Stratificazioni sociali

Enciclopedia del Novecento (1984)

Stratificazioni sociali

Talcott Parsons

di Talcott Parsons

Stratificazioni sociali

sommario: 1. Introduzione. 2. Teorie sull'origine delle classi sociali. 3. Momenti rilevanti nella storia della stratificazione in Occidente. 4. Lo sviluppo dello Stato nazionale moderno. 5. La ‛democratizzazione' degli strati sociali superiori nella società occidentale. 6. Il conflitto tra socialismo e capitalismo e le recenti tendenze delle strutture di classe. 7. Stratificazione ed eguaglianza delle opportunità. 8. La stratificazione tra le nazioni. 9. Conclusione: vi è oggi un equivalente funzionale delle aristocrazie tradizionali? □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il termine ‛stratificazione sociale', di cui ‛classe sociale' è una sottocategoria, si riferisce, per consenso pressoché generale degli studiosi di scienze sociali, alla distribuzione differenziale, su scala di superiorità o inferiorità relativa, delle unità dei sistemi sociali, siano questi società nel loro insieme o varie altre categorie sociali (v. Parsons, 1953 e 1970). Queste unità possono essere individui considerati in quanto membri della società o di gruppi, oppure sottogruppi o sottocollettività di molti tipi diversi. Farò uso del concetto di ‛prestigio' relativo, come del termine di riferimento più generale per questa distribuzione differenziale degli status. Il prestigio può essere, a sua volta, rapportato alla stima socialmente diffusa, al conseguimento di particolari risultati, a posizioni relative di responsabilità e potere nell'organizzazione della collettività (in particolare dello Stato), all'appartenenza a determinati gruppi culturali (quali il clero e gli altri specialisti di cose religiose, gli artisti, gli scienziati e simili), al grado di ricchezza, con la relativa possibilità di accedere a certi modelli di consumo prestigioso, a opportunità di varia natura e simili.

È bene chiarire fin dall'inizio che la stratificazione così intesa è soltanto una delle dimensioni della differenziazione di status tra le unità dei sistemi sociali. Tra le altre, la più importante presumibilmente è la differenziazione qualitativa degli status a seconda della loro base: in questo senso, particolare rilievo hanno, nelle società più altamente differenziate (quelle moderne in special modo), le differenze in base alla funzione. Benché le funzioni siano di fatto anche oggetto di una valutazione come più o meno onorifiche e prestigiose non c'è alcuna ragione di carattere generale per ritenere che le persone impegnate principalmente nell'esercizio di funzioni politiche nell'ambito governativo, siano esse ai massimi vertici o ai gradini più bassi, oppure nell'esercizio di funzioni di produzione economica, di creazione culturale in campo artistico o intellettuale, stiano, per questo solo fatto, in rapporto gerarchico tra loro in una qualsiasi maniera definita e generale. Vi sono società nelle quali il sapere e l'insegnamento godono di un prestigio particolarmente alto e altre in cui sono tenuti in minor conto; lo stesso vale, ad esempio, per le attività nel settore economico o in quello politico; non sembra tuttavia si possa arrivare ad alcuna generalizzazione universalmente valida circa l'esistenza di un ordine intrinseco di classificazione nella valutazione di funzioni come queste.

Una completa eguaglianza di status, dal punto di vista del prestigio, è ovviamente il caso limite in cui la stratificazione, nel senso sopra descritto, scompare; ovvero può essere anche considerata come un caso particolarissimo, cioè un caso limite della stratificazione stessa. Da un punto di vista empirico, non si dà alcun caso di totale assenza di stratificazione al livello di una società globalmente considerata. Ad esempio, certe società molto primitive, come quelle degli aborigeni australiani, non hanno ‛classi sociali' nel senso usuale del termine, ma mostrano un'evidentissima stratificazione in rapporto all'età e al sesso (v. Warner, 1958) gli uomini hanno la preminenza, per certi aspetti molto generali, nei confronti delle donne, così come, naturalmente, ce l'hanno gli adulti nei confronti dei bambini; ma anche nella categoria degli adulti, specie tra gli uomini, tende a delinearsi una posizione di particolare prestigio a favore dei gruppi di età più avanzata, di quelli cioè che vengono talvolta chiamati gli ‛anziani' della tribù o del clan (v. Evans-Pritchard, 1963; v. Lienhardt, 1954; v. Fortes ed Evans-Pritchard, 1940; v. Nadel, 1951).

Certo è comunque che nella cultura occidentale, a partire almeno dall'antica Grecia, è stato sempre attribuito un grande valore all'eguaglianza e si è guardato con una specie di nostalgia a un passato mitico, in cui gli uomini vivevano, se non in un'assoluta eguaglianza, almeno in una condizione a essa molto più vicina di quella attuale (v. Wilamowitz-Moellendorff, 1910) I miti dell'età dell'oro hanno di continuo posto l'accento sul tema dell'eguaglianza il concetto marxiano e di ‛comunismo primitivo' non è il caso meno significativo. Movimenti sociali e altre forme di pressione in favore di una riduzione delle diseguaglianze, e quindi di una maggiore eguaglianza, hanno costituito una rilevante caratteristica già presente nella rivoluzione puritana e nelle prime tendenze democratiche del Cinque e Seicento, e poi particolarmente spiccata a partire dall'illuminismo e dalla Rivoluzione francese pressoché di tutte le società moderne (v. Halévy, 1901-1904; v. Palmer, 1959-1964). L'epoca contemporanea sembra investita da una nuova, più intensa ondata di spirito egualitario, che in parte si esprime in programmi radicalmente rivoluzionari, ma, in misura assai più ampia, si manifesta come generale tendenza a mettere in questione la legittimità delle diseguaglianze nella società umana. Questo orientamento egualitario sembra essere una caratteristica permanente del sistema di valori della cultura occidentale.

2. Teorie sull'origine delle classi sociali

Le più importanti forme di stratificazione, almeno al livello della società nel suo insieme, sembrano essere state quelle in cui la differenziazione delle popolazioni in strati di prestigio, prerogative, privilegi e responsabilità differenti si basava sulla continuità intergenerazionale, quelle cioè in cui uno status superiore e/o inferiore era, in misura determinante, socialmente ereditato attraverso la consanguineità e la parentela. Il termine ‛mobilità' è ordinariamente usato, da questo punto di vista, per designare i processi di cambiamento di status da parte di membri di una generazione nei confronti dei genitori e di altri ascendenti. Possiamo usare il termine molto generale di ‛differenziazione di classe' per designare questo tipo di stratificazione. Il suo insorgere è chiaramente connesso con la differenziazione che, come è stato rilevato particolarmente da Shils (v., 1970), ma anche da altri come Eisenstadt (v., 1961 e 1966), si produce tra il ‛centro' e la ‛periferia'. Il centro è legato all'emergere di certi elementi differenziati di ‛direzione' nel funzionamento di una società (lo stesso discorso può farsi riguardo alle sottosocietà). L'emergere di un centro è quasi sempre connesso al consolidarsi di un'autorità politica su base territoriale e al fatto che l'autorità politica non è in genere equamente distribuita nell'insieme della popolazione, ma è concentrata nelle mani di minoranze ‛elitarie', le quali sono assai spesso aristocrazie ereditarie, ma possono anche, in determinate occasioni, configurarsi in modo diverso. Anche nel caso paradigmatico della democrazia nella Grecia classica, il principio egualitario si applicava soltanto al gruppo dei cittadini maschi adulti, cioè a una minoranza rispetto alla popolazione totale dell'unità politica per esempio, ad Atene nell'età di Pericle si stima vi fossero, compresi le donne e i bambini, solo trentamila ‛cittadini' circa, il che rappresentava all'incirca un quinto della popolazione totale della polis. Ciò vorrebbe dire che la cittadinanza maschile adulta si aggirava intorno alle diecimila persone. Atene, a sua volta, aveva una posizione di egemonia all'interno di un sistema di città-Stato, le cui singole unità erano ben lungi dall'essere completamente eguali tra loro. Così, malgrado gli elementi egualitari, destinati ad avere - sul terreno della ‛cittadinanza' - profonde conseguenze storiche, è ben difficile dire che la società della Grecia classica abbia rappresentato un caso di ‛egualitarismo puro'.

In aggiunta, e in stretta connessione, allo sviluppo dei centri politici, è da rilevare, soprattutto nelle primissime fasi di evoluzione societaria, la formazione di centri di autorità e prestigio sia nella sfera religiosa che in quella economica, le sfere cioè del controllo e della produzione della ricchezza. Una società come quella dell'antico Egitto, ad esempio, combinava tutte e tre le specie di ‛centri' in un rapporto reciproco estremamente stretto la dinastia reale era il fulcro primario sia di un'autorità politica fortemente accentrata, sia di un'organizzazione religiosa non meno centralizzata (v. Frankfort, 1948 e 1961); quasi certamente essa aveva un ruolo primario anche nel controllo delle risorse economiche e del loro uso, come testimoniano particolarmente i palazzi, i templi, le piramidi tutte opere strettamente collegate alla dinastia reale (v. Wilson, 1951; v. Edgerton, 1947 e 1959).

Nei primi anni del nostro secolo si è sviluppata una vivace controversia, in parte motivata da considerazioni ideologiche, intorno al problema se la stratificazione si sia sviluppata attraverso la differenziazione interna di comunità già esistenti, oppure attraverso l'imposizione di una dominazione esterna. Uno tra i principali sostenitori di questa seconda ipotesi fu il sociologo-economista, più o meno marxista, F. Oppenheimer (v., 1919), il quale riteneva, essenzialmente, che i più importanti modelli di stratificazione fossero tutti il risultato di conquiste o altre forme di coercizione. Un notevole esempio storico è certo quello della cosiddetta invasione ‛ariana' dell'India; in questo paese, infatti, furono i discendenti dei conquistatori ariani a dare origine alle caste più elevate, mentre le caste inferiori vennero costituite dalle popolazioni indigene, prevalentemente dravidiche (v. Bouglé, 1908; v. Sénart, 1896). Simili modelli sono stati applicati anche alla Grecia antica, dove - si è sostenuto - la classe superiore fu formata specialmente dai conquistatori Dori, che sottomisero le popolazioni indigene.

Secondo un'altra variante di questa teoria, gli elementi subordinati sarebbero stati, per così dire, ‛importati'. Nel mondo mediterraneo antico, ad esempio, la schiavitù era un fenomeno di massa e la maggiore fonte di schiavi era costituita indubbiamente dai prigionieri di guerra. Così M. Weber (v., 1896) nel suo ben noto saggio sulla decadenza dell'Impero romano pone soprattutto l'accento sulla tesi secondo cui la pacificazione dell'Impero, specie nelle relazioni con i popoli confinanti, portò all'esaurirsi delle possibilità di rifornimento di nuovi schiavi; il che ebbe come risultato, essenzialmente, di rendere non più praticabile il vecchio modello dell'economia schiavistica e spiega in gran parte la transizione, particolarmente nell'organizzazione rurale, alle varie forme di affittanza e infine ai modelli medievali. Il fenomeno degli schiavi importati ebbe indubbiamente una nuova, notevole ripresa dopo il periodo delle grandi scoperte geografiche, con la massiccia immissione nelle Americhe - in tutta l'area che va dal Brasile alla parte meridionale dei futuri Stati Uniti - di Negri africani, che venivano sradicati con la forza dalle loro società di origine per essere, nella massima parte dei casi, venduti nel Nuovo Mondo. Questo fenomeno era ovviamente legato soprattutto all'economia di piantagione, la quale acquistò infatti grande importanza nell'intero arco delle aree schiaviste. Certamente, questi due casi sono tutt'altro che isolati. In gran parte dell'area della dominazione musulmana, ad esempio, vi fu una massiccia riduzione in schiavitù di sudditi appartenenti agli strati inferiori della popolazione.

