ṢŪFISMO

Enciclopedia Italiana (1936)

ṢŪFISMO

Carlo Alfonso Nallino

. Voce coniata, sotto la forma latina Ssufismus, dal tedesco F. A. Tholuck nel 1821, per rendere l'arabo taṣawwuf che, presso tutti i popoli musulmani, designa ciò che i cattolici francesi moderni chiamano spiritualité o théologie spirituelle, cioè la somma dell'ascetica e della mistica, alle quali spesso gli scrittori musulmani, a cominciare con al-Ghazzālī (v.; morto nel 505 eg., 1111 d. C.), aggregano anche la morale ordinaria a base religiosa. Chi professa il taṣawwuf quale norma della propria vita o quale sistema dottrinale da lui accolto è detto ṣūfī, donde fu derivata la voce astratta ṣūfismo.

A evitare equivoci assai gravi si avverte che nella presente trattazione le voci ascetica (o ascetismo) e mistica saranno adoperate nel loro preciso significato teologico: la prima per indicare il complesso di pratiche devote, non estensibili alla maggioranza dei fedeli, le quali, attraverso una serie ordinata e perseverante di preghiere, di rinunzie e di atti, mirano al distacco completo dalle passioni terrene, all'espiazione eventuale di colpe proprie o altrui e alla perfezione spirituale in senso religioso; la seconda per designare il complesso degli stati straordinarî (soprannaturali) d'orazione, che nel loro grado massimo portano a cognizioni religiose superiori, alla conoscenza intuitiva di Dio, all'unione dell'anima con Lui in questa vita, e che, a differenza dalle perfezioni ascetiche, non si considerano raggiungibili per effetto degli sforzi e dei meriti del credente, ma soltanto quali grazie straordinarie di Dio. I due vocaboli saranno parimenti adoperati per indicare lo studio e la guida di quelle pratiche e di quegli atti, ossia rispettivamente la teologia ascetica e la teologia mistica.

Cenno storico. - Com'era naturale, nell'islamismo l'ascetica precedette cronologicamente la mistica, e l'una e l'altra sono, in realtà, fuori dello spirito genuino dell'islām primitivo. Gli eremiti cristiani sono ricordati con benevolenza nel Corano, così come lo erano stati nella poesia araba preislamica pagana, ma non proposti come modelli da imitare; né l'islamismo, divenuto, nell'ultimo decennio di vita di Maometto, oltre che religione anche stato guerriero, nel quale il Corano prometteva ai credenti, quale premio di Dio, le spoglie opime tolte agl'infedeli, era atto a spingere a vita ascetica. Il celibato contrastava con l'insegnamento e con la pratica di Maometto, poligamo e sensuale. La mistica poi, per il suo presupposto d'una comunicazione diretta con Dio e per altri punti dottrinali, era incompatibile con il modo coranico di concepire i rapporti fra Dio e l'uomo. Tuttavia, ancor vivo Maometto e ancor più nella generazione successiva, non mancò un piccolo numero di persone viventi in povertà, tutte devozione, trascorrenti parte della notte nel salmodiare il Corano tra genuflessioni e prostrazioni, con gli occhi arrossati dal pianto e dalla veglia: asceti rudimentali, che accompagnavano le schiere marcianti alla conquista degli antichi imperi, incitandone l'ardore in nome di Dio, oppure intervenivano nelle guerre civili, o anche, soli o in gruppi, agitavano le popolazioni contro i governanti, accusati di deviazione dalle buone norme di Maometto e d'ingiustizia. Accanto a questo tipo d'asceti agitatori politici e guerrieri, ne sorse presto un altro, favorito senza dubbio dall'esempio del monachismo e cenobitismo cristiano (assai meno da quello dei monaci buddhisti mendicanti nella Persia di NE.): il tipo del devoto, che segue pratiche ascetiche non ancora ben definite e si tiene lontano dal mondo, pur non vivendo né in eremi né in conventi, sia per brama di servir Dio e per timore delle pene infernali, sia per reazione contro le lotte intestine e contro la vita gaudente ch'era conseguenza delle immense prede di guerra contro gl'infedeli.

