Temi olimpici: le federazioni internazionali e il movimento olimpico

Enciclopedia dello Sport (2004)

Temi olimpici: le federazioni internazionali e il movimento olimpico

Giorgio Reineri

Un rapporto difficile

Il Movimento Olimpico ‒ come sta scritto nella Carta Olimpica, l'insieme di norme che governano il CIO e l'Olimpiade e la cui ultima versione fu approvata nel dicembre 1999 ‒ è un edificio che poggia su tre pilastri: il Comitato internazionale olimpico, i Comitati olimpici nazionali, le Federazioni internazionali.

Alle Federazioni internazionali è dedicato il terzo capitolo della Carta Olimpica, dove si precisa che per promuovere il Movimento Olimpico, il CIO può riconoscere come Federazioni internazionali organizzazioni (internazionali) non governative che rappresentano uno o più sport a livello mondiale. Per essere riconosciute, le Federazioni internazionali devono adottare e applicare il codice mondiale dell'antidoping. Il loro statuto e la loro attività devono essere in conformità con la Carta Olimpica. Ciascuna Federazione internazionale mantiene la sua indipendenza e autonomia nell'amministrazione del suo sport. Tra i ruoli che il CIO riconosce come esclusivi delle Federazioni internazionali di particolare importanza, ai fini dell'Olimpismo, è quello di assumere il controllo tecnico e la direzione del proprio sport alle Olimpiadi, sotto il patronato del CIO. Alle Federazioni internazionali il CIO riconosce poi la possibilità di intervenire nella sua stessa politica, attraverso la formulazione di proposte per la modifica o l'integrazione della Carta Olimpica e per l'organizzazione dei Giochi Olimpici. Le Federazioni internazionali sono andate altresì assumendo sempre più importanza nel processo di scelta delle candidature per i Giochi e in quello della selezione finale: non soltanto sono chiamate a svolgere un ruolo di consulenza tecnica, ma anche a dare un parere ‒ non vincolante, ma certamente determinante ‒ sulla validità di una candidatura dal punto di vista dell'organizzazione delle competizioni.

La strada per arrivare al riconoscimento del ruolo delle Federazioni internazionali non è stata breve né facile: a lungo, infatti, le diffidenze tra quanti organizzavano lo sport nelle sue diverse forme e discipline e quanti detenevano la gestione delle Olimpiadi hanno impedito una vera unità basata sulla reciproca accettazione e sul principio dell'autonomia. La storia del CIO ‒ la cui nascita ha anticipato la formazione di diverse Federazioni internazionali ‒ ne è la prova: i dignitari raccolti attorno a Pierre de Coubertin prima e i suoi sin troppo fedeli eredi poi spesso, se non quasi sempre, considerarono non in sintonia con gli alti ideali dell'Olimpismo quanti operavano quotidianamente nel reclutamento e nella preparazione di giovani atleti o nell'organizzazione delle competizioni.

Le ragioni furono probabilmente culturali e sociali, perché è fuori di dubbio che de Coubertin, Demetrios Vikelas, Henri de Baillet-Latour e gli altri fondatori dell'Olimpismo fossero attratti più dalla ricerca filosofica e pedagogica sulle ragioni della pratica agonistica che dal concreto lavoro sui campi dello sport. Il compito di organizzare la pratica sportiva, rinata nel 19° secolo per rispondere all'istintivo, umanissimo desiderio di competere e al bisogno, avvertito in strati sociali sempre più vasti, di evasione dai crescenti problemi dell'inurbamento, toccò ad altri, prima attraverso club studenteschi o post-studenteschi, poi con associazioni borghesi, infine con i dopolavoro operai.

