

Per quanto eccedente gl'interessi propri della s. d. r., non può non essere tenuta presente la scuola fenomenologico-religiosa, anche per le influenze esercitate su molte ricerche storico-religiose e in particolare sulla tipologia. Fondatore della scuola è G. van der Leeuw (1890-1950), che ha un'origine filosofica molto complessa, con dirette connessioni con Husserl, Otto, Max Scheler. Per van der Leeuw la fenomenologia individua il fenomeno in senso etimologico, "ciò che si mostra", in realtà ciò che, presupponendo un secondo termine (il soggetto pensante cui si mostra), è, insieme, un oggetto che si riferisce al soggetto e un soggetto relativo all'oggetto.

Il fenomeno, relativamente al qualcuno cui si mostra, si sviluppa in tre fasi, passando dall'essere relativamente nascosto, al rivelarsi progressivamente e al divenire trasparente, ossia comprensibile perfettamente. Queste tre tappe di sviluppo sono correlate all'esperienza vissuta, alla comprensione e alla testimonianza. Soltanto i due ultimi rapporti interessano la fenomenologia che ha per compito la potenziale ricostruibilità delle strutture che sono nella realtà caoticamente sperimentata. Applicata alla religione, la fenomenologia assume, secondo van der Leeuw, i seguenti compiti: a) attribuisce dei nomi (per es. offerta, sacrificio, preghiera, salvatore, mito, ecc.); b) designa i fenomeni; c) li inserisce nella vita facendone forme di esperienze vissute; d) tenta di elucidare ciò che si vede, si sforza d'intendere ciò che si mostra, giungendo a una sintesi; e) rinunzia a ogni indagine sullo sviluppo storico dei fatti esaminati; f) non può porsi il problema dell'origine della vita religiosa. In effetti van der Leeuw non ha potuto mantenere fede a queste premesse teoriche che, portate alle loro estreme conseguenze, avrebbero dovuto dare origine soltanto a una tipologia classificatoria. Ha fatto invece prevalere quell'aspetto speculativo che, nella fenomenologia, è al di là del compito classificatorio e ha tentato l'individuazione dei fatti essenziali, non più fenomenici, della vita religiosa. Recependo le influenze della teoria del sacro di Otto e delle tesi prelogistiche di Lévy-Bruhl, ha fatto dello Erlebnis religioso una forma di esperienza in sé, autonomamente spiegabile, retta da propri meccanismi strutturali e tipici (i cosiddetti fenomeni), che isolano il fatto religioso da tutto il contesto storico e culturale cui è connesso e in cui si sviluuppa.

Distante dalle esigenze teoriche e filosofiche e immersa in un'atmosfera di pragmatismo tipicamente anglosassone, la scuola funzionalista, sorta in Inghilterra nei primi decenni del secolo, diviene uno dei terreni più ricchi di sviluppo di una ricerca storico-religiosa direttamente connessa alle metodologie dell'antropologia culturale e sociale. Il fondatore della scuola, B. Malinowski (1884-1942), proietta l'analisi dei dati religiosi e magici nel più ampio contesto della nozione e funzione di cultura. Le fedi, le religioni, le mitologie, i rituali sono valori integrativi o integrazioni culturali che si originano in una fase particolare di sviluppo del sistema culturale, quando emergono le esigenze della funzione simbolica e quando le spinte fisiologiche tendono a trasformarsi in valori culturali.

