Storiografia

Dizionario di Storia (2011)

storiografia


storiografìa

Scienza e pratica dello scrivere opere relative a eventi storici del passato, in quanto si possano riconoscere in essa un’indagine critica e dei principi metodologici.

Storiografia greca

La s. ha inizio in Grecia per duplice via: riconoscendo un contrasto fra il mondo mitico e la vita attuale e cercando di appianarlo, o concentrando la propria osservazione su fatti contemporanei. Tali processi hanno origine in Ionia nel sec. 6° a.C., in correlazione con il sorgere della filosofia. La critica del mondo mitico non ebbe peraltro mai lo scopo di sopprimere quel mondo, bensì sempre solo di dargli coerenza e di eliminare i contrasti tra esso e i dati offerti dalle altre esperienze ritenute accertate. In Ecateo da Mileto, attore della ribellione ionica (499-94 a.C.), e la consapevolezza della diversità fra le leggende religiose greche e quelle orientali, e perciò del valore relativo e criticabile delle prime. Egli ne è indotto a proclamare «molti e ridicoli» i racconti dei greci e a contrapporre loro ciò che ritiene vero. Fondamentale nel suo atteggiamento e il richiamo al proprio criterio personale, cioè alla ragione, nel giudicare la tradizione; ma, sebbene la contrapposizione al dato tradizionale sia indubbiamente consapevole, non si va mai oltre il semplice ritocco all’affermazione tradizionale per collegarla con le esperienze meglio accertate.

Si possono individuare due filoni storiografici, entrambi di derivazione epica: l’uno, che culmina in Erodoto, volto a raccontare, oltre alle vicende delle guerre persiane, anche i caratteri dei popoli, greci e barbari, che in quel conflitto si affrontarono, e che e da collocare all’origine di un filone etnografico di curiosità relative a tradizioni, costumi, lingue (elementi questi dell’identità etnica per i greci); l’altro (Tucidide) più attento alle vicende contemporanee politico-militari, ai rapporti di causa ed effetto, alle concatenazioni degli eventi. Istoria significa effettivamente, stando al senso fondamentale di istor, sia «ricerca» sia «testimonianza»: in essa coesistono i due aspetti, di raccolta del materiale, di accertamento, perciò, delle «testimonianze », e di ricerca attiva, volto sia a mettere in luce le testimonianze visive (autopsia) sia a raccogliere i racconti che popolano la memoria degli uomini. La ricerca della verità intesa come qualcosa che si può tenere rigorosamente distinta dal mito si accampa come esigenza primaria in Tucidide: l’effetto, salutare per un verso e limitativo per l’altro, e quello di una certa riduzione del campo degli interessi storici del tutto parallelo alla sua concentrazione. E con questa operazione di rigorosa distinzione e discriminazione tra vero (verificabile) e mitico (non verificabile, anche se non necessariamente falso) che si connette del resto l’aspirazione di Tucidide a realizzare, con la sua opera storica, uno ktema es aei, un «possesso per sempre». E con questo e collegata a sua volta, se non la nascita della scrittura, che per usi letterari, e più specificamente prosastici, aveva già dietro di se una lunga storia, almeno la sua promozione a veicolo principale, per tutto il corso della trasmissione delle notizie, tranne il momento iniziale. La storia erodotea era fortemente caratterizzata, per modo di raccolta del materiale come anche per movenze stilistiche, da un alto tasso di oralità che si può dire arrivi nella maggior parte dei casi sino alle soglie dell’elaborazione scritta realizzata dall’autore. L’accertamento della verità (limitata, per quanto riguarda i fatti, alla sostanza delle cose dette e, per quanto riguarda i discorsi, ai riferimenti specifici a personaggi, comportamenti, linee di tendenza e situazioni reali) si pone come il fine ultimo di Tucidide. La sua opera ha come oggetto la guerra del Peloponneso, l’epocale scontro tra la democratica Atene e la conservatrice Sparta, e quindi il modo in cui si era arrivati a quel conflitto e le responsabilità, valutate in maniera equilibrata e, in tal senso, oggettiva. La finalità della sua s. non e ancora dimostrare che qualcosa e stato (non e perciò una s. a tesi), ma mostrare come e accaduto (e questa e la sua oggettività, da realizzare nei limiti del possibile). In questa attitudine critica di fondo, che emerge già dalle prime espressioni storiografiche dei logografi (Ecateo di Mileto, Acusilao di Argo) e matura nelle opere di Erodoto e di Tucidide, e radicato un atteggiamento di fondamentale dissenso verso le società stesse di appartenenza, si che la s. appare come coscienza critica di una società. In questo mostrare come, e nei connessi problemi di responsabilità, di colpa, di moralità, nell’opera di Tucidide, come del resto già nell’epos omerico, sono da riconoscere i germi degli sviluppi successivi della s. (sec. 4° e segg.).

Ma perché questi germi dessero luogo a una fioritura storiografica imponente, anche se talora prolissa, era necessario che maturasse la storia del pensiero filosofico greco dalle premesse naturalistiche, attraverso l’opera di analisi e di approfondimento psicologico della sofistica, fino all’insorgere del pensiero antropocentrico, cioè della rivoluzione del pensiero e del senso morale, che si compiono nell’insegnamento di Socrate. E retorica e moralistica, perciò beneficiaria ed erede dei progressi del razionalismo concettuale e verbale rappresentati dalla sofistica e dalla retorica, e la s. della fine del 5° e del pieno sec. 4°: non e un caso che gli storiografi principali dei primi due terzi del sec. 4° siano discepoli l’uno di Socrate (Senofonte, il continuatore di Tucidide), e gli altri due (Eforo e Teopompo), stando almeno alla convinzione generale, di Isocrate, scolaro a sua volta del sofista-retore Gorgia di Leontini. Nel seno stesso della grande s., centrata su generali eventi bellici, come le guerre persiane (Erodoto) o la guerra del Peloponneso (Tucidide), rispettivamente di più ampio o più ridotto spettro storiografico, sia sul piano dello spazio coinvolto sia su quello del tempo perseguito, matura l’attenzione biografica alle grandi individualità che in quegli eventi emersero.

La biografia si sviluppa poi come genere letterario autonomo, solo parzialmente differente dalla grande s., perché volto si alle personalità di rilievo storico maggiore, ma solo per dare più spazio alle vicende individuali (quanto ad azione rappresentata) e alla valutazione morale e rappresentazione psicologica delle singole personalità. Psicologismo e moralismo preparano così il fiorire della biografia, che però, per maturare come genere, doveva ancora attendere la maturazione di interessi biografici di tipo erudito in ambito peripatetico (dapprima rivolti alle vite dei filosofi) e il fiorire di una s. mimetica e tragica, anch’essa riflesso delle ambigue contiguità che la sistemazione peripatetica aveva assegnato, pur distinguendole, alla storia da un lato e alla poesia tragica dall’altro. La s. classica operava così il superamento di quelle distinzioni che Aristotele aveva concepito come barriere e che altri (Duride di Samo) pensarono di trattare come ostacoli da rimuovere. Oltre a ciò, un secondo, ma non secondario, fattore dell’avviarsi e consolidarsi di una tradizione biografica, che raggiunse una forma definitiva solo con Cornelio Nepote a Roma e Plutarco in Grecia (secc. 1°- 2° d.C.), fu la straordinaria impresa di Alessandro il Macedone, che conquisto l’Oriente persiano e avvio quella grandiosa fase storica di commistione e di compromesso tra culture diverse che fu l’Ellenismo. Ora che la forma politica riportava in auge la singola personalità, dominante sulle altre, l’interesse biografico era destinato a rafforzarsi. Dunque e al crocevia tra l’insegnamento di Aristotele, la riflessione e l’attivita di raccolta storica della sua scuola da un lato, e dall’altro i meriti eccezionali di Alessandro, allievo di Aristotele, che si determino l’humus più favorevole alla nascita e allo sviluppo della biografia, prima settore privilegiato di un’opera storiografica e poi, dopo passaggi non ancora del tutto chiariti, maturato nelle classiche biografie di Cornelio Nepote e di Plutarco. In un primo momento, in Ionia prevale la descrizione etnografico-geografica nelle forme della periegesi e del periplo: Ecateo stesso scrive una periegesi.

Ma con Erodoto l’oggetto dell’indagine si sposta e si determina in senso propriamente storiografico: il tema fondamentale della «ricerca» (istoria)diviene una guerra, vista nelle sue lontane origini e nel suo minuto svolgimento; guerra che coinvolge greci e barbari, e nella quale essi si riconoscono nelle loro caratteristiche etiche e politiche. Per Erodoto il tema delle guerre persiane e in parte tale da permettere una conoscenza sicura e chiara, cioè rientra nella storia di cui e possibile il controllo per la vicinanza del tempo e il carattere diretto delle testimonianze: ma in parte e già passato, di cui occorre tenere a mente la tradizione, in quanto tale. Si stabilisce così tra il polo della critica della tradizione mitica (Ecateo) e il polo della pura storia contemporanea (Tucidide) una zona neutra, della quale e proprio il «conservare il ricordo »; e questa resta come terza direttiva fondamentale nella s. greca. E innanzi tutto quella in cui agisce più fortemente la tendenza epicizzante nella considerazione del passato. C’è infatti in Erodoto una gioia di narrare che manca a Tucidide. Tucidide, senza residui etnografici, concepisce la guerra del Peloponneso come l’unico problema: in esso si proietta tutta la storia greca, risolta nel contrasto di due forme politiche, l’ateniese e la spartana. La narrazione trova la sua necessita nell’appassionata volontà di Tucidide di comprendere la tragedia della propria patria, maestra di civiltà e tuttavia sconfitta: il livello di penetrazione storica dell’opera tucididea non sarebbe stato più raggiunto. Tucidide esercita tuttavia una forte influenza esteriore: la s. posteriore a Tucidide, in quanto si presenta come sua continuazione, e storia contemporanea. Senofonte e Teopompo scrivono solo di questa e così Callistene, mentre anche gli storici, per es. Filisto ed Eforo e Anassimene, che vogliono essere soprattutto storici del passato, vengono sempre più allargando la loro esposizione con l’approssimarsi al loro tempo.

