SVILUPPO ECONOMICO

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

SVILUPPO ECONOMICO

Paolo SYLOS-LABINI

. Lo s. e. è variamente concepito. Per alcuni economisti esso consiste in un accrescimento del reddito nazionale, totale o per individuo. Come in biologia, è opportuno distinguere fra accrescimento e s.: lo studio dell'accrescimento considera gli aspetti puramente quantitativi, quello del processo di s. anche le forme della struttura sociale e tecnico-produttiva e dei loro mutamenti. La morfologia dello s. riguarda, al tempo stesso, l'economista, lo storico, il sociologo ed il giurista. Sotto l'aspetto teorico, essa tende a concettualizzare tratti comuni a società diverse nei diversi stadî di s. e ad elaborare canoni interpretativi e critici che consentano di far luce sulla complessità concreta e apparentemente unica dello s. di ciascuna società.

Le economie premoderne erano stazionarie, per la loro stessa costituzione. Aumenti isolati di alcune produzioni, mutamenti anche cospicui nella ricchezza delle diverse società avevano luogo, principalmente, come conseguenza di guerre e invasioni. La stessa popolazione era tendenzialmente stazionaria: ad una natalità, a quanto pare, elevata, faceva riscontro una mortalità non meno elevata. Soltanto negli ultimi quattro secoli, e specialmente negli ultimi due, è comparso, prima in alcune società, in Europa, poi, con ritardo, in altre, anche fuori dell'Europa, un processo di s. sistematico e continuativo che appunto forma oggetto delle moderne analisi storiche e teoriche. Fino ad un tempo relativamente recente, là dove aveva avuto luogo, lo s. era stato sospinto ed attuato da imprese private, mosse dal profitto monetario, variamente aiutate e indirizzate dalle autorità e da organismi pubblici e regolate, nei loro atti, dalle norme del diritto privato; si parla, in questi casi, di economie capitalistiche. Negli ultimi decennî alcune società, dopo trasformazioni rivoluzionarie che hanno comportato l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, almeno nelle principali attività economiche, hanno intrapreso o accelerato lo sviluppo quasi esclusivamente attraverso l'azione pianificata di organismi pubblici; si parla, in questi casi, di economie collettivistiche, o socialistiche, o pianificate.

Nelle società capitalistiche si osservano molteplici fasi di sviluppo.

In quelle che si sviluppano per prime, il sistematico e rapido accrescimento delle produzioni, cominciato non prima di due secoli fa, è preceduto da un lungo e lento processo di trasformazioni istituzionali e politiche e da profonde modificazioni nella struttura sociale, con l'emergenza ed il progressivo affermarsi di nuove classi. Nella società feudale le classi dominanti erano economicamente inerti: svolgevano attività che ampiamente si possono chiamare militari e impiegavano i loro redditi in modi "improduttivi". Progressivamente si affermarono ceti che Adamo Smith chiama "borghesi" (abitanti dei borghi) e che originariamente erano costituiti soprattutto da mercanti. Essi riuscirono a conquistare una crescente autonomia pei borghi e poi per le città in cui vivevano, spesso ottenendo immunità e privilegi dai re, che ne cercavano l'appoggio per tenere a freno i signori feudali. Essi tendevano a migliorare la loro posizione nella società, che da principio era una posizione completamente subordinata, attraverso il proprio arricchimento, che perseguivano impiegando produttivamente una parte dei loro redditi. Durante una prima lunga fase si svolsero, nell'agricoltura di diversi paesi europei, quelle trasformazioni istituzionali e contrattuali e quei rivolgimenti organizzativi che gli storici economici hanno chiamato "rivoluzioni agrarie", la terra, da mezzo di sussistenza. di godimento e di potenza, divenne mezzo per ottenere un profitto ed una rendita monetaria e divenne normalmente oggetto di commercio. Ai proprietarî di tipo feudale, restii, per la loro stessa formazione e educazione, a compiere miglioramenti nella terra (Smith), subentrarono proprietarî di tipo borghese; in certi casi, alcuni fra gli stessi signori feudali, nella nuova situazione, impiegarono produttivamente nella terra una parte delle loro rendite. Parallelamente, crebbero i traffici, locali e internazionali, e, con essi, il ceto mercantile; e s'ingrandì il ceto dei manifattori (manifattura nel senso letterale della parola). Verso la fine di questa lunga fase (Carlo Marx parla di "capitalismo commerciale"; si potrebbe parlare di "capitalismo agrario, commerciale e manifatturiero"), in alcuni paesi europei, come l'Inghilterra, si diffuse il sistema del lavoro a domicilio (putting out system), il quale precedé il sistema della fabbrica, ossia la nascita dell'industria moderna, che impiega macchine mosse da fonti di energia (da principio, il carbone; poi anche elettricità, petrolio ed altre fonti). In Inghilterra, durante il periodo in cui si gettarono le basi del sistema industriale moderno - durante la "rivoluzione industriale", che di solito si data dal terzultimo decennio del sec. 18° al terzo decennio del sec. 19° - cominciarono ad espandersi alcune industrie leggere, producenti beni di consumo (industria tessile e industrie alimentari); solo in un secondo tempo crebbero le industrie pesanti (come la siderurgia moderna e l'industria delle macchine utensili). Nel periodo della rivoluzione industriale e durante i due o tre decennî successivi, i capitalisti industriali che organizzavano fabbriche trovavano mano d'opera disponibile praticamente senza limiti. Da principio, si trattava, oltre che di persone provenienti dall'incremento naturale della popolazione, di persone espulse dalle campagne come conseguenza delle profonde trasformazioni istituzionali cui si è già accennato; queste persone massimamente contribuivano ad alimentare quell'esercito di "poveri" che ancora al principio del sec. 19° costituiva uno dei più gravi problemi sociali inglesi. Man mano che l'industria moderna si sviluppa, l'offerta di lavoro viene alimentata da artigiani, specialmente artigiani tessili, che soccombono nella concorrenza coi prodotti fatti, più economicamente, a macchina. Nella seconda metà del secolo scorso la massa delle persone provenienti dalle trasformazioni istituzionali e tecniche in agricoltura tende ad esaurirsi e la crisi dell'artigianato di tipo antico volge al termine: quell'artigianato praticamente scompare. Ad alimentare l'offerta di lavoro restano l'incremento naturale della popolazione e le campagne. Ma nelle campagne si è raggiunto un nuovo assetto; coloro che vi lavorano (ormai molto ridotti di numero) si muovono verso i centri industriali delle città solo in vista di salarî più alti. E difatti, a causa del più basso saggio d'incremento nell'offerta di lavoro, i salarî reali nell'industria aumentano; a partire dal terzultimo decennio del secolo scorso l'aumento si accelera per la progressiva flessione nei prezzi dei prodotti alimentari, determinata dal grande afflusso di prodotti provenienti dall'America del Nord, che entrano nel mercato mondiale grazie allo sviluppo delle ferrovie e delle navi a vapore. La convenienza ad introdurre macchine in sostituzione di lavoratori può sussistere anche a parità di salarî monetarî, se l'aumento dell'efficienza produttiva è sufficientemente grande; tuttavia, l'aumento dei salarî fornisce un ulteriore incentivo alla meccanizzazione dei processi produttivi e quindi all'espansione delle industrie pesanti. Nel lungo periodo l'offerta di lavoro viene ora alimentata principalmente dall'incremento naturale della popolazione. Nel breve periodo la scarsezza di mano d'opera viene superata principalmente con l'introduzione di nuove macchine, accrescendo cioè la produzione piuttosto con nuove macchine che con nuovi lavoratori.

