Sviluppo economico

Enciclopedia del Novecento (2004)

Sviluppo economico

EEliana La Ferrara

di Eliana La Ferrara

SOMMARIO: 1. Introduzione. ▭ 2. Approccio macroeconomico allo sviluppo: a) teoria neoclassica della crescita e convergenza; b) modelli di crescita endogena; c) modelli con equilibri multipli o persistenza storica. ▭ 3. Approccio microeconomico allo sviluppo: a) la famiglia; b) mercati del lavoro; c) mercati della terra; d) mercati del credito; e) capitale sociale. ▭ 4. Conclusioni. ▭ Bibliografia.

1. Introduzione.

Nell'anno 2000 il reddito medio annuale di un cittadino statunitense era di circa 35.000 dollari, quello di un cittadino indiano di circa 450 dollari, quello di un cittadino etiope raggiungeva a fatica i 100 dollari. La dicotomia tra paesi industralizzati (o 'ad alto reddito', come vengono definiti dalla Banca Mondiale) e paesi in via di sviluppo (o 'a basso e medio reddito') è evidente se si confrontano i 26.720 dollari di reddito pro capite dei primi con i 1.194 dollari dei secondi. Se si aggiustano queste cifre per tenere conto del fatto che il costo della vita è diverso tra questi paesi, il reddito pro capite annuale 'a parità di potere d'acquisto' era, rispettivamente, di 35.619 dollari per gli Stati Uniti, 2.683 per l'India e 720 per l'Etiopia (le cifre nominali sono tratte dai World development indicators della Banca Mondiale; quelle aggiustate per la parità dei poteri d'acquisto, dalle Penn world tables version 6.1: v. Heston e altri, 2002). Il panorama risulta ancora più eterogeneo se si guarda all'evoluzione dell'economia di questi paesi nel tempo. Dal 1970 al 2000 il tasso di crescita medio annuale del Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite è stato 2,1% negli Stati Uniti, 2,8% in India, e solamente 0,3% in Etiopia (ha registrato per molti anni valori negativi, cioè riduzioni del prodotto pro capite). Mentre dunque alcuni paesi in via di sviluppo (PVS) - tra cui l'India e i paesi dell'Asia orientale - hanno sperimentato tassi di crescita sostenuti, che in prospettiva potrebbero consentire loro di avvicinarsi al tenore di vita delle economie industrializzate, altri - soprattutto i paesi africani - sembrano intrappolati in una situazione di povertà endemica.

Quali sono le cause di differenze così marcate nella performance economica dei paesi? Può la teoria economica suggerire delle politiche che aiutino i paesi poveri a uscire dal sottosviluppo? Sono queste le domande cruciali che si pone l'economia dello sviluppo, e nelle pagine che seguono cercheremo di esporre sinteticamente alcune delle linee interpretative e alcune delle risposte che sono state fornite nell'ultimo ventennio. Per motivi di spazio, non potremo rendere giustizia alla molteplicità dei contributi in materia e opereremo una selezione dettata soprattutto da un principio metodologico: quello di lasciar trasparire un modo di pensare allo sviluppo economico che ne esplori le radici profonde, sia quando si guarda a fenomeni aggregati, sia quando si esaminano meccanismi specifici. Per una trattazione più approfondita ma estremamente accessibile dell'economia dello sviluppo, si rinvia al testo di Debraj Ray (v., 1998). Le teorie macroeconomiche dello sviluppo sono efficacemente sintetizzate dai lavori di Robert J. Barro e Xavier Sala-i-Martin (v., 1995) e di Francesco Daveri (v., 1996); quelle microeconomiche dal testo di Pranab Bardhan e Christopher Udry (v., 1999). Infine, l'introduzione al volume di Dilip Mookherjee e Debraj Ray (v., 2000) presenta una rassegna sugli sviluppi teorici più recenti ispirata agli stessi criteri che verranno seguiti in questo articolo.

L'esposizione sarà organizzata in due parti. La prima adotterà una prospettiva macroeconomica, esplorando la natura delle cause del sottosviluppo a livello aggregato, cioè guardando all'economia nel suo complesso. Sarà anzitutto ripreso brevemente l'approccio neoclassico alla teoria della crescita, con la nozione di convergenza e le verifiche empiriche che recentemente si sono ispirate a tale paradigma. Di seguito saranno proposti modelli alternativi, basati sull'idea di crescita endogena, sul concetto di equilibri multipli e sul ruolo dei fattori storici e di quella che viene denominata 'isteresi' nel condizionare i percorsi di crescita delle varie economie. Nella seconda parte di questo contributo l'attenzione si sposterà sugli aspetti microeconomici dello sviluppo. Si individueranno alcune imperfezioni dei mercati che vincolano severamente le prospettive di crescita dei paesi in via di sviluppo e si esaminerà in che misura diverse istituzioni informali emerse nel tempo siano riuscite a far fronte a tali imperfezioni. In particolare, saranno considerate delle applicazioni al mercato del lavoro, al mercato della terra e a quello del credito. Infine, faremo brevemente riferimento ai recenti sforzi per incorporare nei modelli di sviluppo economico il ruolo delle interazioni interpersonali e delle norme sociali, attraverso quello che è stato definito, in contrapposizione al capitale fisico, 'capitale sociale'. Ove possibile, si cercherà di mettere in luce le implicazioni delle teorie esposte per la politica economica, con la consapevolezza che una seria considerazione degli aspetti di politica economica richiederebbe una trattazione a sé.

2. Approccio macroeconomico allo sviluppo.

a) Teoria neoclassica della crescita e convergenza.

Il paradigma neoclassico della teoria della crescita si fonda sul contributo fondamentale di Robert M. Solow (v., 1956). Nel modello di Solow l'output prodotto da un'economia è funzione della sua dotazione di lavoro e di capitale fisico, nonché della tecnologia disponibile. Un'ipotesi cruciale è che i fattori capitale e lavoro abbiano rendimenti marginali decrescenti. Dire che vi sono rendimenti decrescenti nel capitale significa che, data la tecnologia e tenendo costante l'ammontare di lavoro impiegato, il prodotto aggiuntivo che risulta dall'impiego di ulteriori quantità di capitale è positivo, ma decresce all'aumentare dello stock totale di capitale utilizzato (si consideri, a titolo di esempio, un lavoratore che produce utilizzando una macchina per fotocopie; l'aggiunta di una seconda macchina aumenterà di un certo ammontare la sua produzione; l'aggiunta poi di una terza, una quarta, una quinta macchina, ecc. continuerà ad aumentare la produzione, ma in misura progressivamente minore, in quanto sarà sempre più difficile per quel singolo lavoratore coordinare il funzionamento di tutte le macchine). Data questa ipotesi, a parità di tassi di risparmio e di crescita della popolazione, i paesi con dotazioni iniziali di capitale inferiori dovrebbero attrarre maggiori investimenti - in quanto il tasso di rendimento del capitale in quei paesi è più alto - grazie ai quali dovrebbero crescere più velocemente e alla fine convergere al livello di benessere dei paesi più avanzati.

