STROZZI

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 94 (2019)

STROZZI

Vieri Mazzoni
Sergio Raveggi

– Famiglia fiorentina abitante nel sesto di San Pancrazio e in seguito, con la suddivisione della città in quartieri, in Santa Maria Novella, nel gonfalone del Lion Rosso.

Ignote sono le origini, malgrado il tentativo di un discendente memorialista del primo Cinquecento, Lorenzo Strozzi, di esaltarne l’antichità attribuendole nel passato remotissimo una provenienza dall’Arcadia, poi un ruolo di primo piano nella fondazione di Firenze e infine nella rifondazione della città a opera di Carlo Magno, seguendo un fantasioso iter autocelebrativo simile a quello di altre casate illustri.

In realtà le notizie certe partono dal XIII secolo. La prima è del 1206, quando uno Strozza di Ardovino di Rosso compare come provvisore della curia di San Martino in un lodo per un debito contratto dal monastero di Passignano (Documenti dell’antica Costituzione..., a cura di P. Santini, 1895, p. 233). Le attestazioni superstiti dell’attività familiare comunque s’infittiscono solo dalla seconda metà del Duecento, dimostrandone la crescente importanza in ambito sia politico sia economico.

Famiglia popolana, gli Strozzi risultarono per la prima volta presenti nei consigli del Comune con Strozza di Ubertino e con Geri di Rosso nel breve periodo del regime ghibellino, dal 1260 al 1266. Non fu una scelta politica definitiva (né troppo marcata: non a caso furono assenti nelle liste di proscrizione compilate dai guelfi tornati al potere). Tuttavia, ancora nel 1280, al tempo della pace tra le parti gestita dal cardinal Latino, nell’elenco dei fideiussori per i ghibellini troviamo presenti Lapo del fu Geri e Strozza di messer Ubertino.

La lunga epoca della loro preminenza politica ebbe inizio con i governi del priorato delle Arti. Il loro primo priore, il giudice Ubertino dello Strozza, fu eletto nel 1284 e poi per altre cinque volte, fino al 1306; fu uno dei tre giuristi estensori degli ordinamenti di giustizia, leale fautore di Giano della Bella, come è provato anche dalla carica di gonfaloniere di Giustizia ricoperta dal fratello Rosso nel bimestre 15 febbraio-15 aprile 1294.

A seguire, altri dodici membri del casato ricoprirono fino al 1342 (cioè fino all’avvento della signoria di Gualtiero VI di Brienne, duca d’Atene) la più alta carica politica di Firenze, per un totale di quarantatré volte. Il grande numero di eletti attesta il rilievo degli Strozzi, proiettandoli ai massimi livelli dell’élite popolana cittadina, e prova altresì l’ampiezza dei rami nei quali era ormai sviluppata la famiglia, che dal secondo decennio del Trecento prese a qualificarsi con il prefisso ‘de’ davanti al cognome, tipico segnale di essere entrata nel novero dei casati eminenti. In questo settantennio emersero, tra gli altri, per frequenza nei collegi politici Rosso di Geri, Pagno di Strozza, Giovanni di messer Ubertino, Palla di messer Iacopo e Luca di Gerino, sia negli esecutivi di governo sia in numerosi incarichi, per i quali furono designati anche vari altri esponenti della famiglia, soprattutto in compiti che implicavano competenze economiche e, tra i primi membri di casate popolane, eletti anche come rettori nel territorio e fuori dei confini dello Stato fiorentino. Si erano schierati alla fine del Duecento con la parte nera, pur evitando di essere troppo coinvolti negli scontri di parte, e comunque avvantaggiandosi della scelta di quella che dal 1302 fu la fazione politica dominante.

Una brusca interruzione nelle elezioni al priorato per gli Strozzi avvenne nel breve periodo della signoria del duca d’Atene, a loro sicuramente sgradita; e infatti parteciparono a una delle congiure per detronizzarlo e con Marco di Rosso furono presenti in quel Collegio dei quattordici che con il vescovo doveva rifondare l’assetto istituzionale del Comune dopo la cacciata del duca.

