Storia orale

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Storia orale

Giovanni Contini

La storia orale: intervistato e intervistatore

La s. o. è la storiografia che si fonda su 'fonti orali', ossia sulla registrazione su supporto magnetico e/o ottico di interviste audio e/o video.

Quando si parla di s. o. ci si riferisce prevalentemente alla produzione e all'uso di interviste con testimoni, parole e immagini che non esisterebbero se qualcuno non avesse deciso di sollecitare le interviste. Si tratta di fonti fortemente intenzionali, per questo assai diverse da quelle archivistiche tradizionali. Sono il risultato della ricerca di un narratore, oppure di un sociologo, di un antropologo o di uno storico. Per la loro intenzionalità esse non sono solo documenti, perché rappresentano, nello stesso tempo, la registrazione di un percorso di ricerca fissato in una certa fase: si potrebbe dire che sono documenti di quel percorso. Dal momento che incorporano i principi epistemologici della disciplina che produce la ricerca, esse sono preliminarmente orientate dal contesto disciplinare al quale lo studioso-produttore fa riferimento. Sono gli storici contemporaneisti e gli antropologi quelli che utilizzano più di frequente il metodo dell'intervista libera. Con la locuzione storia orale di seguito si intenderà quindi sia la storiografia che si accosta, attraverso l'utilizzo dell'intervista, alle tematiche antropologiche, sia l'antropologia che, nella misura in cui indaga il passato prossimo, entra in contatto con il mondo della ricerca storica. Con tale espressione ci si riferirà anche alle interviste registrate in audiovisivo, che permettono di conservare la mimica del parlante, spesso molto significativa e talvolta capace addirittura di modificare il senso di quanto viene detto. L'uso della videoregistrazione, inoltre, consente di utilizzare le foto e di documentare i vecchi procedimenti produttivi, che difficilmente anziani artigiani o contadini riescono a descrivere verbalmente.

Nell'incontro che produce la fonte orale un ruolo fondamentale è giocato dall'intervistatore, anche se la sua importanza non sempre è stata messa in evidenza. Egli è spesso colui che sollecita e conduce l'intervista, la trascrive e infine la interpreta, utilizzandola per scrivere un testo del quale è autore. Ma è accaduto di sovente che non ci si sia interrogati sul ruolo di chi pone le domande e che spesso interpreta anche le risposte. Alcuni decidono addirittura di cancellarsi nel momento di trascrivere le interviste, sopprimendo le proprie domande e ricucendo le risposte a un racconto continuo. Così facendo si trasforma un'informazione intermittente, sollecitata e talvolta contraddetta o interrotta dall'intervistatore, in un coeso flusso informativo che sembra provenire solo dal testimone. Proprio per l'importanza strategica dell'intervistatore è opportuno tuttavia che egli non solo non sparisca da un'eventuale trascrizione del testo orale, ma che registri in qualche forma le sue impressioni sul colloquio, subito dopo, 'a caldo'. Per i futuri utilizzatori sarà ancora più importante trovare, accanto alle note relative all'intervista, un lavoro di interpretazione del materiale raccolto nella forma di un vero e proprio testo.

Se si osserva il rapporto tra l'intervistatore e l'intervistato dal punto di vista di quest'ultimo, si vede che si tratta di un rapporto complesso: il testimone spesso non comprende perché lo si voglia intervistare. Mentre vuole raccontare la sua storia, l'intervistatore gli chiede di abbandonare il filo del suo racconto spontaneo e di rispondere a domande delle quali non riesce esattamente a valutare il significato. Spesso l'importanza che i due parlanti attribuiscono a eventi, serie cronologiche, personaggi specifici non coincide. Sovente la stessa parola significa per l'intervistatore e per l'intervistato cose diverse. Queste non corrispondenze fanno sì che alcune domande cadano letteralmente nel vuoto e che si ottengano risposte rovesciate rispetto a quelle immaginate. Infine ci sono affermazioni che non sono risposte, perché la griglia di chi interroga non le aveva affatto previste.