L'agricoltura si sviluppa in primo luogo; e ad essa massimamente si rivolge l'attenzione degli economisti che vivono nel periodo che immediatamente precede il passaggio dal capitalismo agrario, commerciale e manifatturiero al moderno capitalismo industriale. I fisiocrati considerano produttiva solo l'agricoltura, nel senso che solo questa dà luogo ad un "prodotto netto" - un prodotto che supera le necessità della perpetuazione del processo produttivo e mette in movimento, attraverso gli scambî, le altre attività, che sono considerate sterili. A. Smith considera produttive anche le attività manifatturiere e commerciali; ma ritiene che l'impiego di capitali nell'agricoltura sia "il più vantaggioso per la società". Egli si sofferma a lungo sulle relazioni tra forme istituzionali, forme contrattuali e sviluppo delle produzioni agrarie; e pur mettendo in evidenza che sviluppo dell'agricoltura e sviluppo del commercio e delle manifatture si condizionano a vicenda, considera il secondo come strumentale rispetto al primo.

D. Ricardo, che vive durante il pieno svolgimento della rivoluzione industriale, tende a considerare preminente l'industria. L'agricoltura per lui è importante in quanto fornitrice di alimenti a basso prezzo: condizione essenziale per l'accumulazione del capitale e quindi per l'accrescimento del reddito. Per Ricardo, l'offerta di lavoro è praticamente illimitata; egli considera come fonte di questa offerta il solo accrescimento naturale della popolazione. Quando l'accumulazione del capitale procede più rapidamente dell'accrescimento della popolazione, i salarî aumentano oltre il livello (normale) che consente la sussistenza e la riproduzione dei lavoratori: ciò accelera l'accrescimento della popolazione e quindi dell'offerta di lavoro e i salarî tornano al livello precedente. Tuttavia, insieme con la popolazione, crescono la domanda e i prezzi dei prodotti agricoli; devono essere messe a coltura terre via via meno fertili e crescono i redditi dei proprietarî delle terre relativamente più fertili - le rendite. Ma l'aumento dei prezzi degli alimenti necessariamente fa aumentare i salarî nominali, poiché solo così i salarî reali non scendono sotto il minimo; di conseguenza, i profitti diminuiscono. Poiché i profitti costituiscono il motivo dell'accumulazione e, al tempo stesso, a questa forniscono i mezzi, la flessione dei profitti scoraggia l'accumulazione e, alla fine, conduce al suo arresto. Il limite dell'accumulazione, quindi, non sta nell'offerta di lavoro, ma nella scarsezza della terra; tale limite può essere allontanato da miglioramenti tecnici nelle produzioni agrarie e dalla libera importazione di prodotti agrarî. Di qui l'esigenza, per favorire l'accumulazione, di una politica commerciale liberista.

K. Marx critica globalmente la società emersa dalla rivoluzione industriale; come sbocco necessario dell'ulteriore sviluppo del capitalismo industriale egli vede una società socialista. Il concetto fondamentale della costruzione teorica marxista è quello del plusvalore; concetto variamente concepito ed ampiamente elaborato dagli economisti che precedono Marx. Sotto importanti aspetti, esso corrisponde al "prodotto netto" dei fisiocrati ed al "reddito netto" di Smith e di Ricardo.

Vi sono due questioni da tenere ben distinte. La prima: come sorge il sovrappiù; la seconda: chi se ne appropria e quale uso ne fa. In astratto, in una società in cui vengano prodotti soltanto i beni strettamente necessarî per l'esistenza ed in cui tutti coloro che sono in grado di farlo lavorano e producono, non c'è la possibilità di un'accumulazione e quindi di uno s.: non c'è la possibilità d'impiegare una parte della produzione complessiva per accrescerla successivamente. L'esistenza di un sovrappiù è condizione necessaria, anche se non sufficiente, dello sviluppo. In senso stretto, il sovrappiù può essere concepito (e dai classici era concepito) come quel che eccede i bisogni essenziali di chi lavora e produce. All'altro estremo, il sovrappiù può essere concepito in senso dinamico, ossia come l'incremento del reddito complessivo di una società rispetto ad un periodo precedente; questo sovrappiu, che implica uno sviluppo già in atto, può essere impiegato per intero nell'accumulazione senza ridurre i consumi.