Malgrado la rilevanza storica di casi del genere, possiamo però affermare, se non altro, che la stratificazione, in un grandissimo numero di casi (di ogni epoca), è l'effetto di processi di differenziazione interni e relativamente spontanei. Quello che ho chiamato stadio ‛avanzato' di sviluppo delle società primitive (v. Parsons, 1966) è caratterizzato in modo specifico dall'emergere, attraverso la formazione di centri di potere - specialmente politico e religioso - che si differenziano rispetto alla gente comune, di una classe superiore ereditaria (v. Evans-Pritchard, 1963). Un aspetto particolarmente rilevante di questo processo è il seguente: molte delle società piu primitive, se considerate dal punto di vista delle relazioni di parentela tra stirpi e clan, costituiscono una specie di ‛tessuto senza cuciture', in cui tutti i membri della società sono in rapporto di parentela con tutti gli altri secondo varie combinazioni di legami di discendenza e di affinità. In tali circostanze, l'intera società diviene - secondo l'espressione di C. D. Ackerman (v., 1965) - un'unica ‟comunità di affini"; il passo decisivo verso la stratificazione delle classi è allora la rottura di questo ‛tessuto senza cuciture', col risultato che alcuni gruppi superiori divengono endogami, si imparentano cioè gli uni con gli altri senza mescolarsi, su questo piano, con la gente comune. Questo processo di esclusione, ovviamente, si è attuato con gradi notevolmente diversi di rigore, ma in quelle che noi consideriamo le aristocrazie classiche, soprattutto (ma non certo esclusivamente) in Occidente dal Medioevo in poi, esso è stato certamente una nota dominante. La proibizione, per i figli degli aristocratici, di sposare persone non nobili ha costituito, insomma, una caratteristica comune a tutte le società aristocratiche.

Tali processi, naturalmente, si sono mostrati inclini ad associarsi strettamente alla ricchezza e al potere, frutto - nell'evoluzione delle società aristocratiche - della relativa monopolizzazione della proprietà terriera. In effetti, nella storia europea, per quanto importante possa esser stata, nel periodo delle migrazioni di popoli, l'influenza di invasori vittoriosi quali le tribù germaniche, questa basilare differenziazione interna delle comunità sembra nondimeno esser stata, in generale, il processo fondamentale.

Sia pure con molte variazioni, simili processi di differenziazione si sono verificati in molti periodi della storia e in molte parti del mondo. Così, benché i nuclei etnici che finirono per acquistare posizioni dominanti, con la costituzione del popolo di Israele in entità distinta, esercitassero molte prerogative dei conquistatori, è difficile affermare, in un senso preciso, che quella che divenne la classe ‛dominante' della nuova entità politica - istituzionalizzatasi specialmente col regno di Davide e di Salomone - fosse un gruppo etnicamente differenziato governante in seguito a conquista sui gruppi subordinati (v. Moore, 1927). Le intricate interrelazioni tra coloro che sicuramente appartenevano al gruppo dominante e quelli che non vi appartenevano sono analizzate da E. Leach (v., 1969) nel suo saggio sulla ‛legittimazione' di Salomone.

Circa l'instaurarsi dei sistemi di stratificazione possiamo dunque concludere, generalizzando, che, nonostante l'importanza che in molti casi concreti può aver rivestito l'intervento - specie sotto forma di conquista - di elementi di potere stranieri, o l'importazione di schiavi, o la schiavizzazione delle classi inferiori, tuttavia il più generalizzato e importante processo di fondo è stato quello consistente nello ‛spontaneo' differenziarsi della società stessa in base allo sviluppo di distinzioni, in seno alla popolazione, tra gruppi di differente prestigio. Questa differenziazione sembra essersi sempre associata allo sviluppo di un qualche tipo di ‛centri', nel senso proposto da Shils (v., 1970), che possono avere natura prevalentemente politica o religioso-culturale, o entrambe, intimamente intrecciate tra loro.

Così, nel caso dell'aristocrazia della Roma imperiale, cioè in particolare della classe senatoria, il fattore principale era chiaramente di natura politica. Nel caso dell'induismo classico in India, sembra fosse più di natura religioso-culturale che politica (v. Ketkar, 1911; v. Weber, 1920-1921, vol. II): solo per brevi periodi, infatti, l'India classica fu politicamente unita, mentre, se si escludono gli intervalli di predominio buddhista, l'egemonia della casta bramanica, una volta instauratasi, costituì la base dei ‛centri', la base da cui dipendeva l'attribuzione del prestigio (in questo caso, prevalentemente secondo criteri di purezza rituale). È un modello che si mantenne per parecchi secoli, dando prova di straordinaria stabilità; quali che possano essere state, in un remoto passato, le relazioni tra stirpi ariane e dravidiche dopo la conquista, esse non possono evidentemente spiegare la configurazione e la persistenza del sistema castale indiano.

3. Momenti rilevanti nella storia della stratificazione in Occidente

Benché, di fatto, si siano avute sia una dicotomizzazione relativamente netta, sia una gradazione istituzionalizzata di molteplici livelli, ci sembra lecito sostenere che, nei sistemi di stratificazione sul tipo di quelli ora menzionati, si è manifestata un'accentuata tendenza dicotomizzante. In altri termini, si è avuta tendenzialmente un'aristocrazia, o classe superiore, costituente una minoranza (l'appartenenza alla quale era soprattutto ereditaria), sovraordinata e contrapposta a una maggioranza di ‛gente comune', generalmente impegnata nelle attività lavorative di più modesto prestigio: contadini, taglialegna, portatori di acqua, la gente insomma occupata in mansioni di carattere prevalentemente manuale. Questi stessi erano poi i soldati semplici nelle formazioni militari, mentre agli aristocratici era per lo più riservato il grado di ufficiale.

La stratificazione della società occidentale è stata caratterizzata da un peculiare insieme di tratti, dovuto a un dualismo, profondamente radicato, dei modelli di relazione superiore-inferiore. Ciò risale all'eredità del mondo mediterraneo classico, dove - soprattutto nell'area orientale, ma anche in quella occidentale, specie in Italia e non limitatamente alla sola Roma - acquistò un ruolo predominante la polis, l'organizzazione cioè della città-Stato. Per lungo tempo dopo che le poleis greche ebbero perso la loro indipendenza politica, la città-Stato rimase l'unità fondamentale, sebbene priva della piena autonomia politica, della struttura sociale. Questo modello si diffuse in tutto l'Impero romano improntando lo status delle comunità locali, che i Romani chiamavano municipia. Benché le poleis greche e le loro discendenti nell'Impero romano non fossero, come già abbiamo notato, strutture propriamente egualitarie, esse possedevano tuttavia un elemento di ciò che potremmo chiamare ‛associazionismo collegiale' la popolazione vi era divisa in ‛corpi' - nei quali vigeva una condizione di piena cittadinanza - che costituivano una sorta di associazioni di eguali. In altri termini, la struttura interna di una polis o di un municipium era ben lungi dall'essere semplicemente di tipo gerarchico; consisteva piuttosto in una giustapposizione di livelli relativamente distinti, entro i quali vigeva una condizione assai vicina all'eguaglianza di status (v. Fowler, 1922).

Attraverso complesse vicende questo modello sopravvisse fin nell'Europa moderna (v. Weber, 1922). Entro l'area della cristianità occidentale esso ebbe per lungo tempo il massimo rilievo in Italia, dove il modello feudale, nella sua forma classica (v. Bloch, 1939-1940), non raggiunse mai una preminenza paragonabile a quella che ebbe a nord delle Alpi. Ma anche in certe regioni dell'Europa settentrionale il modello municipale ha avuto un ruolo notevole sino all'epoca moderna; ciò vale in particolare per quell'area immediatamente a nord delle Alpi, il cui asse principale era la valle del Reno, ma che si estendeva dalla Svizzera al Mare del Nord e oltre (v. Rokkan, 1967). Per secoli, alcune di queste comunità ebbero lo status formale di ‛città libere dell'Impero'; inoltre, anche fuori di quest'area, in un paese come l'Inghilterra i cosiddetti boroughs, a cominciare dalla stessa città di Londra, godettero di una speciale autonomia basata su un certo modello egualitario di associazione collegiale (si pensi alle gilde, che riunivano sia mercanti che artigiani).

Giustapposto a questo modello ‛municipale' di organizzazione ve n'era un altro, predominante nei settori rurali della società europea (anche in questo caso, soprattutto a nord delle Alpi). Quivi si era consolidata (v. Bloch, 1939-1940) un'aristocrazia che esercitava un vasto controllo sugli affari locali del feudo, in primo luogo i suoi membri erano insieme proprietari e ‛signori' del territorio, vi esercitavano cioè anche il potere politico e giudiziario essi avevano inoltre un ruolo preminente nell'organizzazione militare.

Questa aristocrazia ‛feudale', caratterizzata dal suo stretto legame con la terra, costituì la fonte primaria dell'aristocrazia europea. Con il formarsi, specie sotto la guida regia, di più vaste e solide strutture politiche, nacque un complicato problema di equilibrio tra il potere e l'autorità del sovrano, da un lato, e, dall'altro, l'influenza, particolarmente rilevante nella sfera economica, delle più o meno libere e autonome municipalità. Il nucleo primario della struttura di potere dello Stato moderno fu tuttavia il frutto dell'alleanza tra l'istituzione monarchica e le aristocrazie legate alla proprietà fondiaria. Accadde infatti che, crescendo il prestigio delle strutture statali politicamente organizzate, l'aristocrazia terriera mise progressivamente in ombra i gruppi superiori delle comunità municipali. Questo processo era evidentemente legato alla funzione militare, che era assai meno rilevante per i gruppi superiori municipali.

Bisogna inoltre tenere presente che, nella struttura e nella stratificazione della società europea medievale e postmedievale, una ‛terza forza' era rappresentata dalla Chiesa. È di importanza cruciale il fatto che la Chiesa cattolica occidentale fosse strutturalmente distinta dallo Stato, la cui sfera comprendeva virtualmente l'intera società secolare non ecclesiastica (v. McIlwain, 1932). Vi fu certamente la tendenza a una stretta alleanza tra aristocrazia secolare e alto clero, ma, per quanto stretta fosse, essa non fu mai tale da annullare la distinzione tra le due organizzazioni. Senza dubbio, la distinzione era rafforzata dal celibato del clero (v. Lea, 1907), istituto in virtù del quale un vescovo poteva avere bensì figli naturali, ma non eredi legittimi, cosicché le cariche ecclesiastiche non potevano diventare ereditarie.

Col tempo, e soprattutto in seguito al fiorire della vita economica, i ceti superiori delle città cominciarono ad acquistare un'importanza relativamente crescente, soprattutto rispetto alle aristocrazie terriere. Questo processo si dimostrò ovviamente di cruciale importanza nella crisi della Rivoluzione francese, crisi che oppose l'aristocrazia alla bourgeoisie (v. Lefebvre, 19572). Il termine bourgeoisie è particolarmente significativo perché indica soprattutto i gruppi superiori delle città in quanto distinti dai gruppi superiori della società rurale. Anche se pervennero, nel complesso, a una relativa opulenza e, sotto molti aspetti, acquistarono un'influenza generalmente rilevante sia nella sfera politica che in altre sfere, questi gruppi borghesi non furono però mai inclusi, almeno non in maniera massiccia, nella sottosocietà costituita dall'aristocrazia titolata. Vi furono a questo proposito, è vero, importanti differenze a seconda dei luoghi e delle epoche, ma la nostra generalizzazione rimane nondimeno accettabile. É infatti noto che la punta di diamante della Rivoluzione francese fu costituita precisamente dalla classe borghese intesa in questo senso, la quale non era assolutamente un proletariato in senso marxiano non si trattava, per dirla in generale, dei poveri, ma del gruppo di coloro che, in primo luogo, erano esclusi dal prestigio derivante da certi speciali privilegi di cui godeva la vecchia aristocrazia. In Francia, la circostanza che ebbe una così cruciale importanza non fu soltanto che i ‛borghesi' fossero privi di titolo, bensì che fossero in genere esclusi dalla vita, fonte d'immenso prestigio, della corte di Versailles. Il succo della precedente considerazione è che, dal Medioevo in poi, il sistema di stratificazione europeo non può considerarsi come semplicemente dicotomico; cionondimeno, la divisione tra l'aristocrazia terriera e i gruppi superiori urbani (la borghesia per eccellenza) si dimostrò un fattore di cruciale importanza per gli sviluppi futuri.

