Sviluppo economico

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Sviluppo economico

Massimo Tommasoli

(App. III, ii, p. 880; IV, iii, p. 562; V, v, p. 368)

Le origini dell'attuale sistema internazionale di cooperazione allo sviluppo risalgono alla fine degli anni Quaranta, con l'istituzione delle Nazioni Unite. Gli intenti originari e gli obiettivi della cooperazione internazionale allo sviluppo sono descritti nella voce nazioni unite (App. III, ii, p. 229), ripresa poi nell'App. IV (ii, p. 558), nella quale sono anche illustrate le funzioni e la natura degli organismi ausiliari (UNIDO, UNCTAD, UNDP) espressamente destinati al rafforzamento degli strumenti di cooperazione allo sviluppo. Sotto il profilo storico, l'evoluzione del modello di coordinamento internazionale di gestione dei problemi dello sviluppo, che da un sistema di carattere coloniale, su base bilaterale, si è evoluto verso uno schema di tipo multilaterale, più orientato alla soluzione di problemi comuni all'intera area del sottosviluppo, è illustrata nella voce terzo mondo (App. IV, iii, p. 631), nella quale si mette anche in rilievo il ruolo e l'azione di concertazione di altre istituzioni destinate a tale obiettivo (FAO, BIRD ecc.), e nella voce istituzioni economiche internazionali, in questa Appendice. Un aspetto rilevante, ai fini della promozione di una più accelerata crescita economica nei paesi beneficiari, è stato l'utilizzo di canali ufficiali per l'afflusso di capitali nei Paesi in via di sviluppo (PVS), storicamente caratterizzati da scarsa affluenza di capitali privati. Al riguardo, nella voce fondo monetario internazionale (App. V, ii, p. 277) è illustrato il funzionamento degli strumenti finanziari creati negli anni Ottanta (come le facilitazioni per l'aggiustamento strutturale) e descritto il meccanismo di concessione dei crediti come contropartita a impegni di aggiustamento strutturale. Tra le organizzazioni che svolgono un ruolo importante nelle politiche di cooperazione allo sviluppo occorre considerare anche l'OCSE (App. V, iii, p. 730) che, pur interessando prevalentemente i paesi più industrializzati, dedica attenzione anche ai paesi partner (e in particolare a quelli in via di sviluppo) e intrattiene inoltre numerosi rapporti con le altre agenzie finalizzate allo sviluppo. Per quanto riguarda infine l'aspetto specifico dell'agricoltura, e in particolare il problema della sicurezza alimentare nelle aree più povere del mondo, si rinvia alle voci agricoltura (App. IV, i, p. 62; V, i, p. 82) e alimentazione (App. IV, i, p. 101) nelle quali sono illustrate le iniziative della FAO a favore dei PVS. *

Cooperazione internazionale allo sviluppo

di Massimo Tommasoli

La cooperazione internazionale allo sviluppo consiste nell'azione delle istituzioni che si propongono di migliorare le condizioni economiche e sociali delle fasce più povere delle popolazioni appartenenti ai paesi detti appunto in via di sviluppo. A tale scopo vengono stabilite relazioni a diversi livelli, statali e internazionali, governativi e non governativi. A livello statale governativo esistono istituzioni bilaterali che collegano i paesi donatori, promotori dell'aiuto, e i paesi beneficiari che con proprie strutture si impegnano nell'attuazione dei programmi. A livello internazionale lo sviluppo viene promosso in particolare dalle agenzie specializzate del sistema delle Nazioni Unite, dalle istituzioni finanziarie internazionali e dalle banche di sviluppo, da altri donatori, quali l'Unione Europea, nonché dai meccanismi di coordinamento dei paesi donatori, come il Comitato per l'aiuto allo sviluppo (DAC, Development Assistance Committee) dell'OCSE, e dalle organizzazioni regionali dei paesi beneficiari. A livello non governativo esistono numerose agenzie private, note appunto come Organizzazioni non governative (ONG) e, più in generale, le Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS).