Tutti questi storici sono però anche sotto l’influenza di una concezione etico-retorica, in cui l’insegnamento di Isocrate s’incrocia con l’esempio di Erodoto. L’ideale politico non riesce a staccarsi dall’encomio e dal biasimo, creando un’equivocità di valutazioni; mentre vita pratica e indagine speculativa spingono a concentrare l’interesse sui singoli individui (Evagora d’Isocrate; Agesilao di Senofonte), si arriva alle Filippiche di Teopompo, dove il centro della storia e un uomo, il monarca macedone. Per tale via si profila il pericolo di perdere il senso della distinzione tra romanzo storico a tesi e narrazione storica: viene a mancare nella coscienza degli storici il limite tra il reale e l’immaginario (precisamente come nelle generazioni che accompagnano o seguono Alessandro sembra venir meno il limite tra la coscienza morale e l’affermazione sregolata delle proprie fantasie o cupidigie). L’impresa di Alessandro da così luogo a una letteratura che sta tra il reale e l’immaginario: Callistene, Onesicrito, Clitarco creano una biografia di Alessandro ricchissima di motivi filosofici. Né la biografia peripatetica, a cominciare da Aristosseno, sembra procedere in modo meno arbitrario. Ed è significativo che si manifesti una reazione a questa s. (o pseudostoriografia): memorialisti seri come Aristobulo, Tolomeo (il futuro re di Egitto), Nearco e Geronimo di Cardia valgono a mantenere desta la coscienza del valore intrinseco del nudo ricordo dei fatti. Intanto la cultura greca giungeva a estrema consapevolezza nel cercare i resti del passato, sviluppandosi ampiamente come ricerca antiquaria. In questo solco continua la s. locale, d’antica origine, che ora, nel sec. 4°, in Atene, sotto l’impulso dei problemi ideologici della democrazia contesa tra radicalismo e moderatismo, da origine a un genere letterario ben definito, l’attidografia, della quale il primo rappresentante era stato Ellanico di Lesbo, e il più illustre e Androzione, la cui opera sarà poi ripresa, con più vasta dottrina, nel sec. 3° da Filocoro. Anche in questa erudizione antiquaria s’insinua il dissidio tra la volontà di solida constatazione della tradizione e la tendenza all’afflato retorico, che attraverso la forma influisce pericolosamente sul contenuto. E il particolarismo locale, con la sua tendenza apologetica, influisce spesso negativamente sull’obbiettivita storica, come dimostra il suo più insigne rappresentante Timeo, lo storico siculo esule ad Atene, fondamentale ricercatore, peraltro, per la storia dell’Occidente.

Timeo appare come il primo storico greco concentrato sull’Occidente, e soprattutto per questo, e per il suo campanilismo siceliota, è sembrato essere avversato da Polibio che, storico a sua volta della grandezza di Roma, ma di una Roma conquistatrice dell’Oriente greco, si pone verso il suo predecessore in un rapporto di tipo competitivo. In tale incertezza tra la storia come racconto dei fatti e la storia come opus oratorium maxime (come avrebbe detto Cicerone) è naturale che abbia fortuna la teoria della storia come mimesi, imitazione, in cui si trapianta nella s. il concetto aristotelico della tragedia.

Duride e Filarco sono i massimi rappresentanti di questa s. «patetica ». Ma contro di essa, Polibio restaura una s. aliena così da falsificazioni retoriche come da meschinità cronachistiche, tutta intesa a cogliere nella loro fisionomia reale le trasformazioni politiche e le vicende militari. Grande è l’energia di pensiero posta da Polibio nel suo compito, la larghezza di visuale, per cui il centro della storia viene riconosciuto là dove esso si trova realmente, in Roma, con la conseguente realizzazione di una storia cosmopolita. Il continuatore di Polibio, Posidonio, si sforza all’estremo di far rientrare questa irrazionalità nella storia, come «furore» (thumos), motore delle vicende umane e forza antitetica al logos, la «ragione »; e con Posidonio perciò l’interesse etnografico per i barbari, di cui è proprio il «furore», diventa analisi di un aspetto integrativo della natura umana, e la storia cosmopolita è ottenuta nella forma rigorosa raggiunta dall’antichità.

Un passo avanti nella riflessione greca sull’Occidente è rappresentato, nel sec. 1° a.C., dall’opera storica di Posidonio, particolarmente attento ai costumi del popolo più numeroso e più significativo fra i barbari di quelle regioni, i celti, presenti e descritti di là e di qua dalle Alpi. Dopo Posidonio non si trovano più motivi originali di pensiero storico. In età cesariana-augustea uno storico greco ignoto (fonte delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo) riprende il disegno delle Filippiche di Teopompo per allargarle a storia universale; nella stessa età le idee cosmopolitiche di Posidonio guidano (sembra) il disegno della mediocre compilazione da vari storici di Diodoro Siculo.

Nel sec. 2° d.C. Arriano si rifà a Senofonte e ai memorialisti più seri di Alessandro Magno; nel sec. 3° Dessippo si richiama a Tucidide; e Tucidide è anzi il modello di tutti coloro che vogliono reagire alle dominanti correnti di s. retorica (e quanto questo richiamo a Tucidide fosse consapevole e serio ci dice il Come si debba scrivere la storia di Luciano, dove sono raccolte tutte le migliori esperienze della s. greca circa una scrupolosa esposizione del vero). Il meglio della tarda s. greca deriva ormai dal contatto col mondo romano. Da Polibio in poi, la comprensione del mondo romano resta tra gli sforzi più seri dei greci: testimoni ne sono, oltre Cassio Dione, Appiano ed Erodiano. E dal confronto del mondo greco e di quello romano esce l’opera storiografica greca maggiore dell’età imperiale: le Vite di Plutarco, nelle quali (comunque vada risolto il problema delle fonti) è incontestabile la personalità dello scrittore, dotato di sensibilità morale e fine senso di cultura. Accanto a Plutarco, e dopo di lui, va ricordato Pausania, autore, nell’età di Adriano e degli Antonini (sec. 2° d.C.), di una sistematica ricognizione del paesaggio naturale e monumentale della Grecia propria, e insieme delle sue tradizioni mitiche e storiche, la Periegesi («Guida») della Grecia. In essa l’autore si propone di «discorrere parimenti di tutte le cose greche», giungendo così, in una prospettiva di equità storiografica di matrice erodotea, a una ricostruzione dell’identità nazionale greca, divenuta possibile proprio nel quadro della pace e della tutela romane, avvertite, per quanto riguarda l’imperatore Adriano, come benefiche, ma pur sempre considerate con un senso orgoglioso della civiltà greca e un qualche sentimento di fronda verso comportamenti di singoli protagonisti della conquista romana. La decadenza della creatività storiografica è confermata dall’estendersi degli excerpta e delle compilazioni esemplificatorie, che rappresentano un preludio alla letteratura bizantina.

Storiografia romana

I romani ritennero che la loro s. avesse origine dalle registrazioni dei pontefici, ma la natura e l’antichità di queste registrazioni costituiscono un arduo problema. Probabilmente esse, nella parte autentica, risalgono almeno alla fine del sec. 5° a.C. e contengono verosimilmente notizie autentiche di un secolo precedente. Da questa rozza annalistica pontificale, con aggiunte le tradizioni domestiche e le notizie d’interesse generale conservate a memoria con riferimento a monumenti, a canti popolari ecc., deriva la materia della storia più antica di Roma. Perciò i più antichi storici romani scrivono sotto forma di annali, e lo sforzo consapevole della s. romana è sempre, si accetti o no la disposizione esteriore degli annali, di oltrepassare questo tipo di costruzione del materiale storico. Fabio Pittore scrive in greco, innanzi tutto perché greca è la tradizione di quel genere letterario, la s., in cui la sua opera si iscrive (della historia i greci hanno inventato il nome, la tecnica, il metodo), ma anche, ed evidentemente, perché interessato a informare della storia di Roma il mondo mediterraneo di lingua greca. Non è un caso che per la storia della prima guerra punica, come narrata da Polibio, Fabio valga come fonte principale, accanto al greco filocartaginese Filino di Agrigento. In effetti, Polibio si pone come una sorta di bacino collettore di tradizioni storiografiche romane e al tempo stesso come filtro di queste tradizioni, come di modelli storiografici greci, verso la tradizione romana successiva, annalistica e non. La presenza di Polibio nella letteratura storiografica e politica romana è in parte del tutto evidente (basti pensare a Cicerone e a Livio; nel rapporto con Catone, Polibio sembra essere il debitore), in parte solo sotterranea eppure tutt’altro che insignificante. La sua funzione di filtro di istanze storiografiche precedenti verso storici romani più tardi si coglie nel suo rapporto con Tucidide, di cui Polibio raccoglie l’aspirazione a una s. contemporanea, pragmatica e tendenzialmente oggettiva, e veicola queste istanze verso la s. di un Tacito, di stampo tucidideo. Non a caso, forse, l’ultima citazione antica da Polibio ricorre nel tacitiano, e continuatore di Tacito, Ammiano Marcellino.

Alle origini della s. romana c’è dunque un’esperienza di registrazione scritta, di annotazioni cronachistiche ufficiali (annales), in maniera più dimostrabile di quanto si possa farlo per gli inizi della s. greca. A Roma il passaggio dalla memoria scritta alla vera e propria s. letteraria è perseguibile con maggiore chiarezza che per l’ambito greco, in cui la tradizione orale ha avuto un ruolo propulsivo ben più evidente; ma è solo questione di grado, perché il fenomeno è noto anche per l’ambito romano (sviluppi dai carmina convivalia e triumphalia, laudationes funebres ecc.). La naturale reazione contro questo scrivere in lingua straniera per stranieri è guidata da Catone il Censore, ma proprio due generi letterari greci, la storia delle fondazioni delle città (origines) e la storia contemporanea, gli servono per affermare la sua reazione, che è anche contro l’annalistica. Intanto la più genuina annalistica, che riprende la storia dalle origini, diventa romana, ma poetica (Ennio), continuando l’epos storico introdotto da Nevio, mentre parallelamente si viene costituendo una tradizione di annali in prosa (Cassio Emina, metà del sec. 2° a.C.). La s. romana manifesta già ora i suoi caratteri fondamentali. Essa non ha la volontà di erigere un sistema di conoscenze partendo dall’esperienza storica, come la migliore s. greca; ma (come la poesia latina scopre un’intimità spirituale ignota a quella greca, e il ritratto romano ha un realismo interiore quasi ignoto all’arte greca) trova in immediata aderenza al proprio oggetto una forma di ricostruzione psicologica che ha valore obiettivo, poiché nell’autore stesso si continuano i moventi storici che egli rappresenta, e ha valore soggettivo (e perciò documentario) in quanto, soprattutto se si tratta di storia contemporanea, indica come l’autore sente la propria posizione di cittadino romano. Il fascino sempre esercitato dalla s. romana sta in questa partecipazione dello storico come cittadino che rivive la vicenda e riconosce negli altri quelle stesse virtù da lui apprezzate o vizi da lui aborriti nella pratica quotidiana. Di qui il tipico moralismo della s. romana; di qui anche il suo carattere retorico (grande successo ebbe in Roma la s. ellenistica). Retoricità che però non consiste semplicemente nella deformazione dei fatti, bensì nell’organizzarli in modo da confermare lo stato d’animo dello scrittore.