Altrettanto rilevante risultò ovviamente la loro presenza nell’ambito delle corporazioni artigiane, fulcro del Comune popolare; furono membri dell’Arte dei giudici e notai (della quale messer Ubertino di Strozza fu console nel 1293) e del Cambio (sei iscritti nel 1300, titolari di tre distinte ditte, uno dei quali, Rosso, fu in quell’anno console, mentre altri consolati ricoprirono nel 1318 con Lapo di Strozza e nel 1327 con Ubertino di Rosso). La contemporanea coesistenza di uomini di legge e prestatori all’interno della famiglia costituiva una delle caratteristiche salienti dei cosiddetti grandi popolani come li definiva Dino Compagni con un’apparente contraddizione in termini.

La documentazione superstite nel Diplomatico e nel Notarile antecosimiano fiorentino attesta la notevole attività degli Strozzi come prestatori in ambito cittadino e verso uomini e comunità del contado (che spesso ricorrevano a questi mutui per fare fronte alle imposizioni fiscali fiorentine) e di Comuni vicini, come San Gimignano nel 1289, però limitata nel tardo Duecento e nel primo Trecento ancora all’ambito della Toscana centrale.

Le cifre dei mutui oscillavano da poche decine di fiorini a qualche centinaio, dimostrando un’attività feneratizia capillare, dal piccolo prestito concesso all’artigiano o al contadino a quelli di entità medio-alta, quasi mai comunque altissima, la qual cosa doveva renderli abbastanza immuni dai rischi dell’insolvenza, potendo rivalersi con l’acquisizione dei beni ipotecati; tra i prestiti più ingenti in questi anni ci fu quello di 5450 fiorini in due tranches agli appaltatori fiorentini della gabella del sale nel 1301 (Matteo di Biliotto, Imbreviature..., a cura di M. Soffici, 2016, pp. 120-122), mentre a partire dal terzo decennio del Trecento risultavano dopo i Bardi il gruppo familiare col più alto ammontare di prestanze versate al Comune di Firenze, superiori ai 20.000 fiorini (Becker, 1962, I, p. 99).

Incerta è invece la data della proiezione dei loro affari all’estero (Renouard, 1941, pp. 112 s.), databile forse intorno al secondo decennio del Trecento, quando compaiono prove dei loro traffici bancari presso la corte papale di Avignone e in altri mercati europei, confermati dal testamento di Rosso di Ubertino, socio in affari dei cugini Marco e Strozza, che fu il primo Strozzi del quale si sia conservato un corposo libro di Ricordanze, dove è verificabile la sua sagacia negli affari e nell’economia familiare (Rodolico, 1905, pp. 145 s.; Jones, 1980, pp. 353 s.). Fino agli anni Quaranta del Trecento i loro traffici internazionali furono comunque di portata imparagonabile rispetto ai giganti bancari Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli.

Il patrimonio immobiliare degli Strozzi risultò in accrescimento costante dagli ultimi decenni del Duecento. Insediati in città nella parrocchia di S. Maria Ughi e nelle confinanti parrocchie di S. Miniato tra le Torri, di S. Trinita e di S. Pancrazio, gli Strozzi diedero prova con le loro case, com’era tradizione dei clan familiari coesi, di forte radicamento in un’area del centro cittadino vicina al Mercato Vecchio; se una loro torre è documentata solo a partire dal primo Trecento, già nel 1284 avevano assunto il patronato dell’allora piccola e periferica chiesa domenicana di S. Maria Novella (Brown, 1902, p. 134), nella quale tre generazioni dopo la cappella familiare sarebbe stata affrescata col Giudizio universale di Nardo di Cione e arricchita con una pala d’altare di Andrea Orcagna.

Le proprietà rurali, già numerose sul finire del Duecento, erano in massima parte ubicate nel contado a ovest di Firenze (Campi, Settimo, Signa, Carmignano ecc.). Negli atti inerenti ai loro beni particolare rilievo dovette avere l’acquisto fatto nel 1295 di terre e case a Campi dai magnati Mazzinghi per il rilevante importo di 1500 libre (Ottokar, 1962, p. 70). Una generazione più tardi, nel 1325, Giovanni Villani nel descrivere le spedizioni di Castruccio Castracani nel contado fiorentino ricordava la capitolazione di un castello degli Strozzi «molto forte e bene fornito» nei pressi di Carmignano e di una loro fortezza detta Chiavello nei pressi di Montemurlo, rasa al suolo dalle truppe di Castruccio (Nuova Cronica, a cura di G. Porta, 1990-1991, l. X, pp. 386, 499). A oltre 5000 fiorini ammontava l’eredità in immobili che Rosso di Ubertino lasciò ai figli nel 1340, incrementata ulteriormente nella generazione seguente.

