SVILUPPO ECONOMICO

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

SVILUPPO ECONOMICO

Carla Esposito

(App. III, II, p. 880; IV, III, p. 562)

Sviluppo e sottosviluppo. - I termini s. e sottosviluppo economico fanno riferimento a due condizioni diverse che sono quantificabili in prima approssimazione in termini di prodotto nazionale pro capite, ma che sottintendono anche diversi insiemi di soggetti, di attività, di rapporti e di istituzioni economiche presenti nelle economie sottosviluppate e in quelle sviluppate. Il processo di s., e cioè il passaggio di un'economia dallo stato di paese sottosviluppato a quello di paese sviluppato, consiste nel processo di crescita della produzione di beni a disposizione della popolazione del paese, idealmente di ogni componente la collettività. L'aumento del reddito prodotto, per essere definito come s., deve, però, essere accompagnato da mutamenti apprezzabili nelle condizioni di vita basilari della popolazione, cioè nella ''qualità della vita'' di questa. È su queste basi che si è anche definito lo s.e. in termini di riduzione o eliminazione della povertà, dell'ineguaglianza e della disoccupazione nell'ambito di un'economia in crescita.

Indicatori dello sviluppo. - Per misurare il grado di s.e. raggiunto da un paese, oltre che per effettuare confronti tra i livelli di s. raggiunti da paesi diversi, si fa generalmente ricorso, almeno in prima approssimazione, al PNL o al PNL pro capite. Numerose, tuttavia, sono le critiche rivolte all'uso di tale indice, sia per le difficoltà che la misurazione del PNL (e/o del PNL pro capite) incontra in particolare nella maggior parte dei paesi in via di s. (difficoltà nella raccolta delle informazioni statistiche, nella valutazione della produzione del settore di sussistenza, ecc.), sia per la scarsa significatività dell'indice stesso.

A questo riguardo si sottolinea che tale indice non fornisce per es. informazioni sul modo in cui il reddito è distribuito tra i componenti la collettività, così come non tiene conto del livello di qualità della vita della popolazione del paese a cui si riferisce. Per questi motivi l'indice del PNL pro capite viene spesso accompagnato nell'analisi del grado di s.e. di un paese da indicatori complementari, relativi per es. alla durata della vita (speranza di vita alla nascita), al grado d'istruzione della popolazione, al livello di nutrizione della popolazione, alla situazione della sanità del paese, alla percentuale di forza lavoro occupata in agricoltura.

Si è anche cercato di sviluppare indicatori compositi che misurino lo s.e. in termini di risposta concreta ai bisogni di base (basic needs) della maggior parte della popolazione o in termini di qualità della vita. M.D. Morris (1979), per es., ha costruito un indice composto della qualità fisica della vita utilizzando indicatori (speranza di vita a un anno di età, mortalità infantile e tasso di alfabetizzazione) che di fatto riflettono il tipo di distribuzione del reddito del paese, dato che quando siffatti indici raggiungono livelli più elevati per il paese, è presumibile supporre che sia la maggioranza della popolazione a goderne. L'approccio allo s.e. in termini di basic needs o di ''qualità della vita'' è stato un punto di riferimento che ha determinato cambiamenti considerevoli nelle scelte di politica economica degli organismi internazionali, in particolare della Banca Mondiale.

Nella stessa direzione si è mosso il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP, United Nation Development Programme) che dal 1990 per misurare il grado di s.e. dei diversi paesi fa ricorso a un ''indice dello sviluppo umano''. Questo è composto da tre componenti fondamentali: a) la longevità misurata dalla speranza di vita; b) la conoscenza, misurata da una combinazione del tasso di alfabetizzazione degli adulti con la media degli anni di scolarità; c) il livello di vita, misurato sul potere d'acquisto basato sul PIL reale pro capite corretto in base al costo della vita del luogo.