In questa luce si comprende la più recente annalistica, quella di età graccana e postgraccana (da Cn. Gellio a Valerio Anziate e Licinio Macro). Dai più antichi annalisti a questi più recenti la materia della storia romana più antica subisce un’amplificazione, in cui si mescolano la tendenziosità politica (che è anche orgoglio familiare) e l’impossibilita di concepire la storia arcaica troppo più povera di quella dell’attuale Roma dominatrice. Si giunge così al periodo classico della s. romana, nel quale le eredità anteriori maturano. Sallustio, nel suo arcaicizzare, si riporta a Tucidide (e a Catone), quali esemplari di vecchia austera virtù, e vede nel suo tempo dissolversi, nella corruzione, la possibilità di soddisfare un nobile amor di gloria. I Commentarii di Cesare fondono in se esperienze storiografiche diverse: la forma annalistica rinvia al filone principale della s. romana, ma il genere ha le sue radici negli hypomnemata ellenistici e nell’autobiografia del romano Silla; infine, l’intento di oggettività del generale-scrittore respira l’aria del modello storiografico tucidideo. Cesare identifica nelle sue memorie se stesso con l’interesse del popolo romano e mostra nella narrazione svolgersi i fatti con quella stessa sicurezza con cui dirige gli eventi. Polibio è fonte, e in parte anche modello, di Livio, e Tucidide ispira la s. tacitiana; in Livio oggetto della storia diventa la stessa grandezza (o virtù) romana, sempre minacciata dall’insidia della corruzione (presente o celata); Tacito, infine, sa realizzare il suo ideale civico solo nella forma negativa della spietata introspezione dell’animo degli imperatori tiranni. E sempre è il cittadino che giudica come se incarnasse in sé lo Stato romano. La decadenza della s. romana coincide quindi con lo smarrirsi di questa capacità d’interiorizzare lo Stato. Con Svetonio prevale la tendenza erudita, di cui Verrio Flacco e Claudio erano già cultori. E per caratterizzare la s. romana va tenuta presente (per la coincidenza con il moto di trasformazione in biografia della storia romana) la vasta attività memorialistica degli stessi imperatori o alti personaggi (Augusto, Tiberio, Agrippina, Claudio, Vespasiano, Corbulone ecc.). Ma una sola resurrezione ha nel mondo antico il classico pensiero storiografico romano, l’orientale Ammiano Marcellino (sec. 4°), che, conquistata un’anima latina dalla tradizione dell’esercito e dai libri, scrive in latino e vuole continuare Tacito: il complesso che ne risulta (astrologia orientale ed etica civica) è il prodotto intellettuale più suggestivo della dissoluzione della s. romana.

Accanto alla biografia di tipo plutarcheo, che intreccia, in una prospettiva non troppo dissimile da quella della grande s., i fatti, i costumi e i detti di un determinato personaggio, in una esposizione di prevalente struttura diacronica, sussiste, in età imperiale, il tipo svetoniano, in cui alla biografia del personaggio storico si applica un diverso modo espositivo, tipologico, costruito secondo un ordine e secondo categorie già sperimentati per le biografie di letterati e filosofi (vita, opere, aspetti del carattere, ecc.). E nel filone biografico va rilevata anche l’Historia Augusta, una serie di vite di imperatori, da Adriano a Caro Carino e Numeriano, che si pone come continuazione di Svetonio, da un lato, e della stessa opera storica di Tacito, dall’altro. Quella serie di biografie imperiali appare certo di difficile attribuzione e di problematica collocazione cronologica, nonostante i riferimenti espliciti a nomi fittizi di autori e le dediche, anch’esse sospette, a Diocleziano e a Costantino; e tuttavia essa mostra quanto gli autori della rinascita storiografica di età traianea e adrianea (Tacito e Svetonio) condizionino le estreme manifestazioni della s. romana, che pure risultano caratterizzate da finzioni, faziosità e spirito antologico. La restante produzione è costituita prevalentemente da epitomi liviane o prodotti sostanzialmente analoghi.

Storiografia nel Medioevo

La s. medievale può essere analizzata secondo due criteri di classificazione: uno tipologico (storie universali, cronache, annali; Gesta pontificum ecc.) e uno che, non escludendo il primo, sia più attento ai contenuti (religiosi, politici, pubblicistici ecc.). Premesso che una rigida assunzione di interpretazioni tipologiche condurrebbe a classificazioni inesatte, si potrà intendere la s. del periodo altomedievale (secc. 5°-11°) come prevalentemente ispirata alla tipologia della storia universale, che si ripropone comunque in alcuni esempi di notevole fruizione nel Duecento e Trecento; mentre nel periodo tardomedievale (secc. 12°-14°) si afferma sempre più consapevolmente un tipo di s. particolarmente coinvolta nelle vicende politiche contemporanee agli autori delle stesse storie, spesso in posizione professionale e sociale di rilievo o addirittura protagonistica all’interno di processi di formazione di città comunali, signorie e regni. È innegabile che una forte motivazione della scrittura storica agli inizi del Medioevo venne dall’opera agostiniana De civitate Dei (sec. 5°) che, nel superamento di una giustificazione della storia racchiusa nella dimensione del valore assoluto dell’istituzione imperiale romana o in quella del modello ciclico delle forme di reggimento politico della società, trovò proposizione esemplare nell’ultimo dei Libri adversus Paganos di P. Orosio (m. dopo il 417), discepolo di Agostino, impegnato a «dimostrare » che non il cristianesimo aveva provocato la rovina dell’ecumene politico-sociale romana (per lo meno a Occidente), ma l’intrinseca caducità di ogni dominazione esclusivamente umana, caducità cui non si sottraeva nemmeno l’impero dei Cesari e degli Augusti. Il valore, per una s. cristiana, non poteva essere racchiuso in un disegno umano, per quanto grandioso, ma nella prospettiva salvifica offerta agli uomini dal cristianesimo. E già prima di Agostino, con Eusebio di Cesarea (morto 340 ca.) e la sua Ekklesiastike istoria (dalle origini al 324; trad. in latino da Girolamo come Historia ecclesiastica e continuata da Rufino di Aquileia sino al 395) la storia si era prospettata come «storia sacra», avente per centro il momento della Redenzione e la figura del Cristo Salvatore, intorno alla quale ruotavano tutti gli eventi della storia umana. Una storia sacra che era implicitamente una storia escatologica. Ma sarebbe erroneo pensare che, con questa forte istanza religiosa, la scrittura storica si risolva in una alienazione dell’evento umano a vantaggio della spiegazione «teologica». Ciò non sarebbe stato possibile, perché mentre era ipotizzabile interpretare la storia degli imperi e quella romana soprattutto in chiave biblica, così non era con le dominazioni di popoli germanici che dovevano essere collocati, per la loro «comprensibilità» storica, o in linea continua con l’interpretazione provvidenziale della nascita di Cristo all’interno di una dominazione universale di cui i regna romano-germanici erano la prosecuzione, o dovevano essi con la loro storia «testimoniare » di una propria assunta incombenza «divina». E così, a seconda del prevalere di uno o dell’altro modo di approccio alla storia, si affermarono le prime grandi storie «etniche» nell’Occidente altomedievale. Se della presenza degli ostrogoti in Italia nulla si sa dalla perduta Historia Gothica di Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, probabile fonte, con l’omonima di Memmio Simmaco, dei Getica di Giordane (metà del sec. 6°), e se la collocazione dell’etnia ostrogota è sempre vista in relazione con il significato da dare a una perdurante romanità (Giordane scrisse anche De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum), non è impossibile ricavare da queste fonti disparate o da frammenti di narrazioni e tradizioni notizie circa condizioni originarie di insediamento, elementi etnografici, onomastica. Ciò vale soprattutto per la Historia Langobardorum di Paolo Diacono, che scrive quando il destino del regno longobardo è segnato, dopo la sconfitta subita a opera dei franchi di Carlomagno, e che è pertanto indotto a fissare – e certo anche a idealizzare – il mito di una gente fortissima che aveva dominato una parte dell’Italia per circa due secoli e che, passata dall’arianesimo al cattolicesimo, non aveva mai dimenticato le tradizioni antiche.

Diverso era stato il caso di Gregorio di Tours, autore di Decem libri historiarum riferiti alle vicende dei franchi e della monarchia merovingia, di cui lo storico offre un quadro a tinte fosche, con qualche esagerazione, probabilmente, ma sicuramente più sincero rispetto alle composizioni ireniche di un Cassiodoro o addirittura trionfalistiche di un Isidoro di Siviglia, che nei suoi Chronica maiora e soprattutto nella Historia Gothorum, Wandalorum, Sueborum celebra il tema della continuità ideale della dominazione romana, di cui le gentes germaniche hanno in qualche modo meritato il retaggio.

Con Beda il Venerabile ci troviamo di fronte a un terzo esito dell’intreccio fra tradizione classica della storia e spirito del cristianesimo: un esito per nulla nazionalistico – l’opera di Beda è una Historia ecclesiastica gentis Anglorum – ma compiaciuto per l’avvento del cristianesimo in Inghilterra, vista come un diverso mondo rispetto a quello continentale. L’imporsi della vera religione presso gli angli e le altre popolazioni dell’isola si connota come la vittoria del bene sul male, nella storia, in un preciso momento del succedersi degli eventi. Ciò spiega la stretta connessione che si stabilisce tra storia e cronografia (De temporibus liber, ca. 703; De temporum ratione, ca. 725) nella meditazione di Beda, che vedeva la Pasqua come elemento centrale per la conversione anche delle più remote popolazioni del vecchio mondo romano, quali erano quelle che abitavano l’isola. Pasqua ben calcolata come accadimento centrale nella storia salvifica dell’umanità: ma Pasqua centrale per la quotidianità dei riferimenti temporali che liturgia e notazione occasionale di fatti richiedevano, in quelle isole di vita umbratile che erano i monasteri altomedievali. Nacquero così tavole pasquali di utilizzazione comune tra i monasteri e di fruizione «storica » sempre più autonoma, in quanto le notazioni «non liturgiche» cominciarono ad assumere sempre più la configurazione di una scrittura autonoma di eventi, certamente staccati e, spesso, irrilevanti, ma resi oggettivamente «storicizzabili». Poterono così nascere delle tipologie di Annales minores, accanto all’annalistica derivata dalle tavole pasquali e a una successiva, di chiaro intento pubblicistico-politico, che fiorì, soprattutto in Francia, nel momento della massima affermazione dei Carolingi. La stessa politica ecclesiastica di Carlomagno e dei suoi successori favorì, in monasteri di rilievo, il passaggio da tipologie «pasquali» a tipologie di notazione occasionale (Annales minores), infine a tipologie di annalistica chiaramente politicizzata. Anche se si tratta di tipologie di «moderna» elaborazione, citeremo, per la prima, gli Annales Fuldenses antiquissimi e gli Annales Corbeienses (di nuova Corbie); per la seconda gli Annales S. Amandi (708-810), gli Annales Laureshamenses (785-803); per la terza gli Annales regni Francorum (revisionati, forse, sino all’814, da Carlomagno e, dopo, dal figlio Ludovico il Pio). L’annalistica carolingia assume dunque una valenza politica, che si tramanda anche nella più tarda s. sassone (Vitichindo di Corvey; Rosvita di Gandersheim), sotto forma di Gesta celebrativi del sovrano, in forme anche più ampie di quella che aveva assunto la biografia di Carlomagno, dovuta alla penna di Eginardo, primo autore di una biografia «laica» del Medioevo, modellata su Svetonio, che aveva visto sino ad allora pullulare esclusivamente agiografie. Analogamente anche Ottone I risulta una personalità storiograficamente molto produttiva: Liutprando di Cremona riesce a intessere intorno al grande imperatore non solo una «storia» (Liber de rebus gestis Ottonis imperatoris), ma un pamphlet dai caratteri decisamente antiromani. Francia carolingia e Germania sassone, dunque, come due luoghi e due stagioni di rilievo nell’ambito della storiografia medievale. Convivono per lungo tempo storie universali, cronache-annali, Gesta.