Marx osserva che del sovrappiù (nel senso stretto: quel che eccede i bisogni essenziali dei lavoratori) nella società feudale si appropriano i signori feudali, che lo consumano improduttivamente. Nella società capitalistica di esso si appropriano principalmente i possessori del capitale, che tendono in gran parte ad impiegarlo per accrescere il capitale stesso, ossia ad impiegarlo produttivamente. Ciò fanno, non tanto per brama fine a se stessa di ricchezza, quanto per affermarsi socialmente. Se il sovrappiù è periodicamente consumato in modo improduttivo, la società rimane stazionaria; se è impiegato produttivamente (accumulato), la società si sviluppa. Nel primo caso Marx parla di riproduzione semplice (il cui schema ben s'adatta a descrivere, in prima approssimazione, il processo economico di una società feudale). Nel secondo caso, egli parla di "produzione su scala allargata" o di "accumulazione". Il problema dello s., in ultima analisi, è il problema dell'impiego del sovrappiù (nell'uno o nell'altro senso); esso presuppone la distinzione fra consumi necessarî e consumi non necessarî alla prosecuzione - ed eventualmente all'ampliamento - del processo produttivo, ossia fra consumi produttivi e improduttivi. Si giunge al concetto di sovrappiù solo se, come fanno i fisiocrati e i classici, Marx compreso, si considera la produzione come un processo circolare, in cui gli stessi beni compaiono come prodotti e come fattori produttivi. Per Marx, il processo dell'accumulazione, e quindi dello sviluppo, presenta aspetti complessi, fra cui conviene ricordarne tre. Primo: l'accumulazione non si svolge su una base tecnica invariata ma necessariamente, in parte almeno, attraverso mutamenti nei metodi che comportano una progressiva meccanizzazione dei processi produttivi e tendono ad accrescere la forza produttiva del lavoro, alimentando un fondo, fluttuante nel tempo ma ineliminabile, di disoccupati. Secondo: l'accumulazione nell'industria moderna non si svolge secondo un moto uniforme, ma, necessariamente, attraverso un moto ciclico, che fa capo all'industria meccanica. Terzo: il processo dell'accumulazione porta con sè, necessariamente, un processo di progressiva concentrazione delle imprese. Gli economisti oggi generalmente concordano nel riconoscere che nelle società capitalistiche s. e ciclo sono due aspetti dello stesso processo: lo s., in quelle società, procede attraverso periodi alterni di prosperità e di depressione. Concordano inoltre nel riconoscere che il settore propulsivo, al tempo stesso dello s. e del ciclo, è quello dei beni d'investimento, costituito, in primo luogo, dalle industrie che producono macchine e attrezzature. Poiché, come osserva Marx, questo settore sorge e si espande durante e dopo la rivoluzione industriale, appare vano voler ritrovare un movimento ciclico prima dell'Ottocento; le oscillazioni nei prezzi e nelle quantità economiche nel periodo precedente sono da ricollegarsi ai fattori più diversi, ma non al processo ciclico di sviluppo.

Negli ultimi decennî del secolo scorso si affermano le teorie degli economisti detti neoclassici; arricchite dalla teoria dell'equilibrio economico generale (L. Walras, V. Pareto), esse prevalgono, almeno fra gli economisti di professione, sino ad un tempo recente: in ampia misura tuttora dominano la scienza economica contemporanea. Sebbene queste teorie siano dette neoclassiche, bisogna dire che esse hanno un'impostazione radicalmente diversa da quelle dei classici. Per questi economisti, il problema teorico centrale era quello dello s. e dei rapporti fra s. e distribuzione del reddito fra le diverse classi sociali. Per i neoclassici, il problema centrale è quello delle forze che determinano i prezzi di equilibrio nei diversi mercati e, più in generale, l'equilibrio dell'intero sistema economico in un dato momento. L'impostazione di fondo, come si è detto usando un'analogia ripresa dalle scienze fisiche, è statica; ed il problema teorico dello s. sostanzialmente scompare dalle trattazioni. Questioni relative allo s. e. e al moto ciclico vengono discusse in capitoli speciali o in opere speciali, spesso di carattere empirico, fuori da un quadro teorico generale. Alla base delle analisi vengono assunte le offerte dei produttori e le domande dei consumatori e, corrispondentemente, la concezione della produzione come processo circolare e il concetto di sovrappiù vengono abbandonati. Vengono elaborati nuovi strumenti analitici; l'analisi dei mercati guadagna in rigore, rispetto alle teorie, spesso grezze, degli economisti classici. Ma quel che si guadagna in rigore, si perde in realismo.

Fino ad un tempo recente pochi, fra gli economisti di professione, elaborano teorie che si collegano alle teorie classiche. Fra questi emerge Joseph Schumpeter, per il quale l'attuazione delle invenzioni tecnologiche, compiuta dall'imprenditore, costituisce il fatto fondamentale nella storia economica della società capitalistica: esse sospingono lo "s. ciclico" di tale società.

Schumpeter parte dall'analisi del "flusso circolare", ossia del processo economico che riproduce uniformemente se stesso. La rottura di tale flusso è provocata da imprenditori che attuano nuove, più efficienti combinazioni di fattori produttivi; da queste emerge il "plusvalore" o profitto. Gli imprenditori innovatori provocano la comparsa di una schiera d'imitatori, che cercano di fare quello che fanno i primi per ottenere gli stessi guadagni, o per evitare perdite. In questo modo crescono gl'investimenti e, derivatamente, cresce la domanda di prodotti finiti e si sviluppa la fase di prosperità. Dalla prosperità si passa alla flessione, man mano che vengono a maturazione i frutti delle innovazioni e man mano che cresce la produzione delle imprese che non s'innovano, ma che si avvantaggiano della generale prosperità. La flessione comincia appunto quando l'ondata di maggìore produzione si riversa sul mercato; nel tempo stesso, essa è provocata da un'autodeflazione del sistema creditizio, ossia dal pagamento alle banche dei debiti da parte delle imprese e dalla cessazione della creazione di mezzi monetarî da parte delle banche stesse. I prezzi cadono e ciò provoca fallimenti delle imprese incapaci di trasformazione e di adattamento e dalla flessione si passa alla depressione. La diminuzione dei prezzi, che in una certa misura poi permane, dà luogo ad aumento dei redditi reali, poiché i redditi monetarî decrescono, ma meno rapidamente dei prezzi. Pertanto, il nuovo ciclo parte da un livello più alto del reddito totale e per individuo: ciclo e s. risultano organicamente innestati.