In conclusione, l'intervista è tutto il contrario di una semplice emissione di informazione da parte di un testimone/fonte che l'intervistatore, badando a interferire il meno possibile, si limiterebbe ad ascoltare, registrare e archiviare. Essa somiglia piuttosto a un campo di forza, uno scenario dove entrambi i protagonisti arrivano con schemi precostituiti e recitano ciascuno il proprio ruolo, tenendo conto l'uno dell'altro: c'è un narratore e, di fronte, c'è chi narrerà dopo, scrivendo. Questo meccanismo, da un punto di vista formale, è stato descritto come narrazione dialogica, ossia narrazione che nasce da un dialogo. Il fatto che l'intervistatore sia uno storico, o un antropologo con interessi di tipo storiografico, è tutt'altro che secondario: orienterà l'intervista in direzione del passato e non del presente del narratore, introdurrà a questo proposito dei temi appropriati; in una parola, interverrà sull'intervista nel momento del suo farsi, rendendola più adatta a essere utilizzata in una prospettiva storiografica.

La memoria come fonte storiografica

La narrazione dialogica orientata verso il passato, quindi, è il risultato di uno scambio e in alcuni casi di uno scontro tra due soggetti profondamente diversi; non è già storiografia, piuttosto si colloca nel punto di intersezione tra due importanti fenomeni di trasmissione della memoria: la tradizione orale, ossia il ricordo collettivo e spontaneo, familiare, del passato (il punto di vista dell'intervistato); e la memoria storica, la trasmissione degli eventi trascorsi attraverso il filtro valutativo della storiografia (il punto di vista dell'intervistatore).

La tradizione orale si mantiene grazie a un racconto ininterrotto. Nelle società dotate di scrittura, la tradizione orale si è conservata all'interno della famiglia, la quale, anche nella sua forma nucleare, non ha affatto perso la propensione a elaborare il proprio passato in modo indipendente: la tradizione orale non è impermeabile ai portati della tradizione elaborata tramite la scrittura, ma li seleziona e li incorpora in un processo di trasmissione dell'esperienza passata che avviene in forma orale, tramite il confronto 'faccia a faccia' e la conversazione. A fronte della tradizione orale, l'altro modo di trasmissione della memoria è quello assicurato dalla storiografia: il passato viene trattato da specialisti i quali selezionano una memoria che non è più quella della famiglia o del clan, ma è memoria generale e fin dall'inizio si pone il problema della scientificità degli assunti. La tradizione orale questo problema lo ignora, mentre si concentra sull'efficacia retorico-pedagogica del messaggio trasmesso: per questo assume uno stile discorsivo fortemente emotivo e leggendario.

La prima è esercitata da specialisti, che lavorano su progetti di interesse generale; la seconda è un'attività di rammemorazione che coinvolge ogni membro del piccolo gruppo, anche se spesso il narratore è più anziano, perché ha vissuto di più e la sua memoria è più lunga. Quindi tradizione orale e storiografia si differenziano non per il loro oggetto, ma per l'intenzione che le contraddistingue. Lo storico scrive con l'obiettivo di avvicinarsi il più possibile alla verità dell'evento trascorso, confrontandosi con una comunità scientifica che deve valutare la scientificità dei suoi assunti e delle sue procedure d'indagine. Per l'anziano che racconta, lo scopo primario è quello di condensare, dal passato, un messaggio pedagogico efficace e chiaro, che possa proteggere i più giovani dagli eventi negativi grazie alla conoscenza di analoghi eventi capitati ai più anziani. L'aneddoto è molto frequente: un racconto conciso ed emblematico che incorpora in una storia particolare molti significati che la trascendono e la rendono un evento capace di funzione ammaestrativa polivalente.