E, guardando all’Italia, la tipologia dei Gesta pontificum o Libri pontificales – narrazione biografica ed esemplarmente ammonitrice di azioni di governo pastorale e politico – comprende in specie scritti vescovili, di cui uno, a carattere locale, opera di Agnello Ravennate, e uno straordinario modo di trasmissione delle vicende di una grande capitale, Ravenna, in un momento di offuscato splendore. Ma ancor più terrena risulta la finalità dei Gesta dei vescovi di Roma (il Liber pontificalis per antonomasia, scritto in più tempi e serie e da vari autori, dal sec. 6° al 15°), in quanto le biografie dei pontefici romani assumevano un valore di «modello » da imitare, sino al punto da entrare a far parte, dopo qualche tempo, di testi normativi. Valore esemplare significava, comunque, anche valore testimoniale: e di una «storiografia» scrupolosa di produrre le prove dell’autenticità della sua narrazione sono esempi i vari Chronica monastici, che tra il sec. 11° e il 12° fiorirono nelle più celebri abbazie e nei più ricchi monasteri, come a S. Vincenzo al Volturno (Chronicon Vulturnense), a Farfa (Chronicon Farfense, a opera di Gregorio di Catino), a S. Clemente a Casauria (Chronicon Casauriense, opera di un «frater Johannes Berardi» e di un «magister Rusticus»). La «memoria» scritta deve poter essere consultata con relativa facilità, il che spiega come la narrazione sia preceduta spesso da elenchi di papi e di imperatori, cui si faccia eventualmente riferimento nel testo; o sia inframmezzata da trascrizioni integrali di documenti, comprovanti il buon diritto dei monasteri a possedere quello che possedevano, a legittimare la posizione eminente che nel territorio controllato il monastero occupava, il suo aggancio con i potenti della terra. Un po’ quello che era avvenuto e continuava ad avvenire, nelle città sedi di grandi vescovati (Metz, Le Mans, Ravenna, Napoli, oltre che, beninteso, Roma), con i Gesta pontificum. Storia di cose, oltre che di intenzioni: e di intenzioni che investono un’area molto specifica (città, monastero).

Ma l’intento è ben diverso quando, nel corso della riforma ecclesiastica e della lotta per le investiture, la «storia» di una delle sedi arcivescovili più importanti per quelle vicende, Milano, viene proposta in termini manifestamente pubblicistici: il Liber gestorum recentium (o, meno bene, Gesta archiepiscoporum Mediolanensium) di Arnolfo di Milano e l’Historia mediolanensis di Landolfo seniore, comprendenti la prima il periodo 925-1077, la seconda quello più lungo che va da s. Ambrogio al 1085. Patarini, riformatori, vescovi imperiali sono i protagonisti di una narrazione serrata, con inserimento dei vari personaggi nello schema della dialettica tra bene e male, in cui rientrano le passioni di parte. Così i secc. 12° e 13° vedono una fioritura di cronache cittadine: da quelle legate alle vicende della lotta tra Barbarossa e i comuni dell’Italia settentrionale (Historia rerum Laudensium di Ottone e Acerbo Morena; gli Annales Placentini di Giovanni Codagnello, che giungono comunque al 1235; il Chronicon Faventinum di Tolosano) a quelle di ambito più strettamente locale; a quelle, ancora su trama annalistica, di Genova (Annales di Caffaro e dei suoi continuatori), che acquistano carattere di ufficialità «notarile» e vengono inserite pubblicamente in un codice autentico presentato ai consoli. Quello dell’ufficialità della memoria storica e il vero problema della cronistica italiana delle città dell’Italia settentrionale, anche nel caso di Venezia, per la quale nella Chronique des Veniciens, Martino Canal dichiara essere difficile attingere a qualsiasi forma di s. «ufficiale», mentre improntata a una coscienza della grandezza della Serenissima è la Chronica per extensum descripta, opera del doge Andrea Dandolo, in un’apoteosi della storia, immaginata più che millenaria, della Repubblica (dal 46 al 1280): una visione che non è certamente «cittadina » o «comunale». Venezia è un esempio unico nella s. medievale italiana.

Proprio nel Veneto, con le prime forme signorili e con l’azione politica di Ezzelino da Romano, nella Marca Trevigiana si compiva una eccezionale fioritura cronistica, collegata con le vicende delle lotte comunali di Padova, Vicenza, Treviso: una cronistica che, specie per quanto concerne l’opera del padovano Rolandino (Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane), accentuava la volontà di «autentificazione» affidandosi a compilazioni di notai. Notaio era Rolandino, notaio Parisio da Cerea (autore di Annales Veronenses) e così Gerardo Maurisio (autore di una Cronica domini Ecelini de Romano), Niccolo Smereglo (Annales Vicentini) e Antonio Godi. L’abbinamento notaio-cronista doveva valere anche in quella singolare e gustosissima opera di narrazione «autoptica» che è la Cronica di frate Salimbene de Adam (Parma e non solo Parma, ma Emilia, Italia centrale, Francia). Curiosità, mentalità, interessi quelli dei notai-cronisti che si sostanziano di considerazioni umane, perché a queste considerazioni portava una professione a contatto continuo con la realtà.

E a contatto con una realtà certamente non meno corposa erano i mercanti, quelli di Firenze, innanzi tutto. Il volgare è la lingua dei Malaspina, di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, di Dino Compagni: la mercatura collocava i suoi professionisti in una posizione di primo piano per una meditazione sugli avvenimenti che avevano tanto cambiato la storia di Firenze fra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento. L’interesse è tutto contestuale, anche se schemi da storia universale si ritrovano nell’opera villaniana. Dino Compagni scrive una Cronica delle cose occorrenti nei tempi suoi (1280-1312), che è un’appassionata difesa della parte «bianca», la parte che era stata inizialmente di Dante Alighieri. La cronica si fa propaganda di partito, o si fa anche orgogliosamente «patriottica» nei Villani. Ed è altresì da rilevare che la socializzazione della memoria storiografica, che si opera con l’uso del volgare, allarga l’orizzonte della narrazione e la fruizione dei potenziali lettori. Così, se non sempre da parte di mercanti della borghesia elevata, come a Firenze, la testimonianza di un’ascesa inarrestabile del mondo mercantile è resa anche da una singolarissima biografia del promotore del più immaginoso tentativo di sperimentazione «comunale/signorile» compiuto in una Roma che aveva visto abortire i suoi conati comunali sin dal sec. 12°: si tratta della Vita di anonimo di Cola di Rienzo, tribuno e senatore della città, espressione del disagio di una popolazione oppressa da una nobiltà politicamente miope, da un governo papale troppo legato a quella nobiltà, ideologicamente sensibile solo alla possibilità di un recupero di prestigio «imperiale» in termini universali.

Non è da pensarsi che questa s. avesse insito un carattere culturale necessariamente evoluzionistico: la dimensione di cronaca universale non si spegne del tutto, e basti ricordare, per la sua larga utilizzazione, la Cronaca di Martin Polono o lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais. Ma basta anche aggiungere che la grande fortuna della tipologia della cronaca cittadina ha un suo ambito molto specifico nell’Italia dei comuni: il Mezzogiorno d’Italia conosce dal sec. 12° al 14° esclusivamente una s. dinastica, con una sola eccezione parziale, quella di Michele da Piazza Normanna. Con le opere di Amato di Montecassino (Ystoire de li Normant), di Goffredo Malaterra (De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti ducis fratris eius), di Guglielmo Apulo (Gesta Roberti Wiscardi) si ha una vera e propria saga delle gesta dei grandi fratelli Altavilla, «veri» e «unici» protagonisti della dominazione normanna, con accenti, specie nel Malaterra, da epopea crociata, nella guerra combattuta contro i musulmani in Sicilia. Carattere dinastico/epico che si muta in s. di palazzo, una volta fondatosi il regno, con l’opera del cosiddetto Falcando (Historia de regno Siciliae) più che con quelle di Alessandro Telesino o Romualdo Guarna: l’istituto monarchico e la costante linearità della sua vicenda, sino al sostanziale travolgimento degli accadimenti, sono i parametri interpretativi della storia normanna. Quando esistono congiure, prevaricazioni, debolezze, esse sono viste come attentati alla monarchia, più che come conseguenza di malgoverno o di intrinseca debolezza. Né cambia il discorso con l’avvento della monarchia sveva e angioina: non lo stesso regnum in quanto entità territoriale/politica, ma l’istituzione monarchica è al centro dell’attenzione per il cosiddetto Jamsilla e per Riccardo di S. Germano, che riferiscono le vicende di Federico II e di Manfredi, come per Bartolomeo di Neocastro, che con la sua Historia sicula giunge al 1293 (quando si è dichiarata tutta la gravità della crisi che investe, con la guerra del Vespro, la relativamente recente monarchia angioina). Ciò anche al di là di qualsiasi fedeltà iniziale agli Angioini, mutatasi poi in ossequio agli Aragonesi vincenti. Si è detto di Michele da Piazza Normanna, che nella sua Historia sicula (1337-1361) sposta il proprio interesse narrativo dalla vita di corte e da quella dell’amministrazione alla vita commerciale, ai collegamenti che questa induce con i giochi politico-economici mediterranei dei catalani, alle condizioni miserrime di una popolazione vessata da diversi padroni e da guerre continue. In quest’opera, anche se non solo in quest’opera, si avverte oggettivamente che ormai i fili conduttori della s. medievale si stanno prevalentemente umanizzando.

