Televisione

Libro dell'anno 2002

Televisione

La grande sorella

Il condizionamento dell'audience

di Carlo Freccero

23 giugno

In occasione del Festival internazionale della pubblicità, in svolgimento a Cannes, la RAI presenta agli inserzionisti pubblicitari i palinsesti per la prossima stagione. È polemica per l'esclusione di Enzo Biagi e Michele Santoro, i giornalisti accusati da Silvio Berlusconi di "uso criminoso" del mezzo pubblico in campagna elettorale. Tuttavia il direttore generale Agostino Saccà nega ogni interpretazione politica e dichiara che la RAI "è tornata a mettere il prodotto al centro dei modelli organizzativi ed è pronta a competere con rinnovato vigore", senza rinunciare né alla pubblicità, "che per il servizio pubblico non è un accessorio", né alle logiche dell'audience, "perché la qualità è la capacità di centrare le attese del pubblico".

Come la periferia di una grande città

Audience è un termine inglese entrato ormai nel nostro linguaggio quotidiano. Deriva dal latino audientia cioè "ascolto", dal verbo audire, "udire", e indica la massa presunta degli spettatori che assistono a uno spettacolo. Nell'uso corrente è il risultato delle rilevazioni statistiche dell'Auditel sul pubblico televisivo, suddiviso tra RAI, Mediaset e altre reti. In questo senso è stato introdotto in Italia il 1° luglio 1984 quando in base a un accordo tra RAI, Fininvest (come si chiamava allora Mediaset) e utenti pubblicitari, venne costituita la società super partes che ha lo scopo di certificare gli indici di ascolto. Possiamo quindi dire che in Italia il termine è diventato familiare agli spettatori e agli addetti ai lavori dopo la nascita della televisione commerciale. È la TV commerciale che si rivolge ai pubblicitari per vendere gli spazi in cui mandare in onda i loro spot e i pubblicitari sono disposti a pagare le loro inserzioni a tariffe crescenti sulla base dell'audience certificata. Anche la RAI, che è sostenuta dal gettito del canone, ma in maniera insufficiente a coprire le spese di gestione, è costretta a rivolgersi alla pubblicità e quindi alla rilevazione Auditel.

Prima della TV commerciale la RAI aveva un proprio servizio opinioni che verificava sia l'ascolto quantitativo sia il gradimento delle trasmissioni. Queste indagini erano fatte partendo da una diversa concezione di televisione. La RAI delle origini aveva lo scopo di educare ed era al servizio del pubblico. La televisione di oggi rappresenta un'attività commerciale e, come tale, è al servizio dei pubblicitari. Il pubblico è importante solo come audience da rivendere alla pubblicità e questa è interessata a un'audience ampia e indifferenziata.

Mi piace pensare all'audience come alla periferia di una grande città. È il centro che identifica la città. Nel centro si trovano i monumenti, i reperti storici, ma anche i luoghi di aggregazione e socializzazione. Nel centro si costruiscono la cultura e la moda. Nel centro si danno appuntamento gli opinion-leaders. La sera il centro è scintillante di luci, di insegne, di vita. Ma basta allontanarsi dal centro per vedere quelle luci affievolirsi, farsi sotto tono, confondersi con la nebbia in cui sono immerse le cose: è la periferia. Qui le luci della strada sono fioche e giallastre, ma un'altra luce filtra attraverso i vetri delle finestre, quella lattiginosa della televisione. Brandelli di sonoro ci seguono nel nostro itinerario. La televisione è la colonna sonora della periferia. Questa realtà quotidiana dimessa, priva di slanci, immobile ed eguale, ha trovato nella televisione il suo mezzo di espressione. È l'audience profonda, che inesorabilmente livella i palinsesti televisivi, smussa la sperimentazione, limita ogni cambiamento. La massa informe degli ascoltatori, esiliata al di fuori del centro in cui si costruisce il nuovo, finalmente ha un proprio mezzo di espressione. Ed è un medium molto più importante della stampa, che pure orienta l'opinione del paese o del cinema e ne rappresenta una manifestazione culturale. La televisione funziona diversamente dagli altri media che per vendere devono differenziarsi, esaltare la differenza: al contrario la TV deve livellare, promuovere l'uguaglianza, non dei diritti, ma dei comportamenti e dei consumi. Mentre il giornale vende i suo spazi pubblicitari perché possiede una immagine forte che può conferire autorevolezza al prodotto pubblicizzato (si pensi alla pubblicità di uno stilista di moda emergente, valorizzata da una testata d'élite come Vogue), la televisione vende tanto meglio i suoi spazi quanto più ha un'immagine neutra, vasta, in breve se è in grado di attirare il massimo del pubblico. E il pubblico è tanto più vasto, quanto più è indifferenziato. Ogni tratto distintivo, ogni specializzazione circoscrive la massa del pubblico, la fraziona, la frantuma in un pulviscolo di audience minoritarie e specialistiche. Raggiungere il minimo comune denominatore è la regola per allargare l'audience, per raggiungere la maggioranza. Il minimo comune denominatore è il paradigma della TV commerciale, un'impresa che cerca l'insieme più vasto dei telespettatori. Al contrario dell'esclusività che interviene nei livelli più alti dell'industria culturale, la televisione pratica la maggioranza e la pratica attraverso la ripetizione. Lo spot pubblicitario deve essere nuovo e originale, ma lo spazio televisivo in cui è inserito deve essere ripetitivo. La TV commerciale è condannata a un'eterna ripetitività. Per catturare il maggior numero possibile di spettatori, per il tempo più lungo possibile, deve richiedere uno sforzo mentale minimo e non interferire con le occupazioni abituali. Il video è lo sfondo visivo che accompagna lo svolgimento della vita quotidiana.

Una macchina per produrre maggioranza

Qual è il linguaggio che richiede il minimo sforzo? Quello più ripetitivo e ridondante. La ripetitività può svegliare la nostra attenzione distratta. Gli schemi noti, sperimentati, sono in generale ricompensati da una scelta, perché i telespettatori li riconoscono. La sperimentazione è pericolosa. Un palinsesto costruito partendo dai sondaggi d'ascolto non può che proporre i programmi già selezionati dal pubblico. Ma se si prolungasse all'infinito il meccanismo potrebbe produrre una sorta di cortocircuito. Bisogna dunque procedere per aggiustamenti progressivi utilizzando insieme materiale nuovo e già sperimentato. Uno degli artifici per introdurre il nuovo nel palinsesto senza correre rischi consiste nell'utilizzare idee mai usate in quel contesto, ma già sperimentate altrove. Si tratta dei cosiddetti format. L'effetto novità sul pubblico non è rischioso perché il programma è già stato testato. Non solo. L'eco del successo internazionale della trasmissione non può che generare attesa e interesse, funzionando come una forma di pubblicità. Ed è una pubblicità che ripete il principio noto, per cui l'audience genera audience e ciò che ha avuto successo non può non avere successo. In definitiva l'audience, in quanto maggioranza, si rivela una macchina per produrre maggioranza, attraverso l'abbattimento di ogni elemento di differenziazione.

