Teatro del Cinquecento, La tragedia - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1997)

Teatro del Cinquecento, La tragedia - Introduzione

Renzo Cremante

Le ragioni della scelta sono suggerite in primo luogo, come dalla fisionomia della collezione e dalla misura del volume, così dalla necessità di offrire, di ogni campione prodotto, un testo rigorosamente integrale. È però vero che la delimitazione dello spazio - che pure al giudizio non improbabile di un palato meno esperto potrebbe risultare finanche eccessivo - ha però ridotto notevolmente i sacrifici inevitabili ed i rischi impliciti in qualsivoglia operazione di vaglio e di selezione, imponendo di non uscire da un canone critico precocemente riconosciuto fin dalla metà del Cinquecento, nella prassi prima ancora che nelle sistemazioni teoriche, e poi codificato, sia pure non senza significative oscillazioni, nel cospicuo revival tragico del Settecento al quale si devono, fra l'altro, proposte editoriali tuttora insostituibili: dalle monumentali edizioni delle opere di Giovan Giorgio Trissino e di Sperone Speroni (frutto entrambe della vigorosa erudizione municipale veneta, sia laica, sia ecclesiastica), alla fondamentale raccolta del Teatro italiano antico stampata a Livorno fra il 1786 ed il 1789 per le cure ammirevoli di Gaetano Poggiali. L'industria critica otto-novecentesca ha potuto naturalmente esercitarsi a riscoprire di volta in volta, nell'affollato panorama del teatro tragico cinquecentesco, consonanze culturali o affinità di gusto con questo o quel testo particolare, con questa o quella tematica specifica (come è capitato, anche recentemente, nel caso delle tragedie giraldiane); così come si desidera che essa possa, forse più utilmente, impegnarsi ad illustrare testi dimenticati o rimasti addirittura inediti, quando lo solleciti, almeno, la fisionomia degli autori (si pensi, per esempio, al volgarizzamento bandelliano dell'Ecuba di Euripide, dall'insolito e curioso profilo metrico, oppure all'inedita tragedia di Daniele Barbaro, notevole anche per l'assunto contemporaneo della fabula). Nessun tentativo di rilettura o di 'ri-uso', nessuna forzatura ideologica o retorica riusciranno tuttavia a modificare sensibilmente un paesaggio storico la cui altimetria è misurata con oculatezza, proprio all'interno dell'officina editoriale cinquecentesca, da uno dei suoi rappresentanti più tipici ed attivi, dall'infaticabile Lodovico Dolce nel Prologo dell'Ifigenia (ISSI), attraverso le parole che la medesima Tragedia rivolge agli spettatori:

Or sopra l'Arno

Volger mi fece il piede assai pomposa

Quel che già pianse il fin di Sofonisba,

E quello che d'Antigone e di Emone

Rinovò la pietà, la fé, e l'amore,

E quell'altro dapoi che estinse Orbecche,

E chi cantò lo sdegno di Rosmunda

E chi con nuovo e non più visto esempio

Lo scelerato amor di Macareo,

Né men quell'alto ingegno che fe' degna

L'Orazia de l'orecchie del gran padre

C'ha le chiavi del cielo e de l'inferno

E l'anime di noi sopra la terra,

Sì come piace a lui, lega e discioglie.

Sono appunto i lemmi che compongono l'indice di questo volume: con la dolorosa esclusione dell'Antigone (per altro largamente utilizzata nelle note di commento della Sωphωnisba e della Rosmunda), e con l'inclusione della Marianna, che ha disputato alla Didone la rappresentanza del poligrafo veneziano. Importa forse meno, dal nostro punto di vista, che l'osservanza del canone, pur ragguagliando con sufficiente chiarezza sulle linee di tendenza dominanti degli sviluppi successivi, abbia di necessità comportato il sacrificio degli episodi più reclamizzati della vicenda tragica dell'intero ultimo terzo del secolo, dal Cieco d'Adria al conte di Montechiarugolo (mentre il Torrismondo, insieme all'Aminta, è compreso in altro volume della collezione ricciardiana). Come necessario complemento del paesaggio tragico è parso infine opportuno pubblicare in appendice l' Egle del Giraldi, il dramma satiresco che avviò la scena ferrarese e cortigiana al resistente, popolare successo della favola pastorale e alla sua fortuna europea.

Conviene subito dichiarare che l'attenzione del curatore, pur non trascurando, in linea generale, le questioni di ordine teatrale o scenico, si è di necessità appuntata prevalentemente sugli aspetti letterari, linguistici, metrici, retorici, tematici dei testi analizzati. A prescindere dalle sporadiche rappresentazioni umanistiche di Seneca, d'altro canto, la vicenda degli spettacoli tragici - sui quali pure si desiderano maggiori informazioni - risulta singolarmente contrastata e tanto più povera, soprattutto se ci si riferisce al periodo qui considerato, non soltanto al paragone di quelli comici (e poi anche tragicomici), ma anche della stessa fortuna editoriale, almeno di alcune opere: basti pensare alla ventina di stampe cinquecentesche della Sωphωnisba (senza contare le traduzioni francesi), alla dozzina di stampe dell'Orbecche e del Torrismondo, alle sei edizioni della Rosmunda e della Canace, alle cinque dell’Hecuba del Dolce e dell'Hadriana del Groto.