L'oggetto principale della cooperazione è la gestione delle risorse per lo sviluppo: umane, materiali, finanziarie. Le ragioni che inducono i donatori a destinare risorse per lo sviluppo combinano normalmente motivazioni solidaristiche e interessi politici. L'erogazione di fondi può talvolta essere vincolata a condizioni, consistenti nell'adozione di riforme economiche e sociali, che i paesi beneficiari si impegnano a soddisfare. Il DAC ha definito l'Aiuto pubblico allo sviluppo (APS) come trasferimento di risorse - sia direttamente ai PVS, sia indirettamente alle istituzioni multilaterali - da parte di organi pubblici, inclusi i governi statali e locali o i loro organi esecutivi, alle seguenti condizioni: a) che ogni trasferimento sia diretto allo sviluppo economico e al benessere dei paesi destinatari; b) che ogni trasferimento contenga un elemento dono pari almeno al 25% (OCSE-DAC 1985). Risultano così evidenti le caratteristiche essenziali dell'aiuto allo sviluppo, che lo specificano come aiuto pubblico, con obiettivo di sviluppo, con caratteristica di dono o concessionalità. In tale prospettiva si distinguono le principali categorie di finanziamento: doni, crediti di aiuto, contributi a istituzioni multilaterali.

Il consenso raggiunto su tali presupposti dalla comunità dei donatori, sebbene abbia permesso di stabilire convenzionalmente cosa comprendere nell'aiuto pubblico allo sviluppo, pone alcune difficoltà di ordine analitico e concettuale. Sul piano analitico, non viene preso in considerazione il peso di altre risorse che, pur non essendo pubbliche, sono rivolte a obiettivi di sviluppo ed erogate a condizioni di dono e concessionalità, e possono comportare direttamente o indirettamente un impatto sul processo di sviluppo del paese destinatario.

Per avere un quadro del volume dei finanziamenti che possono incidere sulle condizioni e sull'oggetto della cooperazione, è necessario considerare, oltre all'aiuto pubblico dato specificamente allo sviluppo, le altre risorse pubbliche destinate sul piano bilaterale o multilaterale ai PVS, e le risorse private normalmente gestite dalle ONG in forma di doni o concesse a condizioni di mercato. L'analisi dei flussi netti delle risorse finanziarie trasferite dai paesi membri del DAC mostra che le erogazioni dell'aiuto pubblico allo sviluppo a prezzi e tassi di cambio correnti, pur aumentando in termini assoluti da 35,8 a 55,4 miliardi di dollari, si sono ridotte (dal 54% del totale dei trasferimenti nel 1986 al 28% nel 1996), mentre nello stesso periodo i flussi privati commerciali sono cresciuti, salendo dal 39% al 66% del totale delle risorse trasferite, passando da 25,9 a 130,3 miliardi di dollari. Nel 1996, il volume degli altri flussi ufficiali veniva calcolato a circa 5,5 miliardi di dollari, pari al 3% del totale dei flussi netti dei trasferimenti, e una quota analoga veniva stimata a proposito delle risorse private destinate a dono delle ONG.

Sul piano concettuale la definizione di aiuto pubblico allo sviluppo adottata dall'OCSE si misura con la difficoltà rappresentata dalla cosiddetta fungibilità degli aiuti. In linea di principio, infatti, gli aiuti internazionali potrebbero contribuire a distogliere altre risorse da settori prioritari, quali la sanità, l'istruzione o le infrastrutture di base. La disponibilità di aiuti internazionali può di fatto indurre qualche governo ricevente a servirsene per destinare risorse del bilancio statale a finalità diverse, o addirittura incompatibili con i presupposti della cooperazione, quali per es. le spese militari. La possibilità di tali deviazioni ha indotto la comunità internazionale a riflettere maggiormente sulle condizioni politiche cui vincolare l'erogazione di aiuti, e in particolare sulle premesse del buon governo e sul rapporto tra politica di cooperazione e sostegno ai processi di democratizzazione.

Origini e sviluppi della cooperazione internazionale

Nel periodo tra le due guerre mondiali, le amministrazioni coloniali si sono valse dell'idea di sviluppo per impostare i loro programmi. Ne fu un esempio la legge promulgata in Gran Bretagna nel 1929 - Colonial Development Act, riveduta nel 1940 come Colonial Development and Welfare Act -, nella quale al concetto di sviluppo si aggiunge quello di benessere. Le origini della cooperazione sono, tuttavia, connesse alla ricerca di nuovi equilibri nelle relazioni internazionali, in corrispondenza con i mutamenti sociali, economici e politici in corso nella ripresa economica dopo la Seconda guerra mondiale.