È questa, in termini molto semplificati, l'ipotesi di 'convergenza' del modello neoclassico. Occorre notare che il tasso di crescita dei paesi durante la fase di transizione dipende da una serie di variabili, quali il livello iniziale del reddito, il tasso di crescita della popolazione e l'accumulazione di capitale fisico e umano (quest'ultimo approssimato dal livello di istruzione come misura della 'qualità' della forza-lavoro, nella versione 'ampliata' del modello di Solow). Nel lungo periodo, tuttavia, quando il processo di convergenza è compiuto, l'unica determinante del tasso di crescita è il progresso tecnologico, che nel modello di Solow si ipotizza esogeno, ossia determinato dall'esterno. Per esempio, un aumento del risparmio - tipicamente considerato nella politica economica come uno dei motori della crescita - nel modello neoclassico si traduce in investimento e contribuisce a far crescere il prodotto per un certo periodo, ma alla fine fa aumentare il rapporto capitale/lavoro, così che il prodotto marginale del capitale diminuisce e si ritorna a un equilibrio in cui l'unica determinante della crescita è il tasso di progresso tecnologico.

Gli anni recenti hanno visto un massiccio aumento nella disponibilità di dati a livello cross country, cioè per una molteplicità di paesi, e ciò ha alimentato una lunga serie di studi volti a convalidare (o non convalidare) il modello neoclassico di crescita. In questi lavori - ispirati agli articoli di Barro (v., 1991) e di N. Gregory Mankiw, David Romer e David N. Weil (v., 1992) - il tasso di crescita del PIL pro capite viene spiegato come funzione di diverse categorie di variabili. Anzitutto vi è un nucleo di variabili che il modello di Solow 'ampliato' identifica come importanti: l'investimento in capitale fisico e quello in capitale umano risultano in genere positivamente correlati col tasso di crescita, nel senso che paesi con maggiori investimenti hanno tassi di crescita del PIL più elevati. Invece, il tasso di fertilità risulta di solito negativamente correlato con la crescita, ossia nei paesi in cui la popolazione aumenta più rapidamente il prodotto pro capite cresce meno. Questi tre fattori hanno tradizionalmente ispirato politiche economiche volte ad aumentare le infrastrutture e i beni capitali pubblici nei paesi poveri, a incentivare gli investimenti privati (si pensi alle manovre di liberalizzazione finanziaria), a estendere il più possibile l'accesso all'istruzione primaria e secondaria, e a limitare il tasso di fertilità nei paesi con maggiore pressione demografica (ad esempio, con programmi di controllo delle nascite).

Uno dei limiti principali degli studi empirici sopra citati è che gran parte del differenziale di crescita fra paesi rimane non spiegato, e quindi si invocano differenze nel 'progresso tecnico non misurato' come responsabili delle variazioni nella performance economica tra paesi. Alcuni lavori più recenti hanno cercato di incorporare tra le variabili esplicative della crescita anche fattori che indirettamente influenzano la capacità di innovare e di accumulare capitale e lavoro. Tra queste variabili ve ne sono alcune che potremmo definire 'strutturali' - come le caratteristiche geografiche e climatiche e la composizione etnica della popolazione - e altre che sono frutto delle 'politiche' stesse dei governi - come variabili di politica monetaria e fiscale, e anche di politica commerciale. Vi è tuttavia un'importante differenza tra queste due categorie di variabili. Quando si osserva che i paesi senza accesso al mare o i paesi con una popolazione etnicamente più eterogenea hanno, a parità di altre condizioni, tassi di crescita inferiori, vi è poco che le autorità di politica economica possano fare per modificare quelle condizioni: in un certo senso - e soprattutto per variabili geografiche come la mancanza di accesso al mare o l'assenza di fiumi - questo tipo di 'spiegazioni' dei differenziali di crescita finisce per imputarli al fato. Diverso è invece il caso delle politiche economiche. L'evidenza empirica suggerisce che il tasso di crescita del PIL è negativamente correlato con indicatori di politiche commerciali protezionistiche, di iperinflazione, con i deficit del settore pubblico e con indicatori di repressione finanziaria. Non solo queste variabili si prestano a interventi da parte delle autorità di politica economica, ma nell'ultimo ventennio riforme volte a ridurle sono state esplicitamente invocate da organismi come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale quale condizione per la concessione di prestiti a molti paesi poveri. Infine, un terzo gruppo di variabili esplicative che sono state introdotte negli studi sulla crescita è di natura 'istituzionale', e riguarda aspetti come il grado di corruzione, il decentramento politico-amministrativo, i sistemi di governo e le norme sociali (per il concetto di 'capitale sociale', v. sotto, cap. 3 § e). Attualmente, lo sforzo della ricerca è rivolto a identificare i meccanismi attraverso cui queste variabili condizionano le prospettive di sviluppo dei paesi, o a verificare se le istituzioni non siano a loro volta determinate dall'ambiente economico. A tal fine, come vedremo in seguito, l'approccio microeconomico sembra offrire spunti particolarmente utili.

b) Modelli di crescita endogena.

Il fallimento dell'ipotesi di convergenza - cioè l'osservazione che non è vero che i paesi più poveri siano cresciuti a tassi più elevati di quelli ricchi fino a raggiungerli, né che i capitali si spostino dai paesi che ne hanno abbondanza a quelli che ne hanno scarsità (come richiederebbe la legge dei rendimenti decrescenti) - ha spinto alcuni studiosi a proporre teorie alternative. La principale caratteristica di queste teorie è che i fattori responsabili della crescita nel lungo periodo sono determinati all'interno del modello stesso (da cui il termine crescita 'endogena') anziché 'piovere dal cielo', come il progresso tecnologico nel modello di Solow.