Sotto importanti aspetti, lo schema di Schumpeter ha una notevole efficacia interpretativa se è riferito ad un'economia in cui prevalgon imprese relativamente piccole ed in cui l'entrata degli imprenditori e quindi anche degli imitatori, è relativamente facile. In un'economia nella quale l'industria ha raggiunto un elevato grado di concentrazione quello schema dev'essere profondamente modificato. Di ciò Schumpeter era consapevole, sebbene non ne traesse tutte le conclusioni che se ne dovevano trarre.

Una parziale rottura con la tradizione neoclassica è rappresentata dal sistema teorico proposto da J. M. Keynes con l'opera The general theory of employment, interest and money, pubblicata nel 1936, durante la "grande depressione" che cominciò nel 1929. Il sistema del Keynes è "statico", come quelli dei neoclassici; ma esso si presta a sviluppi di tipo "dinamico". I più noti schemi teorici di questo tipo, elaborati sulla traccia del sistema keynesiano, sono quelli di R. F. Harrod e di E. D. Domar. In termini massimamente semplificati, le relazioni fondamentali di codesti schemi si possono ottenere nel modo seguente.

Il flusso dei beni che costituiscono il reddito nazionale (Y) si compone di due sotto-flussi: quello dei beni di consumo (C) e quello dei beni d'investimento, i quali servono ad accrescere la capacità produttiva della società (investimenti netti, o addizionali: I):

In un'economia stazionaria tutto il reddito è consumato e gl'investimenti netti sono nulli. In un'economia che si espande gl'investimenti netti sono positivi. I consumi totali sono eguali alla quota del reddito dedicato ai consumi ("propensione media al consumo": c) moltiplicata per il reddito:

Gl'investimenti netti dànno luogo, in un periodo successivo a quello durante il quale sono compiuti, a un accrescimento del reddito proporzionale (in media) agli investimenti stessi:

Da [1] e [2] si ricava:

e dalle [3] e [4] si ricava:

è la quota del reddito destinata agli investimenti netti, la quale, secondo Keynes, è necessariamente eguale (ex post) alla quota del reddito destinata al risparmio (i = s). Si ha dunque:

la quale dice che l'incremento relativo del reddito è uguale al rapporto fra la propensione media al risparmio e il coefficiente di proporzionalità fra investimenti netti e incremento del reddito (detto anche rapporto marginale capitale-reddito). La [6] in sé mette semplicemente in luce certe relazioni tecnico-economiche fra alcune grandezze aggregate; essa tuttavia è stata presa come base per tentare d'individuare le condizioni di uno sviluppo "equilibrato". L'inverso della propensione media al risparmio è il moltiplicatore (v. in questa App.) e il detto coefficiente di proporzionalità è chiamato anche acceleratore (v. accelerazione, in questa App.), quantità che compaiono in alcuni recenti schemi teorici del ciclo economico, elaborati da seguaci di Keynes (v. ciclo economico, in questa App.).

Mentre nelle costruzioni teoriche di Marx e di Schumpeter le spiegazioni del ciclo e dello sviluppo risultano combinate organicamente, negli schemi neokeynesiani le spiegazioni sono alternative: o si spiega il ciclo o si spiega lo sviluppo. Di recente tuttavia M. Fanno, ricollegandosi alla teoria keynesiana, ha compiuto un interessante tentativo di combinare in uno schema unico le due spiegazioni; un analogo tentativo è stato compiuto da A. K. Ando e F. Modigliani, in uno schema che assume una funzione della produzione del tipo Cobb-Douglas ed una funzione del consumo del tipo Modigliani-Brumberg. Inoltre, negli schemi neokeynesiani non si tien conto, o si tien conto in modo generico e insoddisfacente, del progresso tecnico, sebbene si riconosca generalmente che esso costituisce il fattore fondamentale dello sviluppo ciclico dell'economia.

Con l'espressione "progresso tecnico" s'intendono diversi fenomeni: 1) innovazioni che consentono la produzione di beni nuovi, che di regola, in tutto o in parte, man mano sostituiscono beni già prima prodotti; 2) innovazioni che consentono di produrre con minori coefficienti tecnici beni già prima prodotti; 3) introduzione di sistemi di produzione già noti e applicati in certi paesi o in certe regioni che prima, per motivi diversi, non erano applicati nell'economia considerata. Nei casi più importanti, il progresso tecnico si concreta in nuove macchine e in nuovi impianti; questi sono introdotti principalmente per due motivi: ampliamento del mercato, che consente d'introdurre impianti più grandi e più efficienti (si hanno, in questo caso, le così dette economie di scala); aumento dei salarî, che stimola l'introduzione di macchine "risparmiatrici di lavoro". Il progresso tecnico risulta essere particolarmente rapido nei rami produttivi che si espandono più rapidamente, non solo perché si possono sfruttare le economie di scala, ma anche per il fatto che l'espansione della capacità produttiva può essere ottenuta introducendo le macchine più recenti, che di norma sono più perfezionate delle precedenti. L'indice caratteristico del progresso tecnico è dato dall'aumento della produttività dei lavoratori (v. produttività, in questa App.). Considerando l'economia sociale nel suo complesso, la produttività del lavoro cresce, oltre che per l'introduzione di nuovi metodi nei singoli mercati, se cresce il peso relativo, nel reddito nazionale, delle produzioni nelle quali la produttività del lavoro è relativamente elevata. Le conseguenze economiche del progresso tecnico sono diverse, in relazione al grado di concentrazione e alle forme prevalenti nei varî mercati. Nelle economie progredite, in cui si è giunti a elevato grado di concentrazione, gl'incrementi di produttività, a causa del potere delle imprese maggiori d'influire sui prezzi e del potere dei sindacati operai d'influire sui salarî, tendono a tradursi in aumenti dei redditi monetarî (profitti e salarî) piuttosto che in minori prezzi (come accadeva, di regola, nel secolo scorso); inoltre, l'autofinanziamento delle maggiori imprese cresce progressivamente d'importanza. Tutto ciò accentua le diseguaglianze nello s.: le attività produttive in cui prevalgono rami altamente concentrati vengono a trovarsi avvantaggiate rispetto alle attività in cui la concentrazione è relativamente bassa e in cui i prezzi sono fissati, impersonalmente, dal mercato; inoltre, nel seno stesso delle singole attività produttive le imprese più grandi vengono a trovarsi avvantaggiate rispetto alle imprese minori. Anche più importante è il fatto che, nei rami altamente concentrati, la domanda effettiva diviene l'elemento regolatore delle decisioni d'investimento e, quindi, dell'accrescimento del reddito e dell'occupazione. L'espansione delle spese pubbliche, nelle condizioni moderne, può contrastare la tendenza al ristagno e sostenere l'incremento del reddito e dell'occupazione; tuttavia quest'accrescimento comporta problemi gravi, sia che si tratti di spese produttive, sia (e ancora di più) che si tratti di spese improduttive.