Ormai il loro profilo sociale era analogo o superiore a quello delle più potenti famiglie magnatizie, pur continuando a professarsi popolani. Lo dimostra la stessa identità dei loro nemici cittadini: nel 1316 furono obbligati dal vicario angioino Guido di Battifolle a fare pace con le antiche casate magnatizie degli Adimari e dei della Tosa, nel 1330 sfidarono l’ira del chierico Giovanni Acciaiuoli per avere molestato i lavoratori dello Spedale di S. Iacopo, del quale l’Acciaiuoli era rettore: a causa di ciò Giovanni di Ubertino e il figlio Piero furono scomunicati dal vicario del vescovo, anche se poi da Avignone una bolla di Giovanni XXII impose che venisse composta la lite. A prova di come l’aristocratizzazione di alcuni rami della famiglia fosse del tutto compiuta, nel 1333 il miles Francesco Strozzi fu a capo di un contingente di quattrocento cavalieri inviati dal Comune in soccorso a Ferrara assediata dal legato pontificio (ibid., l. XI, p. 780).

La larghezza del gruppo parentale, essendo ventotto le famiglie degli Strozzi censite nel 1351 (Goldthwaite, 1968, p. 33), faceva comunque sì che al suo interno coesistessero condizioni economiche sensibilmente diverse e anche divergenti comportamenti politici, come è dimostrato dal tumulto suscitato contro il regime popolare da Andrea Strozzi nel settembre del 1343, che «contro a volere de’ suoi consorti» aizzò il popolo minuto e la plebaglia per rovesciare il governo in carica, ottenendo sul momento un seguito larghissimo e però ben presto sbaragliato dai difensori del Palazzo, mentre i consorti riuscirono a costringere Andrea a fuggire dalla città prima che fosse sentenziata contro di lui la pena capitale (G. Villani, Nuova Cronica, cit., l. XIII, pp. 350 s.).

Come lascia intuire il numero stesso ventotto nuclei familiari gravati dal pagamento delle prestanze nel 1351, nella seconda metà del Trecento la consorteria degli Strozzi perse di coesione, e di fatto i suoi vari rami percorsero ognuno una sua parabola, differenziandosi per condizioni economiche, scelte politiche, status sociale.

Queste divisioni, che affliggevano tanto i differenti rami, quanto persino alcuni singoli nuclei familiari, emergono anche dall’analisi delle fonti giudiziarie. Nel 1360, per esempio, Ludovico di messer Niccolò ferì con un coltello Benedetto di messer Giovanni, e la sentenza di condanna menziona l’aggravante che la vittima era stato priore delle Arti – nel 1353 (Archivio di Stato di Firenze, Podestà, 1375, c. 68r; Priorista di Palazzo, ad annum). Venti anni dopo, nel 1380, Francesco di Goro addirittura ammazzò il fratello Paolo (Archivio di Stato di Firenze, Capitano del Popolo, 1255, cc. 1r-2r). Nel 1382, infine, messer Pagno di Leonardo con un complice aggredì Ghigo di Pagnozzo detto «Pagnozzino» ferendolo e menomandolo a una mano in modo permanente (ibid., 1496, cc. 69rv e 71rv).

La storia della consorteria dopo la metà del Trecento quindi dovrebbe essere una storia dei singoli rami familiari.

Per quanto possa apparire paradossale, le tempeste finanziarie degli anni Quaranta del Trecento aiutarono l’affermazione delle varie compagnie Strozzi dedicatesi alla banca. Si è detto come sino ad allora avessero avuto uno sviluppo soprattutto locale, mantenendo dimensioni limitate, assolutamente imparagonabili di fronte ai giganti finanziari rappresentati dalle compagnie Bardi, Peruzzi, Acciaiuoli. Quando però le strutture finanziarie di queste enormi società si sgretolarono, portandole al fallimento, proprio le dimensioni limitate consentirono alle compagnie Strozzi di salvarsi dalla catena di fallimenti, che travolse invece altre compagnie di medie dimensioni operanti all’estero, quali per esempio la compagnia Bonaccorsi di cui era socio il cronista Giovanni Villani (Renouard, 1941, p. 83; Luzzati, 1971).