Sul finire del secolo I eg., con al-Ḥasan al-Baṣrī (morto nel 110 eg., 729), incontriamo pratiche ascetiche anche in un teologo, senza che sia possibile decidere s'egli avesse elaborato per ciò un sistema dottrinale. La moda letteraria alla corte degli ‛Abbāsidi a Baghdād venne anche prestissimo in aiuto, ché la traduzione dal pahlawī in arabo del romanzo buddhista detto in occidente di Barlaam e Josaphat (v.) e la ripresa di spunti melanconici sulla caducità della vita ricorrenti in alcune poesie arabe preislamiche fecero entrar nella letteratura ampie riflessioni pessimistiche e perfino capitoli interi di poesie celebranti la rinunzia ai beni mondani nei canzonieri di poeti dissoluti al massimo grado. Intorno alla metà del sec. II eg., per designare persone devote dei due tipi indicati troviamo, fra i varî vocaboli, anche l'epiteto di ṣūfī, derivato dal loro frequente vestire il burnus (v.), rozzo saio con cappuccio, simile a quello di molti frati, fatto di ṣūf ossia di pelo di cammello.

In questo ascetismo tetro, che aveva le radici nel terrore della colpa e della vita futura, in un senso d'umiliazione davanti a Dio, in un abbandono passivo ai supposti decreti divini, e che si esauriva nelle privazioni e in recitazioni interminabili di testi coranici e di formule pie, mancava il concetto più elevato di ascetica quale metodo di perfezionamento graduale dell'anima nelle virtù religiose, come mancava o scarseggiava il soffio ravvivante del sentimento d'amore verso la divinità. Alla doppia lacuna, in alcuni speciali ambienti religiosi e in contrasto con le idee ortodosse dominanti, provvide la seconda metà del sec. II eg., VIII d. C.; poiché in essa si formò, da un lato, una vera metodologia di progressive tappe ascetiche nella quale non sembrano esser mancati influssi cristiani orali, e dall'altro si presentarono casi di trasporto entusiastico, di follia amorosa verso Dio, della quale uno dei primi e più celebri esempî è quello d'una devota araba d'al-Baṣrah, Rābi‛ah al-‛Adawiyyah, morta nel 185 eg., 801. Con l'amore fu aperta la via alla mistica propriamente detta; presto il sūfī non fu più soltanto l'asceta, ma anche il mistico. Il concetto della possibilità di unione intima, di fusione dell'anima con Dio nei rapimenti estatici, e la distinzione netta fra gradi di perfezione ascetica da un lato e di stati mistici dall'altro appaiono ormai chiari presso i ṣūfī all'inizio del sec. III eg. (com. 816) dalla Mesopotamia e dalla Persia all'Egitto; e in questo fatto sembra difficile non vedere un notevole contributo cristiano recato per via orale. Del resto, parallelamente a ciò, ma in ambienti musulmani intellettualisti, una corrente mistica penetrava per altra via e lasciava poi orme profonde in gran parte della filosofia araba: la traduzione di estratti dai libri IV, V, VI delle Enneadi di Plotino, posti sotto il nome di Teologia d'Aristotele, durante il califfato d'al-Mu‛taṣim (218-227 eg., 833-842), e la versione d'altri testi neoplatonici. La lotta tra il ṣūfismo e le varie scuole teologiche fu lunga e aspra. I ṣūfī pretendevano di giustificare le loro novità, proclamandole trasmesse regolarmente da un insegnamento esoterico, cioè riservato, che Maometto avrebbe confidato soltanto a una piccola eletta di compagni, tra i quali il primo e il quarto califfo (Abū Bekr e ‛Alī); ma gli avversarî avevano ragione di sostenere il contrasto della dottrina ṣūfica con quella genuina di Maometto e dei suoi compagni. Il concetto stesso di amore verso Dio, quale l'insegnavano i mistici, sembrava a molti teologi un indecoroso abbassare la divinità al livello dell'uomo, nel quale l'amar Dio dovrebbe consistere soltanto nell'adorarlo e nell'obbedirne i precetti rivelati mediante la legge religiosa. V'erano poi gli altri capi d'accusa ai quali la mistica si espose anche nel cristianesimo occidentale: dottrine che potrebbero far credere alla possibilità d'una vera identificazione sostanziale dell'anima con Dio negli stati mistici eccelsi; frasi sfuggite nell'ebbrezza dell'estasi, le quali, prese alla lettera, sarebbero empie; allegorie e interpretazioni di testi sacri non conformi alla tradizione ortodossa; abusi morali e sociali che derivano dalle illusioni degli pseudo-mistici; svalutazione dell'intellettualismo e della teologia speculativa e svalutazione altresì dell'importanza del rituale, con conseguente pericolo d'indifferenza tra le varie religioni positive; possibile contrasto fra le verità di fede insegnate dalla teologia e quelle che si presumono comunicate da Dio al singolo per via mistica, ecc. L'islamismo, privo d'una Chiesa gerarchicamente costituita, non poteva reagire contro siffatte dottrine o tendenze pericolose con l'efficacia e prontezza che furono possibili nel cristianesimo d'occidente; d'altro canto il ṣūfismo, per moltissime anime, veniva a colmare la grave lacuna sentimentale dell'islām, nel quale pareva che la religione consistesse tutta nelle formalità complicate delle pratiche del culto, nella credenza cieca e, per alcuni, nell'intellettualismo della teologia speculativa. La conciliazione fu assai lunga e dovuta a maestri e scrittori d'un ṣūfismo moderato (primo forse tra essi il baghdādino al-Giunaid, morto nel 297 eg., 909-910), i quali, essendo anche teologi e giuristi, affermarono energicamente che prima condizione per mettersi nella via mistica era l'osservanza stretta del rituale ordinario e la fede salda nei dogmi, riprovarono che si dessero in pasto al volgo i segreti dell'unione mistica e che si incoraggiassero vocazioni false e ambiziose, ed esigettero una guida spirituale assidua e lunga, un direttore di coscienze (figura ignota all'islamismo fuori del ṣūfismo) per chiunque intraprenda il cammino ascetico-mistico. Al-Ghazzālī fece l'ultimo passo decisivo, applicando il sentimentalismo ṣūfico anche alle pratiche del culto ordinario e alle occupazioni sociali quotidiane, portando così una vita sanamente emotiva là dove parevano essere soltanto freddo ritualismo che non parla al cuore e precetti aridi di morale. A ogni modo, fra i sunniti (v.) od ortodossi continuò sempre a esistere un certo numero di avversarî del ṣūfismo che non fosse ristretto a un insegnamento di morale ordinaria: ossia la maggioranza dei ḥanbaliti (v.) e i partigiani della scuola salafiyyah, che non ammette nel campo teologico metodi e dottrine estranei al Corano e alla sunnah. Naturalmente, dai dotti di qualsiasi scuola sunnita sono avversate le degenerazioni popolari del sufismo che si manifestano negli eccessi del culto dei santi, soprattutto viventi (v. islamismo, XIX, p. 611), e nelle cerimonie di molte confraternite religiose (v. confraternita: Le confraternite religiose musulmane). Invece il ṣūfismo non attecchì fra le sette sciite, per ragioni varianti da setta a setta, e nemmeno fra gl'ibāḍiti (v.). Del ṣūfismo esagerato, che si sviluppò dal sec. VI eg. (XII) in poi e che ha spiccate apparenze moniste e panteiste, sarà fatto cenno più avanti.