Negli ultimi anni nella scienza economica, insieme con un crescente interesse per i problemi dello s., si osserva un rinnovato interesse per le costruzioni teoriche dei classici. Stanno apparendo opere e lavori che, in modi diversi, si ricollegano direttamente alla tradizione classica: oltre a quelli di Schumpeter, occorre ricordare i lavori di A. Breglia, W. A. Lewis, J. von Neumann, P. Sraffa e dei neomarxisti M. Dobb, P. Sweezy e P. Baran.

Per Breglia, il processo di s. è, in primo luogo, un processo di trasformazioni qualitative: sviluppandosi, le economie moderne capitalistiche, o privatistiche, o "plurisoggettive" (poggianti su un gran numero di soggetti autonomi) si trasformano e tendono a divenire socialistiche o "unisoggettive" (economie che si sviluppano secondo un piano diretto dal centro). L'economista deve compiere l'analisi teorica dell'uno e dell'altro tipo di economia e del processo di trasformazione. Da un tale angolo visuale, Breglia ha approfondito particolarmente i problemi monetarî, inquadrandoli in quelli dello sviluppo economico. Lewis rielabora originalmente, in uno schema organico, alcune tesi classiche per concettualizzare alcuni problemi dello sviluppo delle odierne economie arretrate "sovrappopolate". Su un piano di alta astrazione, von Neumann elabora uno schema matematico, massimamente semplificato, di un sistema economico che si sviluppa in modo uniforme, partendo da alcune fondamentali assunzioni degli economisti classici. Sraffa si ricollega direttamente ed in profondità al filone classico e ripropone, in uno schema teorico, la concezione della produzione come processo circolare, dal quale può emergere un sovrappiù, rispetto agli impieghi necessarî per la riproduzione. Se il sovrappiù, in tutto o in parte, è a sua volta impiegato produttivamente, l'economia si sviluppa. Sraffa tuttavia concentra la sua analisi sulle proprietà del sistema per riconsiderare criticamente alcuni problemi di teoria economica generale.

La crescente massa di dati raccolti ed elaborati negli ultimi decennî da privati studiosi e da organizzazioni internazionali ha consentito d'individuare alcuni caratteristici aspetti quantitativi dello s. e. nei diversi paesi e nelle diverse fasi: 1) Il saggio composto d'incremento annuale del reddito nazionale dei paesi capitalistici oggi progrediti, considerando lunghi periodi, si è aggirato su valori che vanno dal 2,5 al 5% (più spesso 3-3,5); la differenza tra questo saggio e quello relativo all'incremento della popolazione, che di solito si è aggirato sull'1%, indica, approssimativamente, il saggio d'incremento della produttività media dei lavoratori e il miglioramento del tenore di vita. 2) La quota del reddito nazionale dedicata al risparmio ("propensione media al risparmio": s nelle formule ricordate di Harrod e di Domar) ha assunto valori compresi fra il 10 e il 20%; il rapporto marginale capitale-reddito (v nelle formule ricordate) ha assunto valori relativamente stabili, compresi fra 2,5 e 5, più spesso fra 3 e 4. 3) Secondo numerose indicazioni, da un secolo a questa parte il divario, misurato in termini di redditi individuali, fra i paesi oggi progrediti e i paesi arretrati è andato crescendo (S. Kuznets). 4) Man mano che in una società lo sviluppo procede, "il numero di coloro che sono occupati in agricoltura tende a diminuire relativamente ai lavoratori occupati nelle industrie manifatturiere, i quali a loro volta diminuiscono rispetto ai lavoratori occupati nei servizî" (Colin Clark). 5) Ciascuna industria, singolarmente considerata, tende a crescere secondo una curva logistica: lo sviluppo dapprima è relativamente lento, poi rapido, poi, via via, più lento (Kuznets); tuttavia, un tale andamento può esser rotto da un'innovazione rivoluzionaria, che ponga lo sviluppo dell'industria su nuove basi. 6) In ciascun periodo è possibile individuare determinate attività produttive, particolarmente nell'industria, che portano o guidano lo sviluppo: sono le attività in cui si attuano innovazioni e in cui hanno luogo i maggiori investimenti, ovvero gl'investimenti che danno i più ampî effetti collaterali (Schumpeter). 7) Nel settore industriale considerato nel suo complesso, le industrie che producono beni di consumo (tessili, alimentari, cuoio) si sviluppano per prime, mentre si sviluppano successivamente le industrie che producono beni strumentali (industrie dei metalli e della lavorazione dei metalli, industrie producenti macchine e mezzi di trasporto, industrie chimiche). Più precisamente, nella prima fase dello s. industriale il rapporto fra le due categorie di industrie è 6-4 a 1; in una fase intermedia il rapporto scende a 3,5-1,5 a 1; in una terza fase, a 1,5-0,5 a 1; sembra che il rapporto tenda a diminuire ulteriormente (W. G. Hoffmann).