Il primo modello di questo tipo è stato proposto da Paul M. Romer (v., 1986), il quale ha ipotizzato che l'investimento medio in capitale fisico abbia un effetto sulla produttività attraverso una variante del cosiddetto 'learning by doing'. Inoltre, la conoscenza che viene in questo modo creata diviene accessibile alle altre imprese a costo zero, così che il tasso di progresso tecnologico nell'economia non è più esogeno, bensì è determinato dal tasso di accumulazione del capitale. L'elemento interessante di tale modello è che anche se per la singola impresa esistono rendimenti decrescenti del capitale, per la società nel suo complesso ciò non è più vero: grazie all'esistenza di rendimenti costanti o crescenti si genera crescita endogena. Un risultato simile è ottenuto nel modello di Robert Lucas (v., 1988), in cui le decisioni individuali di investimento in capitale umano contribuiscono ad aumentarne lo stock nell'economia e ciò crea un'esternalità positiva sulla produzione, generando crescita endogena. Altre varianti di modelli con crescita endogena introducono l'investimento in ricerca e sviluppo e l'esistenza di rendite monopolistiche per le imprese che innovano e ricavano anch'esse endogenamente il tasso di crescita. Le implicazioni di politica economica di queste teorie sono dunque diverse da quelle del modello di Solow e riguardano, tra le altre, i sussidi alla ricerca e all'innovazione, le politiche anti-trust e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale.

Nonostante il dibattito e l'interesse suscitato dalle teorie della crescita endogena, le limitate verifiche empiriche a cui sono state sottoposte hanno fornito risultati che non permettono di convalidare questi modelli. In particolare, Charles Jones (v., 1995), utilizzando serie storiche per gli Stati Uniti, mostra come a fronte di un andamento crescente negli anni degli investimenti in ricerca e sviluppo e in capitale umano (entrambi fattori che nei modelli di crescita endogena dovrebbero generare un aumento nel tempo del tasso di crescita del PIL), il tasso di crescita dell'economia statunitense nel XX secolo sia rimasto sostanzialmente costante. Una delle difficoltà che si incontrano nello stimare i modelli di crescita endogena, comunque, è che tra gli elementi che li distinguono empiricamente dalla teoria neoclassica vi è il ruolo delle esternalità tra imprese, e che queste ultime sono difficili da misurare. Resta dunque spazio per ulteriore lavoro empirico in questo campo.

c) Modelli con equilibri multipli o persistenza storica.

Un'altra fonte di insoddisfazione nei confronti della teoria neoclassica della crescita sta nel fatto che, in ultima analisi, essa attribuisce gli squilibri nei tassi di crescita tra paesi a 'differenze intrinseche' tra le popolazioni che li abitano, per esempio riguardo alla propensione a risparmiare o a procreare. Una visione alternativa del fenomeno consente di dimostrare come lo stesso paese - e quindi le stesse persone, indipendentemente dalle loro caratteristiche intrinseche - possa trovarsi imprigionato in situazioni con livelli di sviluppo molto diversi. In questo caso, il fatto che alcuni paesi siano poveri e altri ricchi dipende dalle circostanze storiche che hanno portato al raggiungimento di un equilibrio piuttosto che un altro, ma con opportune politiche è possibile 'spostare' i paesi poveri su una traiettoria che li porterà all'equilibrio 'virtuoso'.

L'idea che il sottosviluppo possa essere semplicemente frutto di un mancato coordinamento risale ai contributi di Paul Rosenstein-Rodan (v., 1943) e Albert Hirschman (v., 1958) ed è stata recentemente formalizzata da Kevin Murphy, Andrej Shleifer e Robert Vishny (v., 1989). Secondo questi ultimi, è possibile che non siano effettuati investimenti in un dato settore in quanto mancano investimenti in un settore complementare, e che a loro volta gli investimenti nel settore complementare non siano stati fatti perché mancavano quelli nel primo. Per esempio, investire per costruire una rete ferroviaria abbasserebbe i costi di trasporto delle merci e quindi stimolerebbe l'offerta di alcuni settori produttivi; tuttavia, in mancanza di una sufficiente espansione di queste attività produttive potrebbe non valere la pena di creare la rete ferroviaria. Si può dunque concepire che lo stesso paese finisca per trovarsi in due equilibri diversi: il primo, con bassi investimenti sia in infrastrutture che nella produzione (sottosviluppo), il secondo, con alti investimenti in entrambi i settori (sviluppo). Alla radice di questo meccanismo vi è l'esistenza di esternalità tra settori, nel senso che le scelte di investimento di uno o più settori aumentano la profittabilità degli investimenti in altri settori, facendo sì che l'investimento che non era vantaggioso per il singolo settore considerato isolatamente lo sia per l'economia nel suo complesso. È per questo che la politica economica implicata da tale teoria prevede un coordinamento tra le aspettative degli operatori economici e quindi tra gli sforzi di investimento dei vari settori, in modo che questi diano una 'grande spinta' (big push) in grado di condurre l'economia all'equilibrio 'virtuoso'.

Se l'esistenza di equilibri multipli può provocare situazioni di sottosviluppo a causa della difficoltà di coordinare le aspettative, un ruolo cruciale nell'influenzare le aspettative è svolto dalla storia. L'aver osservato una carenza - per anni o per secoli - di investimenti rende più facile l'aspettativa che tale situazione si perpetui anche in futuro. Ma la storia ha un ruolo ben più importante del semplice coordinamento delle aspettative. Una seconda classe di modelli - i più influenti dei quali sono stati quelli di Abhijit Banerjee e Andrew Newman (v., 1993) e di Oded Galor e Joseph Zeira (v., 1993) - studia il modo in cui una certa condizione iniziale possa perpetuarsi e influenzare la traiettoria di sviluppo del sistema economico. Gli autori esaminano in particolare il ruolo della disuguaglianza nella distribuzione iniziale dei redditi in presenza di imperfezioni nel mercato dei capitali.