Oggi la mancanza di distinzione, l'appiattimento delle differenze sono considerati un valore. L'emarginazione culturale, che fino a pochi anni fa era un meccanismo di esclusione, è diventata invece uno strumento di inclusione e quindi di potere. L'audience è la personificazione della rivoluzione copernicana che ha investito la nostra società. Se prima la vita ruotava intorno al centro, ora essa ruota intorno alla periferia. L'economia che ruotava intorno alle élites ruota intorno alla massa passiva dei consumatori. La storia che ruotava intorno al sovrano si è frantumata nella microstoria del quotidiano.

Nel libro Impero (Milano, Rizzoli, 2001) di Michel Hardt e Antonio Negri, che ha avuto grande successo a livello internazionale e soprattutto negli Stati Uniti, viene ripreso un tema classico del marxismo. La moltitudine è la figura centrale della produzione. Le pratiche della moltitudine investono non solo il lavoro materiale e immateriale, ma anche la stessa vita. La moltitudine è quindi il motore della sovversione. La moltitudine non è che la riedizione, con un termine di Hobbes, del proletariato. Secondo Marx il valore non scaturisce dalla terra o dai meccanismi di mercato, ma dal lavoro del proletariato espresso come forza lavoro, ma il proletariato non ha potere sociale, perché questo valore gli viene sottratto con un artificio. Il meccanismo del plusvalore garantisce all'imprenditore un guadagno, perché si basa su uno scambio ineguale tra il lavoro veramente svolto dal proletario e quanto gli viene invece corrisposto, il valore necessario al suo mantenimento. Nel marxismo critico e in particolare in Lukács, questo meccanismo viene sviluppato soprattutto in termini di coscienza. Il proletariato non ha coscienza del proprio sfruttamento, ma è attraverso il suo corpo e la sua anima che si formano i meccanismi produttivi veramente vitali per la società. Se solo il proletariato volesse fermarsi, analizzare la propria esperienza, prenderne le distanze con lucidità, da quest'atto d'introspezione scaturirebbe una coscienza di classe capace di travolgere i meccanismi dell'esclusione e dello sfruttamento. È il problema della falsa coscienza. Solo chi ha fatto determinate esperienze, anche se organizzate a livello cognitivo in modo distorto, ha nel proprio vissuto gli elementi per approdare alla coscienza vera, a uno sguardo rivoluzionario nei confronti della realtà. Il proletariato è al centro della società perché è al centro della produzione. È la produzione il deus ex machina che, alle spalle del proletariato, regge i fili della Storia. Marx nel momento in cui critica il capitale è affascinato dal concetto di produzione. Perché la produzione venga in qualche modo liberata dalle scorie e dagli elementi frenanti, lo sfruttamento deve essere ribaltato. Il pensiero contemporaneo è affascinato dal concetto di produzione. Nell'Anti-Edipo di Gilles Deleuze e Félix Guattari (Parigi, Minuit, 1972) il processo di produzione esce dall'ambito economico per radicarsi nelle nostre anime. La forza veramente sovversiva è il desiderio, ma il desiderio non è mancanza di qualcosa, è produzione. La produzione di desiderio è la spinta vitale a cui incessantemente attingiamo. La produzione è il grande feticcio della nostra società: produzione di merci, di valore economico e, specularmente, produzione di desiderio che continuamente si ripropone per essere soddisfatto. Le tesi di Freud escono dall'equilibrio che ci spinge alla soddisfazione dei bisogni naturali, per riproporsi in chiave di produzione. Ma le utopie molto spesso non sono che la falsa coscienza del reale, la riproduzione capovolta del mondo in cui viviamo.

La produzione di desiderio è doppiamente funzionale al sistema perché esalta come alternativi i due momenti essenziali della produzione e del consumo. Ma non è la produzione la base su cui poggia la falsa coscienza nel mondo di oggi. Da tempo il centro dell'economia si è spostato dalla produzione al consumo. Il lavoratore, colui che produce, può essere sfruttato. La macchina lo può sostituire. Il computer lo esclude dal mondo del lavoro, lo emargina perché inutile e in soprannumero. Nel 1995 Jeremy Rifkin ha potuto decretare, con un suo celebre saggio, la 'fine del lavoro'. Il consumatore è invece essenziale alla nostra società. Il consumo non può essere indotto con meccanismi coercitivi. Deve essere favorito con la produzione di desiderio, con il martellamento ossessivo di pubblicità. È la coscienza del consumatore non quella del lavoratore a essere al centro dei meccanismi della società di massa, a influenzarne le scelte politiche, a dettarne i valori. Lo spazio in cui il processo di condizionamento ai consumi trova attuazione è lo spazio televisivo. La televisione si è trasformata, dopo l'introduzione delle emittenti commerciali, in un meccanismo per la produzione di desideri. E sono desideri di consumo materiale, perché in questa direzione va la pubblicità. Ma il meccanismo messo in moto dalle rilevazioni di mercato ha assunto ben presto aspetti ben più vasti e inquietanti, tanto da assoggettare alle sue logiche anche la politica. Questo processo è passato attraverso una serie di tappe successive. In un primo momento, con l'introduzione della rilevazione dell'audience, l'opinione del pubblico è entrata stabilmente a far parte delle produzione di un sapere televisivo. Di fatto è l'audience a selezionare le trasmissioni gradite al pubblico e a presiedere quindi alla formazione dei palinsesti televisivi. In un secondo momento, tramite il legame che la televisione commerciale ha istituito tra pubblicità e televisione, il marketing è entrato massicciamente a far parte della programmazione televisiva. È il marketing a studiare le fasce di pubblico che il messaggio televisivo dovrà raggiungere e a dare quindi indicazioni dettagliate sui requisiti dei programmi. In questi anni si è continuato ad attribuire all'imperativo dell'audience, cioè degli ascolti, la decadenza della televisione pubblica e privata. Ma non è così o almeno non solo. Da tempo per la TV commerciale l'indice elaborato dalla società di analisi del mercato Nielsen prevale sui dati Auditel; il successo di pubblico è importante, ma è ancora più importante il successo certificato di vendite. Con la crisi e i tagli ai budget, il mercato pubblicitario si restringe sempre più ai bisogni biologici, primari: alimentari e prodotti per l'igiene personale. Non solo. Non è più sufficiente che il pubblico guardi la televisione, ma, per motivi di produttività, bisogna essere certi che dall'audience scaturisca il consumo. In questo modo si crea il meccanismo dello sfruttamento non più nella sfera della produzione, ma nella sfera del consumo. Lo spettatore è un lavoratore che non sa di lavorare e non viene retribuito. La televisione commerciale rappresenta un mezzo per fare del nostro tempo libero una forma di mercato. Audience significa allargamento del pubblico, ma non tutto il pubblico è qualificato per certi consumi. E poiché è lo sponsor che paga le trasmissioni, lo sponsor ha diritto a scegliersi il pubblico. La televisione si trasforma sempre più da macchina di consumi intellettuali (la RAI delle origini) in una macchina di consumi materiali. Da questa evoluzione o involuzione non è immune neppure la RAI, dopo che si è attribuito al servizio pubblico il valore materiale di un'azienda da privatizzare. L'ultima tappa di questo processo porta a una rivalutazione del concetto di democrazia diretta e a una deriva populista. Le trasmissioni di attualità politica, introducendo l'uso dei sondaggi per commentare e valutare problemi di importanza sociale, hanno radicato nell'opinione pubblica l'equazione tra maggioranza e verità. L'aspetto più inquietante o, comunque, curioso è rappresentato proprio dal fatto che al sondaggio si tende a dare oggi il valore di verità. Mentre per la società basata sulla verità il sapere è appannaggio di pochi (per es. la Repubblica di Platone) nella 'sondocrazia' il sapere e il potere coincidono con la maggioranza. Per la prima volta la verità e il potere vengono espressi in termini quantitativi anziché qualitativi. Termini come 'teledemocrazia' e 'videocrazia', apparentemente in contrasto tra loro, esprimono un unico concetto. Nell'era del video si realizza la dittatura della maggioranza. Si tratta di una democrazia, o potere popolare, filtrata attraverso il video. Ma si tratta altresì di un potere che in nome della maggioranza rifiuta qualsiasi tipo di limitazione o controllo, mentre noi sappiamo che la democrazia moderna si fonda proprio sulla limitazione reciproca dei poteri. La televisione commerciale ha valorizzato la maggioranza portandola prima alla ribalta del piccolo schermo attraverso il talk show, poi alla ribalta della politica attraverso il populismo. Dalla politica ai consumi l'interlocutore unico è la maggioranza. La maggioranza è la verità della nostra epoca e l'audience ne è la matrice.