Pur riconoscendo che il PNL pro capite, da solo, non costituisce, anche se ne riflette il livello, una misura soddisfacente del benessere di un paese (e sottolineando quindi la necessità di analizzare i valori raggiunti da questo indicatore unitamente ad altri quali l'aspettativa di vita alla nascita, l'analfabetismo adulto), la Banca Mondiale utilizza il PNL pro capite come criterio principale nella classificazione delle economie secondo il grado di s. da esse raggiunto. Nel 1995 essa classifica i paesi del mondo (v. tab.) in a) economie a basso reddito (con PNL pro capite nel 1993 pari o inferiore a 695 dollari USA); b) economie a reddito medio (con PNL pro capite compreso nel 1993 tra 696 e 8625 dollari USA); c) economie a reddito elevato (con PNL pro capite nel 1993 pari o superiore a 8626 dollari USA), e definisce i paesi dei primi due gruppi ''economie in via di sviluppo''.

Evidentemente questo non è un aggregato del tutto omogeneo poiché di esso fanno parte paesi che sotto alcuni aspetti sono notevolmente diversi tra loro (per es. paesi grandi, piccoli, ricchi di risorse o del tutto privi di risorse naturali, con un'economia di sussistenza o esportatori di prodotti industriali, ecc.), pur presentando, seppure in misura diversa, alcune caratteristiche strutturali comuni. Ciò vale per es. per: a) la struttura produttiva, in cui tendenzialmente prevale il settore primario e in cui il settore industriale è scarsamente sviluppato e utilizza spesso tecniche obsolete; b) la distribuzione del reddito più disuguale di quanto non sia nei paesi sviluppati, con i redditi delle classi inferiori spesso al di sotto della soglia di povertà (v. povertà, in questa Appendice); c) la presenza di aree geoeconomiche notevolmente differenziate; d) i tassi di crescita della popolazione particolarmente elevati. Il processo di s.e., nel suo realizzarsi, comporta modifiche sostanziali delle caratteristiche strutturali ricordate oltre che nelle strutture istituzionali, sociali e amministrative. È a queste modifiche che fanno riferimento le interpretazioni dello s. più consolidate formulate dagli economisti negli ultimi quarant'anni.

Modelli interpretativi dello sviluppo. - Le teorie e gli approcci alternativi dominanti per lo studio dello s.e. possono essere suddivisi in più gruppi, ciascuno dei quali contribuisce alla comprensione del problema e alla definizione della strategia di sviluppo.

Un primo tipo di modelli fa riferimento al concetto di stadi dello s.e. proposto da W.W. Rostow (v. in questa Appendice), per il quale il processo di s. di ogni paese va suddiviso in cinque stadi successivi, attraverso i quali devono passare tutte le economie: ogni stadio è caratterizzato da specifici fenomeni economici, istituzionali e sociali, e i valori pro tempore assunti da fattori quali la distribuzione del reddito tra consumo, risparmio e investimenti, la composizione dell'investimento, lo sviluppo dei singoli settori vi esercitano un ruolo fondamentale. In questo modello il decollo verso lo s.e. è determinato dall'incremento del tasso d'investimento e di risparmio, dallo sviluppo di nuove industrie, dalla diffusione di nuove tecniche produttive, mentre il principale ostacolo o vincolo alla crescita di un'economia sottosviluppata è costituito dal basso livello di formazione in essa di nuovo capitale.