Coordinata al concetto di sviluppo si afferma la nozione di sottosviluppo, il cui primo riferimento si individua nello Inaugural address del presidente degli Stati Uniti, H.S. Truman, rivolto alla nazione il 20 gennaio 1949. Il concetto di sottosviluppo era destinato ad avere un grande peso nella storia della cooperazione. L'opposizione 'sviluppo-sottosviluppo' non si limita ad affermare la responsabilità storica dei paesi industrializzati nei confronti dei paesi poveri, ma definisce implicitamente una sorta di percorso che questi ultimi dovrebbero intraprendere per avvicinarsi alle condizioni di vita dei primi. Sorge così l'espressione Paesi in via di sviluppo, divenuta parte del linguaggio corrente, spesso in alternativa all'espressione del Terzo Mondo. Sul finire degli anni Cinquanta e nel corso degli anni Sessanta il consolidamento della cooperazione procede parallelamente al processo di decolonizzazione. Le élites - politiche e intellettuali - dei paesi più sviluppati hanno contribuito a rendere effettiva una tale presa di coscienza, scosse dalle condizioni economiche e sociali dei paesi di nuova indipendenza, già coloniali, al confronto dei paesi industriali, già 'metropolitani'. Lo sviluppo economico e sociale diventa un obiettivo primario dei nuovi governi. Si creano organismi nazionali destinati alla pianificazione, considerati dalle classi dirigenti come elementi costitutivi non solo del ruolo dello Stato, ma anche delle stesse identità nazionali.

Gran parte delle riflessioni successive sullo sviluppo e molti dei modelli interpretativi, elaborati soprattutto nell'ambito dell'economia, sono stati gravati dai pregiudizi e dagli stereotipi sorti dalla dinamica tra sviluppo e sottosviluppo. La nozione di sviluppo, normalmente connessa all'idea di progresso, nella considerazione degli occidentali viene ritenuta non solo una caratteristica della civiltà occidentale e della sua affermazione nel mondo moderno, ma le si attribuisce una validità universale come di un modello buono per tutte le situazioni. In una tale concezione si attribuisce una fiducia quasi illimitata all'impiego della tecnica per migliorare i livelli di vita dell'umanità, si dà il primato alla razionalità dell'economia e all'economia di mercato, si ritiene che il mutamento avvenga secondo un progresso lineare, e si considerano gli assi spazio-temporali, socialmente e storicamente costruiti per favorire il mutamento, validi a tutte le latitudini, senza tener conto delle variabili sociali e culturali dei contesti locali. D'altra parte, non si può non riconoscere che il concetto di sviluppo ha assunto per il mondo occidentale un valore simbolico di grande stimolo, in grado di influenzare le modalità di interazione tra Stati e popolazioni, tanto da dover essere considerato uno dei cardini della stessa modernità.

Il dibattito sul concetto di sviluppo e le sue applicazioni pratiche hanno favorito la formazione di un corpus dottrinale e di un dispositivo istituzionale e sociale. Il punto di riferimento, implicito nel termine sviluppo, è costituito dal modello occidentale delle società industriali, fondato sulla crescita economica e sull'espansione del mercato attraverso un processo storico che ha portato a radicali mutamenti sociali. Si sono in tal modo raffinati gli strumenti di analisi del processo di sviluppo, tesi a costruire specifiche contabilità nazionali nelle quali sono ordinati dati e informazioni (principalmente quantitative), organizzate in indicatori con i quali non ci si è limitati a misurare andamenti e statistiche, ma si è stabilito un ordine spaziale e temporale coerente con le logiche, i valori e gli obiettivi del processo stesso. Il termine sviluppo comprende, infine, tanto le specifiche modalità e pratiche di intervento (progetti, programmi e politiche), quanto gli apparati istituzionali che applicano le une e realizzano le altre.

La cooperazione a livello internazionale

Contemporaneamente alla chiarificazione concettuale dello sviluppo si è andata accrescendo l'organizzazione istituzionale della cooperazione sia a livello internazionale che nazionale. Le prime organizzazioni sorsero, infatti, all'interno dell'ONU, l'Organizzazione delle Nazioni Unite che, nel 1946, fu costituita per dare alla grande assise, che era stata la Società delle Nazioni fondata nel 1920, un nuovo impulso adeguato alle esigenze del tempo. Inoltre, di primaria importanza per la storia della cooperazione sono stati gli accordi di Bretton Woods che, nel 1944, portarono alla fondazione del Fondo monetario internazionale (IMF, International Monetary Fund) e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, comunemente nota come Banca mondiale. Parallelamente a queste nuove istituzioni internazionali furono istituite le prime agenzie bilaterali di cooperazione. La loro successiva interazione ha continuato a stimolare sempre nuovi programmi di cooperazione internazionale e nel contempo ha reso necessaria l'istituzione di meccanismi di coordinamento dell'APS (come i cosiddetti gruppi consultivi) destinato ai vari paesi beneficiari, per evitare le duplicazioni degli interventi, per armonizzare l'azione dei numerosi soggetti e per incrementare l'efficacia degli aiuti.