L'audience oggi

Questo lungo preambolo può aiutarci a capire che cos'è oggi l'audience: non un misuratore di ascolti televisivi, ma piuttosto l'indicatore di un potenziale bacino di consumi. È sulla base dell'audience che si stipulano i contratti pubblicitari. Un solo punto di audience può spostare miliardi di fatturato. L'ascoltatore televisivo, nel ruolo passivo di spettatore, produce più ricchezza di uno stakanovista nell'era del fordismo. L'audience ha a che vedere con il mercato pubblicitario molto di più di quanto non abbia relazione con la qualità del messaggio televisivo o con la validità culturale dei programmi. In definitiva, nella rilevazione dell'audience, non importa nulla a nessuno della televisione in quanto tale. La televisione è ridotta a una scatola vuota, il palcoscenico su cui va in onda lo psicodramma del consumo, la telenovela della riproduzione dei nostri bisogni. Oggi le merci, nella versione virtuale e astratta che ce ne dà la pubblicità, circolano sugli schermi televisivi, condizionando la nostra vita materiale. La televisione, con gli spot pubblicitari ma anche con i suoi programmi, ci dice cosa dobbiamo consumare, ma anche cosa dobbiamo diventare attraverso il consumo. L'oggetto che dobbiamo plasmare attraverso i consumi è il nostro corpo. Le reti principali, soprattutto le reti commerciali maggiori, ci inondano di modelli ideali. La figura femminile si assottiglia mentre crescono a dismisura e contro ogni plausibilità anatomica labbra e seno. Le reti minori ci inondano di televendite: elettrostimolatori e attrezzi ginnici, alghe, creme, lozioni e integratori alimentari. Ma la base della pubblicità rimane il consumo materiale elementare: merendine, proteggi slip, automobili e telefonia. Il processo di snaturamento di cui è stata oggetto la televisione attraverso il meccanismo della rilevazione dell'audience può essere riassunto in una sola frase: la TV è passata dall'universo simbolico del consumo intellettuale all'universo concreto del consumo materiale. È come se un libro servisse solo per incartare con le sue pagine saponette e dentifrici. In questa ipotesi sarebbero irrilevanti i suoi contenuti, mentre assumerebbero peso essenziale la patinatura della carta, l'eleganza e la vivacità delle illustrazioni. La televisione come medium culturale è stata vittima di una società che privilegia il consumo materiale sul consumo intellettuale, il capitale economico sul capitale culturale. Ma a questo punto si ripropone il paradosso dell'uovo e della gallina. È stato il pensiero unico, lo strapotere delle ragioni economiche, a fare della televisione uno strumento di mercato più che di cultura o non è stata piuttosto la TV commerciale a propagandare e riprodurre il pensiero unico, a privare il capitale culturale di ogni fascino nei confronti della moltitudine? Recentemente, intervistato da un settimanale economico, Piero Angela ha dichiarato: "qualunque discorso sul ruolo educativo e culturale della TV deve partire da una realtà drammatica: oltre la metà della popolazione italiana ha un livello di istruzione dalla quinta elementare in giù". La produzione televisiva è culturalmente bassa, perché basso è il suo pubblico. Ma l'abbassamento del livello culturale, non è forse un prodotto televisivo? La televisione non contribuisce a valorizzare, né a rendere appetibile il raggiungimento di un titolo di studio elevato. Per generazioni il titolo di studio ha rappresentato il passaporto necessario e sufficiente per inserirsi nel mondo del lavoro a un livello superiore. Inoltre la cultura è stata considerata sino all'avvento della televisione commerciale un segno di distinzione. Enfatizzando i valori materiali la televisione di oggi suggerisce ai giovani un inserimento precoce nel mondo del lavoro per partecipare quanto prima alla festa dei consumi. L'uomo di successo non viene più identificato con l'intellettuale, lo scienziato, il professionista, ma con il giocatore di calcio, il cantante, la velina. Le ragazze preferiscono affermarsi in un concorso di bellezza piuttosto che superare l'esame di maturità. I ragazzi non pensano più a iscriversi all'Università, ma a selezioni per format come Saranno famosi o Operazione Trionfo. E tutto questo sarebbe abbastanza comprensibile se rappresentasse soltanto l'effetto della televisione sulla psiche labile degli adolescenti. Ma sono le stesse famiglie, padri e madri, a spingere i figli nel mondo dello spettacolo, a vedere nell'esibizione in pubblico un valore. Pierre Bordieu, il grande sociologo francese recentemente scomparso, ha scritto nel 1979 La distinzione. Critica sociale del gusto, un testo fondamentale per comprendere il senso della società contemporanea. Nella società ci muoviamo, all'interno di specifiche coordinate, tra due forme di capitale contrapposte: il capitale economico e il capitale culturale. Le società preborghesi erano società basate sull'eredità e sulla conservazione. La società borghese è una società dinamica basata sulla libertà di impresa e finalizzata al conseguimento del capitale economico. Ma, proprio perché basata sul dinamismo e la competizione, è una società instabile in cui si possono conseguire grandi fortune o ritrovarsi a ricominciare da zero. Il capitale economico può essere edificato e distrutto nel corso di una sola generazione. D'altra parte chi sopravvive a questo processo di decimazione desidera mostrare agli altri la superiorità dello stato raggiunto, attraverso un segno di distinzione. Attraverso l'importanza conferita al capitale culturale la borghesia realizza un duplice obiettivo: da un lato fornisce ai suoi figli gli strumenti per riprodurre quel capitale economico che nella società borghese rappresenta il centro del potere, dall'altro ha modo, attraverso lo sfoggio della cultura, di differenziarsi dai nuovi ricchi, dai parvenus che, se anche raggiungono il capitale economico, non hanno neppure piena coscienza dell'esistenza di un capitale culturale. Il gusto non è che l'esibizione di questi due capitali: esibizione di ricchezza e di consumi da parte di chi detiene il capitale economico, esibizione di cultura da parte dell'aristocrazia borghese del capitale culturale.