Malinowsky riporta, così, l'origine primaria dell'esperienza religiosa a una presa di coscienza della precarietà esistenziale, che si sostanzia nel sorgere di un conflitto di tipo emozionale fra la paura diretta verso il passato e la speranza diretta verso il futuro (The group and the individual in functional analysis, in American Journ. of sociology, XLIV, 6 [1939] pp. 938-64). Nella serie delle spinte (needs, drives) originanti la cultura, si evidenzia, così, l'esigenza di una stabilità esistenziale, di una sicurezza di essere nel mondo, contro l'incertezza che viene dalla presa di possesso conoscitiva della realtà. Religione e magia s'inseriscono nel sistema funzionalistico e si giustificano come strumenti creati dal simbolismo culturale per risolvere l'indicata situazione conflittuale. Ma divengono anche i fattori essenziali dell'integrazione spirituale e sociale e i veri fondamenti della cultura (Culture as a determinant of behavior, in Sex, culture and myth, Londra 1963, p. 190 ss.). La religione si articola in tre componenti essenziali: il sistema di affermazioni dogmatiche, la tecnica rituale e i precetti dell'etica; e le tre componenti hanno una loro propria funzione, poiché il dogma offre lo schema di sicurezza esistenziale, il rito e la morale divengono una garanzia sociale. In questa concezione ha un posto particolare il mito, che è considerato un mero sviluppo del dogma (Myth as dramatic development of dogma, in op. cit., p. 247 ss.). Il mito non ha funzione pratica, etiologica, storica o scientifica, ma, solidale con tutte le altre espressioni di una cultura, "costituisce una resurrezione narrativa di una realtà antica, destinata a soddisfare dei profondi bisogni religiosi, delle aspirazioni morali, ad appoggiare esigenze e rivendicazioni sociali, talvolta a venire in aiuto di necessità pratiche" (Myth in primitive psychology, Londra-New York 1926). Altro problema fondamentale posto e risolto da Malinowski è quello dell'origine della funzione della magia, tema che ha affrontato nella sua ricerca Coral gardens and their magic del 1935 e, in parte, nelle altre sue relazioni etnologiche (soprattutto in Argonauts of the Western Pacific del 1922 e The sexual life of savages del 1929). Il problema, in sede di scritti teorici, si risolve nella giustificazione della funzionalità e utilità della magia nell'ambito della vita primitiva. In Science and religion (in The Listener, IV, n. 94 [1930], pp. 683-84,716-17) esamina i rapporti fra scienza e religione e, riprendendo un motivo sul quale ha frequentemente insistito, afferma che, nella mentalità primitiva (come in ogni altro contesto culturale), esistono contemporaneamente un atteggiamento scientifico, fondato su un corpo di conoscenze razionali e sperimentali, e un atteggiamento religioso. In rapporto a tale bivalenza di spinte spirituali tutta la tematica dell'origine della religione può essere riconsiderata sotto una nuova prospettiva funzionale, che non esclude quella finora indicata. La religione e, con essa, la magia si originano nel momento in cui vi è un fallimento dell'atteggiamento scientifico e si determina una conseguente crisi esistenziale. La scienza è incapace di controllare l'imprevedibile, il destino, l'aldilà, l'esito delle azioni e dei comportamenti utili; li chiarisce conoscitivamente, li fa entrare nell'ambito della nostra ragione, ma non li domina nei loro esiti. La magia emerge propriamente dove l'uomo non può controllare il caso a mezzo della scienza. Perciò essa non è un sostitutivo della scienza, poiché il primitivo non se ne avvale quando può ricorrere ai mezzi razionalmente acquisiti e validi per risolvere con la ragione i problemi esistenziali. È piuttosto uno strumento funzionale che coopera con la scienza, con una sua specifica utilità (il risolvere le situazioni conflittuali determinate dall'incertezza del caso) e con una sua portata sociologica, poiché comporta l'organizzazione del lavoro sociale.

Nella scuola funzionalista furono presto rilevati i rischi del relativismo culturale, dello psicologismo, della mancanza di senso storico. Tuttavia agli studiosi che accettarono, con revisioni più o meno approfondite, il metodo, vanno attribuite opere fondamentali: soprattutto la produzione di R. Firth, discepolo diretto di Malinowski (The work of the Gods in Tikopia, Londra 1967; Tikopia ritual and belief, ivi 1967), che analizza gli elementi religiosi e magici di Tikopia, una popolazione polinesiana non cristianizzata, per trarne una teoria generale di carattere funzionalistico.