Storiografia dell’Età moderna

Quel che fa moderna la s. europea è la ricerca del «vero» nel «certo»: nell’evento che la memoria o la tradizione conserva e il metodo accerta, il ricercare col pensiero e fissarne nel linguaggio la logica, il senso e il significato del passato cui si chiede di rendere razionale il presente (o di fornir guide all’azione futura). Perciò alle origini della moderna s. sta L. Valla, al tempo stesso letterato, critico e filosofo. Per lo storico «tucidideo » la s. deve farsi «utile» non col fabbricare exempla bensì perché«vera»: opera più vicina alla satira che alla retorica, se deve convincere con le «ragioni » (sententiae) e non attrarre per le immagini o coinvolgere nelle emozioni; e la sua antropologia deve possedere una teoria delle passioni (odium, invidia, metus, spes). Alla storia quale opus rhetoricum maximum aveva guardato lo storico destinatario di quella polemica, B. Facio: l’opera storica doveva offrire anzitutto esempi forti da imitare. Eppure il suo De viris illustribus associava ai duci e ai regnanti i soggetti forti della nuova cultura: coi poeti, i pittori e gli scultori. La storia fatta dagli uomini e da uomini, siano artisti o filosofi, per altri uomini ricostruita: il senso sta nelle ragioni dell’agente, verificate a loro volta sul carattere degli attori e sulla verità della tradizione. Né la storia è più speculum principis, ma se vuol diventare institutio hominis deve farsi capace col principe di cogliere l’occasione offerta dalla «fortuna » (che è ragion divina, o divino giudizio, ma può essere il caso o il destino). Costruire un regno resta del principe la vera vocazione, un regno per i cittadini fondato, e nel loro interesse governato. Perciò, non solo storia di origini a legittimare il potere, ma anche storia di rivolgimenti che registrano la rottura del nuovo rispetto all’antico. E così N. Machiavelli può collocare la fondazione di Firenze nei tempi miserabili da Arcadio a Teodorico, quando l’Italia e le province romane «non solamente variarono il governo e il principe, ma le leggi, i costumi, il modo di vivere, la religione, la lingua, l’abito, i nomi»: e il racconto comprende con le nascite le morti degli Stati, e le sfide non sempre impari della virtù.

Gia prima di Machiavelli, era stato ancora Valla (De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio, 1440) ad accantonare l’idea continuista di una translatio imperii dalla Roma imperiale al Sacro romano impero: se l’impero carolingio era una creazione pontificia, al centro del quadro andavano poste le cause umane della fine dell’impero e non le divine del provvidenziale permanere. Lo stesso F. Biondo nelle Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades (1453) aveva fatto appello alla Fortuna; e la translatio non è la continuità provvidenziale della storia, ma un vuoto che spalanca l’Occidente ai goti. E F. Guicciardini avrebbe consacrato quel giudizio in un contesto di storia politica che ha il realismo necessario per entrare in discorso col «tragico» Machiavelli. Dalla politica alla storia, e viceversa; che la storia assicura contro il tempo. Per stabilire la verità della storia occorre un metodo, che riprenda dai giudici l’ermeneutica del certo; a far utile una storia vera è però la lezione delle cose, che subordina il successo alla combinazione della virtù con la fortuna. Da Machiavelli a P. Giovio sarà la biografia a dare conto della virtù, e dei casi della fortuna il racconto delle imprese: i regni, gli imperi sono costruzioni complesse di uomini, e la loro durata si spiega con il pregio dei consigli e degli istituti.

Il genere biografico trova classica sistemazione nelle serie di Vitae e soprattutto negli Elogia di Giovio, cui fecero seguito, per assillante impulso di lui, le celebrate Vite dei più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani (1550) di G. Vasari. E se il confronto tra il catalogo di Vasari e il «museo» di Giovio ha banalizzato l’approccio del biografo comasco, la minaccia turca (Commentario de le cose de Turchi, 1531), che rende più acuto il dramma di un’Europa divisa dalla religione e dalla politica, conferisce forza ed espressività agli Historiarum sui temporis libri (1550-51), editi dal «rifugio» mediceo di Firenze. Il modello della biografia gioviana è peraltro Svetonio, non Plutarco: e l’uomo «illustre» non è un eroe, ma un attore storico le cui doti non sempre ne fanno un protagonista positivo. E il Platina aveva persino sperimentato sui papi romani il metodo della biografia umanistica (Liber de vita Christi ac pontificum omnium, 1479).

Ma per tutta la s. politica dell’Europa sono, accanto alla monarchia aragonese di Napoli, i casi di Firenze e di Venezia a costituire, con la loro storia, la chiave del nuovo sentire storico e del giudicarne; e con Guicciardini la voce europea più alta è quella del francese P. de Commynes. Redatti in due periodi (1489-91; 1495-98), i Mémoires – appunti per una storia del regno di Luigi XI – ci consegnano un quadro affollato di personaggi, soldati e cortigiani, ecclesiastici e signori, divisi da contrastanti ambizioni e caratteri, dominati da vizi e virtù che sono chiavi agli errori e ai successi dei principi (su tutti Luigi XI e Carlo il Temerario), in un mondo retto dal volere di un Dio, che però nessuno degli attori si ferma a indagare o a rispettare. A metà del secolo le «nuove» monarchie d’Europa incoraggiano l’antiquaria verso le corografie e la geografia storica diventa strumento dell’identità territoriale: hanno questi caratteri il De rebus Siculis decades duae (1558) di T. Fazello e la Britannia (1586) di W. Camden, mentre dilaga in Francia, in Inghilterra ma anche in Scozia, nei Paesi Bassi, in Spagna una s. «nazionale». Più complesso il caso inglese, perché da F. Bacone a J. Selden vi si elabora un’idea di storia che assume a protagonista il middle rank. E per l’Italia vanno citati almeno, con Fazello, la scuola di F. Biondo e C. Sigonio.

Ma alla metà del sec. 16° la grande s. politica è travolta dalle lotte religiose. L’apologetica prende la forma e il peso della grande storia, dal luterano M. Flacio Illirico (e i Centuriatori di Magdeburgo, 1559-74) al cattolico C. Baronio (Annales ecclesiastici, 1588-1607), dai calvinisti anglo-scozzesi (il Book of martyrs di J. Foxe) ai Bollandisti. Gli Acta sanctorum (1643 e segg.), nati a fiancheggiare la riforma del Calendario liturgico, si impegnano a fondare su una tradizione verificata quel culto dei santi che assicura il fedele della costante presenza e assistenza di Dio nella storia. L’impatto apologetico resta forte, ma ancora più forte – anche grazie all’attività di ricerca ed editoriale dei maurini francesi – e l’influenza sull’arte critica (la filologia) e sulla diplomatica, che apprestano un moderno e sofisticato strumentario per la ricerca e l’edizione di testi e documenti. Alla s. laica del Rinascimento, impegnata a smascherare il potere, subentrava un tipo di «storiografia cauta». Nei casi migliori (G. Bentivoglio, in Della guerra di Fiandra) del modello resta il senso realistico; nei peggiori lo storico si fa catalogus gloriae mundi. Eccezione P. Sarpi, la cui Historia del Concilio Tridentino smaschera l’assolutismo papale; e A.C. Davila (Historia delle guerre civili di Francia, 1630) che vuol mostrare l’intreccio politico delle guerre di religione.

E la Francia entra nella mischia con l’opera Methodus ad facilem historiarum cognitionem (1566) di J. Bodin e con J. de Thou. Bodin non ha scritto opere di storia e il suo interesse deriva dall’urgenza di trovar posto al diritto «nazionale» in un mondo dominato dalla romanistica. Ma se il diritto storicizzato non è più guida alla comprensione dei fatti umani (cui invece e chiamato a servire), Bodin «platonico» cerca attraverso i numeri, la loro corrispondenza e armonia, di raggiungere la nascosta realtà delle cose che tocca «rivelare» per il principe: il fine e la coincidenza dell’armonia degli atti con l’armonia scientifica delle regole (di cui il diritto deve essere l’espressione e la tutela). Perciò la «scienza politica» fa premio sulla giurisprudenza: e chi meglio del politique J. de Thou? La Historia sui temporis (1604-08) ricostruisce il dramma delle guerre di religione dalla prospettiva dei politiques e su di essa «fonda» la legittimazione di Enrico IV re dei francesi: la religione viene dopo la nascita e l’appartenenza a una comunità «nazionalstatale ». Nel 1611 erano pubblicati i Gesta Dei per Francos di J. Bongars, raccolta di fonti sulle crociate, intesa a esaltare la missione della Francia «nazione di Dio». Mentre Grozio si cimenta come storico e dall’Olanda Spinoza matura (Tractatus theologico-politicus, 1670) la sconvolgente metodologia che «rivela » il carattere umano dei testi sacri, in un contesto erudito che ne ricostruisce la tradizione per giungere alle origini e agli originali.

È il vento del metodo che soffia sulla cultura storica e politica del Seicento, svigorita dalla s. della «ragion di Stato», ma soprattutto dagli «artigiani della gloria», dagli storici panegiristi che cantano lodi e successi nel linguaggio fiorito dei poeti, e che inventano le «genealogie incredibili». Contro le false genealogie, le false cronache e le false reliquie aveva preso posizione J. de Mariana, mentre lavorava alle tacitiane Historiae de rebus Hispaniae (Toledo 1592; Magonza 1605). Gesuita, rivendica il diritto popolare (De rege et regis institutione, 1599) a rifiutare un sovrano eretico; e su questi concetti di polizia ecclesiastica costruisce la tradizione storica della nazione spagnola dalle origini a Ferdinando il Cattolico. Non a caso l’opera ebbe in Europa, e non solo tra i cattolici, una reputazione assai maggiore dei più densi, analitici e narrativi Anales de la corona de Aragón (1562- 80) di J. Zurita.

Il quadro europeo è sconvolto alla metà del Seicento dalle rivoluzioni: la catalana, l’inglese, la napoletana. La prima interrompe drammaticamente la riflessione critica degli arbitristas spagnoli e fonda una s. politica della Catalogna che risale al Medioevo spagnolo; la rivoluzione inglese produce la grande History of the Rebellion and civil wars in England (post., 1702-04) di lord Clarendon; la rivolta di Masaniello deve attendere la fine del secolo per diventare oggetto di storia. Tuttavia, com’era da attendersi, l’impatto sul lavoro degli storici, sulla filosofia della storia, sullo status stesso dello storiografo è enorme: la rivoluzione ha aperto archivi pubblici, ha consentito la diffusione di documenti secretati e ha portato alla pubblicazione di corpora ufficiali e/o ufficiosi. Si diffonde la moda delle vite segrete e delle storie segrete, che il libertinage érudit estende a età antiche e che alla fine del secolo P. Bayle sa consolidare nel suo Dictionnaire.