4. Lo sviluppo dello Stato nazionale moderno

Dalla Rivoluzione francese dobbiamo ora risalire al processo di sviluppo politico-sociale attraverso cui la ‛società secolare' giunse, dalla precaria unità del medievale Sacro Romano Impero al sistema, sia pure imperfetto, di quelli che saranno in seguito chiamati gli Stati nazionali. È da notare, come fatto assai significativo, che Francia e Gran Bretagna, le quali furono le antesignane nello sviluppo degli Stati nazionali, non riconobbero mai pienamente la propria appartenenza al Sacro Romano Impero, non riconobbero cioè in termini più o meno feudali la posizione dei loro sovrani come vassalli dell'imperatore. Questo loro ruolo di avanguardia nella costruzione dei primi modelli della monarchia moderna riposava sulla convinzione che, alla base di un'unità politicamente organizzata, ci fosse qualcosa di simile a ciò che noi oggi chiameremmo omogeneità etnica. Ritengo si possa affermare che tale omogeneità consisteva soprattutto nella partecipazione a una tradizione culturale comune, la quale era poi una variante del più vasto retaggio europeo-occidentale. Almeno a partire dalla Riforma, la tradizione comune comprendeva anche la religione, secondo la famosa formula della pace di Vestfalia ‛cuius regio eius religio', nella quale si esprime una situazione in certo modo analoga a quella della krusceviana ‛coesistenza pacifica', con la sua divisione tra società capitaliste e società comuniste. Il mondo europeo, insomma, si divise in paesi cattolici e paesi protestanti, all'interno dei quali, come proclamava la formula di Vestfalia, il credo religioso del principe doveva essere anche quello di tutti i sudditi. Questa non si dimostrò tuttavia, a lungo andare, una soluzione stabile e negli Stati europei si affermò progressivamente un maggior pluralismo religioso.

Il moderno concetto di appartenenza etnica non si riferisce solo a una certa tradizione nazionale comune, ma pone particolarmente l'accento sulla lingua, tanto che il tipo ideale di Stato nazionale è quello basato sull'unità di lingua, il che era anzitutto in contrasto con l'uso universale del latino da parte della Chiesa cattolica. La traduzione tedesca della Bibbia, fatta da Lutero, cui presto seguirono altre versioni nelle varie lingue volgari, fu un simbolo importantissimo di caratterizzazione etnica. Fu in questa fase che le aristocrazie divennero, in maniera più o meno definita, aristocrazie nazionali. Questa identificazione nazionale fu notevolmente rafforzata dal ruolo esercitato dai monarchi nei confronti delle dinastie reali di cui erano a capo il monarca era, per definizione, il capo dell'aristocrazia, e vi era tutta una gradazione di prestigio aristocratico che partiva dalla stessa famiglia reale per scendere, attraverso una serie di gradi intermedi, fino al livello della piccola nobiltà di provincia. Ciò veniva espresso con l'affermazione che il monarca non solo era politicamente il ‛capo dello Stato', ma era anche il ‛primo gentiluomo' della nazione.

Il modello sopra delineato, però, non si presentava mai nella sua forma ‛pura'. Anche Francia e Inghilterra costituivano delle varianti rispetto al tipo puro dello Stato nazionale. L'Inghilterra ha sempre avuto la sua ‛frangia celtica' statuti speciali furono accordati al Galles (anche dopo la costituzione del Regno Unito), alla Scozia e, in misura più rilevante, all'Irlanda. Per quanto riguarda la Francia, le sue frontiere etnico-nazionali restarono a lungo indefinite: va ricordato che buona parte della Francia settentrionale rimase sotto la giurisdizione politica inglese fino al XIV secolo. Similmente, le frontiere col mondo germanico in Borgogna ad esempio non furono ben chiare per molto tempo; questo è anche il caso, nel Sud, e fino a epoche più recenti, di aree come la Savoia, in rapporto alla nazionalità italiana. Un'altra delle maggiori componenti del sistema europeo, quella che si sviluppò gradualmente nell'Impero austroungarico, non si costituì mai in Stato nazionale nel senso classico, ma rimase un'entità multinazionale, la cui origine risaliva, in primo luogo, alla politica matrimoniale dell'imperatore Massimiliano, il quale unì la corona austriaca a quelle di Boemia e di Ungheria, di due paesi cioè etnicamente non germanici. Inoltre, dal tardo Medioevo in poi abbiamo quella struttura in certo senso anomala che è la Svizzera, una confederazione di piccole unità autonome, nella quale la componente predominante è affiancata da una componente francese assai rilevante e da una italiana di apprezzabile importanza.

Nel corso di questi sviluppi il principale modello di stratificazione delle società ‛nazionali' tendeva a ruotare intorno all'istituzione dell'aristocrazia. Un fattore latente di modificazione era certamente rappresentato dalla borghesia, ma il costituirsi degli Stati nazionali rovesciò i locali equilibri di potere a favore dell'alleanza, sopra menzionata, tra monarchia e aristocrazia fondiaria. Le unità municipali, che pure avevano avuto un'estrema importanza storica, erano troppo piccole per competere con la spinta all'unificazione dei regni nazionali, spinta che costituì, per un periodo considerevole, la tendenza dominante. Certo, nell'età immediatamente successiva al Medioevo, anche nell'Europa del Nord quelli che talvolta vengono chiamati i ‛patriziati' delle comunità urbane si collocavano in una posizione quanto meno di eguaglianza, e a volte di superiorità, nei confronti della nobiltà fondiaria; ma questa situazione cambiò drasticamente nel corso della formazione degli Stati nazionali moderni. E in questo quadro che va vista la situazione che fece esplodere i conflitti della Rivoluzione francese, un quadro caratterizzato, per usare l'odierna terminologia delle scienze sociali, da una ‛deprivazione relativa' delle classi superiori borghesi nei confronti dell'aristocrazia. Si tratta di un conflitto la cui incidenza non fu ovunque uniforme; in Francia esso divenne particolarmente acuto a causa dell'esclusione della borghesia non tanto, e non completamente, dal potere politico, quanto, e in maniera particolarissima, dal prestigio della vita di corte. Ebbe un notevole peso, in tale contesto, il fatto che una componente particolarmente importante delle strutture superiori della società francese fosse rappresentata, nel periodo prerivoluzionario, dai ‛parlamenti', i quali non erano, come in Inghilterra, corpi prevalentemente legislativi quanto piuttosto corpi giudiziari. Il punto cruciale è che ai membri dei parlamenti venne formalmente concesso lo status aristocratico: essi divennero la ‛nobiltà di toga', che costituiva una specie di aristocrazia di second'ordine rispetto alla ‛nobiltà di spada', quella cioè con funzioni prevalentemente militari (v. Ford, 1953). Un altro importante motivo di malcontento della borghesia nei confronti dell'aristocrazia era il regime di esenzioni fiscali di cui quest'ultima godeva e che era esteso fino ai gradi relativamente bassi della nobiltà, che spesso si erano notevolmente impoveriti nel corso del Settecento.

Assai diversa la situazione in Inghilterra (v. Trevelyan, 19372), dove esisteva un gruppo sociale analogo alla bourgeoisie francese, che aveva avuto accesso, fin dagli inizi, alle assemblee parlamentari, accesso che andò allargandosi dopo il Reform act del 1832. Ma ciò che differenziava grandemente l'Inghilterra era la combinazione di due fattori: un diritto di primogenitura molto più rigido che in Francia e la divisione di quella che la maggior parte dei sociologi chiamerebbe aristocrazia in una nobiltà titolata e in una gentry priva di titolo. In effetti, la parola inglese gentleman ha avuto, fin dall'inizio dell'età moderna, una connotazione alquanto peculiare, in quanto indicava semplicemente una persona di ‛nobili natali' (gentle birth). Nella società inglese le linee di divisione tra l'aristocrazia titolata e la gentry e tra la gentry e la ‛gente comune' erano, soprattutto per quanto riguarda i simboli del prestigio sociale, assai meno rigide che in Francia; il che si spiega con le maggiori possibilità di ascesa dal livello della gente comune a quello della gentry e, per nomina reale, da quest'ultimo a quello della nobilità titolata. Il titolo, com'è noto, veniva conferito a persone non nobili che avessero reso alla Corona speciali servizi di carattere militare o nei diversi campi della politica e della finanza. Una carriera paradigmatica è quella del grande eroe militare britannico della prima metà dell'Ottocento: all'origine, egli era semplicemente Arthur Wellesley, un gentleman anglo-irlandese (gentleman in senso tecnico); nel corso della sua carriera militare divenne il generale sir Arthur Wellesley, per giungere infine al titolo di duca di Wellington, cioè a una posizione altissima nell'aristocrazia, vicina a quella della stessa famiglia reale. Egli, inoltre, terminata la sua carriera militare, svolse (nient'affatto gratuitamente) funzioni di primo ministro, in un periodo in cui il primo ministro non sedeva ancora alla Camera dei Comuni bensì alla Camera dei Lords. Un'altra interessante caratteristica del sistema inglese era il conferimento del titolo nobiliare sia all'alto clero della Chiesa d'Inghilterra il titolo era di Lord Bishop e comportava l'appartenenza alla Camera dei Lords sia ai più alti gradi della magistratura, cui spettava il titolo di Lord Justice. Questo tipo di nobiltà, tuttavia, non era ereditario, anche se nessuna di queste due categorie era vincolata al celibato: era cioè uno status nobiliare legato alla carica; esso costituì, in un certo senso, il modello per quello che sarà in seguito il titolo di ‛pari a vita' (life peerage), divenuto comune oggi in Inghilterra.

5. La ‛democratizzazione' degli strati sociali superiori nella società occidentale

La Rivoluzione francese fu il grande evento simbolico che segnò la fine dell'egemonia aristocratica nella società occidentale. La sua influenza non fu ovunque la stessa, ma certamente la trasformazione complessiva, verificatasi negli ultimi due secoli, è stata molto profonda. Il regime rivoluzionario, il regime cioè precedente alla restaurazione borbonica, abolì del tutto gli antichi titoli nobiliari, i quali - affiancati prima dalla napoleonica noblesse d'Empire e poi restaurati sotto Luigi XVIII, Carlo X, Luigi Filippo e Napoleone III - non ebbero, nella Francia repubblicana, alcun valore ufficiale (v. Pitts, 1963). Non fu però questo il caso della maggior parte degli altri paesi europei, nei quali il valore dello status nobiliare subì comunque un processo di erosione, che si accelerò grandemente con la prima e la seconda guerra mondiale, le quali, tra l'altro, ebbero come conseguenza la caduta di molte delle più vecchie e tradizionali monarchie: la tedesca, la spagnola, l'asburgica, la russa, l'italiana. Le monarchie che sopravvissero erano tutte, come usualmente si dice, monarchie costituzionali: il caso più notevole è quello dell'Inghilterra, ma vanno ricordati anche l'Olanda, il Belgio e i paesi scandinavi.