Oggi il capitale culturale è stato cancellato dalla televisione che produce e riproduce il capitale economico come unico valore. Il minimo comune denominatore, tagliando via in nome dell'audience le fasce alte del pubblico, ha portato alla saldatura tra il pubblico del capitale economico, che può consumare in maniera vistosa, e il pubblico privo di capitale culturale, che vede nel consumo l'unico valore riconosciuto. Torniamo all'immagine iniziale dell'audience come periferia. La TV ha fatto della periferia la fabbrica dei consumi. Ma nello stesso tempo ha conferito al suo pubblico un'identità che gli mancava. Oggi la pubblicità guarda negli occhi il suo pubblico e gli dice "Perché tu vali". Si dice che gli eventi si presentino nella storia la prima volta sul serio, la seconda come farsa. Oggi la moltitudine ha fatto la sua rivoluzione. Ma è la rivoluzione parodistica di chi aspira solo a occupare il suo posto nel reality show di maggior successo, il Grande fratello.

Il fenomeno televisione

Il termine televisione ha una pluralità di valenze. Designa innanzitutto una tecnologia, o meglio un insieme di diverse tecnologie interdipendenti, di emissione, diffusione e ricezione, attraverso cui immagini di oggetti fissi o in movimento, accompagnate generalmente da suoni, vengono trasmesse a distanza, per mezzo di un cavo elettrico o di un radiocollegamento; sul nucleo originario sperimentato negli anni Venti-Trenta del 20° secolo e introdotto nell'uso nel dopoguerra si sono innestate innovazioni, dapprima con l'introduzione del colore negli anni Sessanta-Settanta poi, nel decennio Settanta-Ottanta, con lo sviluppo della diffusione via cavo in alcuni paesi, infine negli anni Novanta con la digitalizzazione, ossia con la codificazione numerica del segnale. Designa inoltre alcuni apparati, cioè gli enti che in un regime pubblicistico come quello dominante in Europa fino agli anni Settanta, o privatistico come quello tipico degli Stati Uniti, oppure in regime misto, svolgono la funzione dell'emissione e quella, strategica, della programmazione del flusso televisivo. Designa ancora una forma culturale, un insieme di abitudini, di convenzioni, di regole linguistiche e in tal senso include aspetti sociali e psicologici. La sovrapposizione tra i diversi significati del termine nel linguaggio comune e in quello specialistico è indicativa della complessità di un fenomeno che comprende una molteplicità di elementi interdipendenti.

L'affermazione della televisione come tecnologia e come abitudine sociale presenta caratteristiche uniche. L'apparecchio televisivo condivide con il telefono o l'automobile la caratteristica di essersi diffuso ovunque ma in nessun altro caso è stata raggiunta con la stessa rapidità una platea così vasta. In America, per es., l'avvio delle trasmissioni per il grande pubblico risale al 1946-47, ma già nel 1954 la maggioranza delle abitazioni era dotata di apparecchio televisivo; in Italia le trasmissioni sono cominciate nel 1954 e nel 1965 gli apparecchi erano presenti in quasi la metà delle case, ma già nel 1957 la stampa osservava che 'il telespettatore e l'italiano medio sono la stessa persona', tenendo conto dei milioni di persone che, pur non possedendo un televisore, vi si erano accostati in locali pubblici. Si è così arrivati a dimensioni imponenti: nel 2001, 1 miliardo e 96 milioni di apparecchi, pari a 195 televisori ogni mille abitanti nel pianeta, con punte massime dell'817 per mille negli Stati Uniti, e 200 satelliti che diffondono i programmi. In quanto abitudine sociale la televisione è stata un'innovazione preparata: la radio aveva predisposto quel pubblico domestico e di massa cui nel dopoguerra la TV cominciò a offrire, oltre ai suoni, le immagini in movimento, prerogativa fino allora del cinema. Nel flusso dei programmi gestito dal nuovo medium c'era posto non solo per film e per generi ripresi dal palinsesto radiofonico - dal quiz allo sceneggiato - ma anche per il teatro di prosa e il varietà, la conversazione, lo sport, i documentari e i cartoni animati, e quella forma tutta peculiare del 'telefilm', nato in America nel 1954, che è narrazione a episodi costruita per occupare un preciso minutaggio all'interno del flusso. Nel tempo la capacità 'onnivora' di assorbimento è andata ulteriormente aumentando fino a fare del piccolo schermo la sintesi antologica di quasi tutte le forme di comunicazione possibili nella società contemporanea. Nel corso di pochi decenni la programmazione televisiva si è espansa fino a coincidere con l'intera giornata e con la vita domestica tout-court. L'habitat della televisione sembra identificarsi infatti, necessariamente, con lo spazio abitativo, dove il numero degli apparecchi si è via via moltiplicato trovando collocazione fisica in più ambienti. In una casa, ebbe a dire O. Welles, "la televisione sta accesa come la luce e scorre come l'acqua", a indicare la sua natura di 'colonna visivo-sonora dell'esistenza'.