Dottrine. - Contrariamente all'opinione dominante nel cristianesimo occidentale, ascetica e mistica per i ṣūfī sono le due parti di un unico cammino, delle quali la prima è preparazione indispensabile alla seconda, malgrado la diversità sostanziale degli atti ascetici dagli stati mistici. Chi percorre quest'unico cammino passa per tre stadî fondamentali: quello di aspirante (murīd) o principiante (mubtadi'), quello di progrediente (sālik) se giunto ai gradi più elevati del tirocinio ascetico, e quello di arrivato (wāṣil) o perfetto (kāmil) se ha raggiunto gli stati mistici; stadî e nomi eguali a quelli correnti fra cristiani greco-orientali, come S. Giovanni Climaco morto verso il 600 (nel cattolicismo quei tre gradi si riferiscono abitualmente alla sola ascetica). Il cammino (ṭarīq, sulūk) va percorso in tappe successive, ognuna delle quali dai più si considera presupporre di necessità il compimento della precedente; esse, fin che si è nel campo dell'ascetica, portano il nome di maqām, cioè stazioni, fermate. Varia fra gli autori il loro numero; nella classificazione di as-Sarrāǵ (morto nel 378 eg., 988) sono sette: 1. pentimento d'ogni menoma colpa (tutti i trattatisti la pongono come punto di partenza della via ṣūfica); 2. scrupolosa delicatezza di coscienza, molto superiore a quella dell'uomo ordinario, quindi astensione da quanto possa lasciar nascere un sospetto di scorrettezza; 3. rinunzia assoluta ai beni del mondo anche se leciti senza dubbio; 4. povertà (v'è questione se la mendicità sia lecita quale atto di umiliazione); 5. sopportazione rassegnata d'ogni avversità; 6. affidamento di sé stesso a Dio, eliminando ogni preoccupazione; 7. riḍā, ossia stato perenne di soddisfazione per quanto avvenga di bene o di male all'asceta, corrispondente all'ἀπάϑεια posta fra l'ascetica e la mistica da S. Giovanni Climaco e alla conformitas o resignatio collocata al vertice sommo dell'ascetismo dagli scrittori cattolici. I trattatisti musulmani sono d'accordo nel porre il riḍā come tappa ultima della via ascetica, e anzi discutono se esso in parte non rientri addirittura negli stati mistici. La via sin qui descritta è una continua mugiāhadah (che significa ἀγώνισμα, combattimento spirituale), per la quale è indispensabile la guida d'un maestro (murshid, sheikh), al quale l'aspirante dovrà manifestare ogni recondito pensiero e prestare obbedienza assoluta. Il maestro, a seconda dell'indole del discepolo, potrà imporgli la dimora in cella, servizî umilianti, distacco da parenti e amici, viaggi in paesi lontani, silenzio, patimento della fame e altre prove. La meditazione, l'orazione vocale o mentale, il recitare giaculatorie, l'aver sempre Dio davanti agli occhi, l'esame di coscienza (muḥāsabah) quotidiano sono il viatico del cammino, di cui le singole tappe stanno in rapporto con la quantità di sforzo e di perseveranza che il progrediente dispiega con l'aiuto del maestro e il permesso di Dio.