Si consideri un'economia in cui vi sono tre tipi di occupazione: come agricoltore, come lavoratore salariato nell'industria e come imprenditore. Mentre chiunque può diventare agricoltore o lavoratore salariato, per iniziare un'attività imprenditoriale occorre un investimento iniziale proibitivo se non si dispone di un prestito bancario. Il settore bancario, a sua volta, non è disposto a concedere prestiti a tutti, in quanto mette in conto la possibilità che una volta ottenuto il denaro l'individuo non lo restituisca. Come vedremo anche in seguito, un modo con cui le banche tipicamente si cautelano rispetto a questa eventualità è quello di richiedere una garanzia collaterale, ossia un bene o un deposito di cui la banca possa appropriarsi in caso di mancata restituzione del prestito. In questo caso, se gli individui differiscono nella dotazione iniziale di ricchezza, solo i più abbienti avranno beni sufficienti da fornire in garanzia e potranno quindi ottenere prestiti e diventare imprenditori. Ciò ha due conseguenze: da un lato, la disuguaglianza iniziale persisterà in quanto gli imprenditori diventeranno sempre più ricchi e le altre due categorie rimarranno con livelli di reddito relativamente bassi; dall'altro lato, vi sarà un'inefficienza poiché, quando la classe imprenditoriale è molto ristretta e vi è una gran massa di lavoratori salariati, l'abbondanza di manodopera fa sì che i salari rimangano a livelli bassi. Se invece alcuni agricoltori o salariati potessero diventare imprenditori, non migliorerebbero soltanto la propria condizione, ma anche quella del resto dei lavoratori dipendenti, che vedrebbero aumentare i salari grazie alla riduzione della manodopera. Insomma, in questi modelli la disuguaglianza iniziale condiziona pesantemente le possibilità di sviluppo dell'economia.

Si noti come, a differenza dei modelli con equilibri multipli, qui l'inefficienza non deriva dal fatto che esistono due o più equilibri tra cui scegliere: è possibile che l'equilibrio sia uno solo, ma che le sue caratteristiche dipendano dalle condizioni iniziali. In altri termini, la 'persistenza storica' fa sì che data la disuguaglianza iniziale l'economia si sviluppi univocamente su un certo tracciato. Si noti anche la differenza di questa prospettiva rispetto al paradigma neoclassico. Nel modello di Solow e nelle sue estensioni, la differenza nel grado di disuguaglianza o nello stock di capitale fra due economie non ha effetti persistenti se le preferenze degli individui e la tecnologia sono le stesse: gli unici effetti riguardano il sentiero di crescita durante la transizione all'equilibrio di lungo periodo. Nei modelli come quelli proposti da Banerjee e Newman o da Galor e Zeira, a parità di tecnologia e di preferenze due economie con diversi livelli iniziali di disuguaglianza potranno essere per sempre diverse.

Le implicazioni di politica economica di questi modelli, poi, sono diverse sia da quelle del paradigma neoclassico, sia da quelle dei modelli con equilibri multipli. O si correggono le imperfezioni del mercato del credito (ma è difficile pensare che sia possibile farlo a tal punto da rendere ininfluente la ricchezza iniziale del cliente per le decisioni di una banca), oppure si ricorre a politiche ridistributive che modifichino la distribuzione della ricchezza a vantaggio dei meno abbienti.

3. Approccio microeconomico allo sviluppo.

Molti dei recenti modelli macroeconomici di sviluppo (non solo quelli finora descritti) si fondano su qualche genere di imperfezione dei mercati - per esempio del mercato dei capitali - senza tuttavia approfondirne le origini. In questo capitolo esamineremo il funzionamento delle economie dei PVS concentrandoci sui problemi di informazione e di implementazione dei contratti, che ostacolano il funzionamento dei mercati, e prendendo in esame alcune 'istituzioni informali' che sono emerse in questi paesi per far fronte alle suddette imperfezioni. Cominceremo dalla più basilare tra le istituzioni, la famiglia, analizzando in che misura l'allocazione delle risorse tra i membri di una stessa famiglia può essere inefficiente e come le norme sociali condizionino il ruolo della famiglia nelle economie arretrate. Passeremo poi a studiare le imperfezioni nei mercati del lavoro, della terra e del credito. Infine, torneremo a considerare le relazioni sociali e le funzioni economiche svolte da gruppi e networks nell'ambito di quegli stessi mercati di cui avremo valutato le imperfezioni.

a) La famiglia.

Gli abitanti dei PVS, nella maggioranza dei casi, traggono almeno parte del loro reddito da attività lavorative effettuate all'interno della famiglia, sia in ambito rurale, dove spesso coltivano il proprio campo insieme ai familiari, sia in ambito urbano, dove gestiscono microimprese o attività di piccolo commercio anche in questo caso con l'aiuto di familiari. Comprendere i meccanismi decisionali all'interno della famiglia è quindi cruciale per capire non solo come le risorse disponibili siano divise tra i suoi membri, ma anche quante siano in assoluto le risorse generate.

Consideriamo anzitutto il problema dell'allocazione di un dato ammontare di risorse tra i membri della famiglia. Sia data una famiglia con un certo numero di componenti, ciascuno dei quali dispone di un certo reddito e in cui si deve decidere quanto verrà consumato da ciascuno e quanto invece verrà investito per il benessere di ciascuno (per esempio, nell'istruzione dei singoli individui). La teoria microeconomica neoclassica ha tradizionalmente rappresentato questa situazione come il problema decisionale di un'unica entità virtuale, la 'famiglia unitaria', nella quale tutti i membri hanno le stesse preferenze e tutti i redditi vengono cumulati indipendentemente dalla loro provenienza. A partire dagli anni ottanta tale formalizzazione venne messa in discussione e si cominciò a pensare alla famiglia come a un insieme di individui con preferenze diverse che dovevano arrivare a delle decisioni sulle variabili di interesse comune attraverso un meccanismo di contrattazione. Nel processo di contrattazione la variabile più importante è la 'posizione di riserva' su cui ciascun individuo può contare nel caso di mancato raggiungimento di un accordo. Per esempio, se moglie e marito sono in disaccordo circa l'opportunità di istruire i figli, e se l'alternativa a una decisione comune è che uno dei coniugi esca dal nucleo familiare, allora c'è da aspettarsi che il coniuge che ha più da perdere dalla separazione sia quello le cui preferenze conteranno di meno nella decisione, in quanto la sua posizione contrattuale è più debole (la minaccia di tenere duro e non accettare un accordo che non sia in sintonia con le proprie preferenze è meno credibile).