Storia della televisione

La prima fase

In alcuni romanzi di protofantascienza francesi di fine Ottocento - dalle opere di J. Verne a quelle di A. Robida - vengono prefigurate, con i nomi fantasiosi di fonotelefoto o telefonoscopio, apparecchiature simili a un televisore, capaci di far 'vedere a distanza'. In queste anticipazioni, che rispondono però alle prime sperimentazioni, quella che oggi chiamiamo televisione appare indistinguibile dal videotelefono. La televisione attuale, come apparecchio tecnico per vedere a distanza ma destinato esclusivamente alla trasmissione da 'punto a massa', nasce negli anni Venti-Trenta giovandosi di una serie di invenzioni: il telegrafo senza fili, la valvola elettronica capace di amplificare un segnale elettrico, il cinema come emissione contemporanea di suoni e immagini. Le basi della teletrasmissione meccanica, messa a punto da J.L. Baird, esistevano già da tempo ma l'idea moderna di televisione nasce solo successivamente all'emergere, con il broadcasting radiofonico, del flusso di una rete piramidale a 'pioggia' o 'dimensione larga', e di una programmazione che raggiunge l'individuo nell'abitazione nei diversi momenti della giornata. La televisione nasce quindi come perfezionamento della radio, prima forma di diffusione di un segnale che giunge in tutte le case, ovunque vi sia un apparecchio o un'antenna. La trasmissione avviene all'inizio via etere, attraverso le onde hertziane, poi il segnale sarà trasmesso via cavo e, infine, sarà irradiato da satellite. Trasmettere a distanza le immagini era un processo complesso, fondato sul principio della scansione. Alla riproduzione meccanica di Baird, in cui la scansione era affidata a un disco metallico traforato e non superava le 240 linee, subentrò a metà anni Trenta il metodo elettronico elaborato da W. Zworykin e basato su sviluppi delle valvole termoioniche, più veloce e di definizione più alta. Il tubo catodico, ingombrante e di notevole profondità, proporzionale alla grandezza dello schermo, rimarrà eguale per lungo tempo, dati i costi elevati per la realizzazione di schermi piatti e di ampie dimensioni. Negli anni Trenta comincia la vera e propria sperimentazione della televisione sia in Europa sia in America. La Germania nazista, forzando i tempi per anticipare gli inglesi, annunciò nel 1935 il 'primo programma televisivo regolare del mondo' con uno standard primitivo, 180 linee e 25 immagini al secondo. Nel 1936 le Olimpiadi di Berlino furono trasmesse per otto ore al giorno e l'anno seguente la sfilata del partito nazionalsocialista a Norimberga andò in onda integralmente. La definizione era stata portata a 441 linee. Il lancio di un apparecchio televisivo popolare, pubblicizzato a Berlino nel 1939 in occasione della mostra della radio e televisione, fu sospeso per lo scoppio della guerra. I servizi continuarono fino al 1943, quando la trasmittente fu distrutta dai bombardamenti degli Alleati.

In Gran Bretagna la BBC (British broadcasting company) iniziò il servizio ufficiale nel 1936 diffondendo dodici ore di programmi la settimana, portate a venti nel 1939. Almeno 12.000 persone seguirono l'incoronazione di Giorgio VI nel 1936. Allo scoppio della guerra, le trasmissioni furono interrotte.

In Francia la televisione fece il suo debutto all'Esposizione universale del 1937; lo standard era a 455 linee, il trasmettitore sulla Tour Eiffel. Nel 1939 le ore di trasmissione erano due al giorno. All'invasione dei tedeschi il trasmettitore fu sabotato, poi rimesso in funzione dagli occupanti che trasmisero in francese e in tedesco, per i soldati della Wehrmacht, fino al 1944.

Nell'Unione Sovietica le trasmissioni sperimentali iniziarono nel 1938 a Mosca e Leningrado con due diversi standard, 343 e 420 linee. Un piano per l'unificazione a 441 linee venne bloccato dalla guerra. In Italia un trasmettitore sperimentale dell'EIAR (Ente italiano per le audizioni radiofoniche) fu installato a Roma, a Monte Mario, ed entrò in funzione nel 1939, con la definizione tedesca a 441 linee. Ulteriori sviluppi furono impediti dall'evento bellico.

Il paese dove il mezzo televisivo fece più rapidi progressi furono gli Stati Uniti. Le trasmissioni sperimentali iniziarono nel 1932; dopo una parentesi dovuta allo scoppio della guerra, nel 1941 si stabilì uno standard a 525 linee e per l'audio la trasmissione in modulazione di frequenza, che consentiva una migliore qualità del suono.

Per tutti gli anni Trenta, dunque, vari paesi si dedicarono in ordine sparso al progetto televisione. All'inizio della Seconda guerra il quadro tecnologico era ormai definito: la televisione sarebbe stata elettronica, l'audio si sarebbe giovato della modulazione di frequenza, le linee di scansione dovevano essere superiori a 500 per rendere il servizio più gradevole agli utenti. Il boom del dopoguerra e la riconversione delle industrie belliche avrebbero aperto nuovi scenari. Intanto, in tutti i paesi fu sospesa la produzione di apparecchi televisivi perché le industrie del settore erano coinvolte nell'impresa bellica. Le valvole elettroniche della radio e TV furono utilizzate come componenti primarie dei primi grandi computer, per es. l'ENIAC (Electronic numerical integrator and computer) di J. Eckert e J. Mauchly, una macchina di 30 tonnellate e 18.000 valvole, costruita per i calcoli di artiglieria. Il tubo catodico servì per il Radar (Radio detecting and ranging), apparato per la ricognizione a distanza di navi e aerei.

La crisi economica, il carattere sperimentale delle trasmissioni e la scarsità numerica degli spettatori fecero di quella fase una specie di preistoria, tuttavia con segni premonitori dello sviluppo futuro. K. Wagenführ scriveva nel 1938: "La televisione è capace di imporsi con una forza stupefacente. Appena l'apparecchio viene collocato in casa si nota l'azione di alcuni meccanismi di difesa, dovuti a un effetto di choc. Comunque le difese vengono abbassate rapidamente, fin troppo presto". Lo sviluppo istituzionale degli apparati televisivi non sarebbe comprensibile senza quella prima fase. Fu allora che le compagnie radiofoniche rivendicarono il monopolio anche del medium nascente, escludendo gli altri possibili soggetti, inclusa l'industria cinematografica, e che s'impose l'idea della TV come radio con le immagini e come diretto prolungamento della funzione propagandistica che questa aveva assunto in particolare (ma non solo) nei regimi totalitari.

L'espansione nel dopoguerra

All'indomani della Seconda guerra mondiale la televisione riprese con decisione il suo percorso. La conferenza mondiale di Atlantic City nel 1947, indetta per dare un ordinamento internazionale alla radiodiffusione e scegliere lo standard di trasmissione, presenti i delegati di sessanta paesi, stabilì una distribuzione delle frequenze disponibili dello spettro elettromagnetico che corrisponde sostanzialmente a quella odierna. Gli standard di trasmissione furono al centro di una sotterranea guerra commerciale: nel mondo diviso in blocchi contrapposti la diffusione della TV assumeva una valenza geopolitica. Gli Stati Uniti, puntando sulla massima diffusione a scapito della qualità, confermarono il loro sistema a 525 linee che fu adottato in Canada, America Latina, Giappone, Australia, India, Filippine.

L'Europa occidentale optò nel 1951 per una definizione migliore a 625 linee in bianco e nero, così come il blocco sovietico. L'Inghilterra rimase ancorata al suo vecchio standard di 405 linee; la Francia adottò una complessa definizione a 819 linee, all'origine di un persistente ritardo nella diffusione del medium nel paese; l'Italia si adeguò allo standard europeo. Solo negli anni Sessanta tutti i paesi si uniformarono alle 625 linee, con un'esitazione indotta da protezionismo verso i modelli nazionali che impedì la formazione di una cultura e di un'economia televisiva europee.