La storia politica, biografia o narrazione di eventi resta il tipo storiografico dominante anche nel sec. 17°: si fa semmai più stretto il legame con la scienza politica e più attento il controllo del potere costituito che chiama gli storici al ruolo ufficiale di annalisti. E politica è la s. ecclesiastica, quella di cattolici e quella di protestanti. Si avvertono i segni di una tensione culturale che le rivoluzioni liberano, e che trova nel secondo Seicento quella nuova antropologia, quella scienza politica e della società di cui si nutre la «nuova storia», questo prodotto del tardo Seicento e del primo Settecento europei. La s., che nella prima metà del Seicento aveva aperto la via di fuga delle storie cittadine, volute dai nuovi patriziati, alla fine del secolo ha già maturato, sotto l’influenza del nuovo pensiero scientifico, una concezione organico-evolutiva della storia in grado di mettere ordine nel confuso magazzino dell’antiquaria. La scienza ha sconfitto il pirronismo storico e fonda per il sec. 17° la «nuova storia». Gran documento il Tractatus di Spinoza: la Bibbia, fonte della storia antica dell’umanità, doveva essere riletta con metodo critico e insieme verificata sugli esiti dell’antiquaria. E urgeva l’attendibilità di un testo tràdito, per il quale non era possibile invocare senza prove la garanzia divina: in discussione il concetto stesso di tradizione, cui J.-B. Bossuet (Histoire des variations des églises protestantes, 1688) aveva cercato di dare un fondamento istituzionale.

All’incontro la storia della natura rompeva gli argini e volgeva in positivo quell’idea di cambiamento che pensiero politico e conservatorismo religioso avevano voluto connotare di segno negativo e che le rivoluzioni di metà secolo avevano consegnato, nuovo vaso di Pandora, alla cultura e alla mentalità seicentesche. Qui si veniva consumando però la crisi della s. politica, attorno al tema della «ragion di Stato». La via di fuga veniva trovata ancora nella biografia, che sa far propria la teoria delle passioni e che alimenta l’esplosione parallela dell’agiografia. Con l’aiuto della letteratura, la storia biografico-agiografica diventa popolare, e partecipa di un linguaggio e di una comunicazione figurativa che ampliano il pubblico dei lettori, spingendo per contro eruditi e storici di mestiere a chiudersi nell’hortus. Mentre l’antiquaria lavora a costruire l’alternativa alla svigorita s. politica in direzione e di una teoria stadiale della civiltà e di una s. dei costumi e dei comportamenti collettivi.

La scena nel secondo Seicento, in cui sono presenti storici politici della statura di lord Clarendon e di G. Burnet, storici universali del respiro di Bossuet, storici ecclesiastici come G. Arnold o J. L. Mosheim, e soprattutto affollata di eruditi e di critici delle fonti; E. Baluze, C. Du Cange sono contemporanei dei maurini (su tutti J. Mabillon e B. de Montfaucon), e dai maurini – attraverso il benedettino B. Bacchini – L.A. Muratori trae ispirazione e modello per gli straordinari progetti cui darà forma compiuta in mezzo secolo di attività prodigiosa. Mentre da Amsterdam J. Le Clerc e da Lipsia J.B. Mencken informano gli studiosi con resoconti (a mezzo tra l’estratto e la recensione) del progresso degli studi, delle scoperte erudite, di nuovi testi e nuove idee. Se Le Clerc fissa in una casistica minuziosa le procedure dell’edizione critica dei testi antichi esplorando, dopo R. Bentley, lo scambio tra oralità e scrittura, e saggiando regole nella selva delle varianti, Mabillon poggia su salde fondamenta scientifiche la diplomatica, già campo aperto della pirateria dei genealogisti e del banditismo dei falsari, mentre il confratello Montfaucon ed E. Spanheim (1629-1710) mostrano la via per «conciliare» i resti antichi con la tradizione letteraria. Tutti traggono conforto dai risultati importanti delle società antiquarie di Gran Bretagna, di Germania, di Spagna e di Francia. È il terreno in cui matura la teoria storiografica dei due popoli, destinata a fortuna più che secolare: e la polemica tra H. de Boulainvilliers e J.-B. Dubos è solo il caso più noto, e per la statura dei contendenti e per il rilievo che Montesquieu vorrà dargli nell’ultima parte di De l’esprit des lois (1748). Boulainvilliers conferiva storico risalto all’ascendenza franco-germanica della nobiltà francese; per contro Dubos (Histoire critique de l’établissement de la monarchie française dans les Gaules, 1735) guardava alla componente celtica e al governo gallo-romano per legittimare le istituzioni della monarchia francese.

La continuità dal tardo Seicento riguarda anche i maggiori storici del primo Settecento italiano: G.B. Vico, P. Giannone e Muratori. La Istoria civile del regno di Napoli (1723) colloca Giannone al sommo di una tradizione storico-giuridica che F. D’Andrea aveva ripreso e sviluppato dopo la rivolta antispagnola. Vico, cui pur si devono lavori di storia di grande vigore, elaborò tra il 1725 e il 1744 in tre successive redazioni della Scienza nuova con l’autonomia in religione e in politica una geniale visione ciclica della storia dell’umanità, che procede dall’età degli dei all’età degli eroi a quella degli uomini, dalla fantasia alla ragione, e che vede in tale processo accresciuta per l’uomo la capacità di dominio della storia, che egli crea sotto la costante assistenza della Provvidenza, la quale a sua volta opera per cause seconde e regge la «storia ideale eterna ». La storia di Vico è quella di un’umanità cui Dio assicura l’esistenza, non la felicità, né l’ordine politico, non l’accumulazione progressiva delle conoscenze e delle istituzioni.

Assai diverso il caso di Muratori, che pure ebbe su molte questioni culturali, religiose, sociali, politiche, idee innovative destinate a entrare nel senso comune dei ceti progressivi dell’Europa cattolica; egli esercitò come storico un’influenza forte, mettendo a disposizione un’imponente raccolta di cronache e di storie dell’Italia dal Mille al Cinquecento (Rerum italicarum scriptores, 1723-51), cui affiancò una serie originale di dissertazioni su aspetti giuridici e socioculturali dell’età media (Antiquitates italicae medii aevi, 1738-42). Del suo itinerario, dal Buon Gusto alla «pubblica felicità», restano documento efficace gli Annali d’Italia (1744-49), che trovarono posto nelle biblioteche private e pubbliche degli operatori intellettuali del sec. 18°. Muratori è scrittore e storico «illuminista», per la coerenza del giudizio con le premesse etico-religiose del suo saldo riformismo.

E però in questa prima metà del Settecento la s. dei Lumi è anzitutto francese, ed è chiamata a denunciare barbarie e pregiudizi, arbitri e intolleranza, o a illustrare i modi del trionfo della Ragione e della Civiltà. E le voci più alte sono quelle di Montesquieu e soprattutto di Voltaire (Essai sur les moeurs et l’esprit des nations, 1756). I sovrani di Voltaire (Carlo XII, Pietro il Grande, Luigi XIV) sono eroi moderni, che trovano modi appropriati per trarre i loro popoli dalla barbarie e renderli partecipi della civiltà che coniuga agio a tolleranza, educazione a piacere del vivere; gli eroi di Montesquieu sono gli aristocratici, mediatori non solo politici fra i sovrani e il popolo, in un regime esemplato sull’Inghilterra «costituzionale» ove la libertà è prodotto di un incontro sapiente fra tradizione e ragione; il soggetto politico del cattolico Muratori resta «il popolo», che il Buon Gusto ripulisce dai pregiudizi, e che chiede al principe il conto della «pubblica felicità» assicurata da savie riforme nell’educazione e nella distribuzione della proprietà. La storia illustra per tutti il percorso possibile della civilisation: fonda l’uomo nuovo, all’uomo nuovo destinata. La «nuova storia» raggiunge nel secondo Settecento il punto più alto: al miracolo scozzese si deve l’eccezionale sviluppo dell’antropologia e delle scienze sociali, che per un verso cercano applicazioni nel mondo storico e per l’altro fondano modelli storiografici destinati a durare come paradigmi. Hume, Robertson, Ferguson, Adam Smith e – a tessere in un racconto storiografico di straordinaria suggestione ed eccezionale acume interpretativo la matassa di quella «nuova storia» – E. Gibbon, di tutti forse il più grande, che in The history of the decline and fall of the Roman empire (1776-88) pone le salde fondamenta eurocentriche della storia universale. Egli riusci con la dilatazione del quadro a saldare decadenza e progresso, a trarre dalla lezione della storia l’umano destino della civiltà, che, ove minacciata e oppressa, si rifugia nel petto di uomini sapienti o in isole del mondo, nell’attesa che le sia dato riprendere per l’attività di nuovi soggetti il cammino interrotto. La storia perciò salda passato e futuro, si fa racconto dei successi e dei pericoli del passato, ma anche – come in Lessing o Condorcet – «progetto e promessa del maggior futuro, della perfezione del genere umano».

D. Hume aveva pensato la History of Great Britain (1754-57) come la via per superare la divisione di whigs e tories, che risaliva alla guerra civile del Seicento, ma ormai residuava come gioco di fazioni. Il successo dell’opera lo aveva indotto a costruire dalle origini l’identità storica della Gran Bretagna moderna: da una società «feudale» a due classi si era passati con l’emergere del ceto medio (middle rank) al modello moderno della società a tre classi, del cui regolare funzionamento era garanzia una pratica costituzionale che faceva dell’autorità la sostanza del potere e della libertà la sua perfezione. Più vario il percorso di W. Robertson, un notabile della Chiesa di Scozia, e nondimeno amico di Hume e del suo circolo; tra la History of Scotland (1759), limpida e severa, e un’attraente History of America (1777), egli trovò tempo e tenacia per costruire la sontuosa History of the reign of the emperor Charles V (1769), cui premise un’originale rappresentazione dei progressi della società civile in Europa, alla quale è legata la sua fama di storico «illuminista», liberale in religione e in politica, coerente interprete di una teoria stadiale del progresso. Questa s. di scozzesi si avvalse della fortuna di cui in quei decenni del tardo Settecento le scienze sociali godettero nella Scozia di H. Home, di lord Monboddo, di A. Ferguson, di J. Millar, e su tutti di A. Smith. La scuola tedesca di Gottinga (J.C. Gatterer, A.L. Schlozer ecc.), che si pone alle origini della moderna s. in Germania, fu albero vigoroso cresciuto da quelle radici: cui non poco dovette tutta la più matura s. d’Europa.

