SUPERSTIZIONE

Enciclopedia Italiana (1937)

SUPERSTIZIONE

Raffaele Corso

. Folklore. - Le forme della superstizione popolare sono svariatissime, non solo per l'origine, in quanto risalgono a epoche e fasi molto diverse dello sviluppo della civiltà umana, ma anche per i caratteri, che vanno dal campo puramente astratto delle credenze a quello pratico dei riti e delle cerimonie. In una varia e complessa stratificazione si trovano, fra le superstizioni popolari, idee che perpetuano tuttora concetti e usi primitivi, che hanno radici nell'animismo e nella magia o appartengono a remoti culti popolari, accanto ad altre che sono di formazione nuova, o risultato della combinazione di vecchie credenze con altre, antiche e nuove. Le forme animistiche e quelle magiche sono le più comuni e le più diffuse, e si mostrano tanto più intense, quanto più si discende negli strati bassi del volgo. All'animismo si riportano le molteplici concezioni dei genî, degli spiriti, dei fantasmi e degl'innumerevoli enti ed esseri visibili e invisibili, palpabili e impalpabili, che dalle misteriose regioni dell'aria, dell'acqua, delle foreste, del sottosuolo, si muovono a favorire o aduggiare con la loro influenza, ora benefica ora malefica, il corso o lo sviluppo della vita dell'uomo, degli animali e delle piante (v. fata; folletto; orco; strega); alla magia le svariate pratiche, con cui l'uomo ritiene di poter utilizzare riposte o supposte energie naturali, traendo vantaggio da reali o presunti rapporti tra cose, fenomeni e fatti per ragione della loro affinità o della loro relazione mediata o immediata (v. magia). Su questi principî si basano i procedimenti che con termine spregiativo diciamo stregonerie, perché, in generale, sono patrimonio delle streghe, le quali ritengono con le loro arti di poter cambiare ad arbitrio il corso naturale delle cose e convertire il bene in male, e viceversa.

A tali classi di superstizioni appartengono gli espedienti intesi a mutare il bel tempo in tempesta; ad ottenere la pioggia in luogo della siccità, la carestia in luogo dell'abbondanza del raccolto, a trasferire un male da un uomo in un altro, o in un animale o in una pianta; o a convertire l'amore in odio e l'odio in amore; a incantare i cani molesti, i lupi e altri animali, e via dicendo. L'itterico, secondo tali principî, può liberarsi dall'infermità, facendola passare in una pianta di marrubio (Marrubium vulgare) o in un fungo della specie Agaricus necator, urinandovi sopra per più mattine consecutive; l'affetto da malaria o da quartana può liberarsi dalla febbre "legandola" in un albero mediante un filo, con queste parole: "Qui ti metto, qui ti lascio, e me ne vado a spasso"; la donna innamorata può suscitare la passione nell'uomo che non la ricambia, propinandogli in qualche cibo o bevanda una goccia del proprio sangue; la puerpera può perdere il latte, se qualche goccia di questo caschi a terra e venga succhiata dalle formiche o leccata da qualche cagna.

Le superstizioni di carattere magico possono essere divinatorie, preventive e reintegrative, in quanto vengono, nel primo caso, a preannunziare l'esito di prossimi eventi; nel secondo, a far premunire l'uomo dai temuti o possibili danni; e nel terzo, a reintegrarlo nello stato anteriore al maleficio. Appartengono alla prima categoria gli oroscopi, i prognostici, gli oracoli, gli auspici, gli augurî che si sogliono trarre da segni naturali spontanei (come il volo, i gesti e i gridi degli animali, il germogliare e il fiorire delle piante) ovvero provocati (per es., dall'uomo). Le giovani consultano la sorte gettando sul fuoco qualche fogliolina di olivo o di palma o qualche chicco di granturco, deducendo dal crepitio, dalla fiamma o da altre circostanze se le nozze siano prossime o lontane. Talvolta il prognostico è tratto dal ceppo del Natale o del Capodanno, e cioè dalla sua fiamma, dal suo cigolio, dalle scintille che esso dà quando è percosso con gli alari. Nei racconti e nei canti popolari sono ricordati e descritti alcuni di tali riti, e uno di essi narra di una fanciulla innamorata, la quale pianta un arboscello, il cosiddetto "Amorino", perché le predica, a seconda che fiorirà o avvizzirà entro l'anno, la sua lieta o triste sorte. Col nome di "giorni indicatori" o anche "segni di San Paolo" si designano i prognostici dei mesi e dell'anno, quali si traggono dai primi dodici giorni del gennaio (v. calendario). Nella seconda categoria rientrano i segni ritenuti efficaci a propiziarsi la sorte. Preventivo è il rito per cui nel giorno in cui si va ad abitare per la prima volta una casa, si apparecchia la mensa della fortuna, affinché questa, attratta dalla squisitezza delle vivande e delle bevande, si appressi e protegga la famiglia. Carattere reintegrativo ha la cosiddetta superstizione del lupo: quando un bambino mostra grande e costante voracità, questa è attribuita all'influenza o allo spirito del lupo, e il bambino, per guarirlo, è fatto passare davanti a un forno pieno di pane dicendo: "Saziati lupo, il forno è pieno", ovvero è messo a contatto col corpo di un lupo ucciso. Analogamente si cura il fanciullo ernioso, facendolo passare attraverso il fusto spaccato di un arboscello, nell'idea che, reintegrandosi le parti del fusto, si reintegri la "rottura" (così è detta volgarmente l'ernia) nell'organismo infantile.