In America l'occupazione del territorio avveniva in modo massiccio con l'installazione di 120 ripetitori e un collegamento di 5000 km: una nuova 'conquista del West' che creò un enorme spazio audiovisivo unificato e omogeneo. In Europa, al contrario, ciascuno Stato costruì il proprio spazio televisivo secondo la cultura nazionale avviando con le istituzioni degli altri paesi labili rapporti di cooperazione. Osserva E. Menduni: "Si trattò sicuramente di un'occasione perduta: si ponevano così le fondamenta di un paesaggio audiovisivo con un grande centro ideativo e produttivo, gli Stati Uniti, e tante televisioni nazionali più piccole, ciascuna delle quali aveva più rapporti con la televisione americana che con i propri vicini. […] L'Eurovisione, un collegamento reciproco tra le reti nazionali per la trasmissione in contemporanea, introdotto dal Te deum barocco di Marc-Antoine Charpentier, non andò mai oltre lo scambio di riprese di cerimonie, giochi ed eventi internazionali" (Televisione, Bologna, Il Mulino, 20012, p. 34). L'espansione della TV in America fu impetuosa. Le famiglie dotate di televisione salirono dal 4% nel 1952 all'89% nel 1960. "Nelle città in cui giungeva la televisione, calava l'ascolto della radio, la frequenza nei cinema, nei teatri, nelle biblioteche, negli stadi, nei ristoranti. Calavano gli incassi dei bar, dei taxi, dei juke-box. La prima ditta che concentrò i suoi investimenti pubblicitari sulla TV, la Hazel Bishop (cosmetici) passò in due anni da 50 mila dollari a 4 milioni e mezzo di fatturato" (ibidem, p. 36).

Prima ancora che al boom postbellico, la diffusione degli apparecchi televisivi fu legata, almeno negli Stati Uniti, al processo di riconversione dell'industria di guerra. Si trattava di trasferire su un apparecchio a uso civile di massa, in un'economia di pace, gli avanzamenti tecnici realizzati specialmente dagli armamenti aeronautici. L'altra grande applicazione pacifica dell'elettronica, il computer, allora agli albori, trasse impulso dalla stessa esigenza e si sarebbe avvantaggiata sul piano tecnologico dello sviluppo del nuovo medium.

La televisione 'dilagò' poi in tutto l'Occidente divenendo il simbolo di un processo di 'americanizzazione' in corso. Sul piano istituzionale si riprodusse subito la divaricazione che si era già stabilita negli anni Venti per la radio. Da un lato vi erano i paesi, in particolare l'America, dove il broadcasting era affidato al mercato, a carattere oligopolistico; dall'altro vi erano i paesi europei (con l'eccezione del Regno Unito, dove nel 1954 nacque una televisione commerciale, rigorosamente regolata, accanto alla BBC) dove la televisione era affidata allo Stato, considerato il miglior garante del pluralismo ma anche il difensore dei cittadini da un medium ritenuto troppo influente, politicamente e psicologicamente, per affidarlo al mercato. In alcuni paesi come il Giappone si cominciò da subito a sperimentare quel sistema misto che più avanti sarebbe stato la regola. Quasi ovunque la televisione rivelò rapidamente le sue straordinarie potenzialità di veicolo pubblicitario. In questa fase la programmazione televisiva cominciò a impadronirsi di tutte le ore della giornata (anche se in Europa la daytime television rimase un fenomeno abbastanza limitato fino ai tardi anni Settanta) e di tutti i generi. In conseguenza si sviluppò un modello di comunicazione di massa, costituito da un lato da prodotti 'generalisti', rivolti a un unico grande pubblico indifferenziato, dall'altro da prodotti 'mirati', rivolti a un pubblico specifico, presente in alcune ore della giornata. Emerse comunque subito con chiarezza che il pubblico televisivo era un'entità statistica più che un fatto sociale concreto: un'entità da misurare sui comportamenti più che sulle opinioni. Appunto nella definizione del pubblico, già alla fine degli anni Sessanta, cominciarono ad apparire i primi segni di una fine dell''età aurea' della televisione. Il mondo pubblicitario americano mutò atteggiamento nei confronti delle grandi compagnie televisive, richiedendo maggiori prove dell'effettiva efficacia dei messaggi e della capacità di raggiungere segmenti di pubblico considerati appetibili. E ciò induceva a cambiamenti ulteriori.

Innovazioni e mercato

Un'innovazione tecnologica, la TV via cavo coassiale, già usata in alcuni casi per distribuire il segnale in 'zone d'ombra', si diffondeva nelle metropoli statunitensi negli anni Sessanta, rafforzando ancor più la tendenza alla differenziazione del pubblico, con la proposta di canali a 'tema' e poi di servizi specializzati (televisione pay-per-view). Alla base vi era una tecnologia semplice: il cavo coassiale, due conduttori metallici cilindrici uno attorno all'altro separati da un isolante e ricoperti da una guaina, che veicola più segnali contemporaneamente (multiplex). Differente dalla TV via etere con canali limitati, quella via cavo offre un intrattenimento tematico, particolaristico; non broadcasting ma narrowcasting, a diffusione ristretta. Negli stessi anni la televisione americana inaugurava l'uso dei satelliti artificiali, ampliando il suo orizzonte di copertura. Le Olimpiadi di Tokyo (1964) furono il primo evento internazionale trasmesso via satellite. Lo sbarco sulla Luna (1969) segnò le dimensioni mondiali della diretta televisiva, con 28 ore consecutive di trasmissione via satellite. La modalità del satellite di distribuzione via cavo diventò una caratteristica stabile della TV americana. In Europa la tecnologia via cavo si è sviluppata negli anni Settanta, caratterizzandosi non come televisione a pagamento, ma come un monopolio temperato dalla compresenza di programmi, anch'essi generalmente di monopolio, di altri paesi. Fu tuttavia chiaro che una spinta verso la televisione privata percorreva i principali paesi europei. Vi contribuiva, accanto alla TV via cavo, un altro cambiamento tecnologico: il passaggio della televisione, in tutti i paesi sviluppati, dal bianco e nero al colore, presente in America dagli inizi degli anni Cinquanta, con incremento di realismo ma al tempo stesso di effetti surreali, per la diversità strutturale dei colori televisivi da quelli 'naturali'. Un cambiamento tecnologico meno rivoluzionario dei precedenti ma influente nell'ordine della psicologia della percezione, in quanto il medium si avvicina di più alla realtà ma contemporaneamente la falsifica con un proprio statuto cromatico. In America la conseguenza di tutti questi mutamenti fu l'introduzione accanto alle reti tradizionali di altri soggetti; in Europa la messa in discussione della legittimità stessa del monopolio pubblico, che portò a forme di sistema misto in quasi tutti i paesi del continente. Cambiò anche la programmazione della TV via etere nella direzione della 'neotelevisione', com'è stata definita da Umberto Eco. Gli appuntamenti settimanali diventarono quotidiani, i servizi diurni e notturni acquisirono maggiore spazio, anche sul piano pubblicitario; aumentò il peso dei programmi di conversazione rispetto a quelli più 'classici', dallo sceneggiato al documentario; all'interno della produzione fiction, le lunghe serie a puntate, prima confinate in spazi relativamente marginali e destinate ai settori meno istruiti del pubblico, assunsero un ruolo dominante; si imposero generi nuovi, come il videoclip musicale. Con la neotelevisione si ridefiniscono le aspettative degli spettatori: non più il piacere narrativo o conoscitivo offerto dal singolo programma, ma la colonna sonoro-visiva di accompagnamento ininterrotto, l''atto unico' che dura l'intera giornata, un grande magazzino di testi e frammenti da cui selezionare e comporre il proprio intrattenimento. Si fanno esili i tradizionali legami tra realtà e rappresentazione televisiva; nel flusso continuo di proposte si ritagliano i segmenti che interessano.