Anche se non è presente nell'arco delle ipotesi storico-religiose una scuola marxistica (se non in alcuni tentativi degli studiosi sovietici teoricamente ingenui), il marxismo ha fortemente influito, negli ultimi due decenni, su molti indirizzi interpretativi che coinvolgono le tesi storico-materialistiche nella lettura antropologica e sociologica dei fatti religiosi.

Più che la schematizzazione storico-religiosa individuabile nelle opere di Marx-Engels (una schematizzazione che risente molto dell'evoluzionismo-positivismo e che parte da forme elementarissime della vita religiosa, quali il feticismo e l'animismo, per risalire a forme complesse, quali il politeismo e il monoteismo), ha inciso su molti studiosi la teoria generale del materialismo storico. La rilevanza assegnata alla relazione dei fatti religiosi con i rapporti reali di produzione, la caratterizzazione della religione come forma di sovrastruttura e d'ideologia, la tesi engelsiana circa l'occasionale presenza di cariche rivoluzionarie nei movimenti religiosi concorrono a qualificare marxianamente le tematiche dei neo-funzionalismi e le metodologie di analisi indicate come neo-marxistiche. Principalmente in Italia ha operato fortemente sui nuovi indirizzi la scoperta delle osservazioni sulla religione e sul folklore di A. Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino 19748, p. 215 ss.), che hanno avviato all'esame, in sede di analisi, della dialettica egemone-subalterno nei fenomeni religiosi, e cioè dalla contrapposizione fra il modello espresso dalle classi che detengono il potere e il modello fruito e creato dalle classi sfruttate. Sempre in Italia una s. d. r. di direzione marxistica ortodossa è stata insegnata da A. Donini (Lineamenti di storia delle religioni, Roma 1959).

Mentre gli strumenti metodologici si andavano sempre più raffinando per il parallelo ricorso a discipline umane che vanno dal marxismo alla psicoanalisi, all'antropologia sociale e culturale e alla sociologia, avevano eccezionale fortuna le teorie neo-fenomenologistiche e irrazionalistiche di M. Eliade (n. 1907), il quale nel suo Traité d'histoire des religions (Parigi 1949, 19662) fondava una tipologia delle strutture religiose come forme di appercezione autonoma del sacro, una condizione di "totalità" e di "realtà ultima" in rapporto alla quale il momento profano o economico costituisce una degradazione e una perdita di valore.

Eliade pone all'origine (in un' "origine" non mai precisamente qualificata e da intendersi contemporaneamente in senso cronologico e in senso psicologico) un "uomo arcaico" o integrale il quale realizza l'appercezione intuitiva o esistenziale delle manifestazioni della sacralità e della potenza, che vengono indicate come "ierofanie" e che si calano nel rivelarsi dei significati della realtà anche visibili (il sole, la luna, le montagne, ecc.). Nell'attuale frammentazione dell'esperienza umana, dovuta al prevalere del momento economico, i miti e i riti divengono l'occasione unica di una re-identificazione dell'uomo nella sua condizione di autenticità arcaica: così che la religione, nelle sue forme tradizionali, si costituisce come salvazione dell'uomo frammentato dalla sua disperazione e consente a quest'uomo un "ritorno alle origini", che sono, nel vissuto mitologico, omologhe al termine finale della storia e al tempo escatologico (Le mythe de l'éternel retour, Parigi 1949; Images et symboles. Essai sur le symbolisme magico-religieux, ivi 1952; Mythes, rêves et mystères, ivi 1957; Naissances mystiques, ivi 1959; Méphistophélès et l'Androgyne, ivi 1962; La nostalgie des origines, ivi 1969). Eliade è anche autore di ricerche criticamente rigorose sullo sciamanesimo (Le Chamanisme et les techniques archaïques de l'extase, Parigi 1958), sullo yoga (Le Yoga. Immortalité et liberté, ivi 1954) e sulla cultura religiosa dei fabbri e degli alchimisti (Forgerons et alchimistes, ivi 1956), nelle quali, tuttavia, i materiali storici vengono reinterpretati alla luce della sua ipotesi fondamentale.