È dunque evidente che CIO e organizzazioni sportive operavano, come ancora operano, su due piani distinti. Il primo aveva ideato la costruzione di un palcoscenico mondiale dove, come nell'antichità, il confronto tra atleti basato sui principi di lealtà e uguaglianza fosse a un tempo spettacolo estetico e messaggio pacificatore. Le organizzazioni sportive ritenevano invece che loro compito primario fosse quello di dare alla passione per l'esercizio fisico una forma standardizzata, creando la base di ciò che è diventato lo sport moderno, fatto di regole riconosciute e osservate in ogni parte di mondo. Senza questo complesso di norme che, più o meno rapidamente, definirono una disciplina differenziandola da un'altra e senza l'individuazione dell'insieme di regole necessarie affinché una gara fosse disputata rispettando lo stesso sistema di giudizio in ogni parte del mondo, neanche i Giochi Olimpici avrebbero potuto imporsi. Il ruolo assolto dalle Federazioni internazionali nello sviluppo delle Olimpiadi deve dunque esser considerato fondamentale. Tuttavia ci sono voluti più di cento anni perché CIO e Federazioni arrivassero ad ammettere la reciproca importanza e la convenienza di lavorare insieme per la riuscita dei Giochi Olimpici: cento anni fatti a volte di collaborazione e molte altre di opposizione aperta.

L'opposizione ha portato alcune Federazioni internazionali a rompere i rapporti con il CIO, mettendo così il proprio sport al di fuori dell'Olimpiade e del Movimento Olimpico. Ma anche con le Federazioni più leali, e storicamente parte integrante del Movimento Olimpico, come l'atletica, non sono mancati momenti di aspro confronto, spesso provocati dal fatto che, mentre le Federazioni dovevano confrontarsi quotidianamente con le necessità del loro sport e dei suoi praticanti, il CIO rimaneva fermo su principi che non potevano trovare applicazione nella realtà.

La storia dei rapporti tra Comitato internazionale olimpico e Federazioni internazionali va di pari passo con lo sviluppo dello sport moderno, dei Giochi Olimpici e del programma delle competizioni che, attualmente, formano il calendario agonistico delle varie Federazioni e, in gran parte, dell'Olimpiade. Momenti centrali di questa storia sono stati il riconoscimento della libertà degli atleti di trarre profitto dalle loro prestazioni agonistiche, a lungo negata dal CIO e sostenuta dai dirigenti delle Federazioni internazionali, e la soluzione del problema della suddivisione dei profitti televisivi e di sponsorizzazioni realizzati dai Giochi Olimpici, cresciuti a dismisura a cominciare dal 1984: un punto, quest'ultimo, assai delicato e difficile da determinare nelle sue dimensioni finanziarie, perché se è vero che il teatro olimpico apparteneva, e appartiene, per diritto al CIO, è innegabile che gli attori siano forniti dal lavoro organizzativo delle Federazioni internazionali e delle loro diramazioni nazionali.

L'evoluzione dei programmi di gara

Nel 1896, quando i primi Giochi dell'era moderna si celebrarono ad Atene, non esistevano Federazioni internazionali. C'erano, invece, alcune Federazioni nazionali, che raggruppavano anche più sport, spesso in competizione con altre federazioni dello stesso paese. Fu dunque un compito difficile varare un programma dell'Olimpiade e stabilire delle norme di partecipazione, al di fuori di quella sul dilettantismo (la English amateur rowing association avrebbe voluto che fossero definiti professionisti tutti i lavoratori manuali, ma il comitato del CIO incaricato di esaminare la questione del dilettantismo respinse la proposta quale 'sfida alla democrazia'). Per forza di cose ci si dovette basare sui rapporti personali con club e organizzazioni nazionali come, negli Stati Uniti, le Università di Princeton, Harvard e la Boston athletic association contattati attraverso l'intermediazione di William Milligan Sloane. In Germania di questi rapporti si occupò Willibald Gebhardt, in Svezia Viktor Balk, in Ungheria Ferenc Kemeny. Alla fine fu stilato un programma di nove sport: atletica, ciclismo, ginnastica, lotta greco-romana, nuoto, scherma, sollevamento pesi, tennis, tiro, che raccolse 245 atleti (tutti uomini), distribuiti su 43 gare. Soltanto 15 di queste sarebbero state disputate in ogni edizione dei Giochi, compresa quella che, nel 2004, ha celebrato il ritorno dell'Olimpiade ad Atene: 100 m, 400 m, 800 m, 1500 m, maratona, 110 m ostacoli, salto in alto, salto con l'asta, salto in lungo, salto triplo, lancio del peso, lancio del disco nell'atletica; fioretto individuale e sciabola individuale nella scherma; 1500 m stile libero nel nuoto.