Delle istituzioni internazionali connesse all'ONU e valorizzate ai fini della cooperazione, alcune erano preesistenti. Così l'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) risaliva di fatto al 1919, e nel 1945 divenne la prima agenzia specializzata dell'ONU. Nello stesso anno fu istituita l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO) che rinnovava un'organizzazione precedente del 1924. Nel sistema dell'ONU venivano inserite nel 1946 l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura (UNESCO) e il Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia (UNICEF), nel 1948 l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e nel 1949 il Programma allargato di assistenza tecnica (Expanded programme of technical assistance) che, nel 1968, confluì nel Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP). Sempre nell'ambito del sistema ONU furono istituite, nel 1947, le Commissioni economiche per l'Europa, l'Asia, il Pacifico; nel 1948 per l'America Latina (estesa nel 1982 anche ai Caribi); nel 1958 la Commissione economica per l'Africa, e nel 1973 la Commissione economica per l'Asia occidentale.

La cooperazione a livello nazionale

L'istituzionalizzazione delle agenzie bilaterali di cooperazione nei paesi donatori ha seguito percorsi diversi, sia in ragione dei legami mantenuti dalle ex potenze coloniali con i paesi indipendenti che erano stati le loro colonie, sia in considerazione dei nuovi equilibri internazionali. Negli Stati Uniti, la politica lanciata dal presidente H.S. Truman nel campo dell'aiuto allo sviluppo comportò una progressiva istituzionalizzazione degli organi specializzati, culminata nella creazione, nel 1955, della International Cooperation Administration, trasformata, nel 1961, dall'amministrazione Kennedy nella United States Agency for International Development (USAID). Tra il 1958 e il 1961 anche il Regno Unito si dotò di strutture di assistenza tecnica e, nel 1964, istituì un ministero per lo sviluppo d'oltremare, l'Overseas Development Ministry. La Francia, nel 1958, trasformò la Caisse centrale de la France d'Outremer nella Caisse centrale de coopération économique e, nel 1961, creò il Ministère de la coopération, per gli aiuti ai paesi del Terzo Mondo. In altri paesi, come l'Italia, l'istituzionalizzazione della cooperazione è avvenuta in tempi più recenti.

Il caso italiano. - L'esperienza italiana costituisce per molti aspetti un'eccezione. Infatti, il peso attribuito alla cooperazione, piuttosto contenuto negli anni Sessanta e Settanta con un aiuto pubblico allo sviluppo pari allo 0,17% del PNL (1970), è andato crescendo, a partire dagli anni Ottanta, con lo 0,42% del PNL destinato nel 1989 all'APS, in un momento in cui le risorse destinate all'aiuto internazionale da altri donatori, impegnati da più tempo in questo campo, si erano stabilizzate, se non addirittura ridotte. Dall'inizio degli anni Novanta, tuttavia, il volume dei finanziamenti italiani per la cooperazione si è andato ridimensionando, fino ad arrivare, nel 1995, a un'incidenza dell'APS sul PNL pari allo 0,15%. Va peraltro sottolineato che la media dell'APS dei paesi OCSE, come percentuale del PNL, è passata dallo 0,35% del 1990 allo 0,26% del 1995, anno nel quale solamente Danimarca (0,96%), Norvegia (0,91%), Paesi Bassi (0,81%) e Svezia (0,77%) hanno rispettato l'obiettivo dello 0,7% più volte ribadito dalla comunità dei donatori.

Sul piano normativo, solo il 15 dicembre 1971 è stata varata in Italia la l. nr. 1222 (Cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo), che detta le prime norme sulla cooperazione. Tuttavia, anche in mancanza di una legislazione organica, la cooperazione italiana era stata attiva con una notevole somma di esperienze, raccolte sia durante il decennio dell'amministrazione fiduciaria della Somalia (AFIS) conclusosi nel 1960, sia con gli investimenti in attività di cooperazione tecnica che, per quanto limitati, sono stati significativi, sia, infine, con le molte iniziative private delle ONG italiane, centri di reclutamento dei volontari laici e di assistenza programmata per i PVS.