Mentre in Europa e nelle culture occidentali si andavano sviluppando le correnti delle quali si è data notizia, l'Italia faticosamente usciva dalla tradizionale indifferenza per gli studi etno-storico-religiosi sui quali pesava la duplice ipoteca di un monopolio cattolico-clericale (l'analisi dei fatti religiosi come dominio proprio degli uomini di religione) e di una decisa avversione crociana. Il vero fondatore delle scienze storico-religiose, R. Pettazzoni (1883-1959), dovette perciò superare la riserva laico-positivistica degli studiosi che emarginavano la ricerca religiosa come propria degli ambienti cattolici, e dovette polemicamente affrontare l'incomprensione della scuola crociana, la quale per altri motivi (la non fondabilità delle storie particolari), rinunziava preliminarmente a un parametro d'interpretabilità storica dei fatti religiosi.

Pettazzoni diede una base ideologica ai suoi orientamenti di ricerca e a tutti gli studiosi che da lui sarebbero dipesi più o meno fedelmente. Egli recuperò una dimensione vichiana di lettura dei fatti religiosi, intesi come realtà storiche da sottoporre a un'analisi filologicamente severa proprio come storia particolare o specializzata, la quale, tuttavia, non può restare avulsa dal contesto della storia generale delle culture. La posizione pettazzoniana fu decisamente laica, di un laicismo, però, che non solo era liberato dai giudizi negativi di valore avanzato sulla vita religiosa dal filone illuministico e neo-illuministico, ma che conservò costante la consapevolezza della fondamentale funzione della religione o, meglio, delle religioni all'interno della storia umana. L'opzione laica lo portò ad avversare criticamente le tesi della scuola storico-culturale, nella quale gli sembrava, con giudizio, del resto, fondato, che Schmidt inserisse un'istanza teologica e, quindi, aberrante ai fini del lavoro storico. La religione gli appariva un prodotto della fantasia mitopoietica che non si esplicita in forme assolute, autonome e astoricamente sussistenti, ma che si fa, si autocrea, si autodetermina in occasioni specifiche e variabili, corrispondenti ai quadri culturali in cui la storia si sviluppa. Per ciò stesso contro Schmidt osservava che le figure divine delle varie culture non sono i duplicati corrotti e storicizzati di un'idea rivelata dell'Essere Supremo, e sono, invece, le espressioni della fantasia mitica quale si manifesta nel seno delle differenti culture, esprimendosi, per es., come Madre presso i coltivatori e Signore degli animali presso i cacciatori. Ma Pettazzoni avvertì anche tutti i rischi che erano nelle correnti irrazionalistiche e negli epigoni di esse rappresentati da Eliade. Segnalò, quindi, la necessità metodologica di capovolgere il rapporto fra sacro e profano, fra momento rituale-religioso e momento economico. Il dato religioso viene letto correttamente soltanto quando ci si liberi dall'errata valutazione del sacro come preminente e lo si consideri come accessorio e occasionale in rapporto alla realtà laica o profana o lavorativa o utile, che è l'unica realtà nella quale l'uomo si costruisce e costruisce la sua storia. La religione non è la storia eterna o la non-storia