L'Olimpiade del 1900, a Parigi, fu assai confusa anche nella formulazione del programma delle competizioni. Le gare venivano aggiunte e tolte senza avere in mente alcun preciso disegno, a parte quello di inserire nell'Esposizione fieristica qualche ulteriore motivo di richiamo. Quasi all'insaputa di de Coubertin, vi furono gare di tennis e di golf aperte alle donne (cinque paesi inviarono una rappresentanza femminile: Boemia, Francia, Gran Bretagna, Svizzera e Stati Uniti; la prima donna a diventare campionessa olimpica fu l'inglese Charlotte Cooper, vincitrice nel tennis) e fu autorizzata in alcuni casi la partecipazione di professionisti, come per la scherma nella gara per maestri di spada, che venne vinta dal francese Albert Ayat, ricompensato con 3000 franchi.

Mancando una regolamentazione internazionale delle competizioni, il problema del CIO e degli organizzatori dell'Olimpiade era quello di non sapere quali regole applicare sia sotto l'aspetto tecnico ‒ e i Giochi di Londra lo dimostrarono, per esempio, in atletica, nella corsa dei 400 m dove la mancanza di corsie disegnate sulla pista consentì gravi irregolarità ‒ sia sotto quello dell'inclusione nel programma di competizioni stravaganti (croquet, jeu de paume, lacrosse, tiro alla fune). Una correzione era necessaria, così come era necessario che l'Olimpiade, per potersi regolarmente svolgere e sviluppare, potesse contare su un supporto tecnico che il CIO, da solo, non era in grado di garantire.

Le discussioni sulla riduzione del programma, che tuttora durano, iniziarono in vista dei Giochi di Stoccolma, alla sessione di Berlino del 1909. Gli organizzatori svedesi intendevano comprimere il numero delle competizioni e de Coubertin concordava pienamente con l'idea (a Londra si erano disputati 25 differenti sport, compresi rugby e rackets, e tre specialità erano state aperte anche alle donne, cioè il tennis, il tiro con l'arco e il pattinaggio artistico su ghiaccio). La proposta di dichiarare sport olimpici soltanto l'atletica, il nuoto, la ginnastica e la lotta venne però respinta.

In una successiva sessione, tenuta nel 1910 a Lussemburgo, la ginnastica, il tennis e il nuoto furono considerati sport aperti anche alle competizioni femminili. Ma nonostante questa decisione e il successo dell'Olimpiade di Stoccolma (1912), de Coubertin sulla partecipazione femminile manteneva tutte le sue riserve, che espresse sull'Olimpic Review alla fine del 1912: "La questione di ammettere le donne alle Olimpiadi non è definita. Non si può dire 'no', soltanto perché questo avvenne nell'antichità; né si può dire 'sì' soltanto perché atlete donne sono state accettate nelle Olimpiadi del 1908 e nel 1912 nel tennis e nel nuoto. La discussione è ancora aperta. Una soluzione potrà essere trovata al Congresso di Parigi, fra due anni, che dovrà dare all'Olimpiade la sua definitiva caratteristica. In quale direzione? Non siamo in condizione di dirlo, oggi, anche se non ci spaventa l'idea di stare dalla parte di chi si opporrà. Noi consideriamo che le Olimpiadi debbano essere riservate agli uomini. Può qualcuno offrire alle donne la partecipazione a tutte le gare olimpiche? E se no, perché permetterla soltanto per qualche gara e negarla per le altre? Non ci sono soltanto donne tenniste e nuotatrici. Ci sono anche donne schermitrici, cavallerizze e in America ci sono persino donne canottiere. Domani, ci saranno forse donne corridori, o addirittura donne calciatrici. Se tali sport saranno praticati dalle donne, potranno offrire un decente spettacolo al pubblico che l'Olimpiade raduna? Noi pensiamo che nessuno potrà mai sostenere una tesi simile".