Particolarmente significativo è il caso delle principali colonie nordamericane della Gran Bretagna, che conquistarono l'indipendenza nell'ultimo quarto del XVIII secolo. Precedendo di pochissimi anni la Rivoluzione francese, quella che Lipset chiama ‟la prima nazione di tipo nuovo" (v. Lipset, 1963) ripudiò del tutto l'istituto dell'aristocrazia, vietando ogni uso ufficiale dei titoli. É inoltre da ricordare il fatto, sottolineato da Lipset, che, durante il mandato di George Washington come primo presidente della nuova repubblica, fu posto seriamente il problema se egli intendesse proclamare la monarchia, ovviamente con lui stesso come re. Ma benché la cosa fosse politicamente fattibile, Washington decise altrimenti, stabilendo che la nuova nazione doveva rimanere una repubblica, quale è poi sempre stata in seguito.

La Rivoluzione francese non solo portò molto avanti, in Francia, la distruzione della particolare posizione di cui godeva l'aristocrazia, ma generò anche un movimento in questa direzione che, a ondate, si ripercosse profondamente sull'intera Europa, Gran Bretagna compresa. Questo processo era, com'è ovvio, strettamente associato alle guerre del periodo repubblicano e poi dell'era napoleonica. A questo proposito, anche l'apparente vittoria conservatrice dopo Waterloo, non durò che una generazione: nel 1848 infatti vi fu una nuova esplosione di ‛democrazia', di cui un simbolo particolarmente significativo fu la caduta di Metternich.

L'orientamento della Rivoluzione francese era in realtà molto più avanzato di quanto non consentisse la relativa decadenza della vecchia aristocrazia e l'ascesa della borghesia; la Rivoluzione introdusse a un livello mai conosciuto prima in Europa e realizzato solo parzialmente nel Nord America, la nozione di democrazia generalizzata. Anche se la particolare posizione della borghesia ebbe un ruolo cruciale, il simbolo chiave della Rivoluzione francese fu il citoyen, la categoria ‛cittadino', che includeva affatto esplicitamente l'uomo comune, che non aveva da vantare alcuno status superiore né in senso aristocratico né in senso borghese (v. Lefebvre, 19572). Non dimentichiamo che, accanto alla ‛libertà' e alla ‛fraternità', l'‛eguaglianza' era una delle tre grandi parole d'ordine della Rivoluzione, e che le ripercussioni di quest'idea guida non hanno cessato di farsi sentire fino ai giorni nostri. Possiamo dire, anzi, che la nostra epoca sta assistendo a una nuova ondata di egualitarismo.

La democrazia politica rientra nell'ambito più generale dei diritti civili, che il sociologo inglese T. H. Marshall (v., 1965) ha così acutamente analizzato per quanto riguarda il caso della Gran Bretagna. Essa fu preceduta, particolarmente in Inghilterra, da quella che Marshall chiama la fase giuridica, connessa specialmente allo sviluppo della common law. La fondamentale concezione dei ‛diritti del cittadino inglese' (nei confronti soprattutto dell'autorità del governo), che incorporava i grandi principi dello Stato di diritto e, per usare la terminologia costituzionale americana, dell'‟eguaglianza di tutela giuridica", ricevette una base istituzionale abbastanza solida già molto prima della Rivoluzione francese. Tale concezione si propagò rapidamente alla nuova nazione americana, dopo l'indipendenza, e in seguito, anche se non con la stessa rapidità, al continente europeo. È ben chiaro, infatti, che la democrazia, come fu intesa dalla Rivoluzione francese, traeva origine da una base giuridica fortemente caratterizzata in senso egualitario (v. Hurst, 1967).

Un punto di cruciale importanza nell'evoluzione dell'aspetto politico dei diritti civili è quello rappresentato dal diritto di voto. Lo studioso norvegese di sociologia politica S. Rokkan (v., 1961) ha persuasivamente dimostrato che, malgrado le sfasature temporali e il diverso rilievo nei vari paesi, in tutto il mondo occidentale esclusa la sfera a dominazione comunista si è sviluppato, con poche eccezioni, un comune modello di diritto di voto. Rokkan sottolinea in particolare tre componenti di questo sviluppo. La prima è rappresentata dall'universalizzazione del diritto di voto, che procedette dalle varie limitazioni, basate generalmente sulla proprietà, fino al suffragio universale per gli adulti. Un passo decisivo in questa direzione fu naturalmente la concessione del voto alle donne, che si diffuse largamente nel periodo successivo alla prima guerra mondiale ed è oggi quasi universale. La seconda componente sta in quel principio che la terminologia giuridica americana indica con l'espressione ‟un cittadino, un voto", principio che si è venuto affermando attraverso molte vicissitudini, che vanno dall'abolizione nel 1918 del discriminatorio sistema prussiano del voto per classi, ai cambiamenti, negli Stati Uniti, della distribuzione dei seggi parlamentari sotto la pressione di una serie di decisioni della Corte Suprema. La terza componente posta in rilievo da Rokkan è la segretezza del voto, che riduce in maniera sostanziale le pressioni esterne che possono essere esercitate sulle decisioni del singolo elettore.

È cosa ormai ben nota che né l'eguaglianza giuridica né l'eguaglianza politica in materia di diritti civili - e neppure una loro combinazione - garantiscono del tutto un'eguaglianza sostanziale. Marshall mette in forte rilievo l'importanza che ha avuto, alla fine dell'Ottocento e durante tutto il nostro secolo, l'emergere di ciò che egli chiama la componente ‛sociale' dei diritti civili. Più recentemente si parla a questo proposito di ‛Stato assistenziale'. L'idea basilare è che i diritti giuridici e politici del cittadino non possono essere efficacemente esercitati da chi è fortemente svantaggiato, soprattutto sul piano economico. Il movimento in questa direzione ha avuto, com'è noto, un primo e importante punto d'avvio con la legislazione promossa da Bismarck in Germania nel campo delle assicurazioni sociali; la sua diffusione è stata poi amplissima, tanto che si può affermare non vi sia alcuna società ‛industriale', comprese naturalmente quelle della sfera comunista, che non abbia elaborato un sistema di provvidenze statali tale da definire un minimo di benessere accessibile alla maggior parte della popolazione. Su questo argomento torneremo in seguito.

6. Il conflitto tra socialismo e capitalismo e le recenti tendenze delle strutture di classe

Una nuova importante spinta egualitaria e nuovi importanti conflitti sul problema dell'eguaglianza emersero, verso la metà dell'Ottocento, con la nascita del movimento socialista. È chiaro infatti che la Rivoluzione francese, per quanto genuino fosse il suo ideale di eguaglianza, non produsse una società veramente egualitaria, anche se contribuì certamente in maniera notevole, pur tenuto conto delle differenze tra nazione e nazione, al generale superamento del vecchio conflitto tra borghesia e aristocrazia. Persone di origine borghese cominciarono, in disparati contesti, ad accedere a opportunità economiche, a cariche e posizioni di potere nell'ambito statale e, soprattutto, ai simboli del prestigio, riducendo progressivamente il loro svantaggio nei confronti delle persone di origine aristocratica. Venendo più o meno fino ai tempi nostri, possiamo dire che sopravvivono soltanto alcuni residui, di scarsa importanza, dei privilegi aristocratici, legati per lo più alla posizione della monarchia costituzionale in quelle società in cui l'istituto monarchico non è stato ancora completamente abolito. Il movimento socialista, da parte sua, riconsiderò il problema della giustizia, contrapponendo alle classi borghesi e ai loro alleati (tra cui i residui delle aristocrazie), costituenti il vertice della piramide della stratificazione, tutti coloro che stavano al di sotto del livello borghese. Per ragioni storiche relative alla natura della rivoluzione industriale, l'attenzione si concentrò sulla condizione di quella che fu chiamata la ‛classe operaia'. Secondo il movimento socialista, la classe operaia comprendeva anzitutto prestatori d'opera dell'industria manifatturiera, ma la nozione è stata intesa anche in un accezione molto più ampia. Per un verso, infatti, si è ritenuto che ‛operaio' corrispondesse più o meno a ‛svantaggiato' e che ‛operai e contadini' dovesse essere la parola d'ordine fondamentale. Anzi, il movimento comunista cinese, sotto la direzione di Mao, fece proprio dei contadini la principale base politica per la conquista del potere, provocando in tal modo un aspro conflitto con il partito comunista russo egemonizzato da Stalin (v. Brandt e altri, 1952), conflitto prolungatosi sino ai giorni nostri, anche se in forme nuove. Per un altro verso, nei paesi comunisti soprattutto, ma anche in ambito più vasto, il concetto di ‛classe operaia' si è allargato al di là della storica distinzione per usare un'espressione americana tra ‛colletti blu' e ‛colletti bianchi' (v. Barber, 1957; v. Kahl, 1961). Nelle società comuniste, in cui la borghesia ha teoricamente cessato di esistere, si tende a considerare come appartenenti alla ‛classe operaia' tutti gli elementi socialmente accettabili; il concetto, così inteso, viene a comprendere anche gran parte di quanti sono dediti a quelle occupazioni che, nel mondo della società industriale, sono in genere proprie dei ‛colletti bianchi', ed è anzi stato esteso, sia pure in termini un po' ambigui, fino a comprendere quella che nell'Unione Sovietica è chiamata la intelligencia, cioè non semplicemente i lavoratori non manuali, quanto si potrebbe dire i lavoratori ‛intellettuali', come gli scienziati e i professionisti di formazione scientifica (v. Lipset e son, 1972).

Il punto essenziale delle controversie su socialismo e capitalismo, che culminarono verso la metà dell'Ottocento, fu costituito dal concetto di ‛classe' in quanto distinto da più antichi concetti come quello di ‛stati' (gli Stände tedeschi) (v. Weber, 1922). Già ai tempi della pubblicazione del Manifesto dei comunisti (1848) la riduzione delle classi, così intese, ai due soli termini di borghesia e proletariato costituiva chiaramente una grossolana semplificazione rispetto alla concreta realtà della struttura sociale dei paesi occidentali. I successivi sviluppi, soprattutto quelli iniziati negli ultimi anni dell'Ottocento e venuti progressivamente accentuandosi nel corso del Novecento, hanno reso questa semplicistica dicotomia sempre meno corrispondente alla realtà. Dobbiamo certo riconoscere che, nelle società maggiormente industrializzate, il vecchio dilemma se i contadini siano o no da includere nella categoria di classe operaia accanto alla forza-lavoro dell'industria è diventato, con la crescente urbanizzazione, un problema meno imbarazzante; in paesi come gli Stati Uniti, ad esempio, i braccianti agricoli sono diventati un settore secondario della classe operaia, che tuttavia si è dimostrato capace di dar vita a formidabili azioni di sciopero. Ma, a livelli più alti, i postulati marxisti intorno alla borghesia come classe essenzialmente ‛proprietaria', in quanto distinta dal proletariato, costituito soprattutto di lavoratori dipendenti, hanno progressivamente perduto la loro pregnanza. Il punto cruciale sta in quel fenomeno della separazione strutturale fra proprietà e controllo, su cui Berle e Means (v., 1933) richiamarono l'attenzione con riferimento soprattutto agli Stati Uniti. In tutto l'arco che va dal top management di quelle grandi organizzazioni che sono state spesso definite, anche se talvolta con qualche nserva, ‛burocratiche', giù fino alle funzioni operative ed esecutive di minor prestigio, l'accento batte anzitutto sulla ‛gestione'. La componente proprietaria, infatti, è attualmente in una posizione del tutto diversa da quella che aveva alla fine dell'Ottocento. Per la maggior parte degli osservatori sociali, con l'esclusione di chi si colloca politicamente sulle posizioni di una sinistra piuttosto estrema, la principale caratteristica del sistema di stratificazione delle più avanzate società industriali del nostro tempo non sembra consistere nel polarizzarsi della dicotomia di due gruppi chiaramente distinti, cioè secondo la terminologia marxista i proprietari e i lavoratori salariati. Questa dicotomia non è in grado di fornire una definizione sia pur minimamente adeguata dei principi della stratificazione del mondo contemporaneo.