Come espressione sopravvivente del pensiero magico e animistico, la superstizione è generalmente in contrasto con la religione ufficiale, o per lo meno germoglia e vive ai margini di essa, ignorata, talvolta tollerata e non di rado condannata. Dappertutto, accanto ai grandi culti costituiti, brahmanesimo, buddhismo, islamismo, cristianesimo, ecc., perdura la fede tenace in una molteplicità di enti e di pratiche che sono avanzi o relitti di idee e di credenze di origine remotissima. Di esse alcune s'incorporarono coi riti dei nuovi culti, come gli ex-voto, già preesistenti nel mondo pagano e prepagano; altre, nonostante le comminatorie ecclesiastiche, continuarono in forma sporadica, come il culto dei corpi decollati in Sicilia; e altre infine vennero abbandonate e dimenticate o respinte negli strati più bassi della società, accanto alla delinquenza vera e propria, come i riti cruenti (p. es., sacrifizio di uno o più bambini, con forme antropofagiche) od osceni, che stregoni e fattucchiere talvolta seguono ancora.

Della lotta della Chiesa contro le superstizioni, come pure del loro spesso tenacissimo perdurare, si trovano numerose tracce nei testi canonici, specie nelle costituzioni sinodali e soprattutto in quelle posteriori al concilio di Trento, che condannò tutte le consuetudines non laudabiles. In tali statuti sono spesso elencati alcuni errori e pregiudizî del volgo, allo scopo di richiamar sopra di essi l'attenzione degli ecclesiastici e di sradicarli come avanzi di gentilesimo. Le costituzioni sinodali di Viterbo del 1604 proibivano le prefiche (v.) e le mestas cantilenas, che esse solevano intonare sui defunti; quelle di Potenza del 1606 proibivano alle donne di buttare sul feretro dei loro cari ciocche di capelli; quelle di Pavia del 1612, di gettare sul morto, nel momento della sepoltura, pietre e legna; quelle di Arezzo del 1597 proibivano di riporre nelle mani del defunto oggetti e monete. Queste stesse costituzioni vietavano, al pari di quelle di Salerno (1579), di Albenga (1620), di Sant'Agata dei Goti (1681), di San Benigno di Fruttuaria (1622), e di varie altre, il bacio che gli sposi si scambiavano nel momento della celebrazione nuziale ai piedi dell'altare, nonché l'uso d'infrangere il bicchiere o la scodella dopo la benedizione. L'arcivescovo Orsini di Benevento, nel 1704, proibì l'uso di spezzare sul capo dei coniugandi la focaccia nuziale e di distribuirne le parti ai convitati. Egli vedeva rivivere in quel rito l'uso pagano della confarreatio, o altrimenti potus et biberagium, il quale era ritenuto atto a legare magicamente la coppia.

Non tutte le superstizioni, come abbiamo detto, sono primitive: molte non sono altro che residui di sistemi, precetti e dottrine che costituirono il patrimonio scientifico di un popolo, di un tempo o di una scuola. Quando i sistemi e le dottrine decaddero o ebbero poco credito nelle classi colte, rimasero tuttavia nel popolino. Così molte superstizioni volgari - specialmente nel campo della medicina popolare (v. medicina, XXII, p. 733) - che costituiscono i rimedî e i segreti dei mediconi, delle comari, degli stregoni, dei ciurmatori, ecc., e che sono applicati con misteriosi metodi di cura, si riconoscono come avanzi più o meno deformati di prescrizioni risalenti ad antichi maestri della medicina scientifica.

Sono queste le superstizioni che P. Mantegazza chiama "dottrinali" o "scolastiche" per distinguerle da quelle "generali" o "umane", che hanno la loro origine nella natura stessa dell'uomo, e da quelle "etniche", proprie cioè di un dato popolo o di una determinata civiltà. Da queste derivano le "superstizioni di classe" (dei cacciatori, pastori, contadini, attori, soldati, ecc.), le quali non rappresentano che speciali aspetti e forme della comune superstiziosità. Del pari le superstizioni individuali derivano da quelle collettive, ma ne differiscono in quanto mostrano alcuni caratteri accentuati in corrispondenza della psicologia del singolo.

Bibl.: G. Tigri, Contro i pregiudizi popolari, Torino 1870; P. Ellero, Scritti minori, Bologna 1875, pp. 5-50 (Delle superstizioni volgari in Friuli); Chr. Rogge, Volksglaube und Volkrsbrauch, Lipsia 1890; P. Mantegazza, La psicologia delle superstizioni (prefazione a Z. Zanelli, La medicina delle nostre donne, Città di Castello 1892); R. Pettazzoni, Le superstizioni, in Atti del I Congresso di etnografia italiana, Perugia 1912, pp. 135-143; R. Corso, La rinascita della superstizione nell'ultima guerra, Roma 1920; C. Read, Man and his superstitions, Cambridge 1920; J. G. Frazer, The Golden Bough, ed. abbreviata, Londra 1924 (trad. it., Roma 1926); E. Hoffmann-Krayer, Aberglaube, in Handwörterbuch des deutschen Aberglaubens, I, Berlino-Lipsia 1927. Un'inchiesta sulle superstizioni d'Italia, e il materiale raccolto, in Archivio per l'antropologia e l'etnologia, XVII (1887), pagine 231, 311, 333; XVIII (1888), p. 83; XX (1890), pp. 17, 73, 307.