Numerosi studi hanno cercato di verificare empiricamente la validità del modello di famiglia unitaria rispetto a quello di contrattazione. Fra i primi ricordiamo il lavoro di Duncan Thomas (v., 1991), il quale utilizzando un campione molto ampio di famiglie brasiliane ha studiato come le decisioni di consumo dei membri della famiglia rispondessero a una misura del potere contrattuale dei coniugi costituita dalla loro quota di redditi non da lavoro - cioè quale ammontare di pensione, donazioni e redditi da capitale riceveva la moglie e quale il marito (i redditi da lavoro vengono esclusi dall'analisi in quanto sono essi stessi frutto di una contrattazione: quella su chi debba lavorare al di fuori della famiglia e per quante ore). Thomas rileva che all'aumentare del potere contrattuale della donna aumenta la quota di risorse dedicata all'alimentazione dei figli e diminuisce il tasso di mortalità infantile. Questo effetto è particolarmente pronunciato nel caso delle bambine, ovvero, mentre la madre investe più del padre nell'alimentazione dei figli di entrambi i sessi, la discrepanza tra madre e padre è maggiore per le scelte riguardanti le bambine. Risultati simili sono stati ottenuti da Mark Pitt e Shahidur Khandker (v., 1998) nello studio sull'impatto dei prestiti concessi da istituzioni di microfinanza (v. sotto, § d) alle famiglie del Bangladesh. Gli autori trovano che i prestiti concessi alle donne hanno un impatto maggiore sul tasso di iscrizione scolastica dei figli e delle figlie rispetto ai prestiti concessi agli uomini, e che la differenza è particolarmente marcata per quanto riguarda l'istruzione delle bambine.

Un secondo problema legato alla divisione delle risorse all'interno della famiglia concerne l'efficienza delle scelte di produzione. Come accennato sopra, una frazione significativa del reddito nei PVS è prodotta all'interno della famiglia, e individuare delle inefficienze nella produzione familiare significa trovare che il totale delle risorse disponibili per ciascuna famiglia è più basso di quanto potrebbe essere se i compiti fossero divisi diversamente. In un recente articolo, Christopher Udry (v., 1996) studia l'efficienza della produzione agricola utilizzando dati molto dettagliati sulle famiglie del Burkina Faso relativi, in particolare, ai singoli appezzamenti coltivati da ogni membro della famiglia. Dopo aver controllato il tipo di coltivazione, la fertilità del suolo e l'estensione dell'appezzamento, Udry osserva che i terreni coltivati dalle donne rendono meno per unità di superficie. In altri termini, a parità di qualità del terreno, un ettaro coltivato da una donna produce un raccolto inferiore a quello ottenuto se a coltivarlo è un uomo della stessa famiglia. Il risultato non è imputabile a presunta pigrizia o minore abilità delle donne, bensì al fatto che sugli appezzamenti gestiti dagli uomini vengono impiegate maggiori quantità di fertilizzanti, maggiore forza-lavoro (nel senso di lavoratori salariati o figli che lavorano sul campo del padre ma non su quello della madre), insomma viene riversata una quantità maggiore di input che aumenta la produttività del lavoro di chi coltiva quegli appezzamenti. Ciò costituisce una soluzione inefficiente, in quanto sarebbe ottimale per la famiglia nel suo complesso spostare alcuni di questi input sulle terre gestite dalle donne (dove, in base al principio dei rendimenti decrescenti, il loro contributo all'aumento del prodotto sarebbe maggiore), oppure lasciare che tutti gli appezzamenti siano gestiti da uomini (quindi con abbondanza di input) prevedendo un trasferimento compensativo per le donne. Se tutto questo non avviene è segno che i meccanismi di contrattazione all'interno della famiglia non consentono di utilizzare le risorse in maniera efficiente; vi sarebbe quindi spazio per miglioramenti nella qualità della vita degli individui che in realtà non avvengono.

Gli studi sopra citati hanno importanti implicazioni di politica economica. Se la divisione del potere contrattuale influenza l'allocazione delle risorse all'interno della famiglia, i programmi di lotta alla povertà che trattano la famiglia come un'entità indifferenziata sono destinati a mancare almeno in parte i propri obiettivi. Per esempio, politiche di trasferimenti indirizzate al capofamiglia avranno effetti diversi da programmi che offrano opportunità di lavoro o accesso al credito alle donne.

b) Mercati del lavoro.

Sin dalla metà del XX secolo la teoria economica ha rappresentato in maniera diversa il funzionamento delle economie avanzate e di quelle in via di sviluppo appellandosi a un diverso funzionamento del mercato del lavoro. Sebbene quest'ultimo (come vedremo nei paragrafi seguenti) non sia il solo su cui gravano imperfezioni e problemi informativi, è senz'altro utile iniziare l'analisi dei mercati nei PVS partendo da esso. La disoccupazione involontaria nelle economie arretrate rappresenta una sfida alla teoria economica. Infatti nei paesi industrializzati uno dei motivi addotti per l'esistenza di tale fenomeno è che i salari sono 'relativamente troppo alti', e che non possono diminuire fino a eguagliare domanda e offerta a causa della presenza di sindacati e di altri vincoli istituzionali. Tuttavia, nei PVS queste motivazioni sono piuttosto deboli e il 'fallimento del mercato' nell'eliminare o ridurre la disoccupazione rimane difficile da chiarire.

Una delle spiegazioni avanzate dalla fine degli anni cinquanta (v. Leibenstein, 1957) mette in relazione la produttività del lavoro con l'apporto nutrizionale, e sostiene che il motivo per cui il salario non diminuisce fino a eguagliare domanda e offerta è che altrimenti i lavoratori non avrebbero abbastanza da mangiare e sarebbero troppo 'deboli' per essere produttivi. È interessante che questa spiegazione, nata con riferimento esplicito ai PVS, sia poi stata applicata ai paesi industrializzati nella versione dei 'salari di efficienza', secondo cui i salari possono non diminuire in presenza di disoccupazione perché altrimenti i lavoratori sarebbero 'meno motivati' a essere altamente produttivi. Successivamente, il modello è stato esteso al caso in cui i lavoratori hanno accesso a diverse fonti di reddito alternative (v. Dasgupta e Ray, 1986). Per esempio, alcuni hanno un piccolo appezzamento di terreno da cui trarre la propria sussistenza e altri sono senza terra: in tal caso, per i datori di lavoro è più conveniente assumere i primi (dal momento che è sufficiente 'aggiungere' un salario inferiore perché questi arrivino alla soglia nutrizionale), e ci si può aspettare che siano i senza terra a rimanere disoccupati. In termini di politica economica, la teoria implica che una ridistribuzione della terra (per esempio dai grandi proprietari terrieri ai senza terra) aumenterebbe il prodotto aggregato, in quanto alcuni dei lavoratori precedentemente disoccupati sarebbero messi in grado di produrre. Per quanto interessante da un punto di vista concettuale, questa teoria ha finora ricevuto una limitata conferma empirica.