o la storia assoluta, in cui si realizza un homo religiosus, come vero uomo. Al contrario essa costituisce, in rapporto alla profanità o laicità, un momento di alienazione e di fuga, a mezzo della quale l'uomo riesce a superare alcune crisi del tempo e torna più validamente alla profanità medesima (per una bibliografia completa di Pettazzoni, v. R. Pettazzoni, Religione e società, a cura di M. Gandini, Bologna 1966, pp. XIII-XV; M. Gandini, La vita e le opere di R. Pettazzoni, in Lares, 1960; id., Il contributo di R. Pettazzoni agli studi storico-religiosi: appunti per una bibliografia, in M. Gandini, R. Pettazzoni e gli studi storico-religiosi in Italia, Bologna 1969, pp.1-48). Continuava a Roma, fin dal 1958-59, l'insegnamento pettazzoniano A. Brelich che, distaccatosi dalla corrente di K. Kerényi, diveniva uno dei più notevoli rappresentanti della metodologia del maestro. Minori, invece, sono le componenti pettazzoniane in E. De Martino (1908-1965), nel quale la ricerca si amplia verso interessi antropologici e politici vari, in una fermentante continua revisione ideologica, che ne fa una delle figure più vive e interessanti della cultura italiana del dopoguerra. Partito da una matrice storicistica crociana, aggredisce inizialmente (Naturalismo e storicismo nell'etnologia, Bari 1941) l'analisi delle teorie storico-etno-religiose in una polemica critica contro ogni forma d'irrazionalismo e di riduzionismo, anche se in nome di una "storia dello spirito" che porta i segni delle tendenze del posthegelianesimo. Ma già nel 1948 (Il mondo magico) si verifica in lui l'abbandono di schematizzazioni rigide, mentre si presenta chiaramente la disponibilità a un nuovo tipo d'indagine etnologica e storico-religiosa, nella quale l'istanza di realismo storico (quale gli residuava dal magistero crociano) è calata nelle nuove acquisizioni metodologiche e problematiche che gli vengono dall'antropologia, dalla scuola sociologica francese e dall'esistenzialismo. L'incontro con il marxismo gli dà gli strumenti per individuare, prevalentemente nei fatti di tradizione di folklore, il nesso storico-economico fra religione e cultura o religione e società (Morte e pianto rituale nel mondo antico, 1958; Sud e magia, 1959; La terra del rimorso, 1961). Negli ultimi tempi si accentua in lui l'esigenza di trovare taluni preliminari psicologistici dei fenomeni storico-religiosi nell'ambito della psicopatologia e della psicologia generale (per una prima bibliografia di E. De Martino, v. M. Gandino, E. De Martino. Bio-bibliografia essenziale, in Lares, XXXII, nn. 3-4 [1966], pp. 214-17). La problematica storicistica, profondamente rinnovata dalla nuova prospettiva marxistica, esistenzialistica e psicologica, riappare nell'opera di V. Lanternari, che utilizza anche le armi interpretative del funzionalismo anglosassone. Partito dall'analisi comparativa di fenomeni etno-culturali (La grande festa, Milano 1959), passa a studiare i significati delle componenti religiose all'interno delle popolazioni senza scrittura e del Terzo Mondo (Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano 1960; Occidente e terzo mondo. Incontri di civiltà e religioni differenti, Bari 1967).