Secondo i teorici dei modelli del ''cambiamento strutturale'' nel corso del processo di crescita economica le strutture economiche interne delle economie arretrate si trasformano da una situazione di netta prevalenza del settore agricolo a una in cui assume crescente importanza anche il settore industriale. A parere di W.A. Lewis, per es., il cui modello è uno dei primi e dei più noti del gruppo (esso è stato riformulato e approfondito da G. Ranis e J.C.H. Fei, oltre che da altri studiosi), nel corso del processo di s. in un'economia arretrata nella quale siano presenti un settore ''tradizionale'' con eccedenza di manodopera e un settore urbano industriale ''moderno'' ad alta produttività, si dovranno verificare, perché s'inneschi un processo di rapida crescita economica, trasferimenti di forza lavoro dal settore di sussistenza. Il processo di s.e. inizia, a parere di Lewis, con un incremento nella domanda di prodotti industriali al quale seguirà l'accrescimento dei profitti realizzati nel settore moderno. Il loro integrale reinvestimento e, quindi, il tasso di accumulazione di capitale che ne deriva, determineranno un'espansione della produzione e dell'occupazione nel settore stesso che potrà continuare, senza alcuna influenza negativa sulla produzione del settore di sussistenza, fino a che tutta la forza di lavoro agricola eccedente non è assorbita nel settore industriale, che viene così ad assumere un ruolo centrale nell'economia del paese.

Altri modelli interpretativi dello s.e. (e del sottosviluppo) pongono l'accento sul concetto di dipendenza delle economie arretrate dalle economie sviluppate, della periferia dal centro. Secondo questo punto di vista il sottosviluppo è in un certo senso un fenomeno ''indotto dall'esterno'', dal comportamento del centro (dei paesi sviluppati), e nell'ambito dei paesi in via di s. dei gruppi che godono di redditi elevati, status sociale e potere politico, i quali tutti hanno interesse a che permanga il sistema delle relazioni internazionali da cui traggono vantaggio. Gli autori della teoria della dipendenza sottolineano come le forme di questa si sono modificate nel tempo. Essa è stata in primo luogo il risultato della necessità per i paesi in via di s. di esportare prodotti primari verso i paesi sviluppati che ne formulavano la domanda, in secondo luogo della necessità di ottenere dal centro capitale sotto forma di investimenti e di prestiti, e in terzo luogo della necessità per i paesi stessi d'importare tecnologie per dare inizio a un processo d'industrializzazione. Il rapporto tra centro e periferia secondo i sostenitori di questa tesi, è necessariamente un rapporto di sfruttamento portato avanti anche dalle filiali estere delle grandi imprese oligopolistiche che vengono da essi viste come uno strumento del trasferimento dei profitti dalla periferia al centro, che continua a essere il polo delle decisioni e della crescita tecnologica. Da ciò discende che, secondo i teorici della dipendenza internazionale, uno s. dell'attuale periferia, qualora possa realizzarsi, sarà comunque uno s.e. ''dipendente'', seguirà cioè un modello di s. imposto al paese dai suoi legami con il centro e presumibilmente incompatibile con i bisogni locali. Ne deriva che solo l'instaurazione di un nuovo ordine economico internazionale potrà consentire il raggiungimento di uno s.e. soddisfacente.

Negli anni Ottanta, infine, è stato formulato un ulteriore gruppo di modelli interpretativi dello s.e., che vengono considerati espressione della cosiddetta controrivoluzione neoclassica del libero mercato. Nelle implicazioni di politica economica di tali modelli il sottosviluppo è visto come conseguenza di una cattiva allocazione delle risorse derivante da politiche dei prezzi sbagliate e da un eccessivo intervento dello stato nell'economia, e viene posto l'accento sull'inefficienza e sugli sprechi delle imprese di proprietà statale, sul fallimento dei piani di s.e., sugli effetti dannosi delle distorsioni dei prezzi interni e internazionali indotte dai governi. Di conseguenza s'indica nell'incoraggiamento del libero scambio e nel laissez-faire economico la strada da seguire per stimolare lo sviluppo.