Il metodo della s. o. pone quindi in relazione dialogica non solo due individui, intervistato e intervistatore, ma i due fondamentali modi di trasmissione-elaborazione della memoria del passato. Si tratta di un confronto che è tutt'altro che semplice. Così l'intervistatore-storico è costretto a entrare all'interno di un modo discorsivo che non ha interesse per la verità e talvolta neanche per la verosimiglianza, sfiora non di rado il mito, condensa e sposta nel tempo e nello spazio eventi e persone in funzione di scopi pedagogici. L'intervistato, da parte sua, vorrebbe raccontare la propria 'bella storia', breve e composta di aneddoti seduttivi e retoricamente efficaci, ma è costretto dall'intervistatore a tornare continuamente su una carreggiata che lui, l'intervistato, non aveva previsto e spesso non comprende fino alla fine dell'intervista. Inoltre, è costretto a una intervista lunga quando ha sempre trasmesso il suo sapere con piccoli aneddoti raccontati nel rapporto quotidiano con i giovani di casa (o di bottega o di officina); aneddoti che diventano più lunghi solo quando l'argomento viene giudicato importante anche dagli altri (guerre, eventi catastrofici ecc.). L'intervista è quindi il risultato degli sforzi di due attori che cercano di ascoltare e di raccontare cose diverse, rammaricandosi per la resistenza trovata nell'altro. Un disaccordo, quindi, la fa nascere. Talvolta un conflitto.

L'intervista produce i suoi risultati migliori se un atteggiamento flessibile e aperto è condiviso dal testimone; se, cioè, quest'ultimo riesce a guardare la sua stessa esperienza come antropologicamente e storiograficamente significativa; ma un simile testimone è purtroppo raro. Di norma l'intervistato non riconosce la gerarchia delle rilevanze, la cronologia, i temi fondamentali dell'intervistatore: non si deve tendere a eliminare questa dissonanza utilizzando il potere che lo statuto di intervistatore conferisce e, per così dire, inchiodando il racconto del testimone al 'letto di Procuste'. Il maggiore interesse risiede proprio nella dissonanza tra le gerarchie di rilevanze e le cronologie dell'intervistatore e dell'intervistato, tra i temi che l'uno o l'altro spostano in primo piano: può darsi che l'intervistato abbia ragione . Ma anche se egli racconta il 'falso', è importante stabilire in che modo la memoria collettiva ha deformato il passato, oppure se ha cancellato parti importanti, oppure come e perché cronologia e attori siano stati invertiti e capovolti nella tradizione orale. Quella deformazione-falsificazione, che apparirebbe tale nel testo (scritto) di uno storico, non andrebbe neppure chiamata così quando si tratta di testi orali della memoria individuale e collettiva, perché - appunto - costituisce una rappresentazione che nasce dalla diversa intenzione dei narratori popolari rispetto a quella degli storici. E può insegnare molto. Si tratterà quindi di comprendere perché la memoria individuale e quella collettiva si distanziano così vistosamente da quanto molti fattori indicano essere stato il corso degli eventi.