L’Ottocento

Ricchezza e complessità del discorso storico sono anche un prodotto della cd. crisi dei Lumi, la realistica presa di coscienza del male nella storia e del tragico impegno dell’uomo a vincerlo dando un senso razionale alla storia. Dentro questa alternativa, chiamato a scegliere, lo storico dell’Ottocento risulterà scisso tra la nostalgia reazionaria e l’utopia rivoluzionaria: e vorrà allora chiedere alla storia di conciliare l’inconciliabile, il futuro appunto e il passato. Il «secolo della storia» nasce peraltro dalla costola liberale della Rivoluzione francese: non è la tradizione di E. Burke ma quella di F. Savigny, non il Medioevo di Chateaubriand (Génie du Christianisme, 1802) bensì quello di A.-S.-D. Thierry (Histoire des Gaulois, 1828) e di C. Fauriel, che ha le stesse radici duali della Roma repubblicana di B.G. Niebuhr, a fondare l’approccio storiografico vincente, quello in cui si riconosce in Italia la s. neoguelfa. Il popolo è quello di J.-J. Rousseau e di H.-F.-R. de Lamennais, quello della città e quello della Chiesa, in certo modo repubblicane entrambe (la Chiesa e la città) per il costante riferimento alla volonté générale. La s. che conta, e il romanzo storico che la copre (primo tra tutti W. Scott), cercano valori nel passato, e non sono valori clericali, gerarchici, reazionari. Lo storicismo tedesco, da Kant a Hegel, guarda per sua parte a Goethe: riprende, in chiave romantica, i temi della «nuova storia» del secondo Settecento, ma punta soprattutto sulla s. politica. Il Medioevo è conteso tra il romanzo storico e le origini costituzionali dello Stato moderno, tra A.H.L. Heeren e S. de Sismondi, quando si afferma dominatore nella ricerca e nel metodo L. von Ranke. La svolta degli anni Trenta, che avviene sotto l’influenza di Ranke, si consolida negli anni Quaranta: F.-P.-G. Guizot, J.G. Droysen, T. Macaulay, G. Grote, C.-A.-H. Tocqueville, C. Cattaneo, M. Amari, J. Michelet. Di tutti loro si può dire che, con linguaggio romantico, costruiscono il racconto storico alla maniera del tardo Settecento. Ranke per tutti: se la Riforma, che chiude il Medioevo, fonda il tempo moderno, tutto quel che segue va interpretato «per sé», e non come la preparazione di quanto dovrà accadere. Ogni tempo prende da Dio la propria identità, e lo storico non può farsi filosofo della storia: poiché il senso dei fatti è nei fatti stessi.

Il 1848, l’anno delle rivoluzioni, rifonda la s. europea. Dal 1849 al 1861 Macaulay consegna alla cultura europea la versione whig della storia inglese, che si lascia alle spalle fanatismo religioso e tirannide politica e sa farsi scuola dell’Europa liberale. Dalla Germania risponde il T. Mommsen della grande Römische Geschichte (1854-56), il maggior prodotto storiografico del fallimento liberale del 1848: scritto in uno stile appassionato e avvincente, frutto di una dottrina anche allora eccezionale, il libro trova la sua unità nella delusione del patriota tedesco che l’egoismo dell’aristocrazia ha privato dello Stato nazionale, e che ora oppone a Cicerone Cesare e la monarchia militare, come istituto meglio adeguato a un impero universale. Sul fronte opposto tocca a Droysen passare dall’«ellenismo» (Geschichte des Hellenismus, 3 voll., 1877-88, già editi con diverso titolo) alla Prussia «Macedonia di Germania» (Geschichte der preussischen Politik, 1855-86), la cui politica di espansione aveva giovato all’unità nazionale tedesca. Il «cesarismo», grazie al colpo di Stato (1850) di Luigi Napoleone e alla nascita del Secondo impero, si imporrà al dibattito storiografico e politico; a sua volta H. von Sybel da (1853-58, 1872-79) la più autorevole interpretazione nazional-liberale della Rivoluzione francese, nella grande Geschichte der Revolutionszeit: la Rivoluzione sta nel nuovo ideale di Stato cui essa introduce, ma essa fu soprattutto «rivoluzione antifeudale» in Francia e in Europa. Tocqueville scopre (L’ancien Régime et la Révolution, 1856) nella Francia del Settecento la continuità dall’Antico regime alla Rivoluzione, e – dopo la fine dell’impero e la fondazione del nuovo Stato tedesco (1870) – Taine «le origini della Francia contemporanea» (1875-94). Il Methodenstreit degli anni Novanta è il punto di snodo: il dibattito muove dalla Germania, e si polarizza nell’alternativa tra storia collettiva (sociale) e storia individuale (politica); ma investe tutta la s. europea. Le scienze sociali contendono alla storia l’egemonia prima di allora incontestata nella formazione del politico e del gentiluomo. Ma né la sociologia né l’antropologia condividono più la fiducia delle origini nel progresso della civiltà, e la decadenza degli imperi diventa tema storiografico dominante.

Matura nella fine del secolo il «pessimismo» alla Burckhardt: il grande storico della cultura, il superbo inventore del Rinascimento, partecipa dei timori e del disgusto elitario per l’imminente società di massa e colora di pessimismo i capolavori della sua tarda età. Presto lo Streit rivela i tratti non solo ideologici del confronto: nella s. sul tardo impero romano vengono in evidenza i nodi della Volkswirtschaft, della cd. economia nazionale che oppone al capitalismo liberista il capitalismo di Stato; ora moderno vuol dire capitalista, e modernisti sono detti quegli storici che cercano nel mondo antico (di cui il greco- romano e parte) il capitalismo moderno. Lo scontro, che si propaga subito ai medievisti, riguarda il mercato, e col mercato «interstatale» lo Stato: senza Stato non c’è moneta, e però l’economia monetaria comporta l’esistenza di un apparato fiscale e di uno Stato capitalista. A guidare questa battaglia saranno E. Meyer e K. Beloch, e M.J. Rostovcev; sul versante opposto, quanti spiegano la decadenza con ragioni sociali (la schiavitù e la mano d’opera servile: C. Pohlmann, E. Ciccotti, O. Seeck ecc.), o col permanere dell’industria a livelli domestici (da K.W. Bucher a G. Salvioli a M. Weber). In Italia e in Francia si consuma la s. comunale, ed emerge con le signorie il tema delle origini dello Stato; in Germania, da G. von Below a H. Mitteis si procede nella stessa direzione. E percio F. Meinecke, che anni prima aveva indagato (Weltbürgertum und Nationalstaat, 1908) il trapasso dal cosmopolitismo al Nationalstaat, ora affronta – nel clima difficile della Repubblica di Weimar – il nodo della «eticità del Kratos».

I primi decenni del Novecento

Col nuovo secolo si misurano gli esiti: in Germania e in Italia gli storici si muovono ancora nello spazio dello storicismo; in Francia e nei Paesi anglosassoni le scienze sociali condizionano fortemente la ricerca. La coscienza della «massa» come soggetto storico-politico di rilievo si afferma, fuori e dentro la sociologia (E. Durkheim, M. Mauss, E. Troeltsch, M. Weber) e la psicologia collettiva. Siamo ormai al di là del concetto romantico o positivistico di «popolo»; la massa è il popolo in crescente politicizzazione, la s. riprende quindi dal dibattito politico i temi della società e dello Stato sociale; gli italiani e i belgi, dietro la Rerum novarum di papa Leone XIII, ripropongono e studiano modelli corporativi nel Medioevo e nell’Età moderna; in area protestante, toccherà a G. Troeltsch porre in Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1912) il tema storico della politica sociale delle Chiese (e a essa faranno eco dalla Gran Bretagna G. Unwin e R.H. Tawney) e del contributo del protestantesimo al mondo moderno. Vuol essere la lettura protestante-liberale del modernismo, che aveva aperto il dibattito col primo attacco del cattolico A. Loisy al protestante A. Harnack, ed era proseguita col Weber (1920-21) della Religionssoziologie, di cui è parte la tesi della genesi calvinista dello «spirito del capitalismo ».

Su entrambi i versanti, quello cattolico e quello protestante, storia della religione e storia delle Chiese costituiscono la vera grande novità storiografica: è il terreno su cui avviene il recupero di F.W. Nietzsche e di E. Rohde, ma soprattutto quello che salda storia dell’arte antica e simbolica dei culti, ed esplora il mobile confine delle culture religiose ellenistiche e mediorientali (A. Warburg, W. Bousset ecc.). Si vuol dare una base scientifica all’esoterismo trionfante: i culti mitraici, le conoscenze astrologiche, il mito dell’uomo che salva se stesso e il mondo, la gnosi. E a questa generazione appartiene anche R. Otto, l’autore di Das Heilige (1917), in cui il sentimento religioso non è più come per H. Bremond (Histoire littéraire du sentiment religieux en France, 1916-33) l’oggetto della ricerca, ma il suo principale strumento.

È il clima da cui il neoidealismo italiano trarrà vantaggi per la sua sfida al positivismo. Matura in questi anni la «riforma» crociana delle tesi di G. Mosca sulla classe dirigente in s. etico-politica, la s. che assume a fondamento l’etica della responsabilità delle élites. Matura altresì nella cultura cattolica di area austrotedesca la scoperta del «politico» (C. Schmitt), ove la politica è decisione, non responsabilità, in società di massa che deluse dal parlamentarismo si orientano verso la democrazia diretta o subiscono derive plebiscitarie. Lo sviluppo storiografico più importante di queste tesi avviene in Austria e nella Germania cattolica, da F. Schnabel a L. Dehio, sia nella modernistica di H. von Srbik che nella medievistica di A. Dopsch e di O. Brunner. Nel primo caso, l’unità tedesca viene ripensata in termini gesamt-deutsch (non più l’egemonia prussiana né l’impero tedesco, ma la forma moderna del Kaiserreich medievale); nel secondo caso, si reinventa la categoria del feudalesimo, come coincidenza dell’età dell’oro dei contadini con quella dei signori (Dopsch), ovvero come riconoscimento del carattere avanzato della nobiltà feudale del Basso Medioevo (Brunner).

Nel primo dopoguerra, il progetto wilsoniano di Società delle nazioni trova consenso nello studio del costituzionalismo (che vede il suo nodo critico nella Germania di Weimar, e che suscita attenzione in Francia, Belgio, Svizzera): del 1919 è il saggio di E. Fueter sul sistema degli Stati europei (Geschichte des europäischen Staatensystems von 1492- 1559), e del 1921 la sua Weltgeschichte del secolo 1815-1920. Mentre la fine dell’impero turco dà respiro all’islamistica (da H. Pirenne a G. Levi Della Vida), e il sionismo riapre il dibattito nella cultura ebraica tra antico e moderno; e sulla tradizione presto interverrà la voce di G. Scholem. R. Pares riapre in Inghilterra con L. Namier il tema controverso del «primo imperialismo». Frattanto la crisi sociale postbellica (Rivoluzione russa e moti balcanici) ha portato in primo piano la questione contadina: se i tedeschi studiano le crisi agrarie, in Francia G. Lefebvre indaga il ruolo dei contadini e delle campagne francesi durante la Rivoluzione, mentre in Italia «esplode» la scuola meridionalistica di G. Fortunato. Quella che B. Croce accusa di «borbonismo», e contro la quale scrive (1925) la Storia del regno di Napoli, che è storia di uno Stato e di un «ceto civile» costretto dall’inettitudine della monarchia a farsi classe dirigente.