Strategie di sviluppo. - Le strategie di s.e. adottate dal periodo post-bellico a oggi nei paesi in via di s. e/o proposte loro dai teorici e dagli esperti riflettono posizioni diverse derivanti sia da presupposti teorici e da orientamenti politici, sia dalle caratteristiche specifiche delle diverse economie. I punti cruciali in riferimento ai quali le posizioni assunte sono risultate notevolmente differenziate riguardano aspetti quali l'obiettivo cui la strategia deve attribuire priorità (per es. la crescita del PNL o la migliore distribuzione del reddito); le fonti da cui attingere il finanziamento degli investimenti (interne o esterne); il ruolo da attribuire allo stato; la politica da adottare nei confronti dell'industrializzazione; la politica commerciale da seguire. Si possono quindi individuare, analizzando le politiche adottate nelle economie arretrate, modelli di strategia di s. sostanzialmente differenti.

Secondo una prima strategia, tendenzialmente seguita in numerosi paesi nel ventennio post-bellico, settore trainante dello s.e. doveva considerarsi l'industria, nei cui confronti l'agricoltura aveva un ruolo di supporto fornendole manodopera, capitale e un mercato per i prodotti. Obiettivo della strategia era il raggiungimento di un tasso di crescita desiderato: a tal fine poteva essere necessario integrare il risparmio interno, ottenuto tassando il settore agricolo, con flussi di capitale estero. L'adozione di una politica industriale volta alla sostituzione generalizzata delle importazioni avrebbe dovuto avere il supporto di politiche protezionistiche, doganali e valutarie adottate dallo stato cui si attribuiva nella strategia un ruolo determinante.

Dalla seconda metà degli anni Sessanta ha assunto notevole e sempre più diffuso rilievo nelle politiche di s.e. l'opposta strategia di promozione delle esportazioni di beni sia del settore primario sia dei manufatti, e di sviluppo trainato dalle esportazioni. Infatti, si constatavano i risultati negativi (o limitatamente positivi) raggiunti dai paesi che negli anni Cinquanta e nella prima metà degli anni Sessanta avevano adottato una strategia d'industrializzazione orientata all'interno. A ciò si aggiungeva la consapevolezza dei problemi che, prima o poi, si sarebbero manifestati nel caso in cui le politiche di sostituzione delle importazioni fossero state applicate per un periodo più lungo. Si ponevano in evidenza, inoltre, gli effetti positivi che una politica di promozione delle esportazioni avrebbe potuto avere per l'economia, in primo luogo, per la maggiore disponibilità di valuta estera e l'afflusso di capitali provenienti dall'estero oltre che per la funzione di stimolo esercitata sulla produzione da un mercato più ampio del mercato interno e, in secondo luogo, per la capacità delle politiche rivolte all'esterno di garantire, favorendo la concorrenza ed eliminando interventi governativi nel mercato valutario e delle esportazioni, una migliore allocazione delle risorse. Per questi motivi alcuni paesi hanno deciso, a cominciare dalla seconda metà degli anni Sessanta, di modificare la propria strategia e di optare per una politica orientata all'esterno mirante a creare un'industrializzazione finalizzata alle esportazioni, ma anche a dedicare attenzione alla produzione agricola. Altri paesi hanno ritenuto, invece, più conveniente realizzare una combinazione di politiche selettive di sostituzione delle importazioni e di promozione delle esportazioni tentando così di minimizzare le imperfezioni di ambedue i modelli.

Certamente l'esperienza di alcuni paesi in via di s. ha posto in evidenza che una politica di s. orientata all'esterno e, quindi, un più intenso commercio con i paesi industrializzati, ma anche l'apertura alle varie forme d'investimento internazionale ha consentito ai paesi che l'hanno adottata l'acquisizione di tecnologie più avanzate e, spesso, l'inserimento in un processo produttivo integrato che agendo da stimolo anche alla formazione di lavoro specializzato ha di fatto accentuato la loro capacità ''autonoma'' di crescita. Va tuttavia ricordato che anche una strategia orientata alle esportazioni, in realtà, può mostrare, come ha sottolineato P.P. Streeten (1982), "difetti molto simili a quelli posti in evidenza dai critici della import-substitution", cosicché può non essere giustificato considerarla comunque valida. Inoltre − lo afferma tra gli altri H.W. Singer (1988) − l'esperienza positiva sperimentata da paesi quali Taiwan, Corea, ecc., su cui ci si basa nel proporre a tutti i paesi in via di s. tale strategia, potrebbe essere dovuta a caratteristiche specifiche dei paesi stessi più che all'orientamento all'esterno della politica commerciale da essi prescelta e, quindi, potrebbe non essere ovunque ripetibile. Anche una strategia orientata alle esportazioni va, dunque, adottata con una qualche cautela. La valutazione della sua idoneità a fungere da strategia risolutiva dei problemi del sottosviluppo di un'area arretrata va effettuata considerando, come ricorda Streeten (1982), la sua "capacità di mobilitare le risorse e le competenze interne e di creare e attivare incentivi, atteggiamenti e istituzioni per lo sviluppo".