Era evidente che le donne avrebbero dovuto lottare duramente per vedersi riconosciuto il diritto alla partecipazione. Alice Milliat, infaticabile organizzatrice della protesta femminile, svolse un ruolo fondamentale in questa battaglia per il coraggio e lo spirito di intraprendenza. Nel 1917 si tennero in Francia i primi campionati femminili di atletica leggera, nonostante la Federazione internazionale dell'atletica, la IAAF, fondata a Stoccolma nel 1912, si opponesse al coinvolgimento delle donne nello sport e Sigfrid Edstrom, suo primo presidente, fosse più o meno apertamente alleato di de Coubertin su questo tema. I campionati del 1917 furono la prova generale per lanciare la prima Federazione dello sport femminile, sotto la presidenza di Milliat, lei stessa una sportiva che a suo tempo aveva praticato il canottaggio. La FSFI (Fédération sportive féminine internationale) fu fondata dopo che il CIO aveva respinto la richiesta di ammettere la presenza di donne in tutti gli sport previsti per l'Olimpiade di Anversa del 1920. Subito dopo furono lanciati i Giochi Olimpici femminili (Women's olympic games), la cui prima edizione si tenne a Parigi nel 1922, con la partecipazione di 65 atlete di cinque nazioni: Gran Bretagna, Francia, Germania, Svizzera e USA. Si disputarono undici competizioni, con 18 record del mondo, e la manifestazione fu un successo, soprattutto se paragonata ai Giochi del 1900: gli spettatori furono oltre 20.000.

L'iniziativa di Milliat andò espandendosi e poiché attirava atlete che erano state tenute ai margini dalle Federazioni internazionali minacciava l'unità stessa di quegli sport. La FINA (Fédération internationale de natation) era stata la prima a riconoscere pari dignità di competere alle donne, sin dal 1912. L'atletica, al contrario, resistette a lungo. Nel 1926 Milliat pianificò un'altra 'Olimpiade femminile' che si annunciava di maggior successo della precedente, considerato che l'organizzazione poteva ormai contare sull'adesione di 23 Federazioni nazionali. Allora Edstrom si decise a incontrare la presidente della FSFI e consentì la disputa di gare femminili d'atletica ai Giochi Olimpici, lasciando nello stesso tempo che la FSFI continuasse a organizzare l'atletica per le donne (i campionati femminili del 1926 si tennero a Göteborg, con 13 gare).

Il CIO fu così costretto a sancire che "le donne erano ammesse negli sport in cui potevano competere", affidando alle Federazioni internazionali la responsabilità di determinare quando e come accettare la presenza femminile. Il via libera fu dato a patto che Milliat ritirasse il termine Olympic dalla sua manifestazione. In atletica, le gare femminili introdotte ai Giochi di Amsterdam furono poche: 100 m, 800 m, 4x100 m, salto in alto, lancio del disco (nel 1932 si aggiunsero 80 m ostacoli e giavellotto, ma furono tolti gli 800 m). Contemporaneamente le donne ginnaste venivano autorizzate a partecipare ai Giochi nella sola competizione a squadre. Ma il movimento sportivo femminile cresceva: nel 1930, a Praga, i Giochi mondiali delle donne contarono partecipanti di 17 paesi, principalmente in atletica, oltre che nella pallacanestro e pallamano.

Il riconoscimento delle Federazioni

Già negli anni Venti del 20° secolo il CIO tendeva dunque ad accettare che la responsabilità di regolare gli sport e la partecipazione olimpica appartenesse alle Federazioni internazionali. Si andava tuttavia accentuando una sempre più netta separazione tra i ruoli di dirigenti del Movimento Olimpico e delle Federazioni (anche se occasionalmente potevano coincidere) sino a creare una vera e propria contrapposizione che avrebbe portato, in un tempo relativamente breve, a non poche e profonde fratture.

Nel novembre del 1914, già scoppiata la Prima guerra mondiale, il CIO tenne una riunione a Lione per discutere di alcuni problemi attinenti al programma olimpico e si stabilì che alle Olimpiadi seguenti (ancora previste a Berlino nel 1916) nessuno sport sarebbe stato ammesso se non avesse avuto alle spalle una Federazione internazionale che ne curasse l'organizzazione e la regolamentazione. Questa decisione dal punto di vista dei rapporti tra CIO e Federazioni internazionali fu di notevole importanza e costituì il fondamento per tutte le successive deliberazioni. Nella stessa riunione, fu aggiunto che la responsabilità di definire lo status di 'dilettante' in uno sport spettasse alla relativa Federazione: un altro punto in futuro richiamato ogni qual volta, su questo tema, vi sarebbero stati contrasti tra CIO e Federazioni.