Un esempio: contadini e partigiani

Così, per es., le popolazioni delle località che l'esercito tedesco distrusse durante l'estate del 1944 in Toscana hanno conservato una curiosa memoria/spiegazione di quegli eventi atroci. I sopravvissuti, infatti, hanno quasi dimenticato gli autori reali delle stragi, i tedeschi, e hanno cercato un capro espiatorio in figure interne e nello stesso tempo esterne alla comunità: i partigiani sono quelli che la memoria collettiva ha più di frequente indicato come i responsabili 'veri' dei massacri. Li si accusa di aver messo a repentaglio la salvezza della popolazione civile attaccando i tedeschi in modo irresponsabile, vicino ai luoghi abitati, per poi fuggire senza preoccuparsi di quelli che venivano uccisi per rappresaglia. In verità quasi mai si può parlare di rappresaglie: spesso si uccidevano i civili senza che i partigiani avessero sparato un colpo, talvolta senza che i partigiani neppure fossero presenti nella zona; mentre in altri casi ad azioni partigiane molto vistose non corrispose alcun massacro. Di certo si può dire che i massacri, più che la conseguenza di azioni partigiane furono interventi preventivi, volti a impedire la diffusione della resistenza in un momento nel quale la Wehrmacht era particolarmente vulnerabile, perché subito dopo la conquista di Roma si trovava impegnata in una ritirata difficile, che assomigliava a una rotta: era fondamentale impedire ogni possibile fonte di aggravio di una situazione già pesantissima. Le stragi furono calcolate freddamente per rompere in modo preventivo ogni possibile rapporto tra popolazione e partigiani. Il risultato fu così efficace che ancora a distanza di oltre mezzo secolo quella frattura non si è ricomposta. È abbastanza semplice per uno studioso stabilire che l'attribuzione di colpa ai partigiani è ingiustificata e che il vero motivo delle stragi risiede nei meccanismi decisionali dell'esercito nazista. Resta però interessante capire come e perché le popolazioni elaborarono e mantennero una memoria così nettamente sfavorevole ai partigiani. Fare, in altre parole, di quella memoria una fonte che permetta di capire non solo che cosa accadde, ma chi fossero le persone alle quali toccò in sorte lo sterminio della famiglia, la distruzione della casa, l'uccisione del bestiame. Si trattava infatti di contadini, per giunta della fascia più povera perché abitavano le zone più marginali.

La storiografia sulla resistenza ha spesso sopravvalutato la coscienza politica dei contadini durante i venti mesi che dal settembre 1943 arrivano al giorno della Liberazione. Si è sottolineata la solidarietà incondizionata dei contadini nei confronti dei patrioti, che anche le stragi non sarebbero state capaci di scuotere: ebbene, la reazione dei contadini nei confronti dei partigiani, così intensa da arrivare quasi intatta, mostra invece quanto essi fossero diversi, allora, dallo stereotipo fissato dai primi storici della resistenza. Quando scattava il dispositivo della strage i partigiani, se potevano, si spostavano. Così facendo utilizzavano la fondamentale risorsa della lotta di guerriglia, la grande mobilità territoriale che sola permette di potersi contrapporre a un esercito tanto meglio armato e organizzato. Ma i contadini e le contadine non potevano allontanarsi: soprattutto le donne, i vecchi e i bambini non riuscivano neppure a nascondersi negli immediati paraggi del paese, mentre gli uomini potevano assentarsi dal podere solo per poco tempo. Venivano uccisi in casa o nelle immediate vicinanze. Spesso furono uccisi gli uomini, più raramente furono massacrati anche donne e bambini. Per i contadini e le contadine, la casa distrutta, le bestie uccise o razziate, parte della famiglia massacrata significavano che il loro mondo era interamente distrutto da un nemico alieno e sconosciuto, soldati dei quali neppure si riuscivano a capire le parole: chi non parla, o che quando parla non è comprensibile ed è perciò come se non parlasse, può facilmente trasformarsi in 'calamità naturale'.