All'inizio degli anni Ottanta il bilancio insoddisfacente dei risultati raggiunti nelle economie dei paesi in via di s., il persistere e l'aggravarsi in alcuni di essi della povertà di massa, l'ampliarsi dei divari rispetto ai paesi sviluppati, ha portato i governi e le agenzie multilaterali a discutere le strategie di s. seguite e a cercare di delinearne una alternativa avente come obiettivo il miglioramento della qualità della vita. Il dibattito si è incentrato sempre più sul problema dell'efficienza nell'impiego delle risorse, ed è in questo contesto che sono stati affrontati sia il tema del ruolo dello stato, delle istituzioni pubbliche nell'economia e del loro contributo allo s., sia quello dei cosiddetti ''fallimenti'' del mercato nell'allocazione delle risorse.

Le strategie di s. seguite sino agli anni Settanta, nelle quali si riconosceva allo stato il compito di compensare con la sua attività i fallimenti del mercato, si basavano sulla convinzione che i paesi in via di s. incontrassero difficoltà nel contare sui meccanismi del mercato a causa delle notevoli imperfezioni che li caratterizzano (mancanza di informazioni per gli operatori e di concorrenza, presenza di forti esternalità con conseguenti divari tra le valutazioni sociali e quelle private di progetti d'investimento tra loro alternativi).

Tuttavia, l'aggravarsi degli squilibri esterni e interni in molti paesi in via di s., come già ricordato, ha stimolato nei primi anni Ottanta critiche nei confronti delle strategie fino ad allora seguite. L'accento è stato posto sui fallimenti governativi connessi sia con azioni sia con omissioni dello stato. Si sono messi in evidenza, per es., i costi elevati delle imprese pubbliche, l'inefficienza dei programmi d'investimento governativo, la pervasività e il costo dei controlli governativi sulle attività del settore privato, i deficit del settore pubblico, ma anche una diversa tipologia di fallimenti governativi derivanti da ''omissioni'' dello stato: tra gli altri, l'aver mantenuto tassi di cambio nominali fissi in situazioni d'inflazione crescente unitamente a controlli valutari e a restrizioni quantitative al commercio, l'avere insistito su tassi d'interesse nominali inferiori al tasso d'inflazione con razionamento del credito e supervisione governativa nell'allocazione dello stesso, l'aver consentito il deteriorarsi del sistema dei trasporti e il sorgere e diffondersi della corruzione.