Un secondo filone di studi si concentra su un'altra caratteristica peculiare dei PVS: l'esistenza di mercati del lavoro 'a più livelli'. Una delle dimensioni su cui i livelli sono definiti è la durata del contratto di lavoro. Tipicamente si osservano due tipi di contratti: quelli a lunga durata, che impegnano il lavoratore per tutto l'anno o per tutto il ciclo della produzione agricola, e quelli a breve o 'casuali'. Questi ultimi coinvolgono un gran numero di individui che vengono assunti 'a giornata' o comunque per periodi e con compiti molto limitati. Nonostante il salario dei primi sia in media superiore a quello dei secondi, la potenziale competizione tra i lavoratori non elimina il differenziale salariale. Un'interessante spiegazione in merito è stata fornita da Mukesh Eswaran e Ashok Kotwal (v., 1985). Gli autori partono dal fatto che alcuni compiti in agricoltura richiedono particolare cura e sono difficili da monitorare (per esempio, l'aratura, la semina, l'impiego di fertilizzanti e l'irrigazione), mentre altri sono più ripetitivi e più facilmente monitorabili (per esempio, la raccolta). In questo caso può essere conveniente per un proprietario terriero assumere con contratti a breve quel tipo di manodopera a cui non si richiede particolare 'lealtà', e offrire invece un impiego stabile a chi deve svolgere incarichi più complessi. Infatti, chi beneficia di un contratto a lungo termine ben remunerato avrà un incentivo a comportarsi correttamente per non perdere questo vantaggio qualora risultasse ex post che una produzione insufficiente è imputabile a mancanza di sforzi adeguati da parte sua. La necessità di fornire incentivi a comportarsi lealmente può dunque spiegare il differenziale salariale tra lavoratori con contratti a lunga e a breve scadenza. Un'altra possibile spiegazione deriva dalla stagionalità dell'impiego agricolo, per cui la manodopera è molto abbondante in bassa stagione, ma è relativamente scarsa nel periodo del raccolto. In tale contesto, può essere vantaggioso per il proprietario assumere un certo numero di lavoratori su base annuale, garantendo loro un lavoro durante la bassa stagione ma assicurandosene la disponibilità in quella alta. Ciò fornisce anche un'assicurazione contro le fluttuazioni di reddito per il lavoratore, data l'incertezza sulle condizioni salariali nel periodo del raccolto.

c) Mercati della terra.

Un'ulteriore fonte di inefficienza nel funzionamento delle economie agricole è legata alle forme contrattuali impiegate per l'affitto della terra. Le forme più diffuse nei PVS sono due: i contratti di 'rendita fissa' e quelli di mezzadria. Coi primi l'affittuario si impegna a pagare una somma fissa al proprietario terriero per utilizzare un appezzamento, e trattiene la rimanente parte del raccolto. Nel contratto di mezzadria, invece, il pagamento è fornito da una quota del raccolto, che può essere la metà (come suggerisce il termine), ma anche inferiore o superiore. La differenza tra le due forme in termini di incentivi era già stata riconosciuta dall'economista inglese Alfred Marshall alla fine del XIX secolo, quando sosteneva che il sistema inglese di rendita fissa era più efficiente di quello francese incentrato sulla mezzadria (da qui l'appellativo di 'inefficienza marshalliana'). Per capire la ragione di tale inefficienza occorre partire dalla constatazione che molto spesso l'impegno dell'affittuario non è monitorabile: si può osservare l'entità del raccolto, ma è difficile giudicare se un'eventuale scarsità sia dovuta a crisi esterne oppure a negligenza da parte di chi ha coltivato la terra. Sapendo di non poter essere monitorato, l'affittuario sceglierà quanto e come lavorare in base a cosa gli risulta più conveniente. Con un contratto di mezzadria ogni chilogrammo di prodotto in più deve essere diviso col proprietario, mentre con la rendita fissa - una volta pagato l'ammontare pattuito - qualunque incremento residuo di raccolto viene trattenuto interamente dall'affittuario. È per questo che la rendita fissa fornisce più incentivi a lavorare, e quindi si traduce in una produzione maggiore.

Analisi recenti hanno sottolineato un aspetto complementare che contribuisce a spiegare come mai la mezzadria sia ancora ampiamente utilizzata in Asia e in America Latina, nonostante la sua presunta inefficienza. Tale aspetto riguarda il rischio connesso alla produzione agricola e la possibilità di condividere tale rischio per il proprietario e per l'affittuario. Nello schema di rendita fissa l'affittuario è tenuto a pagare l'ammontare pattuito sia nelle buone che nelle cattive annate: ogni shock negativo alla produzione agricola viene da lui interamente assorbito. Nella mezzadria, invece, il pagamento è specificato come quota del prodotto, così che eventuali perdite di raccolto ricadono solo parzialmente sull'affittuario. Ciò fa sì che, se quest'ultimo è più avverso al rischio del proprietario (il che è altamente probabile, visto che in genere è molto più povero), possa essere ottimale per lui sottoscrivere un contratto di mezzadria, che gli fornisce una forma di 'assicurazione', piuttosto che uno di rendita fissa. Naturalmente, dal punto di vista del rischio la cosa ideale sarebbe percepire un salario fisso, indipendente dall'andamento del raccolto, ma in questo caso verrebbero meno gli incentivi a lavorare con sufficiente impegno. Il contratto di mezzadria può quindi essere interpretato come un compromesso tra l'esigenza di fornire incentivi e quella di offrire assicurazione.