Alla vigilia dei Giochi di Parigi del 1924, il CIO fece un ulteriore passo per stringere i rapporti con lo sport organizzato: fondò, difatti, l'Ufficio delle Federazioni internazionali sportive, incaricato di mantenere i contatti con tutte le Federazioni, in modo da anticipare le controversie e, quando queste si fossero verificate, risolverle rapidamente.

Il ruolo delle Federazioni internazionali andava dunque aumentando agli occhi del CIO e ancor più sarebbe cresciuto quando l'executive board decise che la supervisione tecnica dei Giochi Olimpici, a cominciare da Parigi nel 1924, non sarebbe più stata del Comitato organizzatore, ma delle Federazioni. In sostanza, per tutto ciò che era preparazione e gestione delle gare ‒ dagli impianti agli orari, alle attrezzature, agli alloggiamenti degli atleti, sino all'indicazione di giudici e arbitri ‒ il Comitato organizzatore dell'Olimpiade diventava il braccio esecutivo delle Federazioni internazionali. Al CIO spettava soltanto la supervisione, o se si vuole il ruolo di mediatore tra le diverse esigenze, spesso contrastanti, degli organizzatori e delle Federazioni internazionali.

Questo principio, che ancora presiede alla organizzazione dei Giochi Olimpici, da un lato garantì, e continua a garantire, il CIO e il Comitato organizzatore dalle infinite contestazioni su materie tecniche e sulla imparzialità di giudici e arbitri nel determinare vincitori e sconfitti, dall'altro rese e continua a rendere le Federazioni internazionali partner indispensabili dell'Olimpiade, aumentandone la forza di contrattazione.

Il caso del tennis, del calcio e dello sci

Nel 1925 si ebbe il primo scontro tra le Federazioni internazionali del tennis e del calcio e il CIO. Materia del contendere era il professionismo o, meglio, la definizione di dilettante, e in concreto sino a che punto il compenso che finiva nelle tasche di tennisti e calciatori poteva essere considerato come 'perdita di guadagno', cioè un rimborso per le ore non passate al lavoro. Dopo discussione e contrasti all'interno dello stesso executive board un ruolo fondamentale fu svolto, in qualità di presidente della IAAF, da Edstrom il quale sostenne che non dovesse essere permessa alcuna 'compensazione', ma solo un rimborso spese per un massimo di 15 giorni di allenamento l'anno. Venne proibito qualunque aiuto statale, o governativo, anche attraverso uno speciale fondo per la preparazione.

Questa decisione fu l'antefatto dell'esclusione del tennis dai Giochi, che avvenne per l'Olimpiade del 1928, dopo che la ILTF (International lawn tennis federation) aveva presentato alcune precise richieste al CIO, tra le quali quella d'applicare, riguardo al dilettantismo, la propria definizione, senza alcuna ingerenza dell'ente olimpico. L'executive board, nel 1927, annunciò la cancellazione del tennis dall'Olimpiade di Amsterdam. Dopo di allora lo sport tornò nel programma olimpico nel 1988, a Seul, grazie all'apertura al professionismo effettuata da Juan Antonio Samaranch.

Un'altra lunga controversia si ebbe tra CIO e FIFA (Fédération internationale de football association). Alla presidenza della Federcalcio era il francese Jules Rimet, che riuscì a raggiungere un accordo di compromesso con l'executive board, in base al quale ai calciatori presenti ai Giochi di Amsterdam, nel caso non avessero potuto usufruire di vacanze pagate, veniva concesso di ricevere una compensazione che sarebbe confluita in un fondo presso i loro datori di lavoro. L'accordo fu denunciato da Edstrom e da un membro inglese, in quanto eccedente i poteri dell'esecutivo, ma alla fine venne accettato dalla sessione del CIO del 1927. Il presidente del CIO, de Baillet-Latour, aveva ben presente che il calcio era una risorsa importante d'incassi e, nello stesso tempo, temeva che la FIFA, se fosse uscita dall'Olimpiade, avrebbe organizzato dei propri campionati del mondo.