Alla luce di queste considerazioni si è man mano posta l'esigenza di adottare una diversa strategia di s.e. che fosse idonea a realizzare un impiego delle risorse efficiente e funzionale alla crescita delle economie. L'idea di fatto prevalsa è quella di una strategia che esprima un approccio allo s. definibile come ''favorevole al mercato'' e che preveda una cooperazione tra settore pubblico e privato. Si ritiene in sostanza che esistano settori cruciali per lo s.e. del paese, quali il rispetto dell'ordine e delle leggi, l'offerta di beni pubblici, gli investimenti in capitale umano, la creazione di infrastrutture, la protezione dell'ambiente, nei quali l'intervento governativo, da considerare essenziale e più efficiente nell'uso delle risorse rispetto al mercato, è, quindi, auspicabile. Allo stesso modo si è sempre più convinti che ci sono aree (per es. la produzione e la distribuzione di beni, gli scambi con l'estero, le attività bancarie) nelle quali il mercato può operare con maggiore efficienza dello stato e nelle quali va, perciò, lasciato spazio alle libere decisioni degli individui. L'intervento pubblico dovrebbe, dunque, limitarsi a influire sulle precondizioni dello s.e. più che sul meccanismo di questo. Questa ''nuova'' valutazione dei ruoli del mercato e dello stato è riflessa nell'approccio allo s.e. proposto negli anni Ottanta dagli organismi internazionali, e di esso sono espressione i programmi di aggiustamento strutturale suggeriti dalla Banca Mondiale.

Bibl.: P.P. Streeten, Trade strategies for development: some themes for the Seventies, in Trade strategies for development, a cura di P. Streeten, New York 1973; A.K. Sen, On the development of basic income indicators to supplement GNP measures, in United Nations, Economic Bulletin for Asia and Far East, 1973; Economia del sottosviluppo, a cura di B. Jossa, Bologna 1973; M.P. Todaro, Economic development in the Third World, New York 1977 (19894; trad. it., Introduzione all'economia del sottosviluppo, Torino 1993); Id., Economics for a developing world, Londra 1977 (19923); M.D. Morris, Measuring the condition of the world's poor: the physical quality of life index, New York 1979; Development economics and policy: readings, a cura di I. Livingstone, Londra 1981; N. Hicks, P.P. Streeten, Indicators of development: the search for a basic needs yardstick, in Recent issues in world development, a cura di P.P. Streeten e R. Jolly, New York 1981; P.P. Streeten, A cool look at ''outwardlooking'' strategies for development, in The World Economy, 2 (1982); B. Herrick, Ch.P. Kindleberger, Economic development, Singapore 19834; P. Sylos-Labini, Il sottosviluppo e l'economia contemporanea, Roma-Bari 1983; A.O. Krueger, Trade policy in developing countries, in Handbook of international economies, 2 voll., a cura di R.W. Jones e P.B. Kenen, Amsterdam-Oxford 1984; C.H. Kirkpatrick, H. Lee, F.I. Nixson, Industrial structure and policy in less developed countries, Londra 1984; G.M. Meier, Leading issues in economic development, New York-Oxford 19844; Economic development, in The new Palgrave, a cura di J. Eatwell, M. Milgate, P. Newman, Londra 1987 (1989); J.S. Hogendorn, Economic development, New York 1987 (trad. it., Bologna 1990); H.W. Singer, The World development report 1987 on the blessings for ''outward orientation'': a necessary correction, in Journal of Development Studies, gennaio 1988; Handbook of development economics, a cura di H. Chenery e T.N. Srinivasan, 2 voll., Amsterdam 1988-89; A.O. Krueger, Government failures in development, in Journal of Economic Perspectives, 3 (1990); A. Sen, N. Stern, J. Stiglitz, Development strategies: the roles of the State and the private sector, in Proceedings of the World Bank annual conference on development economics 1990, Washington 1991; D. Salvatore, T. Hatcher, Exports and growth with alternative trade strategies, in Journal of Development Studies, 27 (1991); Development economics, 4 voll., a cura di D. Lal, Brookfield (Vermont) 1992; National trade policies. Handbook of comparative economic policies, 2, a cura di D. Salvatore, New York-Westport 1992; Economic development. Handbook of comparative economic policies, 4, a cura di E. Grilli e D. Salvatore, ivi 1994; F. Volpi, Introduzione all'economia dello sviluppo, Milano 1994. Cf. inoltre: UNDP, Human development report, 1990 (trad. it., 1992), 1994 (trad. it., 1994); e Banca Mondiale, World development report, 1987, 1991, 1994.

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