Con la l. 9 febbr. 1979 nr. 38 (Cooperazione dell'Italia con i Paesi in via di sviluppo), furono ricondotte nel medesimo quadro la cooperazione tecnica e quella finanziaria, e fu istituito un Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo (DIPCO) all'interno del Ministero degli Affari esteri. Inoltre, con la l. 8 marzo 1985 nr. 73 veniva creata un'istituzione autonoma (sia pure sottoposta a un sottosegretario agli Esteri), il Fondo aiuti italiani (FAI), per l'attuazione di programmi straordinari contro la fame nel mondo. Infine, la l. 26 febbr. 1987 nr. 49 concludeva il processo di istituzionalizzazione della cooperazione italiana e ampliava la nozione di cooperazione fino a comprendervi una larga serie di obiettivi sociali, politici e umanitari, affermando che la cooperazione "è parte integrante della politica estera dell'Italia". Coerentemente, all'interno del Ministero degli Affari esteri, veniva creata una struttura specializzata, la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, che assorbiva le competenze del DIPCO e del FAI (Isernia 1995).

Intanto, si è aperto un nuovo dibattito sulle finalità e gli strumenti della cooperazione italiana, suscitato da una serie di proposte presentate in Parlamento per la revisione della l. nr. 49 del 1987, quasi tutte incentrate nella creazione di un'agenzia responsabile dell'attuazione delle politiche di cooperazione. Qualunque sia l'esito dei lavori parlamentari per una riforma della cooperazione, il nuovo assetto normativo non potrà non prendere in considerazione alcune questioni di fondo di seguito analizzate, ridefinendo conseguentemente il ruolo dei soggetti pubblici e privati, e in particolare delle ONLUS.

Principi, obiettivi e pratiche di intervento

Sebbene le differenze che distinguono le varie istituzioni della cooperazione siano rilevanti, come nel caso della cooperazione non governativa, il loro insieme è connotato da un'evidente comunanza di caratteristiche e di continuità normativa. Alcuni autori, pertanto, sono indotti a riconoscervi l'esistenza di un apparato o configurazione dello sviluppo e sostengono che il complesso di istituzioni sorto dalle attività di cooperazione - organismi internazionali, agenzie governative di cooperazione bilaterale, organismi non governativi, istituzioni nazionali di pianificazione dello sviluppo, centri di ricerca, fondazioni e università - risulta dotato di valori, di norme, di procedure, di linguaggi e di tecniche di analisi che ne fanno pressoché un sistema consolidato.

A.F. Robertson (1984), per es., identifica nella pianificazione nazionale dello sviluppo una delle principali istituzioni del 20° secolo, analizzandola come un insieme di pratiche espresse in forme particolari di processi sociali. Altri autori vanno anche oltre. Così A. Escobar (1995) sostiene che lo sviluppo è una struttura della conoscenza, vale a dire un regime di rappresentazioni della realtà solo in apparenza obiettive, in effetti fondate su relazioni di potere che mantengono in posizione subordinata i soggetti sociali ai quali viene applicato il sapere tecnico specializzato della cooperazione. Dal canto suo, J. Ferguson (1994) si vale di un progetto di sviluppo rurale del Lesotho per analizzare l'impatto concreto degli interventi di cooperazione e giunge a dimostrare che tali interventi possono condurre a un doppio risultato: estendere il potere dello Stato e provocare un forte effetto di de-politicizzazione della stessa azione di cooperazione. J.-P. Olivier de Sardan (1995, p. 7), infine, pone l'accento sulla varia e ampia articolazione dell'apparato della cooperazione - "quell'universo largamente cosmopolita di esperti, di burocrati, di responsabili di ONG, di ricercatori, di tecnici, di capi progetto, di agenti sul terreno, che vivono in qualche modo dello sviluppo degli altri e mobilitano o gestiscono a questo fine considerevoli risorse materiali e simboliche" - ,un complesso che egli definisce con l'espressione configuration développementiste, sostenendo, tra l'altro, che sarebbe proprio la presenza di una simile configurazione a definire la stessa esistenza dello sviluppo.

Qualunque sia il termine usato - istituzione, apparato, configurazione -, il contenuto che si vuol rilevare è l'insieme composito di istituzioni - locali, nazionali, internazionali, governative, non governative, intergovernative, nel settore pubblico o in quello privato, comprendenti anche i mass media e i movimenti sociali e politici della società civile -, caratterizzato da rappresentazioni relativamente omogenee dei ruoli ascritti ai vari soggetti, delle funzioni svolte e delle logiche di pianificazione, senza che vi corrispondano necessariamente coerenti pratiche di intervento.