A questo livello, ciò che riscontriamo è piuttosto la combinazione di due diversi principi. In primo luogo si ha, sotto l'aspetto gerarchico, una gradazione relativamente continua dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto - come è il caso, ad esempio, di certe scale di prestigio occupazionale (v. North e Hatt, 1947; v. Hodge e altri, 1964) - senza nette fratture né tra il livello dei colletti bianchi e quello dei colletti blu, né tra la componente manageriale e quella esecutiva. L'altro fondamentale principio è quello che potremmo chiamare ‛pluralizzazione': esso significa essenzialmente che le differenziazioni qualitative tra i vari settori della sfera occupazionale sono diventate di tali proporzioni da rendere sempre meno soddisfacente un'analisi che si limiti alla dimensione gerarchica (v. Laumann, 1973). Certe distinzioni tra organizzazione industriale e organizzazione statale sono chiare ormai da lungo tempo, anche se - va ricordato - uno dei fatti su cui Max Weber richiamava maggiormente l'attenzione era lo sviluppo in tempi recenti (recenti, s'intende, dal punto di vista del suo tempo) di comuni caratteristiche ‛burocratiche' nei due settori.

Un importante processo di modificazione si è avuto, inoltre, con la crescente importanza che sono venuti assumendo quelli che potremmo definire modelli ‛collegiali' di relazioni strutturali, incentrati sul concetto di associazione. In un certo senso, questi modelli possono essere considerati come ‛quasi aristocratici'. Vogliamo ricordare due esempi particolarmente notevoli. Diversi teorici - tra cui, in Italia, G. Mosca (v., 1923) - hanno messo in rilievo che la leadership politica nei regimi democratici ha una struttura simile a quella di una consorteria. In un certo senso, gli uomini politici, ai diversi livelli della struttura di governo, tendono a organizzarsi in gruppi di pari. Si tratta di persone che hanno affidato le proprie aspirazioni alla carriera politica, con tutti i rischi che essa comporta, ma che, tra loro, sanno mantenere una certa solidarietà e una certa eguaglianza di status. Vi sono indubbiamente, nei particolari, enormi diversità a questo riguardo, ma anche Weber sarebbe stato d'accordo nel riconoscere che una siffatta strutturazione delle relazioni non è fondamentalmente burocratica.

Consideriamo ora le professioni liberali, che sono venute conquistando una posizione di crescente rilievo nella struttura delle società moderne (v. Parsons, Professions, 1968). Esse condividono con la carriera politica certi relativi vantaggi derivanti dai modelli di eguaglianza delle opportunita. Nelle società ‛democratiche', infatti, non si può semplicemente asserire che le persone che arrivano al successo nel campo politico discendano da classi privilegiate, anche se si registra indubbiamente una certa tendenza in questo senso. Ciò è probabilmente ancor meno vero per quanto riguarda le moderne professioni, compresa quella accademica, che hanno avuto tradizionalmente una prevalente base di classe, ma che, come mostrano i fatti, hanno cominciato a perderla progressivamente.

Il più tipico esempio di collegialità è probabilmente rappresentato dalla tradizionale facoltà universitaria i cui membri, malgrado le inevitabili differenze personali, costituiscono per molti riguardi, sotto il profilo dello status formale, un'‛associazione di eguali' (v. Parsons, The academic..., 1968; v. Parsons e altri, 1973). Ciò è reso possibile in parte dal fatto che, secondo il tradizionale principio della libertà accademica, ciascuno dei membri della facoltà gode di ampia autonomia. Le decisioni collettive sono ridotte relativamente al minimo e, soprattutto nelle università nordamericane, la struttura egualitaria delle facoltà è rafforzata dal fatto che organismi strutturati in maniera notevolmente più burocratica, le ‛amministrazioni', si fanno carico di molte funzioni decisionali, tra cui le più importanti, forse, sono quelle in materia finanziaria. D'altra parte, nel campo delle scelte didattiche e delle nomine, le facoltà e le loro sottounità, i dipartimenti, hanno nei confronti delle amministrazioni una larga autonomia.

Un discorso simile si può fare per professionisti quali i medici, gli avvocati, gli ingegneri e gli appartenenti a talune categorie di più recente formazione. La pratica della professione è, in genere, relativamente individualizzata, anche se spesso ha luogo nell'ambito di gruppi cooperativi come gli studi legali e simili. I medici, soprattutto, sono venuti progressivamente organizzandosi negli staff degli ospedali, delle cliniche, ecc. Le associazioni professionali, inoltre, hanno assunto un ruolo particolarmente importante per quanto riguarda la definizione degli standard di preparazione professionale e delle condizioni di appartenenza alla professione; mi limito a dire ‛particolarmente importante', perché non si tratta certo di un ruolo incontestato. In paesi come gli Stati Uniti, ad esempio, benché sia richiesta una formale licenza per l'esercizio di queste professioni, è chiaro che chi principalmente determina gli standard di preparazione non sono certo organizzazioni quali l'American Medical Association o l'American Bar Association, e neppure le assemblee legislative statali che definiscono i requisiti necessari per gli esami di abilitazione; sono le scuole universitarie, che costituiscono d'altra parte i principali centri sia di formazione dei nuovi professionisti sia di ricerca nelle discipline attinenti alle professioni, a esercitare un rilevantissimo influsso in questo campo.

Questi gruppi professionali, per lo più, hanno naturalmente una collocazione piuttosto elevata nel sistema generale di stratificazione. Numerosi studi abbastanza recenti hanno anzi dimostrato che il loro grado di prestigio è identico a quello delle posizioni più elevate nel campo statale e imprenditoriale, e anzi, per certi aspetti, addirittura superiore (v. North e Hatt, 1947; v. Hodge e altri, 1964). È una scoperta, questa, che contraddice gran parte di ciò che, per lungo tempo, si era creduto riguardo, per esempio, agli Stati Uniti, dove l'uomo d'affari si supponeva fosse qualcosa di simile a un re. Un altro fenomeno molto importante è la penetrazione dei professionisti nelle organizzazioni statali e aziendali nella sfera statale troviamo soprattutto avvocati, ma anche molti professionisti di altro genere; in quella aziendale soprattutto ingegneri, ma anche un considerevole numero di avvocati; nell'una e nell'altra, inoltre, stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante gli studiosi di scienze sociali, specialmente gli economisti. Una conseguenza particolarmente importante di questa penetrazione è stato il notevole attenuarsi del carattere burocratico dell'organizzazione gerarchica o, per meglio dire, della stratificazione gerarchica di queste organizzazioni. La ragione di ciò sta nel fatto che, quando un'organizzazione comincia a dipendere dalla collaborazione di tecnici altamente specializzati in settori professionali, i loro superiori generalmente alti dirigenti o politici non sono evidentemente in grado di assumere una posizione di ‛comando' nei campi in cui questi professionisti svolgono la loro funzione, e ciò perché, in genere, non possiedono le competenze necessarie per svolgere essi stessi tali funzioni, e spesso neppure per valutarle. Per quanto essi possano essere competenti in uno o più campi, la varietà dei tipi di competenze richiesti da una moderna organizzazione è così grande da rendere impensabile che una persona sia competente in tutti i settori. Prendiamo l'esempio, particolarmente ovvio, dei presidi delle facoltà universitarie, che sono ordinariamente tratti dal corpo docente delle facoltà stesse se il preside di una facoltà di arti e scienze è, poniamo, uno storico, egli non può certo essere pienamente competente in tutte le svariate discipline rappresentate, nella sua facoltà, da specialisti di alto livello; non può essere allo stesso tempo uno storico, un economista, uno storico della letteratura, un matematico, o un antropologo. Nella misura in cui le sue decisioni investono campi diversi dal suo, non può far altro che avvalersi di un sistema di partecipazione consultiva. Il comando diretto è del tutto fuori discussione.

Questo tipo di struttura associativa la si riscontra, come è noto, in molti sottogruppi all'interno dell'ambito aziendale e di quello statale. Così, i consigli direttivi e di amministrazione sono corpi collegiali nello stesso senso in cui lo sono i corpi legislativi o le corti di giustizia composte da più giudici.

Un'importante caratteristica delle professioni connesse con l'attività delle aziende e dello Stato è il fatto che, per essere ammessi a esercitarle, è quasi universalmente richiesta una formazione specialistica di livello universitario. Questo fatto non solo ha avuto un'enorme importanza nel favorire l'apertura delle professioni all'eguaglianza delle opportunità, ma ha anche profondamente influito sulla natura della stratificazione, nel senso che lo status va progressivamente perdendo il carattere ‛ascrittivo' per divenire sempre più frutto di ‛acquisizione'.

7. Stratificazione ed eguaglianza delle opportunità

È cosa ben nota - e tuttavia va detta esplicitamente - che vi è un'istituzione la quale pone serie limitazioni ai modelli di eguaglianza delle opportunità si tratta della famiglia o, più in generale, dell'istituto della parentela che, da un certo punto di vista, è analogo alla nazionalità, nel senso che l'appartenenza a una determinata unità, familiare o nazionale, non può essere interamente volontaria o interamente dissociata dai vincoli ascrittivi (v. Parsons, 1970). All'interno di questa istituzione vi sono, naturalmente, differenze di ruolo a seconda dell'età e del sesso; la loro definizione varia nell'ambito delle diverse culture, ma è tuttavia riferibile a uno schema abbastanza costante. Per quanto riguarda l'età, ad esempio, nessuna società, soprattutto ai piu alti livelli occupazionali nei quali più che la mansione, conta la carriera assegna le posizioni più elevate a persone molto giovani, nemmeno a quei giovani che hanno raggiunto certe capacità; queste posizioni vengono normalmente conseguite dopo che si è prestato servizio, per un notevole periodo di tempo, ai bassi e medi livelli dell'organizzazione di appartenenza. Il diffondersi dell'istruzione scolastica, inoltre, ha aumentato, in media, l'età in cui ha inizio una piena e autonoma partecipazione al mondo del lavoro. Infine, tutte le società moderne, sia pure in modi diversi, hanno istituzionalizzato certe forme di regolamentazione del pensionamento, per cui le persone anziane, quando hanno oltrepassato i limiti di età stabiliti, sono private dei vantaggi e sollevate dalle responsabilità che caratterizzano le persone di età inferiore.

Più complicata è la serie di problemi riguardanti il ruolo dei sessi. Nell'epoca moderna vi è stato un notevole incremento della partecipazione femminile al mondo delle attività remunerative, esercitate prevalentemente, anche se non esclusivamente, al di fuori delle pareti domestiche (v. Parnes, 1968). Tale partecipazione ha subito brusche fluttuazioni in situazioni d'emergenza, come la guerra, ma generalmente non in misura tale da essere nportata completamente, passata l'emergenza, ai livelli precedenti. Due sembrano essere, fondamentalmente, i modelli motivazionali che stanno alla base dell'occupazione femminile. Il primo, i cui contorni non sono facilmente definibili, riguarda il bisogno, nei gruppi a più basso reddito, di aumentare le entrate familiari. Il secondo, che sta probabilmente crescendo d'importanza e caratterizza soprattutto le classi medie e medio-alte, include, accanto alla motivazione economica ma con un rilievo molto maggiore, il desiderio delle donne di fare qualcosa d'interessante e utile al di fuori della tradizionale sfera dell'educazione dei figli e del governo della casa. Almeno negli Stati Uniti, ha assunto proporzioni notevoli questo fenomeno molte donne, dopo che i loro figli più piccoli hanno cominciato ad andare a scuola, cercano un impiego fuori casa e anzi, non infrequentemente, intraprendono studi supplementari in modo da rendersi idonee per impieghi più qualificati. Tuttavia, per quanto avanti possano spingersi simili tendenze, sembra alquanto improbabile che l'asimmetria dei sessi riguardo ai modelli di partecipazione alla forza lavoro sia prossima a sparire del tutto. A nostro avviso, una simile evenienza sarebbe verosimile soltanto quando la famiglia stessa venisse praticamente a perdere il suo significato strutturale nella società. Anche se si va sempre più diffondendo una relativa libertà di divorzio, è tuttavia probabile che il fondamentale modello del matrimonio monogamico e l'organizzazione abitativa della famiglia - con una singola coppia parentale adulta e i suoi figli, relativamente immaturi, residenti sotto lo stesso tetto - siano destinati a durare più o meno indefinitamente.