Ma la cosa è diversa negli stati mistici (ḥāl, plur. aḥwāl); nessuno sforzo umano può produrli, poiché essi sono elargizione graziosa di Dio. La purità di cuore ottenuta con l'ascesi è il terreno sul quale potranno scendere le grazie straordinarie. I ḥāl sono variamente classificati dagli scrittori; né la discrepanza stupisce, data la necessità di profonde analisi psicologiche su moltissimi casi per arrivare a una classificazione e date le svariatissime peculiarità individuali dei soggetti mistici. Comunque, è l'amore (maḥabbah) quello che segna la base dei ḥāl dell'unione mistica (tawḥīd); ebbrezza paragonata a quella data dal vino (immagine ben nota al neoplatonismo e alla mistica cristiana, ma alquanto strana nel campo musulmano), sete d'amore (shawq), senso di sollievo (basṭ), senso d'oppressione (qabḍ), ecc., appaiono nei libri tra i fenomeni psichici dell'unione. Questa fu concepita sin dal sec. III eg., IX d. C., in tre modi diversi, che corrispondono esattamente ai tre nei quali le chiese cristiane orientali avevano spiegato, in contrasto fra loro, l'unione della divinità con l'umanità nel Cristo (sul parallelo, v. C. A. Nallino, in Riv. studi orientali, VIII, 1919-1920, 61 e 556), ossia: 1. congiunzione (ittiṣāl o wiṣāl, συναϕή o συνάϕεια), che esclude l'idea di vera identificazione sostanziale dell'anima con Dio nello stato mistico; 2. unificazione (ittiḥād, ἕνωσις), suscettibile di due sensi, cioè uno sinonimo del n. 1 (ἕνωσις καϑ' ὑπόστασιν) e l'altro indicante invece l'unione sostanziale predetta (ἕνωσις κατὰ ϕύσιν); 3. discesa ad abitare (ḥulūl, κατοίκησις o ἐνοίκησις), cioè l'ipotesi che lo spirito di Dio scenda ad abitare, senza confusione, nell'anima purificata del mistico (dottrina cristologica nestoriana). L'ortodossia ammette soltanto la prima interpretazione (o la sua equivalente prima forma del n. 2). A ogni modo il ḥulūl, che costò la vita ad al-Ḥallāǵ (v.; m. 309 eg., 922), ebbe scarsissimo seguito, e nel caso di mistici accusati di ittiḥād panteista non è sempre agevole distinguere se l'accusa si fondi su credenza reale o su sole apparenze di linguaggio inadeguato a esprimere le sensazioni dell'unione suprema. Questa è "conoscenza" (marifah, traduzione della γνωσις, dei cristiani neoplatonizzanti e dei gnostici) e il mistico è ‛ārif (γνωστικός), in quanto ha raggiunto una conoscenza diretta, intuitiva di Dio; è contemplazione (naẓar o mushāhadah, ϑεωρία, in quanto fissarsi della mente su soggetto divino; è immersione (istighrāq) in Dio o annientarsi (fanā') in Lui, in quanto sospensione delle potenze dell'anima, come direbbero i cristiani (il fanā' è cosa ben diversa, salvo certe apparenze, dal nirvāṇa indiano, o anche maḥw (cancellazione). Il fanā', estasi, non è stato duraturo; il mistico torna al ṣaḥw o lucidità ordinaria di mente, per poi ondeggiare ancora tra gli stati mistici. Ma il ṣūfī eccezionale arriva poi alla seconda (ossia mistica) lucidità di mente, cioè al baqā' (permanenza nello stato mistico d'unione), che gli permette d'essere unito in perpetuo a Dio, pur attendendo contemporaneamente alle occupazioni ordinarie della vita; stato supremo, eccezionale, esatto parallelo del sommo grado della mistica cristiana, che lo chiama unione trasformante o matrimonio spirituale. Oggetto dell'unione mistica è la divinità; ma molti ṣūfī, fin dal citato al-Giunaid, notano che in ciò v'è gradazione, e, fondandosi sulla triplice partizione della teodicea musulmana ammettono un grado inferiore, quello dell'unione con una delle azioni divine simboleggiate nei novantanove "bellissimi nomi" di Dio: poi un grado medio, ch'è unione con uno dei varî attributi di Dio indicati dalla teologia musulmana; infine il supremo, che consiste nell'unione con l'essenza divina. Ma d'altra parte, per lo meno a cominciare con il sec. XI eg. (XVII), fra alcune scuole mistiche temperate si fa strada l'idea che queste tre forme di contemplazione siano del tutto eccezionali, raggiungibili soltanto dai massimi santi, e che il comune dei ṣūfī debba limitarsi ad aspirare all'unione con la persona di Maometto (v. senussi). È superfluo additare la corrispondenza di tutto ciò con gli oggetti della contemplazione secondo la mistica cattolica. Il problema se sia lecito ricorrere a mezzi emotivi esteriori (canto di poesie erotico-religiose, musica, danza) per aiutare l'entusiasmo religioso nelle adunanze dei ṣūfī fu ed è oggetto di controversie vivaci, sia per il loro carattere estraneo completamente all'uso di Maometto e dei suoi compagni, sia in considerazione degli abusi morali assai gravi che quei mezzi possono produrre.