La teoria dell'inefficienza marshalliana, unita a un'ampia evidenza empirica circa la minore produttività dei grandi appezzamenti coltivati da affittuari rispetto ai piccoli appezzamenti coltivati dai proprietari stessi, ha ispirato numerosi tentativi di riforme fondiarie. In alcuni Stati dell'India, per esempio, le riforme hanno avuto non solo lo scopo di frammentare la grande proprietà concedendo lo status di proprietario anche ai piccoli contadini, ma anche di migliorare le condizioni contrattuali di coloro che rimanevano mezzadri, attraverso l'abolizione di intermediari e la promozione di 'campi di registrazione' in cui gli affittuari si registravano ufficialmente e acquisivano una serie di diritti (v. Besley e Burgess, 2000; v. Banerjee e altri, 2002). Nonostante gli effetti positivi di tali riforme in termini di lotta alla povertà, quello delle riforme fondiarie rimane tuttora uno dei temi più controversi nella politica economica dei PVS, soprattutto per le sue implicazioni politiche.

d) Mercati del credito.

Come già messo in luce da alcuni modelli macroeconomici precedentemente esaminati, l'esistenza di imperfezioni nei mercati dei capitali rappresenta uno degli ostacoli principali alla crescita dei paesi poveri. In questo paragrafo concentreremo l'attenzione sulla natura di tali imperfezioni nei PVS, indagando quali siano i vincoli che gli individui incontrano nell'accesso al credito e in che modo questi vincoli possano essere in parte attenuati sfruttando strutture istituzionali di tipo informale.

Una transazione di credito è un atto di scambio intertemporale in cui un individuo riceve denaro (o beni) impegnandosi a ripagare in una data futura. Come tale essa è intrinsecamente soggetta a problemi di informazione, sia nel senso che spesso l'affidabilità di chi prende a prestito non è nota al creditore al momento del contratto, sia perché dopo aver ricevuto il prestito il debitore può compiere delle azioni non osservabili dal creditore che vanno a svantaggio di quest'ultimo (per esempio, può non sforzarsi abbastanza di lavorare in modo da essere in grado di ripagare). Un importante contributo di Joseph Stiglitz e Andrew Weiss (v., 1981) illustra le implicazioni di tali problemi informativi per il mercato del credito. Si consideri una banca che deve scegliere a chi concedere un prestito tra una serie di individui più o meno rischiosi, nel senso che i loro progetti di investimento hanno diverse probabilità di successo. Un'ipotesi cruciale del modello è che gli individui conoscano il proprio grado di affidabilità, mentre la banca non sia in grado di appurarlo. Una seconda ipotesi è quella in cui, in caso di fallimento del progetto, il debitore perde al massimo la garanzia collaterale che ha offerto in pegno, ma non può essere costretto a ripagare l'intero ammontare per mancanza di risorse ('responsabilità limitata'). Nel fissare il tasso di interesse sul prestito, la banca deve dunque tenere presente che un dato tasso potrebbe incoraggiare ad accettare il prestito sia gli individui sicuri che quelli rischiosi, e deve fare in modo di non causare un peggioramento del proprio portafoglio-clienti attraverso la scelta delle condizioni contrattuali. In particolare, se il tasso di interesse fissato è relativamente basso, possiamo supporre che sia gli individui rischiosi, sia quelli sicuri saranno invogliati a prendere a prestito. Tuttavia, man mano che il tasso di interesse aumenta, gli individui sicuri hanno sempre meno interesse a sottoscrivere il prestito, in quanto sanno che con alta probabilità i loro progetti avranno successo e che dovranno pagare un alto interesse; al contrario, gli individui rischiosi sono relativamente più propensi ad accettare interessi elevati, in quanto sanno che con alta probabilità non li ripagheranno. La banca può quindi prevedere che se aumenta il tasso di interesse sui prestiti oltre un certo livello, il mutamento nella composizione dei propri clienti (cioè l'aumento della proporzione di clienti rischiosi, che è un fenomeno di 'selezione avversa') andrà a proprio svantaggio poiché ci sarà un elevato numero di prestiti non ripagati. È quindi possibile che, anche se al tasso di interesse corrente la domanda di prestiti eccede l'offerta, le banche si rifiutino di aumentare i tassi proprio per non scoraggiare i clienti migliori. Questa è una delle spiegazioni più convincenti del fenomeno del 'razionamento del credito', molto diffuso nei PVS, per cui si osserva un consistente eccesso di domanda di prestiti senza che il prezzo di tali prestiti (l'interesse) aumenti per stabilire l'equilibrio sul mercato del credito.

Partendo dai severi limiti di informazione cui è soggetto il settore formale del credito nei PVS (spesso i clienti vivono a grande distanza dalla filiale a cui si rivolgono ed è molto costoso raccogliere informazioni sul loro conto), si comprende il proliferare di una serie di istituzioni informali che concedono prestiti a clienti locali su cui hanno un vantaggio relativo d'informazione. Tralasciando i prestiti concessi da amici e parenti (generalmente di modesta entità; a tale proposito, si osserva come sia molto frequente che i trasferimenti ricevuti da amici e parenti non siano considerati dai beneficiari come veri e propri 'prestiti a interesse', bensì come 'aiuti' ricevuti in seguito a shocks negativi, che l'individuo si impegna a ricambiare qualora la controparte ne avesse bisogno; per un interessante contributo sul ruolo della reciprocità negli schemi di mutua assicurazione, v. Coate e Ravallion, 1993), molto diffusa è la presenza di usurai che esercitano un certo potere di monopolio sulla propria clientela.

In tempi recenti è cresciuta l'attenzione rivolta a organizzazioni tradizionali per la raccolta del risparmio e la concessione di prestiti, tra cui per esempio le 'associazioni di risparmio e credito rotativo' (ROSCA, Rotating Saving and Credit Associations; v. Besley e altri, 1993). Tali forme associative, sviluppatesi spontaneamente e diffuse in tutto il mondo, sono costituite da gruppi di persone che si incontrano a intervalli regolari versando una certa somma in una cassa comune; di volta in volta l'intera cassa viene assegnata a uno dei membri secondo criteri di estrazione casuale o meccanismi d'asta. In alcuni casi, parte dei fondi raccolti viene trattenuta e prestata a interesse ai membri che ne facciano richiesta. Le ROSCA sono considerate un utile punto di riferimento per quanti studiano lo sviluppo della finanza locale nei PVS, grazie alla loro capacità di mobilitare il risparmio e all'utilizzo di meccanismi di pressione sociale per far rispettare i termini dell'accordo.