Bibl.: Manca una bibl. storico-religiosa in senso proprio. La International bibliography of the history of religions, Leida 1952, è un bolelttino annuale che registra acriticamente le pubblicazioni relative alla fenomenologia, psicologia, sociologia della religione, e alla storia delle varie religioni; in misura minore e accessoria alla s.d.r. come materia autonoma. J. G. Barrow, A bibliography of bibliographies in religion, Ann Arbor 1955, è un repertorio che interessa prevalentemente le religioni di ambito giudaico-cristiano, la teologia e la storia della Chiesa. Restano taluni tentativi ormai vecchi e incompleti (per es., L. H. Jordan, Comparative religion. A survey of its in recent literature, Edimburgo 1910; L. Salvatorelli, Introduzione bibliografica alla scienza delle religioni, Roma 1914).

Manca anche una storia della s.d.r. che documenti ampiamente l'evoluzione e la formazione del metodo. Per quanto riguarda le prime analisi di fatti religiosi presso gli antichi, si è ancora debitori di opere classiche, come quelle di L. Edelstein, Περὶ ἀέρων und die Sammlung der hippokratischen Schriften, Berlino 1931; E. Norden, Die germanische Urgeschickte in Tacitus' Germania, Lipsia 1920, 19233; K. Trüdinger, Studien zur Geschichte der griechisch-römischen Ethnographie, Basilea 1918. Primi tentativi di sintesi di una storia della s.d.r. possono essere considerati: A. Bros, Aperçu historique sur l'histoire des religions, in Histoire des religions, I (1953), pp. 111-21; E. O. James, Comparative religion. An introduction and historical study, Londra 1938, 19612; L. H. Jordan, Comparative religion: its genesis and growth, Edimburgo 1925; E. Lehmann, Zur Geschichte der Religionsgeschichte, in Lehrbuch der Religionsgeschichte, I (1925), pp. 1-12; G. Mensching, Allgemeine Religionsgeschichte, Heidelberg 1949; id., Geschichte der Religionsgeschichte, Bonn 1948. Notevole è il manuale di W. Schmidt, Ursprung und Werden der Religion. Theorien und Tatsachen, Münster 1930, che va consultato soprattutto nell'ed. it. riveduta e ampliata con il titolo Manaule di Storia comprata delle Religioni, Brescia 1938. Si ricordano anche i contributi di R. Pettazzoni (Svolgimento e carattere della storia delle religioni, Bari 1934; Per la preistoria della storia delle religioni, in Studi e materiali di storia delle relig., I [1925], pp. 129-30).

Analisi di materiali secondo il metodo comparativo è H. Pinard de la Boullaye, L'étude comparée des Religions, Parigi 1929-1931, 2 voll. più indici. I problemi relativi alla comparazione, alla fondabilità, all'euristica, alle relazioni con altre discipline vanno studiati in: A. Bertholet, Parallèles de l'histoire de la religion, in Hebrew union college annual, XXIII (1950-51), pp. 561-68; K. Beth, Einführung in die vergleichende Religionsgeschichte, Lipsia 1920; U. Bianchi, The definition of religion (On the methodology of historical-comparative research), in Autori vari, Problems and methods of the history of religions, in Numen. Intern. rev. for the hist. of religions, Suppl., XIX, 1972, pp. 30-47; A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Roma 1966; id., Prolégomènes à une histoire des religions, in Histoire des religions, Parigi 1970, I, pp. 1-59; E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in Studi e materiali di storie delle relig., XXIV-XXV (1953-54), pp. 1-25; id., Storicismo e Irrazionalismo nella storia delle religioni, ibid., XXVIII, 1 (1957), pp. 87-107; M. Eliade e J. M. Kiagawa, The history of religion. Essays in methodology, Chicago 1959; V. Lanternari, Scienza delle religioni e storicismo, in Annali della facoltà di lettere e filosofia dell'università di Bari, VI (1960), pp. 51-55; id., Scienza delle religioni e storicismo: note e riflessioni, in Nuovi Agomenti, XLII-XLIII (1960), pp. 95-113; id., La religione e la sua essenza: un problema storico, ibid., XLIX-L (1961), pp. 1-64; S. A. Pallis, Idées fondamentales de l'étude des religions, in Numen., VI (1959), pp. 157-74; R. Pettazzoni, Il metodo comparativo, ibid., pp. 181-93. Sono brevi sintesi storico-bibliografiche A. Bausani, La storia delle religioni negli ultimi cinquant'anni, in Scientia, LI (1957), pp. 70-85; U. Bianchi, Correnti attuali degli studi storico-religiosi, in Cultura e Scuola, I, 1 (161), pp. 290-304; A. Brelich, Situazione attuale degli studi di storia delle religioni, in Acta classica Univers. Scient. Decebrens., III (1967), pp. 3-11; E. De Martino, A. Donini, M. Gandini, R. Pettazzoni e gli studi storico-religiosi in Italia, Bologna 1969; V. Maconi, La storia delle religioni in Italia, in La Scuola Cattolica, LXXXVI (1958), pp. 400-26.

Analisi dei problemi, fonti bibliografiche specifiche appaiono nei vari articoli dedicati alla s.d.r. e alle scuole storico-religiose in Enciclopedia delle Religioni, 6 voll., Firenze 1970-76.

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