Lo studio della Camera apostolica dimostra anzi che in capo a una quindicina di anni le compagnie Strozzi si erano affiancate alle altre fiorentine come nuove finanziatrici del pontefice, per importi di migliaia di fiorini d’oro, mantenuti almeno fino agli anni Settanta del Trecento (Renouard, 1941, pp. 264, 266, 272, 280, 299, 325, 357, 359, 364). Nel 1367 la compagnia di Carlo di Strozza poteva contare su un capitale sociale di circa 53.600 fiorini d’oro, il che la rendeva quanto meno paragonabile sul piano finanziario alle già citate super-companies degli anni Venti e Trenta (Brucker, 1962, p. 16 nota 60).

Naturalmente alcuni consorti continuavano a praticare il prestito su base locale come in passato: nell’Arte del cambio, ovvero nella corporazione che riuniva i banchieri attivi a Firenze e nel suo territorio, risultano per esempio immatricolati Carlo di Strozza sin dal 1344 – e all’epoca era già socio in una compagnia avviata con il padre Strozza di Rosso e il fratello Niccolò – e Filippo di Biagio nel 1364 (Mazzoni, 2010, Appendici, nn. 109 e 112). I banchi Strozzi dovevano avere una clientela altolocata – seppure non sempre solvibile – se nelle fonti giudiziarie si trovano dal 1345 al 1381 Giovanni di Lapo, Leonardo di messer Giovanni, Ludovico di Braccio e Marco di Rosso creditori insoddisfatti di uomini dei Bardi addirittura, e dei Donati, degli Infangati, dei Mozzi, dei Pazzi (Archivio di Stato di Firenze, Podestà, 117, cc. 150rv, 638, c. 47r, 1569, c. 87v, 1642, cc. 232v-233r, 3053, cc. 94rv; Capitano del Popolo, 1197bis, cc. 126v-127r).

Strozza di Rosso però non si era impegnato soltanto nel prestito se nel 1347 era immatricolato nell’Arte della lana, ovvero la corporazione che sovrintendeva alla produzione industriale dei panni di lana; dopo la sua morte alcuni dei figli lo seguirono anche in questa nuova attività: Carlo, Iacopo e Smeraldo erano tutti e tre iscritti sempre all’Arte della lana nel 1349, e solo un anno dopo, nel 1350, anche all’Arte di calimala, ossia la più importante corporazione cittadina, dedicata alla banca e al commercio internazionali (Mazzoni, 2010, Appendici, n. 109).

Carlo di Strozza proseguì su questa strada costituendo assieme ai figli Strozza e Azzolino una compagnia mercantile-bancaria attiva tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in affari con i lanaiuoli Del Bene (ibid.). A metà degli anni Cinquanta erano iscritti a Calimala anche i consorti Ubertino, Tommaso, messer Pazzino di messer Francesco e il già citato Marco di Rosso assieme ai figli Giovanni, Gregorio e messer Tommaso (nn. 109, 114). Messer Pazzino di messer Francesco continuò a commerciare in balle di lana almeno fino agli anni Settanta, perché nel 1376 lui e i soci ne avevano acquistate ben ottantaquattro di lana francesca, facendosele spedire via nave dalla Francia; ma nel maggio di quell’anno furono prese – rubate o confiscate, a seconda del punto di vista – dagli equipaggi di galee partite da Marsiglia e agenti – a loro dire – in ottemperanza del mandato del papa, allora in guerra con Firenze (Diario d’anonimo fiorentino..., a cura di A. Gherardi, 1876, p. 308 e nota 3).

Sembra invece essere tornato alla semplice produzione di panni di lana Filippo di messer Leonardo, che nel 1386 ci rimise più di 310 fiorini d’oro affidando la sua produzione a due ritagliatori dell’Arte di Por Santa Maria, mercanti però cessanti e fuggitivi, come recita la loro sentenza di condanna (Archivio di Stato di Firenze, Capitano del Popolo, 1680, cc. 48v-49v). Questo Filippo divenne il capostipite di una vera e propria dinastia di lanaiuoli, perché tutti e quattro i suoi figli – Leonardo, Piero, Pinaccio e Simone – ne seguirono le orme. Simone entrò nella ditta familiare come socio nel 1398, seguito da Leonardo nel 1406 e da Piero nel 1422; Pinaccio invece preferì aprire una propria bottega di lana a Londra, pur facendo saltuariamente affari con i fratelli (Goldthwaite, 1968, pp. 36 s., 41). Alla morte di Simone, suo figlio Matteo si unì agli zii Leonardo e Piero in una nuova società iniziata nel 1427 (p. 37).