Sul piano delle rappresentazioni, le conferenze delle Nazioni Unite e gli incontri mondiali di vertice organizzati nell'arco degli anni Novanta sono stati caratterizzati dalla ricerca di un nuovo consenso sui principi e sugli obiettivi della cooperazione, secondo il ruolo attivo dei soggetti coinvolti: le istituzioni dell'apparato dello sviluppo, i governi, le amministrazioni locali, le istituzioni della società civile. Le tematiche affrontate in quegli incontri e conferenze si sono distinte per la globalità della prospettiva: l'infanzia (New York 1990), l'ambiente (Rio de Janeiro 1992), i diritti umani (Vienna 1993), la popolazione (Il Cairo 1994), lo sviluppo sociale (Copenaghen 1995), la donna (Pechino 1995), gli insediamenti umani (Istanbul 1996), l'alimentazione (Roma 1996). È in base a tali dibattiti che i principali paesi donatori sono giunti a concordare una strategia della cooperazione incentrata sul principio della partnership (OCSE-DAC 1996).

Si sono in tal modo specificati gli obiettivi dello sviluppo in termini di benessere economico, sviluppo sociale e sostenibilità ambientale, e sono stati individuati alcuni indicatori per verificare il risultato della cooperazione nel primo ventennio del 21° secolo: a) dimezzare, entro il 2015, la percentuale di popolazione che vive in condizioni di estrema povertà; b) garantire un'educazione di base universale in tutti i paesi entro il 2015; c) realizzare progressi effettivi di eguaglianza tra i sessi e di autonomia delle donne, sopprimendo ogni discriminazione di genere nell'istruzione elementare e secondaria entro il 2005; d) ridurre di due terzi i tassi di mortalità infantile e di tre quarti i tassi di mortalità materna entro il 2015; e) garantire a tutti gli individui in età appropriata servizi di salute riproduttiva entro il 2015; f) attivare entro il 2005, in tutti i paesi, strategie nazionali di sviluppo sostenibile, per far sì che entro il 2015 le attuali tendenze nella perdita di risorse ambientali siano effettivamente invertite, su scala sia globale sia nazionale (OCSE-DAC 1996).

Sul piano pratico, il conseguimento di tali obiettivi si misura con una difficoltà connessa alla stessa azione di sviluppo: lungi dall'intervenire asetticamente in un contesto neutrale, la presenza delle istituzioni della cooperazione si risolve nella continua contrattazione dei diversi significati sociali attribuiti all'intervento di cooperazione dai soggetti coinvolti, quali le autorità nazionali, gli esperti internazionali, i tecnici settoriali, le amministrazioni locali, gli intermediari e, infine, i beneficiari diretti (e ultimi) di un progetto.

Sulle pratiche di cooperazione esercitano una notevole influenza le logiche di pianificazione impiegate per concepire e realizzare un progetto. Comunque, si richiede sempre un'analisi dei problemi di sviluppo, ovvero dei vincoli posti dal contesto di intervento al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione locale. Soltanto da una tale analisi si può formulare una proposta di adeguate soluzioni tecniche per affrontare e sciogliere i problemi locali.

La logica di intervento delle agenzie di cooperazione non è più - se mai lo è stata in passato - focalizzata sul progetto di sviluppo, ma tende a spostare la propria azione sul livello dei programmi settoriali, dei piani integrati di area e, più in generale, delle politiche di sviluppo. Le procedure seguite nei processi decisionali rivestono un'importanza centrale nelle istituzioni e nelle agenzie di cooperazione, spesso articolate in apparati burocratici complessi.

Ogni istituzione applica un sistema di regole, noto come ciclo del progetto, per l'identificazione, la formulazione, l'approvazione, l'esecuzione, il controllo e la valutazione di un'iniziativa di cooperazione. Correlato al ciclo del progetto è il quadro logico, uno degli strumenti di pianificazione più diffusi. Mentre il ciclo del progetto definisce le principali responsabilità assegnate ai soggetti coinvolti in un intervento, il quadro logico serve a esplicitare, secondo una matrice standardizzata, la logica di intervento applicata dal pianificatore, in base a uno schema nel quale vengono enunciati gli obiettivi generali e specifici, i risultati attesi, le attività, i mezzi, gli indicatori di monitoraggio e le relative fonti di verifica, le precondizioni e le assunzioni riguardanti il comportamento di variabili esterne al progetto suscettibili di influenzarne gli esiti.