La convergenza multimediale

Negli anni Novanta il sistema neotelevisivo non appare stabilizzato, né economicamente né sul piano tecnologico. Si ridimensionano i grandi investimenti pubblicitari per lo sviluppo di modalità più efficaci o verificabili; le diverse forme di televisione a pagamento sembrano puntare su un mercato 'di nicchie'. Si attua, soprattutto, una diversificazione del mercato televisivo: rimane la robusta presenza della TV generalista via etere, il cui pubblico tende ad appiattirsi verso il basso della scala dei redditi e dell'istruzione, mentre altre forme di TV ne integrano o ne anticipano l'offerta. Sul piano tecnologico, il fenomeno di maggior portata è la digitalizzazione, lo sviluppo di una tecnica che consente di veicolare su un unico canale messaggi audio, video, testi e dati. Il sistema, lanciato in America nel 1994 e basato sulla conversione dei dati in un linguaggio numerico binario (0 e 1), consente di superare le barriere tra la televisione e altre forme di cultura di massa, come l'universo dell'informatica; permette lo sviluppo di tecniche di televisione interattiva e forme più avanzate di TV ad alta definizione, in grado di fornire anche sugli schermi domestici un'immagine di qualità paragonabile a quella cinematografica. Il futuro dei media sarà caratterizzato dalla convergenza multimediale, da un processo di avvicinamento, già in atto, delle tecnologie in cui il computer mette a disposizione il linguaggio digitale, la telefonia fornisce la rete di connessione, la televisione offre il suo repertorio e la sua capacità di riproduzione di immagini e di suoni.

Le trasmissioni televisive in Italia

In Italia tentativi pionieristici di trasmissione a distanza dell'immagine vengono condotti nel 1929; il primo programma inaugurale della televisione è realizzato nel 1939 in occasione della XI Mostra Nazionale della Radio. Dopo ulteriori sperimentazioni del mezzo, nel 1954 iniziano le trasmissioni ufficiali della RAI. Ai suoi esordi la televisione svolge un ruolo importante nella divulgazione culturale e nell'alfabetizzazione: generi come il teatro di prosa, i programmi formativi e scolastici hanno ampio spazio nei palinsesti. I programmi culturali indirizzati anche al pubblico meno preparato, come Una risposta per voi condotta da A. Cutolo, sono esempio di una divulgazione semplice e immediata. I programmi scolastici - Telescuola, corso di istruzione secondaria, e Non è mai troppo tardi rivolta agli analfabeti e condotta da A. Manzi - hanno un successo superiore alle aspettative. Dedicati al puro intrattenimento sono i programmi a quiz e i varietà che s'impongono subito come i generi di maggiore attrattiva. Lascia o raddoppia?, condotto da M. Bongiorno, ottiene un successo di proporzioni tali da non essere superato nell'ascolto da nessun altro programma nei decenni successivi: è un semplice gioco ma tutta l'Italia s'identifica nei concorrenti. Altro quiz di successo è Il musichiere presentato da M. Riva. Il varietà trova il suo risultato più incisivo nello spettacolo Un, due, tre, in cui la coppia U. Tognazzi e R. Vianello esprime vis comica e parodistica. Un genere particolarmente seguito dal pubblico è lo sceneggiato tratto dalla narrativa dell'Ottocento (primo realizzato, Il dottor Antonio dal romanzo di G. Ruffini). Tra le trasmissioni dedicate ai bambini emerge Lo zecchino d'oro con il Mago Zurlì affiancato da Topo Gigio, fortunato pupazzo di stoffa inventato da G. Stagnaro.

Negli anni Sessanta non cambia il quadro delle proposte e dei generi, anche se dal 1961 cominciano le trasmissioni del secondo programma. Il varietà e il quiz acquistano un peso sempre maggiore. Nel varietà, Canzonissima, programma abbinato alla lotteria di Capodanno, ha tra i protagonisti delle sue edizioni i nomi più noti della scena italiana (W. Chiari, D. Scala, A. Tieri, D. Fo e F. Rame, Mina ecc.). Il teatro di prosa attraversa una stagione proficua: nel 1962, in un solo anno, vengono prodotti 151 spettacoli teatrali per la televisione, con un repertorio aperto anche alla drammaturgia più recente. Lo sceneggiato s'impone grazie a prodotti di qualità tratti dalla narrativa russa, inglese, francese, italiana, per lo più ottocentesca, diretti dagli stessi registi impegnati nel teatro di prosa. Sono sceneggiati realizzati in studio in cui però, nella seconda metà del decennio, si dà sempre più spazio agli esterni e alla versione filmata. Tra i maggiori successi, Mastro don Gesualdo di G. Vaccari da G. Verga; La cittadella di A.G. Majano da A. Cronin; I giacobini, opera di grande impegno culturale, di E. Fenoglio da F. Zardi. Apprezzati anche i serial gialli, come quelli tratti dai romanzi di F. Durbridge con protagonista Nero Wolfe interpretati da T. Buazzelli per la regia di G. Berlinguer.