Altri rami della famiglia si erano invece dedicati ai tradizionali investimenti fondiari, con esiti talora persino mirabolanti. Non desta alcuna meraviglia che Nofri di Palla, dopo essersi arricchito con il commercio internazionale della lana e con il prestito, avesse reinvestito i suoi guadagni nella terra divenendo un grande possidente in Toscana e che perciò alla fine del Trecento rifornisse regolarmente di grano i mugnai e i fornai fiorentini; ma stupisce invece che all’inizio del Quattrocento il figlio messer Palla fosse in grado di mantenere per alcuni giorni tutta Firenze con il grano prodotto dai suoi sterminati possedimenti (G. Pinto, Il libro del biadaiolo, 1978, pp. 129 s.; v. la voce Strozzi, Nofri in questo Dizionario).

Personaggio celeberrimo ai suoi tempi, colto umanista e vittima dell’esilio impostogli dalla prima signoria medicea, messer Palla di Nofri (v. la voce Strozzi, Palla in questo Dizionario) era considerato dai contemporanei uno dei cittadini fiorentini più ricchi, se non addirittura il più ricco, considerato che fu gravato con il più alto imponibile al catasto del 1427; e tuttavia questa strategia economica tutta volta agli investimenti fondiari si rivelò fallimentare nel lungo periodo, poiché comportava un’eccessiva immobilizzazione di capitali e garantiva basse rese in percentuale durante una congiuntura di alta pressione fiscale (Tognetti, 2009).

Tutte queste eccellenze nei campi della finanza, del commercio, dell’industria non devono però illudere sulle fortune complessive della casata, la quale rimaneva divisa in molti e distinti rami familiari: le portate al catasto del 1427 mostrano ben cinquantaquattro nuclei fiscali autonomi, nei quali erano censite duecentoquarantasei bocche (Archivio di Stato di Firenze, Inventario N/266, s.v.). E sebbene i calcoli degli studiosi del catasto attribuiscano proprio agli Strozzi lo status di consorteria cittadina più ricca – con il 2,6% di tutto il capitale netto imponibile e il più alto indice di ricchezza media per nucleo fiscale, ovvero 3724 fiorini – occorre ribadire come i loro interessi fossero molto diversificati, e talora divergenti, mentre i patrimoni e le relative proprietà risultavano ormai separati – e forse persino da svariate generazioni (Herlihy - Klapisch-Zuber, 1978; trad. it. 1988, p. 342; Goldthwaite, 1968, pp. 33, 37).

La documentazione mostra tracce di una incipiente sperequazione già dal Trecento.

Per esempio, alla prestanza del 1359 i mercanti e banchieri Carlo di Strozza e messer Pazzino di messer Francesco pagarono rispettivamente le somme iperboliche di 54 e addirittura 150 fiorini d’oro, ma il consorte Corrado di Paolo soltanto 3 fiorini d’oro – somma comunque indice di una discreta condizione economica (Mazzoni, 2010, Appendici, nn. 109, 111, 114). E se Ludovico di Marco fu in grado di pagare una dote di ben 600 fiorini d’oro per il matrimonio della figlia Lorenza con un Corsini nel 1357, l’Uberto di Strozza che fu priore delle Arti da marzo ad aprile del 1355 viene definito «molto povero» in una novella di Franco Sacchetti (Archivio di Stato di Firenze, Priorista di Palazzo, ad annum; F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, 1984, p. 266; Il libro di ricordanze dei Corsini..., a cura di A. Petrucci, 1965, p. 5). Similmente, alla prestanza del 1403 il possidente Nofri di Palla pagò 121 fiorini, ma il lanaiuolo Filippo di messer Leonardo 31 fiorini d’oro (Fabbri, 1991, pp. 16 s.). Al catasto del 1427 il latifondista messer Palla di Nofri risultò essere il primo contribuente fiorentino con più di 103.000 fiorini, ma lo seguivano a distanza siderale Francesco di Benedetto con 11.151 e Maddalena di Luchino con 9817, e poi Bernardo di Giovanni con 5646 e il lanaiuolo Matteo di Simone con 5256, i quali pure erano ricchissimi a fronte dei pur ricchi consorti accatastati per cifre varianti da 3000 a 2000 fiorini, o dei benestanti o appena agiati da 1000 a 500, fino ad arrivare agli indigenti come Mea di Nanni con 71, Barla di Stagio con 23, Marcello di Strozza con 10, o addirittura Rosso di Strozza con zero (Archivio di Stato di Firenze, Inventario N/266, s.v.; Herlihy - Klapisch-Zuber, 1978; trad. it. 1988, pp. 348, 351).