Non è strano, quindi, il loro enorme risentimento, che non è riuscito a trovare pace negli anni. Ed è comprensibile (ma non 'giusto') che il loro odio si sia rivolto verso un obiettivo più vicino dei tedeschi, verso un colpevole che appunto prima di sbagliare deve apparire umano, riconoscibile perché presente in quel piccolo mondo circoscritto che è l'unico a essere conosciuto: i partigiani erano passati più volte, si erano magari fermati a mangiare, alcuni venivano da villaggi vicini. Quindi la 'memoria divisa' non è di grande aiuto se si vuole capire che cosa accadde nei mesi delle stragi. Ma aiuta a comprendere chi fossero realmente, allora, le vittime di quelle stragi, i contadini. Gli stessi che proprio nelle regioni dell'Italia centrale colpite dai massacri avrebbero partecipato in massa, nel dopoguerra, alle lotte per la terra organizzate dai partiti e dai sindacati di sinistra. Nel corso di quella lotta, ma solo allora e non prima, i contadini si radicalizzarono. Così l'appartenenza convinta all'universo di valori della sinistra poté sembrare un elemento che era stato vero sempre, mentre invece solo dopo le lotte era divenuto vero. D'altra parte, i massacri e soprattutto le reazioni che scatenarono servono anche a capire chi fossero i giovani partigiani durante la guerra di liberazione (e non dopo). Il fatto che spesso non sapessero letteralmente come comportarsi di fronte ai massacri dimostra quello che era ragionevole aspettarsi, ossia che i giovanissimi patrioti non avevano alcuna esperienza della democrazia, essendo nati e vissuti conoscendo soltanto il regime totalitario e i suoi miti guerrieri. Non erano preparati a sentirsi responsabili della sicurezza dei civili, perché solo l'esperienza della democrazia avrebbe potuto sviluppare quel senso di responsabilità. E d'altra parte anche la loro identificazione iniziale con lo stereotipo del combattente eroico proveniva dal deposito mitologico del regime e dall'educazione fascista. In quanto combattenti era logico che si preoccupassero esclusivamente dell'aspetto militare, sottovalutando, all'inizio dell'esperienza della resistenza, il problema squisitamente politico del rapporto con gli abitanti dei borghi rurali di alta collina e di montagna. Dal momento che il rapporto con i civili divenne sempre più importante nel corso della guerra di liberazione, la memoria delle stragi mostra i partigiani che muovono i primi passi in un ambiente ancora sconosciuto e ostile, e imparano, come tutti, soprattutto dagli errori compiuti.

Concludendo, è possibile affermare che la memoria divisa che segue alle stragi è insieme inaccurata dal punto di vista di un giudizio sui fatti, ma importante e significativa se si vuole capire come quei fatti vennero vissuti. Anzi, doppiamente significativa: mostra chi erano e come pensavano nel 1944 i contadini che furono uccisi e quelli che sopravvissero, ma anche chi fossero e come pensassero i partigiani allora, cioè prima che la 'Resistenza' assumesse l'iniziale maiuscola. La colpevolizzazione dei partigiani è certamente ingenerosa e ingiusta. Tuttavia rappresenta, insieme alle frettolose stigmatizzazioni partigiane delle comunità che li respingevano, un 'fossile guida' fondamentale, un elemento della psicologia collettiva che non è cambiato nel tempo e che la distorsione della memoria non è riuscita a far entrare nel nuovo quadro, fortemente anacronistico, cresciuto dopo le esperienze postbelliche.

Inventariazione, indicizzazione, trascrizione, privacy

Per quanto riguarda l'inventariazione delle fonti orali o audiovisive, i problemi che si incontrano sono molto simili a quelli che l'archivista deve risolvere di fronte a qualunque fondo. Per gli archivi audiovisivi va solo tenuto ben fermo il principio che il documento è rappresentato dalla registrazione sonora e/o visiva e non, ovviamente, dalla trascrizione. Poi è necessario distinguere il nastro dal suo contenuto, dal momento che un nastro audio o video può contenere più di un'intervista mentre, viceversa, un'intervista può svolgersi attraverso più di un nastro.