Il largo diffondersi di idee neoplatoniche nell'islamismo, per trafila cristiana, gnostica e filosofica, agì sulla parte dottrinale di alcune scuole ṣūfiche, soprattutto a partire dal sec. VI eg. (XII), facendovi penetrare concetti cosmogonici e metafisici, che in realtà non hanno più a che fare con la mistica e che non sempre sono accolti dalla teologia ortodossa. Il secolo successivo vide la fioritura dello spagnolo Ibn ‛Arabī (v.; morto nel 638 eg., 1240), vissuto a dungo in Oriente, le cui numerosissime esperienze mistiche, da lui medesimo analizzate con finezza e ampiezza nelle sue opere, e la fama di santità fecero e fanno perdonargli dai musulmani meno rigorosi le stravaganze dottrinali di sapore eterodosso culminanti nella dottrina della waḥdat al-wugiūd (unità dell'esistenza), che, portando all'esagerazione il concetto teologico e ṣūfico che l'unico vero esistente è Dio, poiché solo essere la cui esistenza non dipenda da altri, e trasformando in dottrine metafisiche le sensazioni del mistico in stato di unione, proclama un monismo panteistico, per cui Dio solo è reale, mentre il mondo è un insieme di sue manifestazioni ed emanazioni che non hanno realtà permanente. Ma tutto ciò appartiene piuttosto al dominio della filosofia e della teologia, e ad ogni modo è dottrina d'una scuola circoscritta. Di gran lunga più generale è l'influsso della distinzione neoplatonica fra mondo sensibile e mondo intelligibile o sovrasensibile, con le conseguenze che ne derivano: prima di scendere nel corpo l'anima preesistette nel mondo intelligibile (dottrina ammessa anche da molti teologi ortodossi), e nell'esilio nel corpo perde gran parte delle sue primitive facoltà e cognizioni superiori, che potrà andare man mano ricuperando parzialmente mediante l'ascesi, liberatrice dai vincoli dei sensi e del mondo terreno. Da ciò credenze che riflettono l'idea del demiurgo o del logos e che immaginano aver Dio affidato il governo del mondo a una gerarchia di santi viventi occulti, sommi maestri di ṣūfismo (il quṭb o ghawth con i suoi due imām, i quattro awtād, i sette afrād, i quaranta abdāl, ecc.); da ciò pure la teoria del taṣarruf dei santi mistici, ossia il loro potere di dominare talora, con la tensione delle loro forze psichiche, le forze naturali e operare, Dio annuente, grazie miracolose (karāmāt) a vantaggio di chi si rivolge a loro; e da ciò infine la credenza popolare, ricordante certi aspetti del quietismo di Molinos, che atti materiali riprovevoli dei santi siano scusabili, poiché frutto esclusivo del corpo abbandonato dall'anima che è assorta in Dio. (V. islamismo, XIX, p. 611, e anche barakah; marabutto).