Come si può facilmente desumere dal successo economico di questi rami, nel secondo Trecento e nel primo Quattrocento, gli Strozzi mantennero l’alto rango sociale e il ruolo nell’élite popolana urbana che avevano raggiunto in passato. In particolare, nel quartiere cittadino di residenza arrivarono a soppiantare i vecchi maggiorenti, ossia gli Acciaiuoli (Brucker, 1962, p. 32). Anzi, talora la loro potenza suscitò qualche timore fra i concittadini, come dimostrano le voci – in realtà senza alcun fondamento, secondo il cronista Matteo Villani – di un’eccessiva pressione «per troppa baldanza e della famiglia e dello stato» di Carlo di Strozza, allora priore delle arti, nello sviluppo delle trattative della pace con Pisa nel 1364 (Cronica, a cura di G. Porta, 1995, l. XI, pp. 745 s.). Al contrario il loro ‘splendore’ ha suscitato l’ammirazione persino della critica moderna, tanto da essere considerati inferiori tra le famiglie patrizie fiorentine solo ai Medici (Goldthwaite, 1968, p. 31). Va da sé che a simili fasti si accompagnasse una politica matrimoniale adeguata.

Per il Trecento si hanno notizie di unioni matrimoniali con gli Alberti, i Corsini, i Guasconi, i della Luna, i Manetti, i del Palagio, i Rondinelli, i Rucellai (B. Pitti, Ricordi, a cura i V. Vestri, 2015, pp. 5, 10; La Cronica domestica di messer Donato Velluti..., a cura di I. Del Lungo - G. Volpi, 1914, pp. 135, 306; Diario d’anonimo fiorentino..., cit., p. 452; Fabbri, 1991, p. 213). Per il Quattrocento con le famiglie Acciaiuoli, Adimari, Angiolini, Arrighi, Arnoldi, Baroncelli, del Benino, Bischeri, Bonsi, Canigiani, Capponi, Cavalcanti, Gianfigliazzi, Ginori, Gondi, Macinghi, Malegonnelle, Mannelli, Manetti, Medici, Nasi, Parenti, Pitti, Portinari, da Rabatta, Ricasoli, Ridolfi, Rucellai, Salviati, Soderini, Squarcialupi, Vespucci, Vettori, Zati (B. Pitti, Ricordi, cit., p. 10; Fabbri, 1991, pp. 106, 213).

Naturalmente quelle cui si unirono erano tutte famiglie appartenute in tempi diversi al ceto dirigente cittadino – famiglie di ‘reggimento’, come usa dire dalla fine del Trecento – e le loro unioni matrimoniali testimoniano del costante predominio sociale esercitato dagli Strozzi per quasi un secolo e mezzo prima dell’età moderna. I quali Strozzi, di per altro, all’inizio del Quattrocento sentirono anche la necessità di certificare questo loro antico predominio sociale, se alcuni di loro chiesero a messer Leonardo Bruni di raccogliere informazioni per illuminare le loro oscure origini nel mentre che ricercava la documentazione necessaria alla stesura delle sue Historiae Florentini populi (Brucker, 1981, p. 41 e nota 77).

Quasi conseguente alle attività economiche e al rango sociale era ovviamente l’impegno politico. Dopo la cooptazione nel priorato delle Arti sin dai primordi, negli anni Ottanta del Duecento, gli Strozzi ebbero sempre accesso agli uffici della Signoria – e all’occasione seppero anche influenzare le decisioni degli esecutivi cittadini, come dimostra la già citata vicenda di Carlo di Strozza nel 1364. Sul piano squisitamente istituzionale il loro rilievo politico è testimoniato in modo anche più eloquente dalla partecipazione alle Balìe più importanti della storia fiorentina: Marco di Rosso presenziò a quella guidata dal vescovo di Firenze dopo la cacciata del duca di Atene nel 1343; Carlo di Strozza e Marcuccio di Uberto a quelle del 1382 che sancirono il ritorno in città e il reintegro nei diritti politici degli oligarchi cacciati quattro anni prima; messer Pazzino di messer Francesco e Strozza di Carlo a quella del 1393 che riformò lo Stato gettando le basi per la criptosignoria di messer Maso di Luca Albizi (Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico, 1903-1955, pp. 207, 403-405, 409 s.; Alle Bocche della Piazza..., a cura di A. Molho - F. Szmura, 1986, p. 154). E nel novero degli uffici straordinari conviene ancora citare la magistratura collegiale degli otto cittadini incaricati di sovrintendere alla guerra contro il papa dal 1375 al 1378 – e ribattezzati dal popolino come «gli Otto Santi» – tenuta da messer Tommaso di Marco, e, tra le molte ambascerie degli Strozzi, le cinque per terminare la guerra inviate alla Curia pontificia dal 1376 al 1378 e svolte eccezionalmente di seguito da messer Pazzino di messer Francesco (Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, cit., p. 293; Diario d’anonimo fiorentino..., cit., pp. 308, 327, 332, 349, 353).