In pratica, tuttavia, ogni volta che si analizza l'impatto di un progetto o di un programma di cooperazione emergono aspetti relativamente omogenei, riguardanti la logica sottintesa alla programmazione di un intervento, accanto a un insieme di fenomeni disomogenei, consistenti nel risultato dell'incontro tra la logica dell'apparato dello sviluppo e altre logiche di azione o altri sistemi di sapere e di rappresentazioni locali, che di volta in volta hanno provocato situazioni di conflitto tra poteri e sono stati causa della resistenza passiva o attiva al cambiamento indotto, dell'appropriazione delle risorse materiali e simboliche fornite da un progetto, della reinterpretazione o del dirottamento dei significati sociali prodotti dall'azione di cooperazione in un senso non previsto dai pianificatori dello sviluppo.

Lo sviluppo partecipativo

Lo scarto tra obiettivi e risultati della cooperazione è alla base di un processo di continua revisione dell'azione delle istituzioni dello sviluppo. Negli ultimi anni si è imposto uno sforzo per riformare l'apparato della cooperazione attraverso una correzione dei presupposti concettuali degli organismi di cooperazione. L'esperienza ha dimostrato che la cooperazione non può avere successo duraturo senza la partecipazione di tutti gli interessati: donatori e riceventi devono essere ugualmente considerati partner e cooperare di conseguenza. Nel tradurre i principi dello sviluppo partecipativo in pratiche concrete di intervento, le istituzioni della cooperazione si confrontano con la necessità di mutare la logica di pianificazione comunemente applicata nell'apparato dello sviluppo attraverso gli strumenti del ciclo del progetto e del quadro logico. Di qui la sperimentazione di elementi di flessibilità nella concezione e nelle procedure di amministrazione di un progetto, sempre più concepito come un processo da adattare alle condizioni locali del contesto di intervento, piuttosto che come un rigido schema da replicare senza tenere conto del punto di vista dei suoi protagonisti principali, quali sono i diretti (e ultimi) destinatari locali.

Alcuni autori, come M. Rahnema, G. Esteva, A. Escobar, W. Sachs, fanno risalire i primi tentativi di una tale riforma alla fine degli anni Cinquanta e alla cooperazione non governativa, che individuò nella mancanza di coinvolgimento delle popolazioni beneficiarie una delle cause principali delle insufficienze della cooperazione di quel periodo. In un primo momento le istituzioni più influenti non ritennero rilevante la proposta della partecipazione diretta dei beneficiari, ma la questione fu ripresa agli inizi degli anni Settanta, quando, sotto la presidenza di R. McNamara, la Banca mondiale assunse come principio programmatico i bisogni umani fondamentali (basic human needs). Le difficoltà sperimentate e i fallimenti degli interventi realizzati negli anni Sessanta avevano affievolito l'ottimismo degli anni precedenti ed era urgente ricercare nuovi stimoli per ridare vigore alla cooperazione.

Se da un lato, in quel periodo, furono messi in discussione alcuni paradigmi dell'economia dello sviluppo, consentendo l'affermarsi di nuove teorie come quelle della dipendenza, dall'altro si prestò interesse agli apporti di altre scienze sociali per prendere in considerazione la multidimensionalità dello sviluppo. Concetti e metodi elaborati soprattutto in campo antropologico hanno influenzato notevolmente le teorie e le pratiche dello sviluppo partecipativo. Ne è un esempio la dottrina della participatory rural appraisal (valutazione del grado di partecipazione rurale), un sistema di metodologie e tecniche di analisi per valutare le reali possibilità e le vie della partecipazione locale in progetti di cooperazione (Chambers 1997). Le scienze sociali e, in particolare, l'antropologia culturale hanno contribuito a dare consistenza alle istanze della cooperazione non governativa per coinvolgere le popolazioni beneficiarie nei progetti di cooperazione. Gli antropologi, infatti, traevano le proprie conclusioni da dati empirici raccolti in contesti circoscritti e in contatto diretto con le genti locali attraverso l'osservazione partecipante, riuscendo in tal modo a valutare l'apporto che poteva venire dalle loro opinioni, dal loro sapere e dalle loro logiche, ai fini di una diretta partecipazione ai dispositivi dello sviluppo.