È opportuno qualche commento sulle tendenze sub 3), 4) e 7). Il crescente divario fra paesi progrediti e paesi arretrati pone il problema di spiegare le forze che lo determinano; in alcuni paesi è stato osservato un simile crescente divario nell'interno fra diverse regioni (per esempio, nella Cecoslovacchia, almeno nel periodo compreso fra le due guerre; in Italia, fra regioni meridionali e regioni centrosettentrionali). Si è parlato, a questo proposito, di "dualismo economico" e si sono elaborati schemi teorici volti a spiegarlo. La sequenza sub 4), messa in rilievo da Colin Clark (ma già osservata da W. Petty e da A. Smith), richiede due qualificazioni: nelle economie arretrate l'espansione di attività commerciali e d'intermediazione (incluse nella categoria dei "servizı") accompagna, da principio, lo s. agrario e in certi casi lo precede; inoltre l'intero processo di s. è stato preceduto e accompagnato, nelle economie oggi progredite, dallo s. delle cosiddette infrastrutture (strade, canali, opere sanitarie e igieniche ed altre) e dal progressivo miglioramento dell'organizzazione civile (sicurezza pubblica, uffici pubblici) e dell'istruzione. La sequenza 7), che ha avuto luogo nel settore industriale delle società capitalistiche (preminenza, in una prima fase, delle industrie leggere producenti beni di consumo e s. successivo delle industrie pesanti producenti beni strumentali durevoli), è stata posta in contrasto con la sequenza che ha avuto luogo nel settore industriale di alcuni paesi che hanno avviato, o accelerato, il loro s. e. attraverso la pianificazione collettivistica. In questi paesi, nella prima fase dell'industrializzazione è stata data la preminenza alle industrie pesanti, mentre le industrie producenti beni di consumo, come anche l'agricoltura, sono state sacrificate. È stato osservato che la sequenza "capitalistica" si spiega col fatto che gl'imprenditori privati tendono a sviluppare in primo luogo le attività in cui gl'investimenti sono relativamente modesti e che rendono a scadenza relativamente breve; poi, quando lo s. delle industrie leggere ha determinato la formazione di ampî capitali privati e quando l'offerta di lavoro, proveniente dal settore agrario e artigianale precapitalistico, si assottiglia e l'aumento dei salarî provoca un'accelerazione della meccanizzazione, gli imprenditori privati sviluppano le industrie pesanti, che richiedono ampî investimenti e dànno profitti non immediati. È stato inoltre osservato, che in un piano di s., se si vuole rendere massimo il saggio d'incremento del reddito nel tempo, occorre dare la preminenza alle industrie pesanti nella stessa prima fase d'industrializzazione. Questa proposizione è esatta; ma sussiste il problema del grado di preminenza, ossia il problema dell'optimum nei saggi di accrescimento delle due categorie d'industrie. Quanto più alto, nella prima fase dell'industrializzazione, è il saggio d'incremento delle industrie producenti beni strumentali, tanto maggiore è la compressione dei consumi (i consumi non necessariamente decrescono; ma il mancato aumento dei consumi, dovuto all'investimento sistematico, periodo per periodo, di tutto o quasi tutto l'incremento di reddito comporta già sacrifici notevoli). Inoltre, un basso saggio d'incremento delle industrie leggere comporta un basso saggio d'incremento delle produzioni agrarie, poiché i contadini, anche se organizzati in cooperative o in altri modi, sono indotti ad accrescere le produzioni se possono scambiare quel che eccede i loro bisogni con beni industriali di consumo. Infine, per attrarre i lavoratori dell'agricoltura verso l'industria, è necessario che i salarî industriali superino quelli agrarî; ed i salarî vengano spesi in beni agrarî e industriali di consumo. Pertanto, un'eccessiva preminenza assegnata dal piano alle industrie producenti beni strumentali rispetto alle industrie producenti beni di consumo può comportare difficoltà anche gravi nell'esecuzione del piano stesso; e può comportare il ricorso a misure coercitive (consegne obbligatorie di prodotti agricoli; trasferimenti semi-coattivi di lavoratori nell'industria).

Nel considerare i problemi di s. degli odierni paesi arretrati riappare la necessità di studiare, in via preliminare, la struttura sociale; riappare, cioè, la problematica degli economisti classici, particolarmente di A. Smith. In primo luogo, occorre considerare lo status politico: l'indipendenza politica è uno dei prerequisiti dello sviluppo. Vi sono paesi che hanno conquistato solo di recente l'indipendenza politica, la quale spesso è tuttora precaria. La questione si complica se non ci si ferma all'esame della situazione puramente giuridica o formale, ma se si considera la parte che giocano, nella vita politica del paese, gl'interessi economici di gruppi stranieri: questi possono influire, a volte in modo decisivo, sulla direzione politica. In diversi casi, questi gruppi hanno convenienza a sostenere determinati ceti sociali (per es., grandi proprietarî terrieri) che possono avere interesse a conservare lo status quo politico ed economico (per es., a mantenere la distribuzione esistente della proprietà fondiaria) e addirittura ad avversare un processo d'industrializzazione promosso dallo stato attraverso investimenti in opere pubbliche e in industrie di base. Sotto l'aspetto dello s. produttivo, i gruppi stranieri investono in economie arretrate principalmente per promuovere la produzione di materie prime che hanno un mercato mondiale (in primo luogo, di quelle richieste dalla madre patria): lo s. resta allora confinato a quei rami e, dopo un certo punto, tende ad arrestarsi: i profitti vengono esportati nel Paese investitore in misura crescente e alla fine totalmente, e la molla fondamentale del processo cumulativo degli investimenti e del reddito viene a mancare: lo s. sezionale cessa; lo s. generale non si delinea affatto. Sono numerosi i paesi arretrati con economie specializzate nella produzione di una o di alcune materie prime, agrarie o minerarie, che sono sotto il controllo di gruppi stranieri. Questa situazione presenta gravi svantaggi sotto l'aspetto dello sviluppo economico. Primo: i profitti vengono in gran parte esportati. Secondo: i redditi interni e le partite attive della bilancia dei pagamenti subiscono ampie e imprevedibili oscillazioni, poiché i prezzi delle materie prime sono tra i più fluttuanti; né vi sono, o sono minime, quelle possibilità di compenso reciproco che sussistono quando le produzioni sono molteplici. Terzo: il rapporto fra prezzi delle materie prime esportate e prezzi dei prodotti industriali importati nel lungo periodo tende, in molti casi, a peggiorare. Questo peggioramento è particolarmente grave nei casi, frequenti, di materie prime i cui prezzi non sono controllati da ampî complessi di tipo monopolistico o oligopolistico e nei paesi in cui i salarî gravitano su un livello di sussistenza, a causa della vasta disoccupazione in agricoltura e a causa della inefficienza della produzione agraria: coloro che lavorano nelle campagne, anche se sono piccolissimi proprietarî, possono essere indotti ad abbandonarle e a lavorare come salariati nelle aziende capitalistiche per un salario di poco superiore al livello di sussistenza. Viceversa, i prezzi relativi - e in certi casi perfino i prezzi assoluti - dei prodotti industriali aumentano, in quanto, pur crescendo la produttività del lavoro, i relativi benefici si traducono, non in minori prezzi, ma in maggiori profitti e in maggiori salarî.