Dalla crisi dello storicismo emergono nuovi metodi e nuovi protagonisti, a partire da O. Spengler e dal suo Der Untergang des Abendlandes (1918-22). Dal canto suo, Croce sovrappone allo sfondo della sua opera di storico etico-politico (1921-28) il travaglio speculativo che introduce alla «crisi di civiltà» degli anni Trenta, e al cui «antistoricismo» egli replica con la Storia d’Europa (1932) e La storia come pensiero e come azione (1938). Storici affermati (con Croce, Meinecke e Pirenne, J. Huizinga e G.M. Trevelyan) tentano di allestire sostegni alla civiltà liberale in rovina; i loro allievi sono testimoni e attori della crisi. Huizinga, che nel 1933 ha compiuto il suo affresco della cultura olandese nel Seicento (Holländische Kultur des siebzehnten Jahrhunderts), muove (1935) in difesa della storia con il suo volume sulla «crisi della civiltà» (In de sihaduwen van morgen). Nel 1936 Meinecke pubblica Die Entstehung des Historismus, del 1937 e (postumo) Mahomet et Charlemagne di Pirenne, nel 1939 escono La société féodale di Bloch e la Storia dei greci di De Sanctis. Quanto agli allievi, in Germania irrompe la cosiddetta s. volkisch, e tuttavia il frutto più autentico di quella stagione appartiene alla s. austriaca, da Dopsch a Brunner. In Italia la scuola storica di G. Volpe, pur con le negative influenze del regime fascista, accoglie il meglio della redazione della Enciclopedia Italiana, e domina il campo con F. Chabod, C. Morandi, W. Maturi, E. Sestan, D. Cantimori, G. Spini; mentre A. Omodeo e L. Salvatorelli cercano di sottrarre la risorgimentistica all’abuso politico. La stessa stagione vede attive anche altre scuole: dai salveminiani (N. Rosselli, R. Ciasca) a R. Morghen e ad A. Pincherle, alle scuole di antichistica (A. Momigliano, S. Mazzarino). Negli stessi anni Trenta, il marxismo aumenta la sua forza attrattiva nei confronti di storici ed economisti. La Francia conosce l’opera di A. Mathiez e di Lefebvre sulla Rivoluzione, e quella di E. Labrousse sulla «rivoluzione sociale» del Settecento; in Gran Bretagna emergono C. Hill ed E.J. Hobsbawm. Nel 1929 la fondazione delle Annales d’histoire économique et sociale a opera di da M. Bloch e L. Febre pone le basi di successivi, rilevanti sviluppi.

Dal secondo dopoguerra al 1989

Nel secondo dopoguerra si affaccia dunque una generazione nuova di storici. Al centro ormai si pone il nodo del comunismo, cui il successo militar-politico dell’URSS consentiva di consolidare il ruolo di «sistema alternativo» maturato negli anni Trenta. E il marxismo ottenne, come filosofia della prassi, un credito senza precedenti nella cultura storica; M. Dobb, Hill, E.P. Thompson e Hobsbawm parlano dalla Gran Bretagna, E. Sereni, Cantimori e i giovani allievi di Morandi dall’Italia, ma è soprattutto dalla Francia che gli esempi crescono, a partire dagli allievi di Labrousse e di P. Vilar: in prima fila, gli eredi di Mathiez; quindi M. Vovelle e D. Roche. Intanto nel 1946 le Annales assumono il titolo Annales. Économies. Sociétés. Civilisation. E F. Braudel, negli anni Cinquanta, a rifondare la storia come scienza sociale e fare di Parigi (centro la Ecole des hautes etudes en sciences sociales) la capitale della nuova storia. Gli anni Sessanta vedono una svolta rilevante: sulla scia di Braudel, J. Le Goff e le Annales danno avvio alla nouvelle histoire, che apre il dialogo con l’antropologia strutturalista e costruisce una antropologia storica. A essa si affianca una nuova forte presenza marxistica, dagli storici inglesi della rivista Past and present alla s. italiana, fortemente influenzata dal marxismo di A. Gramsci. Sia per la via delle Annales, sia per quella degli orientamenti marxistici, a partire dagli anni Sessanta l’incontro fra storici e scienze sociali diviene un tratto dominante delle esperienze storiografiche. La condanna della storia politica come pura histoire événementielle e la correlativa domanda di una s. che fosse essenzialmente storia sociale sono solo l’aspetto più immediato di questa vicenda. Parlando di storia sociale, ci si sposta però molto dal suo originario senso di storia delle strutture sociali nelle loro stratificazioni e nelle loro conflittualità, come storia quindi di classi e di ceti e delle loro lotte. Si va invece affermando una s. basata essenzialmente sulla storia di mentalità e comportamenti, storia delle persistenze e delle lunghe durate di elementi antropologico-culturali; storia di sensibilità e storia di condizionamenti ed esperienze della quotidianità più immediata; storia di settori e forme della marginalità sociale; storia delle idee come storia della loro circolazione e fruizione; storia delle forme e degli strumenti del consenso o dell’aggregazione e del dissenso o della disgregazione sociale (dalle strutture della famiglia alle repressioni, come quella carceraria o, in genere, penale; dall’associazionismo a banditismo, delinquenza e criminalità in genere; dalle istituzioni assistenziali od ospedaliere a quelle del credito o dell’usura); storia di momenti sociali significativi (le feste, ad esempio, o i cerimoniali e i rituali) e di prassi sociali civili e religiose (ricorrenze private e pubbliche o culti e devozioni); storia della «civiltà materiale», come storia delle concrete condizioni di vita (arredamento e abbigliamento, «beni» fisici di ogni genere, pratiche e mentalità dei relativi usi ecc.). In questo quadro si colloca la cd. «microstoria», che rifiuta le grandi scale dell’analisi storica e restringe la sua attenzione a casi specifici ben determinati (una persona, una località, una vicenda) al fine di cogliere i sensi piu profondi, umani e concreti che sarebbero resi più evidenti da tali singole fattispecie; o della cd. «psicostoria », che, partendo dalle istanze della psicologia storica, ha cercato di svilupparle, finendo però spesso con lo sfociare in storie dell’immaginario, dei «riti» e dei «miti», del comportamento sociale in rapporto alla memoria collettiva, e quindi con una sostanziale perdita di quell’identità disciplinare che si voleva affermare. A sua volta, può essere collegata all’affermazione della storia sociale la rapida fortuna conseguita, a partire dagli inizi degli anni Settanta, dalla «storia di genere» (gender history), ossia dalla storia delle donne come soggetto complessivo e da considerare autonomamente dell’intera vita sociale. Vi e però in tutte queste tendenze più di un rischio: in particolare, quello di perdere il contatto con il senso della storia, e gli storici sembrano cedere alle mode del postmodernismo, alle tentazioni della semiologia: e, sedotti dall’immaginario, spesso giustificano il loro mestiere come mero gioco intellettuale.

Collegata all’onda montante della storia sociale è anche la spinta alla quantificazione, che ugualmente ha dato luogo, dopo il 1945, a una larga prassi storiografica, ricevendo un impulso sostanziale dalla «scuola francese », ma anche dalla new economic history, che a sua volta ha cercato la via di una «cliometria», per la quale l’adozione di modelli economici, da controllare attraverso tecniche statistiche, avrebbe permesso di riscontrare la rispondenza dei processi economici storici alle logiche dell’economia. D’altra parte, anche come reazione alla cliometria e alla new economic history si è sviluppata una «storia seriale», che rifiuta la proiezione retrospettiva di modelli economici sostanzialmente contemporanei e, quindi, da ritenere anacronistici per l’oggetto storico a cui vengono applicati, e propone un uso alternativo della statistica. Alcune prospettive storiografiche hanno acquisito intanto nuova rilevanza, e le tendenze più nuove sono apparse tutte segnate dalla propensione agli incroci disciplinari con altre scienze sociali. In questa direzione ha continuato a operare la nouvelle histoire francese, con G. Duby, J. Le Goff, E. Le Roy Ladurie. Ormai metabolizzati gli apporti della sociologia, si è guardato soprattutto all’antropologia e alla politologia, mentre hanno ritrovato interesse i rinnovati studi di geopolitica. I campi nei quali si sono concentrati risultati innovativi sono: quello della storia delle donne; quello attorno al sacro, cioè relativo all’esperienza religiosa nella definizione più ampia; quello relativo alla nazione (lingua, etnia, tradizione), come recupero delle ragioni storiche delle culture, creatrici e depositarie di valori condivisi e di forti identità collettive; quello intorno ai rituali e ai miti della politica con una particolare attenzione ai regimi totalitari del Novecento, a partire dalle ricerche di G.L. Mosse; quello degli studi sulla storia delle mentalità, fioriti soprattutto in Francia con i lavori di P. Aries e di M. Vovelle; quello che ha indagato sulle dimensioni del consenso, come superamento delle mere contrapposizioni politiche e di valore, e di cui si possono ricordare i contributi di R. De Felice sul fascismo.

Gli anni Ottanta peraltro vedono un rilancio della s. politica, spesso all’insegna del revisionismo storico, cioè dell’abbandono di ogni paradigma marxista e del mutamento di giudizio sulle grandi rivoluzioni storiche, sulle «leggende nere» (l’inquisizione, gli ebrei ecc.) e sui movimenti totalitari (fascismo, nazismo ecc.), tra i quali si inizia a includere il comunismo, ribaltando una consolidata tradizione storiografica. La Rivoluzione francese non ha cessato di essere il luogo classico dello scontro: il bilancio del secondo centenario ha confermato il successo dell’interpretazione di F. Furet, fortemente ostile alla visione giacobino-marxista.

La fine del 20° e gli inizi del 21° secolo

La fine del socialismo reale (1989-91) viene letta da più parti come la «fine delle ideologie»; la «storia in briciole » sembra la prospettiva corrispondente, la narrazione sostituisce l’analisi, e il ritorno della histoire événementielle sembra segnare la crisi della «storia-problema». A conferma della trasformazione in atto della figura dello storico-politico si è iniziato infine a riflettere, a partire dall’opera di Hobsbawm (The age of extremes. The short twentieth century: 1914-1991, 1994; trad. it. Il secolo breve, 1995), sul senso complessivo del Novecento, un tema sul quale si misurano e si confrontano gli esiti delle ideologie del secolo. Al tempo stesso, nella cultura storica della fine del sec. 20° giungono a maturazione molti processi dissolutivi del patrimonio concettuale più robustamente elaborato dalla s. e dalla cultura precedente. E speculare a tale processo dissolutivo può essere ritenuto il moto che ha spinto a una pratica in molti casi generalizzata del revisionismo come canone storiografico che postula rovesciamenti (fino a convertirsi in vari «negazionismi») o corpose modificazioni di idee e fatti assunti come tradizionali; a volte con effettivo vantaggio di liberazione da tesi e modi di vedere aduggiati da interessi di parte ma, più spesso, espressione di punti di vista a tesi altrettanto ideologicamente condizionati di quelli di cui si ha di mira il rovesciamento. Tale processo revisionistico ha investito, in particolare, la storia contemporanea a partire dalla Rivoluzione francese e fino ai casi macroscopici dei totalitarismi del secolo 20°.

Si vedano anche La storiografia del Novecento e La storiografia tra passato e futuro

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