La principale innovazione negli strumenti di credito offerti all'interno dei PVS nell'ultimo ventennio è probabilmente costituita dai programmi di credito per gruppi (PCG). I primi programmi furono introdotti alla fine degli anni settanta dalla Grameen Bank del Bangladesh, fondata da Muhammad Yunus, un professore di economia. Partita come tentativo di concedere prestiti in pochi villaggi del Bangladesh, al settembre del 2002 essa contava oltre 2,4 milioni di clienti ed era presente nel 60% dei villaggi del paese. Il modello Grameen è diventato un cavallo di battaglia della microfinanza, ossia dei programmi volti alla concessione di prestiti a individui troppo poveri per avere accesso a prestiti di banche commerciali o governative, ed è ormai diffuso in tutto il mondo (per un'accurata rassegna sui programmi di credito per gruppi, v. Ghatak e Guinnane, 1999). L'elemento fondamentale dei PCG è che gli individui, anziché presentarsi singolarmente per ottenere un prestito, costituiscono un gruppo insieme a dei partners che saranno poi responsabili in solido per il ripagamento; inoltre non è richiesta alcuna garanzia collaterale. Nel caso di Grameen, i gruppi sono formati da cinque persone che presentano ciascuna un progetto per l'utilizzo del prestito richiesto (in genere l'avviamento di laboratori artigianali o attività di commercializzazione); i funzionari valutano l'affidabilità del gruppo ed elargiscono i prestiti in maniera sequenziale, così che il ripagamento puntuale di chi ha ottenuto il prestito per primo è condizione necessaria perché chi segue ottenga il proprio prestito. Il mancato ripagamento da parte di un membro del gruppo comporta l'esclusione futura dai prestiti di tutti i membri, anche quelli più 'diligenti'. Questa clausola, detta 'responsabilità congiunta', è molto importante in quanto fornisce ai membri del gruppo gli incentivi per scegliere dei partners non rischiosi e per monitorarsi a vicenda una volta ottenuto il prestito, in modo che tutti esercitino il massimo impegno nel lavoro per essere in grado di ripagare puntualmente. Ciò costituisce un rimedio efficace ai problemi informativi discussi sopra, in quanto chi sceglie di formare un gruppo di solito appartiene allo stesso villaggio e conosce bene gli altri membri: in questo modo il flusso di informazioni e la capacità di monitoraggio che mancano all'istituzione bancaria vengono forniti dalla struttura sociale. Anche se chi prende a prestito da Grameen non è tenuto a offrire una garanzia collaterale, i legami sociali esistenti tra i membri fungono da 'collaterale virtuale' e finora hanno assicurato un tasso di ripagamento intorno al 98%.

e) Capitale sociale.

Le relazioni sociali sono ormai riconosciute come un'importante determinante della performance economica non solo nel settore del credito, ma anche per la diffusione delle informazioni e la possibilità di far rispettare gli accordi e far funzionare le istituzioni. In un influente e controverso studio sulle regioni italiane, Robert Putnam (v., 1993) ha messo in relazione l'efficienza dei governi locali nel promuovere lo sviluppo regionale con la densità delle reti associative e di altre forme di collaborazione 'civica', sostenendo che la differente performance tra il Nord e il Sud dell'Italia poteva essere in parte spiegata proprio da questi fattori. L'entità e la qualità delle relazioni associative di un individuo o una comunità e l'insieme delle norme sociali a esse connesse sono state recentemente indicate con il termine di 'capitale sociale', per suggerire che costituiscono uno stock di capitale che entra nella funzione di produzione e contribuisce alla creazione di output in maniera paragonabile agli altri fattori, quali il lavoro e il capitale fisico (per una rassegna sul concetto di capitale sociale e sulle sue applicazioni, v. Dasgupta e Serageldin, 2000).

L'idea che la partecipazione a gruppi e la diffusione di norme sociali improntate alla fiducia possano mitigare gli effetti di alcuni fallimenti del mercato è stata quindi estesa a una varietà di contesti. Numerosi studi empirici sui PVS hanno riscontrato che comunità con maggiore 'capitale sociale' sono più efficienti nella fornitura di beni pubblici locali e nella gestione di risorse naturali: la maggiore coesione tra gli individui consente infatti di mitigare i problemi di free riding presenti, ad esempio, nella gestione dei canali di irrigazione o nella regolamentazione della pesca in piccoli bacini (v. Wade, 1988; v. Platteau, 2000). Recenti studi hanno dimostrato che l'esistenza di una fitta rete di relazioni interpersonali nelle aree rurali facilita l'adozione di innovazioni, promuovendo così il progresso tecnologico nel settore agricolo, in quanto gli agricoltori imparano dall'esperienza altrui e hanno la possibilità di scambiarsi informazioni. Anche lo sviluppo finanziario risulta facilitato dalla presenza di 'capitale sociale', in quanto grazie alla maggiore propensione a fidarsi della propria controparte è possibile introdurre forme di pagamento più sofisticate (come gli assegni o i conti bancari). Al contrario, recenti studi su alcune comunità rurali africane hanno rilevato che villaggi la cui popolazione era particolarmente eterogenea (soprattutto in termini di etnie) e in cui l'aggregazione sociale era più debole avevano difficoltà a gestire risorse comuni, quali le scuole pubbliche o le cooperative di produzione.

Nonostante la comprensione teorica di questi temi sia ancora limitata e l'evidenza empirica non sia abbondante come in altri campi, lo studio delle relazioni interpersonali in rapporto ai fallimenti del mercato sembra oggi una delle strade più promettenti per comprendere i vincoli sociali allo sviluppo.

4. Conclusioni.

Per tornare alle domande che ci siamo posti all'inizio della trattazione, è ovvio che l'economia dello sviluppo negli ultimi vent'anni non è riuscita a fornire risposte esaurienti; possiamo però affermare, senza peccare di eccessivo ottimismo, che sono stati fatti passi da gigante. È ragionevole pensare che i contributi metodologici e l'accumularsi lento ma continuo di un patrimonio di esperienza empirica contribuiranno a una comprensione sempre più profonda delle radici dello sviluppo: una comprensione che non si tradurrà nell'offerta di 'ricette' di politica economica adatte a ogni contesto, ma che partendo dalla conoscenza degli aspetti micro e macroeconomici saprà stimolare uno sviluppo dell'economia di mercato compatibile con i vincoli socio-istituzionali locali.

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