Il problema della formazione del capitale necessario per avviare un processo sistematico di s. è considerato il problema fondamentale delle economie arretrate. Con un'espressione usata da Marx, ma con un significato alquanto diverso, si parla del problema dell'accumulazione primitiva. Due questioni sono state particolarmente dibattute: 1) se sia inevitabile una restrizione dei consumi per accrescere gl'investimenti; 2) attraverso quale processo si rendano disponibili prodotti alimentari per coloro che vengono trasferiti in attività non agricole (opere pubbliche e industrie).

Circa la prima questione, si è osservato che una restrizione effettiva e indiscriminata dei consumi non è inevitabile. Nelle analisi delle economie arretrate riappare in piena evidenza l'opportunità d'impiegare il concetto classico di sovrappiù, nel senso stretto della parola: un'ampia parte della popolazione vive al livello di sussistenza, mentre una piccola parte di essa (costituita specialmente da grandi proprietarî fondiarî e da grossi commercianti) ottiene un reddito nettamente superiore al minimo. Si tratta allora di promuovere uno spostamento del somappiù da soggetti che tendono a consumarlo totalmente a soggetti che almeno in parte lo risparmiano e l'investono: per esempio, da grandi proprietarî assenteisti a proprietarî medî e ad organizzazioni cooperative di contadini; ovvero si tratta di tassare il sovrappiù ed usare i proventi in impieghi produttivi, che possano contribuire ad avviare lo sviluppo. Inoltre è stato osservato (R. Nurkse) che l'ampia disoccupazione nell'agricoltura può, senza riduzione delle produzioni agrarie, essere mobilitata per opere d'interesse pubblico (per esempio: strade, bonifiche) che richiedono capitali fissi relativamente esigui. Quei disoccupati, per vivere, consumano, anche se non producono; se, dopo essere stati mobilitati, continuano a consumare le stesse quantità di prodotti, si hanno maggiori investimenti senza diminuzione nei consumi di chicchessia: quei maggiori investimenti possono essere considerati come investimenti di lavoro e non presuppongono un maggiore "risparmio", ma dipendono da un più efficace sforzo organizzativo (S. Lombardini). (In Cina, in un tempo recente, si è compiuto un ampio sforzo organizzativo nelle campagne per utilizzare totalmente la mano d'opera, prima solo in parte occupata). Tuttavia, si è riconosciuto che l'impiego dei disoccupati comporta un certo aumento nei consumi di quelle persone; se la produzione, da principio, è stazionaria, occorre che altre persone consumino di meno. Rimane comunque la seconda questione: quella dei mezzi per ottenere un accrescimento delle produzioni agrarie, che accompagni, se non addirittura preceda, gl'investimenti in attività non agrarie. In Inghilterra e in altri paesi tale accrescimento fu il risultato di lunghe e profonde trasformazioni in agricoltura, in gran parte "spontanee" (non promosse dall'autorità centrale). In altri paesi le trasformazioni sono state, invece, promosse dal centro, sia attraverso programmi di assistenza tecnica, di prestiti di favore ed altri aiuti agli agricoltori, sia attraverso riforme agrarie, da molti economisti considerate necessarie per accrescere le produzioni agrarie. Qui occorre distinguere fra varî tipi di riforme. Se si redistribuiscono semplicemente le terre ai contadini poveri, il risultato può essere solo quello di un miglioramento nelle condizioni economiche di quelle persone (che non devono più cedere una quota del prodotto, spesso elevata, ai proprietarî), senza alcun sensibile aumento negli investimenti e nelle produzioni. Anzi, se non si forniscono ai contadini mezzi strumentali adeguati, essi possono essere ben presto costretti ad abbandonare le terre ottenute. Ma la distribuzione delle terre può essere congegnata in modo da stimolare un incremento degli investimenti in agricoltura (investimenti "di lavoro" e investimenti reali) e quindi un accrescimento delle produzioni. Comunque, l'alternativa fra consumi e investimenti perde gran parte della sua durezza quando il sistema comincia a svilupparsi: si tratta, allora, non di restringere i consumi, ma di contenerne l'aumento, per dedicare la massima quota possibile dell'incremento del reddito (del sovrappiù "dinamico") agli investimenti. Da principio in un'economia arretrata, prevalentemente agraria, che comincia a svilupparsi ed in cui la maggioranza della popolazione vive al limite della sussistenza, le rendite fondiarie necessariamente devono dare il maggior contributo al finanziamento dello s. (o attraverso un risparmio "volontario", nel caso che abbia luogo un trasferimento di terre da proprietarî assenteisti a proprietarî investitori; o attraverso un risparmio "forzato", estratto da tributi; o attraverso una combinazione di queste due vie). Man mano che lo s. procede e cominciano a crescere le produzioni industriali, un contributo crescente al finanziamento dello s. può essere dato da profitti industriali (e agrarî) investiti, di nuovo, direttamente dalle imprese, o dallo Stato, attraverso tributi. A questo proposito, si è insistito sull'opportunità che i salarî - particolarmente i salarî degli operai dell'industria - vengano contenuti, per contenere i consumi e ottenere un crescente margine investibile. Ma qui sorge un problema di tipo keynesiano: non è detto che, il crescente margine, che si traduca in maggiori profitti, sia necessariamente e automaticamente investito. Può essere impiegato in modo da non accrescere la capacità produttiva della società, ossia in modo improduttivo (maggiori consumi di coloro che percepiscono i profitti; operazioni speculative; esportazioni di capitali). Una politica di contenimento dei salarî può promuovere lo s. solo se è accompagnata da una politica che assicuri che il crescente margine sia effettivamente investito, o dalle imprese private o dallo Stato o dalle une e dall'altro. In un'economia che si sviluppa diviene importante, oltre il risparmio dei proprietarî investitori e dei capitalisti industriali, il risparmio volontario di coloro che percepiscono stipendî, redditi professionali e salarî, i quali tendono a risparmiare nella fase più produttiva della vita e a consumare poi il risparmio così accumulato: la somma algebrica, che tende ad essere zero se il reddito è stazionario, è invece positiva (ed è, nel suo valore assoluto, crescente) quando il reddito cresce (W. A. Lewis, F. Modigliani). Tale risparmio è compiuto non solo individualmente, ma anche attraverso società per azioni e istituzioni speciali (fondi di pensione, di previdenza e di assicurazione). Altre fonti di finanziamento dello s. sono: la creazione di mezzi monetarî da parte delle banche, per conto delle imprese private o dell'autorità pubblica (purché questa impieghi produttivamente i mezzi di pagamento addizionali). Ed infine, i prestiti esteri.