Un problema che si pone per questo tipo di fonti è se sia preferibile indicizzarle tramite un tesaurum esterno di parole chiave predefinite, oppure se sia meglio effettuarne sempre, appena possibile, una trascrizione completa, che sarà poi fornita allo studioso insieme al nastro, e sulla quale sarà possibile effettuare ricerche utilizzando parole chiave già presenti nel testo e non predefinite. È sempre preferibile la seconda soluzione, anche perché la registrazione di un materiale così 'anarchico' com'è l'intervista libera rende estremamente difficile la definizione dei campi tematici tramite parole chiave predefinite. Ma va ricordato che un'istituzione prestigiosa come il Shoah Foundation Institute for Visual History and Education ha compiuto l'altra scelta per indicizzare le sue oltre 53.000 interviste. Per quanto riguarda il tipo di trascrizione, dal momento che il documento è la registrazione su nastro e che la trascrizione rappresenta comunque un'interpretazione e una traduzione, non è possibile fornire un prontuario della perfetta trascrizione, ma è solo necessario proporre alcune raccomandazioni. È opportuno mettere in guardia contro fedeltà eccessive al testo orale o audiovisivo. Non soltanto non sarà necessario utilizzare nella trascrizione i segni fonetici, ma si potranno tralasciare anche molte di quelle indecisioni che non impediscono la comprensione quando vengono ascoltate, ma diventano terribilmente disturbanti quando vengono lette: mugugni e tic verbali, per es., possono essere introdotti nella trascrizione, ma non con la stessa altissima frequenza con la quale interrompono il flusso narrativo. Le forme dialettali, invece, non dovranno essere italianizzate, pena una grave riduzione della capacità di significazione del testo trascritto. Se serve, si potrà aggiungere tra parentesi quadre la traduzione in italiano.

Resta infine da discutere il problema, particolarmente importante nel caso delle fonti orali, della privacy. Quasi ovunque nel mondo si chiede all'intervistato di firmare una carta con la quale si autorizza il ricercatore, o l'istituto che ha organizzato l'intervista, a utilizzarla e a pubblicizzarla, mentre in Italia il codice deontologico che regola l'applicazione della legge sulla privacy prevede che le interviste possano essere utilizzate se nel corso del colloquio una specifica domanda in tal senso è stata posta chiaramente e se l'intervistato ha dato il suo assenso.

Per quanto riguarda gli archivi audiovisivi sarà opportuno che i fruitori firmino un documento nel quale dichiarino di conoscere la legge sulla privacy e il suo codice deontologico e di assumersi tutte le responsabilità derivanti da un utilizzo improprio dei documenti.

La conservazione delle fonti: il problema della storia orale

Le fonti orali e audiovisive non differiscono molto dalle fonti archivistiche tradizionali, ma sono enormemente più labili, e i problemi di conservazione della registrazione sonora sono iniziati fin dagli albori di questa tecnica. All'inizio i rulli di cera sui quali si incidevano suoni o voci potevano rompersi o deformarsi. Più tardi il disco di vinile rivelò la spiacevole tendenza a fratturarsi secondo linee radiali, dopo che era trascorso un certo numero di anni dalla registrazione. È poi venuto il filo magnetico, che poteva ossidarsi. Infine, si è entrati nella lunga stagione del nastro magnetico, nel quale è immersa una miriade di corpuscoli metallici che vengono orientati da un magnete, riproducendo in forma analogica (e poi digitale) l'impronta del suono.

Anche i problemi di conservazione del nastro sono notevoli: i primi erano di caucciù e tendevano a seccarsi e a contrarsi, spostando di conseguenza l'orientamento dei corpuscoli magnetizzati; inoltre il nastro invecchiato tendeva a spezzarsi, oppure le spire si incollavano le une con le altre. Infine si poteva, e si può, verificare il fenomeno della 'eco fantasma': chi ascolta ha l'impressione che sia presente una sorta di eco preventiva, che anticipa quanto verrà detto; l'informazione 'migra' da una spira a quella contigua, perché in nastri tenuti fermi e non riavvolti per troppo tempo la magnetizzazione di una spira magnetizza debolmente quella sottostante. I problemi di conservazione sono ancora più drammatici nel caso delle registrazioni audiovisive. Nelle cassette audiovisive analogiche di piccolo formato in una superficie ridotta si affollano informazioni così numerose che un minimo deterioramento può produrre 'rumori di fondo' che talvolta rendono inutilizzabili i supporti; ma anche temperatura e umidità sbagliate producono risultati devastanti in pochi anni. Formati che distribuiscono un minor numero di informazioni su una superficie maggiore soffrono di un deperimento meno drammatico e meno veloce, ma non meno sicuro. Lo stesso vale per i formati professionali. E il problema della conservazione, nell'analogico, non può risolversi copiando, perché ogni copia è leggermente inferiore all'originale.