Questa tendenziale preminenza della ‛famiglia nucleare' non è legata necessariamente a rigide regole di fedeltà sessuale. Ciò che conta è la partecipazione comune alla vita di tutti i giorni e alle responsabilità riguardanti i figli e la gestione domestica. Una donna che sia, in questo senso, una moglie e una madre responsabile difficilmente potrà godere di una completa indipendenza ed essere libera di plasmare la propria vita; nella misura in cui continuerà a farsi carico della maggior parte delle responsabilità domestiche, la sua partecipazione al mondo del lavoro ne risulterà in qualche misura limitata. In realtà, specialmente nelle classi medie, assai importanti nelle società industriali, per le donne coniugate si è avuto un notevole progresso verso una maggiore libertà e partecipazione alla vita extradomestica. Questo processo ha trovato un ostacolo nel forte calo della disponibilità di fidato personale di servizio, soprattutto per la cura dei bambini, ma anche per i lavori domestici. E comunque ovvia, per questi fenomeni, la dipendenza dallo sviluppo degli elettrodomestici nonché dalla creazione di centri come i supermercati, che permettono una maggiore efficienza nel fare la spesa. La tendenza, oggi in voga, a istituire centri di assistenza diurna per i bambini può dare un importante contributo a questa evoluzione, ma le possibilità che la situazione cambi radicalmente sembrano essere piuttosto limitate.

Vi è un'altra importante direzione in cui la famiglia incide sulla stratificazione. Anche se vi sono, probabilmente, considerevoli variazioni nelle diverse società, sembrano avere una notevole importanza, in primo luogo, la maggiore o minore solidarietà familiare, poi la sicurezza psicologica dell'individuo soprattutto nell'infanzia, infine i livelli di istruzione e di cultura. In generale, per quanto riguarda i vantaggi che l'ambiente può fornire allo sviluppo del bambino, è stato chiarito in maniera abbastanza definitiva, contro certe opinioni della passata generazione, che questo tipo di vantaggi è in funzione diretta della condizione socioeconomica; in particolare si è riscontrata una tendenza a ‛lasciare indietro' certi gruppi molto svantaggiati da questo punto di vista, quelli che negli Stati Uniti sono comunemente chiamati i ‛poveri'. Gli studi sull'argomento tendono generalmente a dimostrare che le situazioni domestiche svantaggiate sono, a un livello psicologico molto profondo, un fattore primario nel costituirsi dell'handicap scolastico dei ragazzi provenienti dalle famiglie talvolta definite ‛culturalmente deprivate' (v. Kagan, 19693; v. Coleman e altri, 1966; v. Mosteller e Moynihan, 1972; v. Gordon, 1971). Ciò, a sua volta, è in stretto rapporto con le possibilità di successo nel campo del lavoro, data la sempre maggiore connessione tra successo scolastico e accesso alle migliori opportunità di impiego (v. Jencks e Riesman, 1968). A quanto sembra, il problema della ‛povertà' così inteso è, in numerose società europee, meno acuto che negli Stati Uniti; sembra tuttavia pressoché universale la tendenza, ai livelli più bassi della scala socioeconomica, all'accumulo di handicaps interdipendenti, che rendono difficile, per gli individui che si trovano in queste condizioni, sfuggire a un circolo vizioso fatto di bassi redditi e di scarse possibilità di guadagno, di frequenti malattie sia fisiche che mentali, di handicaps nella capacità di trarre profitto dalle opportunità educative, e di numerosi altri fattori. Negli Stati Uniti questa situazione è complicata dall'importanza dei fattori razziali, responsabili di una presenza sproporzionata della popolazione negra nelle classi povere. È chiaro, tuttavia, che non si tratta affatto di un problema esclusivamente razziale, ma di un problema endemico nel tipo di stratificazione, con i suoi aspetti competitivi, proprio della società moderna, urbana e industriale. Così negli Stati Uniti, tra le persone classificate come povere, la maggioranza è nettamente bianca e non negra, anche se in percentuale i negri classificati in questa categoria sono più numerosi dei bianchi.

È noto come, nei loro aspetti redistributivi, le politiche spesso riassunte sotto l'etichetta dello Stato assistenziale, siano dirette a mitigare gli svantaggi di questi gruppi inferiori, anche se in molti casi vengono applicate in maniera eguale per tutti i livelli socioeconomici, com'è il caso, ad esempio, del servizio sanitario pubblico in molti paesi. Sembra tuttavia dubbio che i tipi più tradizionali di misure assistenziali redistributive, dominati come sono da considerazioni economiche, siano per se stessi sufficienti a eliminare, o a diminuire in misura significativa, l'incidenza degli svantaggi cumulativi sopra descritti.

Malgrado le tendenze egualitarie suaccennate, e malgrado le politiche dello Stato assistenziale, le società moderne, comprese l'Unione Sovietica e le altre del ‛campo socialista', presentano pur sempre, relativamente, un'elevata stratificazione, anche se le sue basi sono molto cambiate. La democratizzazione al livello dell'uguaglianza di fronte alla legge e del diritto di voto non ha affatto prodotto una distribuzione egualitaria del potere politico, anche se ha indubbiamente attenuato certe tendenze monopolistiche da parte dei gruppi politicamente privilegiati (v. Riesman e altri, 1950; v. Rose, 1967; v. Keller, 1963; v. Lipset, 1960); ancor meno è servita a eliminare, o a ridurre sensibilmente, le ineguaglianze nella distribuzione della ncchezza e del reddito. Ed è d'altronde ben noto che i livelli di reddito sono strettamente correlati a certi fattori di vantaggio o svantaggio sociale. Si propone quindi continuamente - e ai nostri giorni con rinnovata intensità - il problema della giustizia dei correnti modelli di distribuzione e dell'efficacia degli innumerevoli progetti, attualmente circolanti, per la loro trasformazione, progetti che vanno dalla rivoluzione totale fino all'istituzione di imposte negative sui redditi. È un fatto alquanto interessante che nella maggior parte delle società industriali ‛democratiche' il modello di distribuzione non abbia subito mutamenti fondamentali per un periodo di tempo notevolmente lungo (v. Miller, 1964). Senza dubbio, le misure assistenziali, l'imposizione fiscale progressiva e altri fattori del genere hanno attenuato le diseguaglianze, soprattutto alle estremità dell'arco distributivo. E non è difficile supporre che ulteriori, sostanziali attenuazioni in questo senso possano essere prodotte da politiche governative sagge e razionalmente fondate. Ma gli esempi forniti dalle rivoluzioni comuniste del nostro secolo fanno guardare con scetticismo alla possibilità che da una rivoluzione violenta scaturisca una utopistica società egualitaria, come le ideologie a esse collegate hanno persistentemente e insistentemente sostenuto. Se prendiamo il caso della Russia, è bensì vero che le vecchie aristocrazie ereditarie sono state, in pratica, completamente estirpate e che la borghesia proprietaria, se non estirpata, certo è grandemente scemata di importanza; ma, per quanto riguarda i principali modelli di organizzazione occupazionale, la società sovietica è ben lungi dal potersi dire egualitaria ed è assai più simile alle democrazie non socialiste del mondo occidentale di quanto il movimento rivoluzionario non avesse previsto (v. Lane, 1971; v. Parkin, 1969 e 1971). E, anche se abbiamo assistito, da qualche tempo a questa parte, a nuove ondate di rivoluzionarismo, possiamo mantenerci scettici circa le possibilità che eventuali successi di questi movimenti rivoluzionari riescano a realizzare l'utopia egualitaria.

Una considerazione pertinente è quella suggerita dai risultati di alcune recenti ricerche si è visto cioè che l'ideale liberale di una piena eguaglianza delle opportunità e di un'equa valutazione delle prestazioni conduce generalmente a una stratificazione piramidale molto accentuata. Il caso in cui ciò è stato meglio verificato è quello del lavoro scientifico (v. Zuckerman, 1970). Almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, appare molto chiaro che quando una persona presenta domanda formale per l'ammissione agli studi universitari, si trova di fronte a un modello assai sviluppato di eguaglianza delle opportunità e di equa valutazione delle attitudini e delle prestazioni, modello che si estende poi dall'ammissione fino alla piena acquisizione dello status professionale. È stato dimostrato che, in questo ambito, anche il problema, su cui si fa tanto chiasso, della discriminazione nei confronti delle donne si pone meno frequentemente e in termini meno gravi di quanto si è finora generalmente pensato. Accade nondimeno, ed è interessante, che il modello di stratificazione che emerge in questo contesto assuma la forma di una piramide molto ripida. In tutte le discipline (v. Zuckerman, 1970) emergono élites relativamente ristrette, cioè delle frazioni piuttosto piccole rispetto alla massa, poniamo, dei fisici professionalmente qualificati, forniti cioè di titoli dottorali. Scarsi sono gli indizi che i membri di queste élites raggiungano la propria posizione grazie a nepotismo o a qualche altra forma di favoritismo piuttosto che in base a un'equa valutazione dei risultati conseguiti. Ad ogni modo, il quadro risultante è ben lungi dal presentarsi, per quanto riguarda la preminenza professionale, come egualitario, e ciò sebbene la struttura accademica sia, come già abbiamo notato, abbastanza egualitaria.

Un altro esempio, su scala ridotta, di sviluppo sociale dominato da forti ideali egualitari è quello del kibbutz israeliano. Qui appare chiaro che il raggiungimento e il mantenimento del grado conseguito piuttosto elevato - di egualitarismo si sono resi possibili solo attraverso controlli sociali molto rigorosi e non già con il venir meno di tali controlli, tanto spesso idealizzato nella convinzione che il risultato della massima libertà sarebbe stato uno spontaneo modello egualitario. Come è stato dimostrato da Talmon-Garber (v., 1959), questo processo di controllo sociale è strettamente connesso al problema della famiglia e alle misure, relativamente rigorose, tendenti a mantenerla in una posizione molto più subordinata, all'interno della struttura complessiva, di quella che essa occupa nella maggior parte delle società moderne.

Vi sono altri tre aspetti dei moderni sistemi di stratificazione che è opportuno discutere brevemente. Vi è in primo luogo, come il lettore avrà notato, una stretta analogia tra il funzionamento del principio ereditario all'interno dell'aristocrazia e il suo funzionamento all'interno dei gruppi etnici o di quelle che talvolta sono chiamate ‛nazionalità'. Nel mondo moderno, certo, il matrimonio è venuto progressivamente a dipendere dalla volontà dei partners, liberandosi dalle pressioni esterne, soprattutto dagli accordi tra i genitori, come anche da certe regole restrittive riguardanti, ad esempio, la religione o l'appartenenza etnica. Ciò nonostante, finché la famiglia continua a essere l'agente della riproduzione e della socializzazione degli uomini, i fattori di continuità da una generazione all'altra e l'incapacità di una piena autonomia personale da parte degli individui molto giovani rendono inevitabile la sussistenza delle componenti ascrittive nello status all'interno della comunità.