Si producono programmi culturali e scientifici (Almanacco, L'approdo, Orizzonti della scienza e della tecnica), d'informazione (RT-Rotocalco televisivo di E. Biagi, TV Sette, settimanale di taglio politico, iniziato da G. Vecchietti). Sono dedicati allo sport, genere sempre molto seguito dai telespettatori, Processo alla tappa condotto da S. Zavoli e 90° minuto, curato nella prima edizione da P. Valenti. Il Festival di Sanremo, nato per la radio, si afferma come uno degli appuntamenti televisivi più graditi agli italiani. Ha successo durevole Carosello, non propriamente un programma ma una serie di annunci pubblicitari; tuttavia gli spot, costruiti con linguaggi diversi (cartone animato, fiaba, pupazzi, scenette e siparietti buffi, spesso veri e propri piccoli film girati da grandi registi e interpretati da grandi attori) raggiungono un successo immediato, rendendo leggendari, specialmente per il pubblico di bambini, personaggi come Calimero e Joe Condor. Gli anni Settanta segnano mutamenti, anche in rapporto alla crisi che attraversa il paese, scosso da conflitti sociali, contestazione e terrorismo. Generi fino allora vincenti come il teatro vedono sempre più ridotto lo spazio nel palinsesto, mentre lo sceneggiato viene sostituito dal film prodotto per la televisione. È il periodo in cui la RAI finanzia opere di registi come F. Fellini (Prova d'orchestra), E. Olmi (L'albero degli zoccoli), F. Zeffirelli, R. Rossellini, R. Castellani, L. Comencini. Ma è anche il periodo in cui il varietà di classe viene sostituito da quello affidato a una comicità corriva e solo esternamente trasgressiva o dal talk-show, che dominerà nel decennio successivo. Del talk-show è iniziatore M. Costanzo con Bontà loro, mentre R. Arbore rinnova il varietà con ironia amabilmente goliardica (L'altra domenica). Trasmissioni di successo sono Domenica In, contenitore domenicale che si rivolge a un pubblico senza pretese, condotto fra gli altri da Corrado, P. Baudo, R. Carrà; e Portobello-Il mercatino del venerdì, di E. Tortora, caratterizzato dalla presenza di rubriche diverse (dedicate agli inventori, ai 'cuori solitari', alla ricerca di persone scomparse: filoni che genereranno, in seguito, programmi autonomi) e dall'ingresso del telefono come elemento linguistico strutturale di un programma televisivo. Tra i programmi di punta Mixer, rotocalco d'attualità curato da G. Minoli. Il fenomeno più significativo della fine del decennio è la nascita di numerose televisioni private a carattere locale. Nel vuoto legislativo, iniziano processi di concentrazione nazionale dell'emittenza privata. I principali editori si lanciano nell'impresa, Rizzoli, Rusconi, Mondadori, mentre l'imprenditore edile S. Berlusconi acquista frequenze in tutta Italia per ripetere il segnale della sua emittente Canale 5. L'operazione di Berlusconi si fonda su un'autonoma raccolta pubblicitaria, su un ampio magazzino di programmi d'acquisto e sulla qualità tecnica del segnale. Rizzoli viene travolto dallo scandalo della loggia massonica P2; Rusconi e Mondadori vendono le reti a Berlusconi che nel 1984 è proprietario di tre reti nazionali (Canale 5, Italia Uno, Retequattro) e di una raccolta pubblicitaria superiore a quella RAI con ascolti del 40%. L'azione della magistratura che blocca, considerandola illegittima, la ripetizione dei segnali in contemporanea si risolve a favore di Berlusconi: durante il governo Craxi il Parlamento approva un decreto (l. 10/85) che legittima le reti Fininvest. La TV italiana diventa così un duopolio fra RAI e Fininvest. Nel 1990 si arriverà a un'ambigua soluzione legislativa (l. 223/90 'legge Mammì') che ratifica il duopolio introducendo la figura del Garante per la Radiodiffusione e misure antitrust (corrette solo in par-te da una legge del 1997 che istituisce l'Autorità per le telecomunicazioni). La crescita progressiva della Fininvest avviene puntando sull'intrattenimento popolare, con l'offerta di film e telefilm importati dall'America, sulle soap-opera e sulle telenovelas, sul talk show. Serial come Dallas diventano fenomeni di costume che coinvolgono milioni di spettatori; ma anche il Maurizio Costanzo Show (Canale 5) che unisce l'informazione al gossip, e varietà allora ritenuti trasgressivi come Drive In (Italia Uno), di A. Ricci, un misto di comicità e di suggestioni erotiche, conquistano un vasto pubblico e permettono alla Fininvest di ampliare le sue fasce d'utenza. La risposta della RAI a una concorrenza sempre più aggressiva avviene, sullo stesso terreno dei programmi di Ricci ma più sottilmente, con Quelli della notte (RAI Due) di R. Arbore e U. Porcelli, esempio assai imitato di metatelevisione, caratterizzato da umorismo surreale. La linea di difesa è sostenuta soprattutto da sceneggiati di grande impatto spettacolare (Marco Polo, La Piovra, Cristoforo Colombo), dal varietà Fantastico, condotto tra gli altri da L. Goggi e B. Grillo, A. Celentano, P. Baudo, dal talk show affidato ai personaggi più popolari e, per l'ultima volta, dal teatro di prosa, con vari cicli (Quattro commedie d'amore e d'allegria, Classici del teatro giallo: Agatha Christie, Sentimento di donna, Così è la vita).

Nella seconda metà degli anni Ottanta e nei primi dei Novanta il livello culturale subisce un calo generalizzato e non sono pochi i programmi, che pure incontrano grande successo, rubricati con l'espressione 'tv-spazzatura': fanno leva sui sentimenti e sugli istinti deteriori del pubblico o si pongono in modi deliberatamente provocatori e rissosi. Tra i programmi che difendono la qualità, Quark di P. Angela, Parola mia di L. Rispoli, Il libro, un amico di G. Antonucci e C. Tagliabue, inchieste storiche come La notte della Repubblica di S. Zavoli. Un ruolo importante acquista, nella seconda metà degli anni Ottanta, RAI Tre che aveva esordito nel 1979. Questa punta su programmi di 'tv-vérité': Telefono giallo di C. Augias, dedicato a casi di cronaca nera, e Chi l'ha visto? di L. Beghin, uniscono informazione e intrattenimento (infotainment); Un giorno in pretura, rinunciando a ogni mediazione linguistica, trasforma lo schermo in aula giudiziaria; Samarcanda di M. Santoro e G. Mantovani, costruito con un alternarsi di servizi di taglio polemico legati a fatti di cronaca italiana, dibattiti in studio e collegamenti diretti con piazze affollate, dà origine, negli anni successivi, a una serie di prodotti consimili d'impronta ideologica. Su RAI Tre viene trasmessa dal 1989 la striscia quotidiana Blob, a cura di E. Ghezzi e M. Giusti: trasmissione metatelevisiva e trasgressiva, derivazione del telecomando e dello zapping, Blob si nutre del palinsesto della televisione quotidiana, estrapolando ciò che è superfluo, fallace o dannoso, e che, messo in relazione con altri frammenti di TV scelti per contiguità od opposizione, diventa paradossalmente significativo, in quanto rovesciamento delle pseudoverità erogate dal medium. Tra i programmi più seguiti della Fininvest, quelli firmati da A. Ricci: Striscia la notizia, efficace parodia dell'informazione televisiva, e Paperissima (su Canale 5) realizzato con gli scarti, gli avanzi, le gaffes, le papere, ovvero quello che le altre trasmissioni nascondono. Negli anni Novanta la differenza tra televisione pubblica e televisione privata si assottiglia. Le televisioni commerciali, fondate sui numeri e sui rilievi di ascolto (Auditel), che si finanziano con sola vendita di spazi pubblicitari e sono un gigantesco contenitore di spot, pur riservando uno spazio crescente all'informazione (nel 1992, con l'accesso alla 'diretta', la Fininvest inaugura i propri telegiornali, di cui il principale è il Tg5 a cura di E. Mentana), continuano a puntare su film, serial, telenovelas, talk show e sport. Dall'altra parte la RAI, costretta dall'avvento dei network nazionali privati a una revisione dei suoi palinsesti, perde progressivamente il suo ruolo di servizio pubblico per 'esigenze di audience', privilegiando varietà, quiz, televendite, intrattenimento parlato, spettacolarizzazione dell'informazione politica, abbassando così la qualità dei programmi.

In questa fase, mentre il riassetto societario di Fininvest produce Mediaset, il gruppo cinematografico Cecchi Gori acquista le due reti Telemontecarlo e Videomusic, poi cedute a Seat (Gruppo Telecom Italia).

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