In ambito politico si deve rilevare per il secondo Trecento una netta frattura – l’ennesima – tra consorti favorevoli alla vecchia oligarchia – Anibaldo di Bernardo, Carlo di Strozza, Corrado di Paolo, Filippo di Biagio, Paolo di Corrado, messer Pazzino di messer Francesco – e consorti favorevoli a una partecipazione allargata alle magistrature comunali – Marco e messer Tommaso di Marco (Mazzoni, 2010, Appendici, nn. 108-115; Brucker, 1962, pp. 128, 161 s.). Tutti però sembrano aver propugnato una maggiore apertura verso i magnati, se non proprio il superamento della loro esclusione dagli uffici della Signoria e dei Collegi (Brucker, 1962, pp. 115, 153 s., 209).

In particolare, messer Pazzino di messer Francesco fu più volte capitano della Parte guelfa, ovvero dell’associazione nella quale si riuniva l’oligarchia cittadina, mentre Carlo di Strozza, oltre a essere anch’egli un partefice, ne supportava le proscrizioni degli avversari (Mazzoni, 2010, Appendici, nn. 109, 144; Brucker, 1962, pp. 124 s., 339). Sebbene messer Pazzino di messer Francesco avesse avuto un pesante scontro verbale con Uberto di Pagno Albizzi nel 1356, Carlo di Strozza divenne uno dei capofila della fazione degli Albizzi, opposta a quella dei Ricci: fu lui che impiegò le proprie sostanze per sovvenire al ricciardo Bartolo di Giovanni Siminetti, salvandolo dal fallimento e così convincendolo a diventare un albizzesco, e fu sempre lui che concesse un altro prestito salvifico addirittura al capofazione avversario, Uguccione di Ricciardo Ricci, inducendolo ad accordarsi con gli Albizzi, e in tal modo annichilendone la fazione (Mazzoni, 2010, pp. 72 s., 81-83; Brucker, 1962, pp. 127, 248-250). Invece messer Tommaso di Marco avversava la politica oligarchica dei partefici, tanto che nel 1378 sostenne Salvestro di Alamanno Medici, allora gonfaloniere di Giustizia, nell’azione contro gli oligarchi che ne causò la sconfitta e l’esilio, e in seguito si accordò persino con i ciompi (Brucker, 1962, pp. 363-373, 389 nota 158).

La presa del potere dei lavoranti dell’Arte della lana colpì al cuore il fronte oligarchico degli Strozzi: Anibaldo di Bernardo, Carlo di Strozza, Corrado di Paolo, Filippo di Biagio e Paolo di Corrado furono tutti confinati – e Anibaldo e Corrado anche fatti sopramagnati (Mazzoni, 2010, Appendici, nn. 108-109, 111-113; Brucker, 1962, pp. 383 nota 139, 370). Al contrario, messer Tommaso di Marco venne fatto cavaliere del Popolo dai ciompi e acquisì un notevole potere personale, che mantenne anche dopo la loro caduta, durante il cosiddetto regime delle arti (Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, cit., p. 323; Brucker, 1981, pp. 64 s.). I quattro anni del nuovo regime furono oltremodo convulsi per la consorteria: nel 1378 Anibaldo di Bernardo fu condannato a morte per aver complottato con i ciompi allora in esilio; nel 1379 messer Pagno di Leonardo, priore di S. Lorenzo, organizzò un rivolgimento di Stato, ma venne scoperto e denunciato dal consorte Marco, e quindi confinato; in quello stesso anno messer Tommaso di Marco denunciò un altro complotto, nel quale era coinvolto Filippo di Biagio, e per il quale fu giustiziato; nel 1380 Nofri di Pagnozzo e Strozza di Carlo furono fatti magnati, Leonardo di messer Giovanni e Marcuccio di Uberto interdetti dagli uffici pubblici (Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, cit., pp. 336, 342 s., 353-358, 362 s.; Diario d’anonimo fiorentino..., cit., pp. 394, 405, 407-409, 447; Brucker, 1981, p. 63). Intanto il potere personale di messer Tommaso di Marco arrivava al culmine: nel 1380 cercò di far avvelenare l’oligarca messer Lapo di Lapo da Castiglionchio, allora in esilio, e nel 1381 si trovò a capeggiare una fazione (Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, cit., pp. 387, 392 s.). Alla caduta del regime delle arti, però, gli oligarchi poterono tornare in città, cosicché nel gennaio del 1382 messer Tommaso di Marco fu a sua volta condannato a morte e costretto alla fuga, mentre suo figlio Iacopo e il consorte Iacopo di Ubertino vennero confinati (ibid., pp. 387, 392 s., 399-401, 408 s.; Brucker, 1981, p. 79).