La cristianità occidentale stabilì, e mantenne per molti secoli, il criterio secondo cui l'appartenenza, almeno formale, alla Chiesa Cattolica Romana era una condizione fondamentale per l'appartenenza, in qualità di cittadino, alla comunità societaria nel suo complesso. Con la Riforma le cose cambiarono e la formula cui si giunse, dopo il fallimento del tentativo controriformistico di sopprimere il protestantesimo, finì col determinare un pluralismo religioso nel mondo europeo, anche se, in ciascuna delle unità che lo costituivano, venne mantenuto il principio dell'omogeneità religiosa. Questa omogeneità, tuttavia, andò gradualmente riducendosi in favore della tolleranza religiosa e del pluralismo confessionale, e non più soltanto nel rapporto tra le varie unità politiche, ma anche all'interno di esse. In un certo senso, la conclusione logica di questo processo venne raggiunta già con la Costituzione degli Stati Uniti, proclamata poco dopo l'indipendenza della nuova repubblica, che sanciva la separazione tra Stato e Chiesa; se si eccettuano quei paesi in cui, come avviene nel mondo comunista, una specie di ‛religione politica' costringe a un tipo di osservanza assai simile a quello che era richiesto dalle antiche Chiese di Stato, oggi l'unità religiosa delle società politiche è diventata sempre più un ricordo del passato (v. Lipset, 1963, cap. 4; v. Herberg, 1956).

Si sono fatti notevoli passi avanti, anche per impulso del pontificato di Giovanni XXIII, verso l'istituzionalizzazione del cosiddetto ‛ecumenismo'. Tuttavia, R. N. Bellah (v., 1967) ha dimostrato che, a un altro livello, la comunità nazionale continua a essere caratterizzata da un certo tipo di unità religiosa, da una specie di ‛religione civile', come egli la chiama, o da una pluralità di religioni civili in certi casi di integrazione incompleta. Ciò concorda con il punto di vista dell'ultimo Durkheim, secondo cui una società, a determinati livelli rilevanti, deve costituire ciò che egli chiama una ‛comunità morale', la quale comprende una dimensione religiosa o, come egli dice, una ‟chiesa" (v. Durkheim, 1912).

In questo contesto va vista, io credo, la stratificazione della moderna comunità societaria. Per quanto importante possa essere il ruolo del conflitto di interessi, soprattutto a livello economico e politico, e per quanto globalmente rilevanti possano essere i modi in cui esso si manifesta, tuttavia la principale scala di prestigio sottostante ai modelli di stratificazione rimane radicata in una cultura normativa, il cui sfondo è in un certo senso religioso. È vero che, di tanto in tanto, essa viene sconvolta, almeno parzialmente, dall'irrompere dei movimenti rivoluzionari; ma come dicevamo poc'anzi, è nostra opinione che il rilievo politico assunto dai movimenti comunisti abbia solo parzialmente cambiato le cose. Si tratta in fondo di religioni ‛secolari', o politiche, in cui criteri come l'appartenenza all'organizzazione del partito comunista o l'osservanza della sua ideologia hanno preso bensì il posto delle vecchie ortodossie, esplicitamente confessionali, del cattolicesimo, del protestantesimo o anche dell'ebraismo, ma in cui, in linea di principio, i fondamentali criteri di stratificazione si basano ancora sulla cultura normativa divenuta dominante. Per di più, la società che ne risulta è ben lungi dall'essere veramente egualitaria. In un certo senso, i partiti comunisti, per quanto laici possano essere dal punto di vista della tradizione religiosa, giocano un ruolo in certo senso analogo, per alcuni aspetti, a quello che gli ordini religiosi hanno svolto all'interno della cristianità cattolica nel corso di gran parte della sua storia, ivi compresa la posizione particolarmente privilegiata assegnata ai loro membri nel contesto generale della stratificazione. E questo, comunque, un principio di stratificazione che, per certi riguardi, si interseca con quello che ha la sua base nel sistema occupazionale (v. Parsons, 1971). Le linee di stratificazione, in questo campo, sono molte e sovrapposte, ma il principio mi sembra relativamente chiaro.

La componente esplicitamente religiosa della stratificazione, in epoca relativamente moderna, si è strettamente intrecciata con la componente etnica, pur rimanendo nel contempo distinguibile da essa. Con l'emergere per le unità sociali politicamente organizzate dell'ideale di un'omogeneità etnica oltreché religiosa, si fece strada la tendenza a dare speciale risalto a un elemento etnico relativamente puro, che dava il tono alla comunità nazionale; ciò si è verificato, più che altrove, in Francia e in Gran Bretagna, come già s'è visto. Si può forse dire, comunque, che non è stato mai possibile raggiungere una stabile purezza etnica per una vasta popolazione nel suo insieme. Senza dubbio, l'egemonia di una determinata lingua è stata spesso saldamente istituzionalizzata, ma vi sono, anche qui, eccezioni molto notevoli: casi rilevanti, in epoca recente, sono quelli del Belgio e del Canada. Anche in alcune moderne società occidentali hanno avuto rilievo fenomeni analoghi a quelli dell'India e di altre società non occidentali, nelle quali le classi superiori si sono chiaramente identificate in base a un'origine etnica relativamente definita e, di conseguenza, l'origine etnica ha assunto il valore di un importante e autonomo simbolo di prestigio.

Tutto ciò ha cominciato, tuttavia, a cambiare in maniera notevole. Si può affermare che la società che ha svolto un ruolo di avanguardia in questo processo di cambiamento è stata quella statunitense. Data l'origine della sua popolazione, si può facilmente comprendere che la posizione predominante nel sistema di stratificazione, e non solo in esso, appartenesse, quasi come cosa naturale, a quello che è stato recentemente chiamato l'elemento WASP (White Anglo-Saxon Protestant: ‛bianco anglosassone protestante'). Fin dai tempi della dominazione coloniale vi fu, però, un problema latente circa lo status finale cui erano destinati i Negri africani che, come schiavi, entravano a far parte della società: problema che si è dimostrato una grande fonte di conflitti, esplosi particolarmente con la crisi della guerra civile più di un secolo fa e, in epoca molto recente, con il movimento per i diritti civili. Un'evoluzione diversa, ma non meno significativa, è quella relativa al fenomeno della massiccia immigrazione, in un regime giuridico di formale tolleranza della diversità, di elementi non anglosassoni. Anche se, ancora negli anni venti, un acuto osservatore francese, A. Siegfried (v., 1927), poteva parlare di due Americhe, l'America WASP e l'America ‛etnica', oggi, a non più di mezzo secolo di distanza, un tale giudizio è ben lungi dall'apparire plausibile: negli Stati Uniti sembra essersi sviluppato un modello di pluralismo etnico che è, sotto molti aspetti, parallelo e certamente interconnesso al pluralismo religioso (v. Laumann, 1973). Certo, anche prescindendo dal caso un po' particolare dei Negri americani (v. Parsons e Clark, 1966; v. Pettigrew, 1964), non si può dire che le considerazioni razziali non abbiano ancora un peso nella scala di stratificazione (v. Franklin, 1968). Tuttavia, la situazione è cambiata in modo assai concreto, come dimostra il venir meno di certe barriere e la conseguente maggiore importanza sociale per i membri, in particolare, del gruppo ebraico e di quello cattolico. Gli Stati Uniti non hanno ancora avuto un presidente ebreo, ma, per il resto, tutte le altre più importanti posizioni di prestigio nel paese sono state raggiunte da numerosi ebrei, compresa quella, prestigiosissima, di membro della Corte Suprema. Inoltre, un fatto di rottura, di grande valore simbolico, fu rappresentato dall'elezione di John F. Kennedy, che era di origine cattolico-irlandese e che fu, anche durante il suo mandato presidenziale, un cattolico credente e praticante. Il significato simbolico di questa rottura fu tragicamente sottolineato dall'assassinio di Kennedy e dalla grande emozione popolare che ne seguì.

A mio avviso, il pluralismo etnico ha non solo fatto grandi passi avanti nella società americana, ma costituisce un fenomeno generale delle società moderne, soprattutto di quelle occidentali.

Questo fenomeno è, per certi aspetti, un caso particolare di un fatto che i teorici della stratificazione sono piuttosto inclini a trascurare. Essi tendono a concentrare la loro attenzione sulla stratificazione dei singoli membri della società, considerati come unità fondamentali, forse con sottintesa polemica verso certe vecchie impostazioni che tendevano a trattare le unità collettive (aristocrazia, borghesia e simili) come le sole unità rilevanti nel sistema di stratificazione. Noi abbiamo già sottolineato che la solidarietà fondata sulla parentela rimane un fattore di centrale importanza nei moderni sistemi di stratificazione, ma ci sembra giusto aggiungere che questo non è che un esempio, particolarmente importante, del più generale fenomeno della stratificazione di collettività in quanto distinta dalla stratificazione degli individui che ne fanno parte. Così, nel campo delle moderne organizzazioni subsocietarie, vi sono indubbiamente modelli di stratificazione assai rilevanti. Due esempi significativi sono quello delle imprese e quello degli istituti di istruzione superiore. Negli Stati Uniti vi è una specie di ‛aristocrazia' delle imprese, quelle che vengono talvolta chiamate blue ribbon firms, tra cui banche, aziende manifatturiere, ecc. Anche nel mondo accademico vi è un'élite, costituita da università e colleges di alto prestigio: in un sistema di istruzione superiore come quello americano, il quale comprende qualcosa come duemila istituti in grado di fornire corsi quadriennali di primo livello (undergraduate), questa élite accademica è istituzionalmente costituita da una minoranza molto piccola (v. Jencks e Riesman, 1968). Similmente, in Gran Bretagna, ad esempio, godono di uno speciale prestigio le Università di Oxford e Cambridge e in Francia la Sorbona e l'École Normale Supérieure; così in Giappone, per uscire dall'orbita occidentale, l'Università di Tokyo si trova in una posizione di particolare prestigio.

8. La stratificazione tra le nazioni

Le stesse considerazioni basilari che si applicano a collettività interne a una società possono essere estese a gruppi di società, più o meno definite dal punto di vista nazionale. Sul piano politico emerge, ad esempio, la distinzione - quanto al prestigio - tra la posizione delle cosiddette ‛grandi potenze' e quella delle entità nazionali più piccole. Un'altra distinzione, particolarmente rilevante ai giorni nostri, è quella tra paesi ‛sviluppati' e ‛sottosviluppati'. Com'è noto, vi sono state appassionate discussioni intorno al problema se siano giuste le diseguaglianze esistenti tra le varie nazioni (v. Furtado, 1966). È un fenomeno, questo, che rientra sicuramente nella competenza della teoria della stratificazione sociale.

Nel corso del nostro secolo vi è stata una serie notevole di cambiamenti nei rapporti di prestigio e di potere tra i vari paesi. Sino alla prima guerra mondiale, ma anche dopo, le ‛grandi potenze' erano essenzialmente la Gran Bretagna, la Francia e, anche se gravemente scossa dalle sconfitte militari subite durante la guerra, la Germania; anche la Russia zarista, gli Stati Uniti e il Giappone occupavano una posizione di rilievo. La guerra ebbe come conseguenza, tra l'altro, la distruzione del regime zarista in Russia e lo smembramento dell'Impero austroungarico.

Si ebbe in seguito l'ascesa, legata soprattutto alla seconda guerra mondiale, delle due ‛superpotenze', gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. In rapporto a esse, la posizione delle vecchie grandi potenze, soprattutto Gran Bretagna, Francia e Germania, andò declinando nel corso della guerra e nel dopoguerra. Nel caso della Gran Bretagna e della Francia questo declino si accompagnò alla perdita dell'impero coloniale, che ebbe come conseguenza la creazione di un notevole numero di nuove entità nazionali indipendenti, per lo più raggruppate sotto la categoria di Terzo Mondo. Per quanto riguarda la Francia, un duro colpo le fu certamente inferto dall'occupazione tedesca durante la guerra, mentre la Germania finì per subire una seconda sconfitta, che condusse, questa volta, non solo a una spartizione, a quanto sembra duratura, della vecchia nazione germanica, ma anche all'annessione di vaste porzioni dei suoi territori orientali da parte dell'Unione Sovietica e della Polonia.