Due anni dopo i Giochi di Amsterdam, effettivamente, Rimet organizzò la prima Coppa del Mondo di calcio e sempre nel 1930, a causa di una nuova disposizione dell'executive board del CIO che definiva inaccettabile la norma sui 'rimborsi' agli atleti, la FIFA colse l'occasione per dichiarare di non voler partecipare ai Giochi Olimpici del 1932. Il calcio tornò poi nel 1936, ma la FIFA protesse i suoi Mondiali restringendo le norme di 'eleggibilità' per l'Olimpiade.

Un'altra controversia era alle porte, questa volta con la FIS (Fédération internationale de ski). La Federazione aveva stabilito che gli istruttori professionisti, cioè i 'maestri', avevano titolo per partecipare all'Olimpiade, dovendosi guardare a essi come dilettanti in fatto di gare. Ma alla vigilia dei Giochi invernali di Garmisch-Parterkinchen, il CIO decretò che quella norma era contraria ai principi olimpici sul dilettantismo. In quell'edizione dovevano tenersi, per la prima volta, le competizioni di discesa e di slalom, cioè di sci alpino, per uomini e donne. Austria e Svizzera si ritirarono per protesta. Questa controversia proseguì a lungo e trovò un compromesso soltanto nel 1946: gli istruttori sarebbero stati ammessi ai Giochi, a patto che non avessero ricevuto pagamenti dall'ottobre precedente.

Le associazioni dei Comitati olimpici nazionali e delle Federazioni internazionali

La storia delle relazioni tra Federazioni internazionali e CIO ebbe una svolta decisiva tra la metà e la fine degli anni Sessanta. Il presidente Avery Brundage stentava sempre più a governare l'organizzazione olimpica, soprattutto a causa dell'ostinato rifiuto a trattare due temi rilevanti: la commercializzazione dei Giochi, che con l'irruzione della televisione si era fatta inevitabile, e la questione del dilettantismo-professionismo, che rischiava di provocare una serie di continue dispute con le Federazioni internazionali e i Comitati olimpici nazionali.

Questi ultimi avevano importanza e forza diversa, a seconda dei paesi. In Italia, per esempio, il CONI svolgeva non soltanto le funzioni di ambasciatore del Movimento Olimpico ma, soprattutto, quella di organizzatore e responsabile dell'intera attività sportiva nazionale. In patria il suo potere era dunque grandissimo; in ambito internazionale, e cioè all'interno del CIO, invece era quasi nullo. Fu questa una delle ragioni che spinse Giulio Onesti ad assumere la guida dei vari Comitati olimpici nazionali che lamentavano la mancanza di ascolto, e spesso anche di rappresentanza, alle sessioni del CIO e l'impossibilità di influire sulla politica generale dell'ente.

Spettava ai vari Comitati olimpici l'incombenza di predisporre le squadre per l'Olimpiade e di favorire lo sviluppo delle competizione nei rispettivi paesi, ma molti di loro mancavano totalmente di mezzi finanziari. In assenza di ogni aiuto da parte del CIO fu proprio il CONI a lanciare le prime forme di assistenza ai comitati più bisognosi, ciò che dette forza a Onesti sul piano internazionale. Così la sua iniziativa di costituire un'Assemblea permanente dei Comitati olimpici nazionali ebbe successo. Nel 1965 ben 65 paesi vi presero parte e fu creato un Comitato esecutivo, presieduto da Onesti stesso. Tra i primi temi da porre sul tavolo in un confronto con il CIO vi era quello della suddivisione dei crescenti diritti televisivi e la soluzione del problema dilettantismo-professionismo, trasferendo alle Federazioni internazionali la responsabilità della regolamentazione e delle decisioni conseguenti. Nel 1968, in Messico, l'iniziativa di Onesti si trasformò in qualcosa di più solido e permanente: l'Assemblea generale dei Comitati olimpici nazionali.