L'intervento dell'autorità pubblica rivolto a promuovere lo s. è oggi, nelle economie ritardatarie, molto più ampio che per il passato, non solo nel campo delle opere e dei servizî pubblici, ma anche nell'organizzare direttamente, o nel promuovere attraverso incentivi di vario genere, istituti bancarî e aziende industriali. Ciò non è senza motivo: occorre considerare alcune differenze fondamentali che esistono fra le condizioni in cui si svolge o può svolgersi oggi lo s. e quelle in cui si svolgeva un secolo o due secoli fa. Così, nella prima fase dello s. inglese si hanno, di regola, imprese individuali o familiari. Queste imprese, man mano, in molti rami tendono a scomparire; sopravvivono solo in attività subordinate o sussidiarie dal punto di vista dello s. e.: nel piccolo commercio, in attività industriali collaterali. Si affermano poi, come imprese dominanti, le imprese di tipo collettivo, le società per azioni. Oggi, nei rami fondamentali per lo s., non si può ripetere la fase dell'impresa familiare; si deve cominciare partendo dalla fase delle società per azioni. Occorrono capitali già in partenza ampî, perché sono ampie le dimensioni minime necessarie per entrare nel mercato con capacità competitiva. Inoltre, nella prima fase dello s. e. inglese, le imprese capitalistiche moderne si trovarono a competere con aziende artigianali di tipo antico, che man mano soppiantavano nel mercato (ciò accadeva, tipicamente, nel campo dei prodotti tessili): oggi, nelle economie arretrate, questo mercato locale spesso è stato già conquistato dai prodotti delle imprese moderne operanti in altri paesi o in altre regioni: quelle aziende artigianali di tipo antico sono già scomparse, o sono in crisi. La necessaria ampiezza nelle dimensioni richiede non solo grandi capitali, ma anche capacità organizzative che piccoli artigiani non possono acquistare rapidamente. La grave e crescente difficoltà, nei rami produttivi fondamentali, di uno s. graduale si traduce in una grave e crescente difficoltà di uno s. puramente privato. Così le ferrovie, le fonti di energia, la produzione di ferro e acciaio, produzioni che in Inghilterra e in altri paesi furono sviluppate da imprese private, nei paesi ritardatarî vengono organizzate o promosse dall'autorità pubblica. Così gli organismi bancarî nascono, addirittura, come organismi pubblici o semipubblici.

Oggi si dibattono diversi problemi teorici relativi alla pianificazione dello s., con riferimento sia ad economie capitalistiche sia ad economie collettivistiche. Nel primo caso la proprietà privata dei mezzi di produzione pone notevoli limiti alle possibilità di pianificazione: nell'area privata l'autorità centrale non può operare direttamente, ma solo attraverso incentivi o freni. In particolare, i problemi riguardano due ordini di decisioni: decisioni sui saggi d'incremento dei diversi settori produttivi e sui relativi investimenti (si è già fatto cenno ad uno di tali problemi); decisioni su investimenti alternativi nell'ambito di un dato settore.

Fra i problemi di questo secondo tipo c'è quello della scelta fra tecniche diverse, che comportano maggiore o minore impiego di capitale, ovvero di lavoro, per unità di prodotto: tale problema è particolarmente rilevante per le economie in cui il lavoro è relativamente "abbondante". In via preliminare, conviene distinguere fra industrie che debbono e industrie che non debbono competere con beni prodotti da regioni o paesi già sviluppati: nel primo caso le tecniche più capitalistiche possono essere, e spesso sono, talmente più efficienti di quelle ad alta intensità di lavoro da risultare più convenienti, nonostante il basso livello dei salarî prevalente nelle economie arretrate. Viceversa, nel caso di attività non concorrenti (per esempio, edilizia, opere pubbliche) quella scelta incontra vincoli minori. Riguardo al problema dei criterî d'investimento, le analisi più recenti (S. Lombardini, A. K. Sen) concordano nel concludere che la soluzione teorica è diversa, secondo che si ponga l'obiettivo di rendere massimo il reddito nel periodo immediatamente successivo a quello in cui si prende la decisione, ovvero l'obiettivo - più rilevante - di rendere massimo il saggio di sviluppo del reddito in un periodo lungo. In questo secondo caso, ricompare il problema del "sovrappiù" suscettibile d'investimento. Lombardini, in particolare, ha criticato i criterî tendenti a valutare gli effetti di singoli progetti d'investimento ed ha elaborato uno schema teorico che mira a valutare gli effetti globali delle decisioni d'investimento e considera l'economia nel suo complesso e nel suo movimento.

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Si vedano inoltre le bibliografie sotto le voci dinamica economica (vol. XII) e ciclo economico (in questa App.).

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