Un fatto molto notevole, comunque, è costituito dallo sviluppo di quella che, in senso ampio, possiamo chiamare l'unificazione europea (v. Friedrich, 1969; v. Namenwirth, 1963). Essa si è inizialmente avviata, per comprensibili ragioni, sul terreno economico, a partire dalla Comunità del Carbone e dell'Acciaio fino alla creazione della Comunità Economica Europea. Accanto a ciò, si è avuta quella che, per ironia della storia, non è stata soltanto la ricostruzione economica delle principali potenze uscite sconfitte dalla seconda guerra mondiale, Germania e Giappone soprattutto, ma la loro ascesa al ruolo di giganti nella produttività economica. In tal modo la Germania Occidentale, benché amputata rispetto al territorio prebellico, è diventata la prima potenza europea a occidente dell'Unione Sovietica e, per certi aspetti fondamentali, la nazione guida della comunità europea. Il Giappone, a sua volta, ha goduto di una fase di sviluppo economico senza precedenti, che lo ha già posto nella posizione di terza potenza economica mondiale, malgrado l'angustia del suo territorio. Infine, la Cina, emersa da un lungo periodo di sommovimenti interni e di consolidamento della sua particolare versione della rivoluzione comunista, è ormai rientrata nel mondo politico internazionale, con una chiara vocazione di grande potenza. Così, nel giro di pochi anni, abbiamo assistito a un considerevole arretramento della concezione della politica mondiale come rapporto tra le due superpotenze, concezione alla quale succede l'idea che stia emergendo una costellazione fondamentalmente pentapolare che comprende ovviamente gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, ma anche la Comunità Europea, di recente allargata, che ora può accrescere rapidamente la propria importanza politica e, in Asia Orientale, il Giappone e la Cina, da poco salita alla ribalta internazionale.

Molto si discute anche riguardo al problema della diseguaglianza tra le varie unità ‛nazionali', riguardo specialmente, come spesso si dice, alla crescente discrepanza di status, di risorse e così via tra l'élite opulenta del sistema di potere internazionale e le nazioni cosiddette ‛sottosviluppate' o in via di sviluppo (v. Amin, 1970). Questa diseguaglianza, spesso paragonata a quella esistente all'interno delle singole società nazionali, costituisce certamente un nodo importante nella discussione degli affari internazionali.

9. Conclusione: vi è oggi un equivalente funzionale delle aristocrazie tradizionali?

Torniamo ora all'ordinamento gerarchico dei singoli come dei gruppi all'interno delle società nazionali. Quando abbiamo affrontato in termini storici il problema dell'evoluzione della stratificazione nel mondo occidentale, abbiamo seguito, quale filo conduttore, l'ascesa dell'aristocrazia e le sue vicissitudini a partire dal Medioevo, ponendo decisamente l'accento sul fatto che in Europa lo status di classe superiore non fu mai monopolio esclusivo dell'aristocrazia, ma dovette da essa essere spartito, in maniera conflittuale, con la borghesia urbana. In un certo senso, tutte le società moderne, soprattutto quelle strutturate secondo il modello occidentale (ma certo non solo esse), si sono venute caratterizzando come società borghesi o, per usare un'espressione più comune in America, come società di ‛classi medie'.

È stato sostenuto da più parti che ciò sarebbe principalmente una conseguenza dello sviluppo del cosiddetto ‛capitalismo'. Non vi è dubbio che il capitalismo abbia operato in modo da scalzare progressivamente e dovunque le posizioni delle vecchie aristocrazie. Ma un processo in qualche modo parallelo si è avuto anche nel mondo socialista: la Rivoluzione russa ebbe l'effetto di spazzar via completamente le posizioni di prestigio dell'aristocrazia prima da quella che doveva diventare l'Unione Sovietica e, in seguito, dai paesi satelliti. Ma la ‛dittatura del proletariato' che in questi paesi si è preteso di istituire non ha avuto che un valore simbolico, significando in realtà la dittatura dei vari partiti comunisti e non di una classe sociale nel senso ordinano del termine. In realtà, tutte le cosiddette società industriali sono venute elaborando, in larga misura attraverso lo sviluppo del ‛sistema occupazionale', modelli di stratificazione alquanto simili tra loro, nei quali viene dato forte risalto allo status acquisito mentre va perdendo d'importanza il principio ereditario (v. Parsons, 1970). Devo però confessare, nel fare questa affermazione, di avere una conoscenza troppo frammentaria di quanto finora è avvenuto nella Cina comunista. Comunque, per quanto riguarda la principale potenza del campo comunista, cioè l'Unione Sovietica, sembrano esservi scarsi dubbi circa la somiglianza della sua gerarchia occupazionale con quella delle nazioni cosiddette ‛capitaliste' dell'Occidente.

Si è avuto, inoltre, un altro importante processo di mutamento sociale, che non abbiamo ancora trattato in questa sede e che ha già profondamente modificato le strutture della stratificazione nelle società industriali. Si tratta di un fenomeno che mi è sembrato legittimo definire rivoluzionario, intendendo però il termine nel senso in cui si usa, poniamo, a proposito della rivoluzione industriale piuttosto che di quella democratica, data l'assenza dei gravi episodi di violenza che solitamente accompagnano il rovesciamento di un regime politico: il termine appropriato mi sembra quello di ‛rivoluzione dell'istruzione'.

Gli studiosi della società moderna storici, economisti, sociologi e simili hanno appena cominciato, io credo, a rendersi conto in maniera adeguata della profondità del cambiamento che è stato introdotto, in primo luogo, dallo sviluppo della scolarità generalizzata e, in secondo luogo, dal costante incremento dei livelli di istruzione conseguiti da gruppi sempre più larghi delle corrispondenti fasce d'età della popolazione. La tendenza alla generalizzazione della scolarità, inizialmente limitata all'istruzione elementare, è venuta costantemente allargandosi all'istruzione secondaria e persino a quella superiore: questo processo è comune a tutte le società industriali, ma si è spinto avanti, più che in ogni altro luogo, negli Stati Uniti. Qui e, in grado leggermente minore, in altri paesi (e tra questi soprattutto, forse, il Giappone), dopo la seconda guerra mondiale siamo entrati veramente nella fase dell'‛istruzione superiore di massa'. Anche se questa tendenza può essersi leggermente attenuata in tempi recenti, negli Stati Uniti si è già raggiunto lo stadio in cui più della metà di coloro che compietano un regolare corso di studi secondari, accede a un qualche tipo di istruzione superiore (v. American Council on Education, 1969; v. Trow, 1970). È ben noto, tra l'altro, che nel sistema di istruzione superiore i settori in più rapida espansione sono di gran lunga quelli di secondo livello (post graduate) per la specializzazione professionale: è un fatto questo che richiederebbe un'accurata interpretazione comparativa nei diversi sistemi d'istruzione, soprattutto quello americano e quelli europei. Questo fenomeno, inoltre, è stato accompagnato da un incredibile sviluppo della dimensione istituzionale e della professionalizzazione della ricerca.

Per quanto riguarda la stratificazione, una conseguenza importante dell'istruzione superiore di massa è stata quella di svincolare l'accesso ai livelli più alti dell'istruzione dall'appartenenza a uno strato sociale elevato, composto in larghissima parte da elementi alto-borghesi nel tradizionale significato di classe del termine. L'istruzione superiore, da un lato si è resa più aperta a una competizione relativamente indipendente dalle condizioni socioeconomiche familiari; d'altro lato, la sua accresciuta diffusione quantitativa ha permesso l'inserimento nel sistema di elementi della popolazione che, un tempo, non avrebbero preso in considerazione gli studi superiori nemmeno come una possibilità. Questi sviluppi hanno determinato una situazione che è stata acutamente interpretata per la prima volta, a quanto mi risulta, da Jencks e Riesman (v., 1968): essi hanno sostenuto, con riferimento soprattutto alla società americana (ma il discorso ha una portata certamente più ampia), che la linea di divisione più importante all'interno del sistema di stratificazione è divenuta quella che passa tra coloro che sono entrati nel sistema dell'istruzione superiore e coloro che ne sono rimasti al di fuori. Attualmente, negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, sembra essersi iniziata una fase di reazione, da parte dei circoli politici, contro il generale programma di espansione dell'istruzione superiore e contro i privilegi accordati ai docenti come agli studenti. È difficile interpretare questa reazione, ma posso azzardare l'ipotesi che difficilmente si potrà invertire una tendenza che si è venuta consolidando nel corso di una generazione e anche più. Ci si dovrebbe invece attendere che l'istruzione superiore mantenga il suo carattere di massa e che anche la tendenza all'accrescimento quantitativo non debba interrompersi per un periodo piuttosto lungo. Le reazioni politiche, cosi come si sono configurate negli Stati Uniti durante gli anni settanta, rappresentano probabilmente una fase di un ciclo più generale: è presumibile cioè che questa reazione provochi a sua volta una controreazione quando gli umori attuali si saranno esauriti.

Anche se si tratta di un'affermazione un po' generica, sarei propenso ad avanzare l'idea che il ruolo delle persone ‛istruite' nelle società moderne - Bell (v., 1971 e 1973) direbbe ‟postindustriali" - tenda di fatto, col ridursi al minimo del principio ereditario, a presentarsi sempre piu come un nuovo equivalente funzionale dell'istituto storico dell'aristocrazia.

Malgrado tutte le discussioni circa il fatto che l'istruzione superiore ha provocato un processo di specializzazione cumulativamente crescente, che ha considerevolmente abbassato il potenziale di reciproca comunicazione tra le persone di alta cultura, rimane da fare una considerazione assai importante: cioè che questa tendenza alla specializzazione non è assolutamente un fatto a sé stante. Il mio punto di vista è che, come tante volte è avvenuto nei casi di differenziazione e di specializzazione, vi siano concomitanti e complementari tendenze verso nuovi livelli di integrazione. Per quanto riguarda il presente argomento, ciò vorrebbe dire che la nuova classe delle persone di cultura ha, al suo interno, certi livelli di integrazione che finora non sono stati in genere compresi, e ha acquisito anche se la cosa è assai contestata una posizione di generalizzato e diffuso prestigio che non è semplicemente in funzione dei risultati specialistici e del prestigio di singoli membri o sottogruppi di questa più vasta ‛comunità'. In altre parole, mi sembra molto ragionevole l'affermazione di Jencks e Riesman (v., 1968) secondo cui coloro che si sono sottoposti a una formazione superiore sono destinati a diventare generalmente, nelle società postindustriali, un gruppo di prestigio superiore.

Questa evoluzione può dimostrarsi instabile da molti punti di vista. Il più ovvio fattore di instabilità è dato dal fatto che il processo di inclusione, nell'istruzione superiore di massa, di porzioni sempre più larghe di popolazioni può significare una diluizione del prestigio relativo del settore istruito, così da fargli perdere ogni significativo carattere di élite. Naturalmente, altri fattori di instabilità potrebbero derivare, all'opposto, dal diffondersi di profondi sentimenti antintellettualistici che sono il frutto, in parte, di un atteggiamento culturale che svaluta l'intelligenza in favore della spontaneità emotiva, e in parte di un atteggiamento populista che sottolinea il conflitto tra i principi di eguaglianza, da un lato, e l'‛elitismo' delle classi più istruite dall'altro. Tutto sommato, sembra comunque ragionevole prevedere che la speciale importanza, recentemente emersa, dei gruppi altamente istruiti si dimostrerà, per una generazione o due, il fulcro di una sensibile ristrutturazione del sistema tradizionale di stratificazione. (V. anche capitalismo, comunismo, socialismo, sociologia, stato).

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