Forse il ritorno degli oligarchi e l’annullamento delle condanne e dei provvedimenti restrittivi incoraggiò alcuni consorti degli Strozzi a tenere atteggiamenti di grandigia, degni dello status di magnati e sopramagnati loro comminato negli anni passati, fatto sta che nel 1387 per una futile questione di gioco Pagnozzino di Pagnozzo uccise il lanaiuolo Piero Lenzi, allora facente parte dei Collegi con la carica di gonfaloniere di Compagnia (Diario d’anonimo fiorentino..., cit., p. 473). La Signoria reagì in modo durissimo, sottoponendo Pagnozzino, il fratello Nofri – fuggiti entrambi a Lucca – e i loro figli al bando, alla distruzione dei beni, infine alla vendetta dei Lenzi, ma soprattutto escludendo dagli uffici e iscrivendo nelle liste magnatizie l’intera casata, a meno che i due fuggitivi non fossero consegnati alla giustizia o uccisi dai consorti entro tre anni (ibid., p. 474; Brucker, 1981, pp. 32 s., 99). In realtà l’interdizione dell’intera casata non si applicò mai, perché la Signoria accondiscese subito a mitigare le sanzioni contro la consorteria, la quale evidentemente godeva di forti aderenze nel nuovo regime oligarchico, e di conseguenza poteva influenzarne gli esecutivi (Brucker, 1981, p. 99 nota 133). A distanza di un anno, poi, i Lenzi aggredirono illegalmente una comitiva di Strozzi non sottoposti alla vendetta, ferendo un loro famiglio, e in tal modo si esposero a una controdenuncia (p. 32). L’aspetto più interessante dell’intera vicenda, in definitiva, sono gli accordi intercorsi tra esponenti della consorteria, desumibili dalla corrispondenza di Corrado, e volti a contrastare l’azione legale dei Lenzi, e nei quali si può leggere una qualche parvenza di ritrovata solidarietà consortile (p. 32 nota 21).

Questa solidarietà, se mai fu ritrovata, venne comunque ripersa in pochi anni. Tra il 1393 e il 1411, negli anni della criptosignoria di messer Maso di Luca Albizi, gli Strozzi continuarono a far parte del reggimento (pp. 302-311). Ma ciononostante all’interno della consorteria sopravviveva anche una tendenza contraria, come durante gli anni Settanta: nel 1400, infatti, Bernardo di Giovanni e Marco di messer Tommaso – il figlio del cavaliere del Popolo – furono confinati con l’accusa di essere coinvolti in un complotto contro l’establishment (Alle Bocche della Piazza, cit., p. 220). Infine pochi anni dopo, nel 1406, alcuni consorti chiesero alla Signoria di essere legalmente separati da Francesco di Giovanni di messer Niccolò, conosciuto come uomo violento e aggressivo, in quanto «ipsi nollunt quod sub umbra favoris consortium ipse faceret iniuriam alicui» (Brucker, 1981, p. 44 nota 95). A ogni buon conto, la consorteria nel suo complesso manteneva un rilievo politico e sociale considerevole, se lo scrutinio per gli uffici della Signoria e dei Collegi tenuto nel 1411 vide l’affermazione di ben quindici su settantaquattro suoi esponenti eleggibili, e se questi quindici abilitati rappresentavano da soli l’8% degli abilitati per il quartiere di Santa Maria Novella (p. 296).

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