La registrazione digitale, elettronica e ottica, sembrerebbe fornire una via di uscita. Il digitale, infatti, differisce dall'analogico, perché in quel caso l'informazione viene riprodotta in modo simile, analogo, sul nastro: si tratta di copiare un originale acustico e/o visivo. Nel digitale, invece, l'informazione di partenza è transcodificata in codice binario. Nella riproduzione, poi, dal codice binario viene ricostruita l'informazione acustica o visiva di partenza. Se nel caso dell'analogico si ha, infatti, una sorta di fotocopia dell'originale la quale andrà deteriorandosi di copia in copia, nel caso del digitale una copia non presenta perdite rispetto all'originale: insistendo nella metafora della fotocopia, è chiaro che una fotocopia di una serie di numeri produrrà una seconda serie perfettamente leggibile, e che se vi sono delle perdite d'informazione queste non saranno in grado di impedire la leggibilità della serie numerica, che costituisce la matrice.

La rapidissima evoluzione dei sistemi informatici crea un problema quasi irrisolvibile a chi debba preoccuparsi della raccolta e della conservazione di archivi audiovisivi: sembra preferibile la scelta di non scegliere e di aspettare, dal momento che l'innovazione è vorticosa e ogni mese vede nuove proposte (ma l'immobilità è sconsigliata proprio dalla velocità con la quale questi supporti si deteriorano); inoltre ogni decisione relativa a una modalità di conservazione può essere vanificata dall'effettivo sviluppo, che non era ancora prevedibile quando la scelta venne compiuta.

Facendo un esempio 'antico' (1998): il minidisk audio della Sony era un prodotto di ottima qualità. Ma la scarsa diffusione sul mercato di questa tecnologia ne ha provocato la rapida obsolescenza, così questo supporto è destinato a sparire in tempi brevi. Invece tecnologie vecchie e incapaci di garantire alti standard di registrazione sono ancora in uso proprio perché hanno incontrato un enorme successo di mercato: l'audiocassetta ha oltre trent'anni di vita e continua a essere utilizzata; la cassetta audiovisiva VHS, che non garantisce gli stessi standard di tecnologie che pure sono oggi sparite, gode invece di buona salute perché anch'essa è stata premiata dal mercato. Sembra che nel prossimo futuro il nuovo formato destinato a imporsi commercialmente, e quindi a durare nel tempo, sarà il formato DVD. Esso infatti sembra possedere le stesse caratteristiche che hanno reso stabile negli anni l'audiocassetta o la cassetta audiovisiva VHS, perché è ormai presente in modo crescente nel mercato domestico. Fino a ieri un serio problema che lo standard DVD presentava era costituito dal fatto che erano disponibili ben cinque standard e tecnologie differenti. Ma dopo anni di lotta senza quartiere all'inizio del 2004 le multinazionali proprietarie dei brevetti sono state costrette da motivi di mercato ad approntare un unico standard di produzione e duplicazione. Bisogna però tener conto che mentre i DVD prodotti commercialmente in moltissime copie (per es., contenenti film) sono affidabili e durevoli, i DVD incisi dagli apparecchi amatoriali possono presentare inconvenienti, perché una sovrapposizione delle tracce incise può rendere illeggibile il supporto.

Così il modo più costoso ma anche più sicuro per mettere in sicurezza gli archivi digitali è quello di copiarli su dischi rigidi (hard disk) disposti in serie e funzionanti secondo il concetto di multiriproduzione, cioè di conservazione parallela e ridondante dell'informazione: ciascun disco contiene le stesse informazioni degli altri dischi. La serie di dischi è gestita da un software che aggiorna in modo continuo l'archivio, integrando eventuali perdite: la parte danneggiata viene recuperata dagli altri dischi e riscritta nel disco che aveva perso l'informazione. Inoltre questo sistema consente una continua immissione di dati nell'archivio, fino alla saturazione della memoria.

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