Nello stesso arco di tempo si è avverata la cooptazione, dapprima marginale, poi sempre più marcata, della società civile dei paesi donatori e dei PVS nel campo della cooperazione. Ciò è avvenuto grazie a una più attenta considerazione delle esperienze delle ONG da parte delle agenzie governative. In tal modo si è promosso un più attivo coordinamento tra i promotori 'donanti' della cooperazione, vale a dire le agenzie governative e le agenzie private (ONG), nello stesso tempo in cui ci si apriva alla partecipazione attiva dei destinatari 'riceventi' dei PVS. Si tratta di un risultato rimarchevole, se si tiene conto delle diffidenze che avevano accompagnato gli inizi della cooperazione, la quale veniva collegata ai movimenti sociali di contestazione degli anni Sessanta, e quindi caratterizzata da un'attitudine anti-istituzionale e anti-governativa. D'altra parte, occorre tenere presente che nel mondo degli operatori della cooperazione confluiscono le esperienze più eterogenee che coagulano individui, gruppi e istituzioni, ognuno mosso da motivazioni proprie, religiose, etiche, politiche e assistenziali.

Negli anni Settanta, nell'apparato della cooperazione divennero popolari nuove parole d'ordine: sviluppo endogeno; pianificazione basata sull'analisi dei bisogni condotta con il coinvolgimento dei beneficiari; approcci disciplinari multisettoriali; progetti integrati, flessibili, autosostenuti, fondati sul principio paritetico della comunicazione tra culture e saperi diversi, e non su quello asimmetrico del trasferimento di tecnologie. L'affermazione del nuovo corso era dovuta a diversi fattori: innanzi tutto la prima seria crisi strutturale dell'apparato stesso, poi la risonanza delle critiche di ampi settori della società civile all'operato della cooperazione, e infine la forza convincente dell'esperienza e delle tesi a favore dello sviluppo partecipativo. Così, attraverso le retoriche partecipative, assunsero importanza sulla scena della cooperazione interlocutori in precedenza considerati solo come destinatari di aiuti, quali le comunità locali e le sue componenti (donne, giovani, anziani, disabili, disoccupati, emarginati, minoranze etniche). Dopo la parentesi degli anni Ottanta, caratterizzata da una fiducia acritica nell'efficacia delle politiche macroeconomiche di stabilizzazione e di aggiustamento strutturale lanciate sull'onda del neoliberismo reaganiano e thatcheriano, a partire dagli anni Novanta, nel definire le strategie di sviluppo, si prestò attenzione diretta alle istanze umane (United Nations Development Programme 1999). In quest'ultimo decennio il concetto di partecipazione si è, pertanto, affermato nel linguaggio della cooperazione, riorientandone l'azione a sostegno del decentramento amministrativo e politico, in supporto del rafforzamento delle istituzioni della società civile e dell'applicazione di misure di buon governo, con una crescente enfasi posta sul rapporto di rispetto tra diritti umani e sviluppo.

Occorre, peraltro, osservare che, nonostante l'affermarsi a livello delle rappresentazioni del nuovo corso testé indicato, a livello pratico l'adesione ai suoi principi partecipativi non è unanime, né incondizionata. Permangono di fatto nell'apparato dello sviluppo due correnti divergenti: da una parte i sostenitori di una pianificazione rigida da applicare in strutture tecnico-burocratiche dove il flusso delle informazioni e delle decisioni segue un movimento dall'alto in basso (top-down), dall'altra i sostenitori di una pianificazione dal basso verso l'alto (bottom-up) con l'impiego di metodologie flessibili che coinvolgano i beneficiari nei processi decisionali dei progetti.

La gerarchia di valori implicita negli opposti atteggiamenti (top-down, bottom-up) mette in evidenza la debolezza latente delle strutture della cooperazione. Nel modello top-down, l'esperto, sia esso un espatriato o un funzionario locale, si colloca in un ordine superiore (top) non direttamente coinvolto nella realtà oggetto di pianificazione, e le sue decisioni prese in maniera autonoma, per quanto tecnicamente proprie, possono lasciare i beneficiari disinteressati, se non ostili. Nel modello bottom-up, l'attribuzione di uno status attivo a coloro che prima erano considerati oggetti passivi di pianificazione aggiunge alla validità tecnica della pianificazione - che resta un presupposto essenziale - il coinvolgimento della comunità locale; il che presuppone un'opera capillare di informazione e di educazione che renda i suoi membri soggetti attivi e coscienti nell'attuazione del progetto e nella manutenzione dei suoi eventuali dispositivi. In realtà la cooperazione si trova attualmente, più che nel passato, nella condizione di dare ai suoi progetti una corrispondenza adeguata ai bisogni che si intendono affrontare. Si tratta, in effetti, di assicurare ai processi decisionali che determinano le scelte operative un metodo che unisca il sapere - diversamente 'esperto' - sia dei datori, sia dei riceventi, e li associ come partner in una relazione attiva, tale che garantisca lo svolgimento continuato dei processi di sviluppo.

bibliografia

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