Il ṣūfismo, malgrado i suoi tralignamenti, ha introdotto nell'islamismo un forte elemento etico e sentimentale; ha dato origine a fenomeni importanti anche dal punto di vista puramente sociale e politico, quali sono il culto dei santi morti e viventi e le confraternite religiose; infine, nelle letterature araba, persiana, turca e hindūstānī ha prodotto liriche squisite di amore allegorico o anche di tipo bacchico (il vino rappresentando allora Iddio), e, fuori del campo arabo, lunghi poemi di tipo romanzesco, nei quali le avventure e gli amori di celebri coppie d'innamorati sono presi a simbolo dell'anelare irrefrenabile dell'anima a congiungersi con Dio. Parallele al ṣūfismo, ma d'origine indipendente malgrado le posteriori influenze reciproche, sono le varie forme di mistica intellettualista che s'incontrano presso buon numero di filosofi arabi, come al-Fārābī, Avicenna, Ibn Bāgiah (Avempace), Ibn Ṭufail e lo stesso Averroè, per i quali v. le rispettive voci.

Bibl.: R. A. Nicholson, The mystics of Islam, Londra 1914 (trad. it., Torino 1925); id., Studies in Islamic mysticism, Cambridge 1921; id., The idea of personality in Ṣúfism, ivi 1923; I. Goldziher, Vorlesungen über den Islam, Heidelberg 1910, cap. 4° (trad. fr., Le dogme et la loi de l'islam, Parigi 1920); L. Massignon, Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane, ivi 1922; R. Hartmann, Al-Kuschairîs Darstellung des Ṣûfîtums, Berlino 1914 (Türkische Bibliothek, XVIII); C. A. Nallino, in Riv. studi orientali, VIII (1919-20), pp. 1-106, 501-61; Johs. Pedersen, Muhammedansk Mystik, Copenaghen 1923 (trad. danese di testi poetici quasi tutti arabi, tra i quali l'intero grande poema d'Ibn al-Fāriḍ); M. Asín, El islam cristianizado, Madrid 1931 (studî e trad. di parti non filosofiche d'Ibn ‛Arabi); al-Hujwírí, Kashf al-maḥjúb, trad. di R. A. Nicholson (dal persiano), Leida e Londra 1911; I. Pizzi, Storia della poesia persiana, Torino 1894, I, pp. 182-237, 249-280; Garcin de Tassy, La poésie philosophique et religieuse chez les Persans d'après le Mantic uttaïr, Parigi 1860.