Al di là di queste considerazioni, non si può fare a meno di considerare come la notevole fioritura di interpretazioni critiche, generali e particolari, degli ultimi anni, non sia stata ancora accompagnata, tranne numerate eccezioni, da un adeguato lavoro editoriale ed esegetico. Lo aveva già osservato, più di vent'anni fa, Carlo Dionisotti a proposito degli studi giraldiani, non dissimulando la propria preoccupazione per il fatto che una fitta vegetazione critica avesse appunto «messo o tentato di mettere radici su un terreno editorialmente intatto»; ed auspicando per l'opera dello scrittore ferrarese, e in primo luogo per l'Orbecche, «un apparato storicoletterario, che dia il quadro nel quale e per il quale soltanto, un'opera così nuda di poesia e di pensiero ma indubbiamente distinta da buone intenzioni e da efficaci suggerimenti, ebbe ed ha un'importanza storica», In mancanza di un robusto sostegno filologico e del necessario complemento esegetico, non sempre accade che le interpretazioni vigenti della tragedia cinquecentesca riescano a sottrarsi al rischio di arbitrarie, per quanto suggestive, forzature. Così come l'attenzione troppo concentrata ed esclusiva rivolta alla prospettiva teatrale e scenica - tanto più se affidata, come eventualmente accade di riscontrare, a troppo disinvolti procedimenti indiziari - può finire talora per occultare, prevaricare o ostacolare il riconoscimento, persino, dei contrassegni storici, culturali, linguistici di più macroscopica e significativa evidenza. Come prescindere, poniamo, per l'intelligenza della Swphwnisba o dell’Orazia, da due 'manifesti' di diversa ma ugualmente fondamentale importanza quali le lettere di dedica, indirizzate rispettivamente a Leone X e a Paolo III? Eppure cercheremmo invano tali indispensabili complementi nella più recente, pur benemerita silloge dedicata a La tragedia del Cinquecento.

È dunque sembrato doveroso procedere in primo luogo dall'accertamento critico dei testi, sia pure limitatamente al solo testimone, manoscritto o a stampa, di volta in volta prescelto. L'accertamento ha permesso, fra l'altro, di identificare meglio, anche tipograficamente, la fisionomia metrica dei dialoghi lirici e delle parti commatiche, vale a dire di illustrare un aspetto cruciale e decisivo della sperimentazione tragica cinquecentesca. Non diversamente, nel caso della Canace, col rilievo dello spazio bianco tipografico si è voluto sottolineare anche per l'occhio, sia pure con qualche approssimazione, l'istituto della rimalmezzo che costituisce uno dei legati più cospicui trasmessi dallo Speroni alla versificazione manieristica e barocca.

Cure particolari ha naturalmente richiesto il commento, non soltanto per la quasi assoluta verginità del terreno, ma anche perché la dinamica dei riferimenti intertestuali e interdiscorsivi - per servirci di un'opportuna distinzione di Cesare Segre - proprio nella tragedia cinquecentesca sembra trovare, se non m'inganno, un campo di applicazione particolarmente fertile ed altamente privilegiato: se è vero che il principio dell'imitazione contempla una gamma vastissima di realizzazioni, che va dall'imitatio all'aemulatio, dalla traduzione al rifacimento, dal calco alla parodia. Si trattava, insomma, di cercare di riconoscere, all'interno dei singoli testi, la fitta trama delle contaminazioni e delle interferenze, la complessa stratificazione delle fonti tematiche e fabulistiche, nonché il loro scarto, il loro attrito nei confronti delle fonti linguistiche e formali. L'esuberanza delle note e l'accumulo dei richiami interni hanno anche inteso ragguagliare sulla elaborazione, sulla costituzione e sulla fortuna della grammatica tragica cinquecentesca, all'interno della quale soltanto può forse trovare una giustificazione storica l'attenzione dedicata a testi nei quali cercheremmo invano o quasi, per citare le pagine di Arturo Graf, «perché diletta la tragedia».

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Le manchevolezze di questo lavoro sarebbero ancora più gravi e numerose, se non avessi potuto beneficiare della collaborazione generosa ed assidua e delle competenze specialistiche di studiosi, amici e colleghi. Ricordo per tutti, con debito di gratitudine: Carla Molinari, che ha accettato di preparare un testo dell'Egle giraldiana corrispondente alle esigenze del volume; Giulio Guidorizzi, al quale si deve la traduzione di tutte le fonti greche citate nelle note; Arnaldo Bruni, Giovanna Gronda, Tiziano Zanato, Andrea Cristiani e Carolina Gasparini, ai quali devo, fra l'altro, laboriose collazioni di rare stampe antiche conservate nelle biblioteche di Firenze, Milano, Venezia e nella British Library; Gabriella Fenocchio, Marco Leva, Loris Rambelli e Livia Vendruscolo, che hanno collaborato all'allestimento degli indici. Sono grato, inoltre, a Franco Gavazzeni e a Ezio Raimondi che hanno avuto la pazienza di leggere le bozze dell'intero commento e l a cortesia di fornirmi suggerimenti e proposte; a Domenico De Robertis, per alcune preziose indicazioni di ordine metrico; e a Martino Capucci che ha costantemente accompagnato con l'amicizia e col consiglio il percorso di una ricerca non sempre agevole e pacifica. Il volume è naturalmente dedicato con «union di perpetua volontade» a Gianni Antonini, impareggiabile ed acerrimo ἐργοδιώχτης dell’impresa ricciardiana.

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