Le Federazioni internazionali, che erano le più interessate a trovare un strategia comune per confrontarsi con il CIO, avevano intanto deciso (nel 1967) di formare la GAISF (General association of the international sport federations), per iniziativa dei presidenti delle Federazioni del nuoto William Berge Phillips, della lotta Roger Coulon e soprattutto del canottaggio Thomas Keller. A questa iniziativa non partecipò invece la IAAF che, ancora sotto la guida di lord Burghley, si ritenne non interessata: la prima ragione era che il marchese era un membro eminente del CIO legato a Brundage e come l'americano conservatore convinto, dunque contrario a ogni modifica sostanziale nella conduzione dello sport e dell'Olimpiade; in secondo luogo la IAAF pensava di occupare in ogni caso un suo ruolo privilegiato come Federazione dell'atletica e non intendeva abbandonarlo scendendo in discussioni e compromessi con le altre Federazioni.

Brundage era naturalmente fieramente contrario a queste associazioni emergenti e in particolare alla GAISF. L'atteggiamento del presidente del CIO era di disdegno, anzi di totale rigetto: nessun colloquio sarebbe mai stato possibile ‒ faceva sapere ‒ perché le Federazioni internazionali intendevano occuparsi di materie che non competevano loro. Il suo atteggiamento nei confronti di coloro che quotidianamente amministravano lo sport nel mondo e fornivano gli 'attori' per le Olimpiadi servì tuttavia soltanto a rafforzare una posizione intransigente delle Federazioni internazionali, guidate da Keller. I problemi andavano accumulandosi, i contrasti con il CIO crescevano e diventava sempre più inimmaginabile organizzare un'Olimpiade senza il consenso e l'appoggio delle Federazioni. Impossibile, addirittura, farlo contro la loro volontà.

Un contrasto grave esplose nel 1971 tra la FIS, presieduta dallo svizzero Marc Hodler, e il CIO negli ultimi mesi di presidenza Brundage. Come sempre, la questione al centro della disputa era il dilettantismo degli sciatori: il CIO minacciava di squalificarne la gran parte perché, in un modo o nell'altro, guadagnavano apertamente danaro, attraverso ingaggi e sponsorizzazioni. La FIS replicò che ove questo fosse avvenuto, pur non volendo boicottare i Giochi invernali, essa avrebbe dato vita l'anno seguente ai campionati del mondo. Nello stesso tempo la totalità dei paesi alpini fece sapere di voler rinunciare ‒ nel caso di squalifiche ‒ alle Olimpiadi. Alla vigilia dei Giochi di Sapporo del 1972, una soluzione di compromesso fu trovata dalla Commissione per l'eleggibilità degli atleti: fu escluso dalle gare soltanto uno sciatore, il più famoso e il più esposto per via delle sue sponsorizzazioni, Karl Schranz. La squalifica del campione austriaco provocò una gran confusione e la squadra del suo paese sembrò pronta ad abbandonare i Giochi, cosa che non avvenne per specifica richiesta dello stesso Schranz.

Gli otto anni della presidenza di lord Killanin, successore di Brundage, non modificarono, nonostante alcuni tentativi, queste situazioni di aperta conflittualità. Il CIO, anzi, era andato notevolmente indebolendosi, nei confronti sia delle Federazioni internazionali sia dei Comitati olimpici nazionali davanti agli occhi dell'opinione pubblica a seguito dei boicottaggi di Montreal 1976 e Mosca 1980. La sua autorità appariva apertamente contestata anche fuori dal mondo dello sport e non poche voci, fra cui anche di personaggi della politica internazionale, chiedevano di affidare l'organizzazione dell'Olimpiade a un'organizzazione super partes e non privata come il CIO. Se i Giochi erano un patrimonio storico e culturale dell'umanità, perché non avrebbe dovuto essere l'UNESCO, sotto l'egida dell'ONU, a farsene carico?

Le Federazioni internazionali pensavano, invece, che l'organizzazione dei Giochi toccasse a loro, così come erano di loro competenza il lavoro di reclutamento e di formazione degli atleti, e il compito di stabilire le regole tecniche per ogni disciplina, preparare arbitri e giudici, verificare l'omologazione dei risultati, riconoscere i record. Il CIO, con la sua volontà di imporre norme inaccettabili specie per chi aveva dedicato tutti gli anni della gioventù a raggiungere l'eccellenza nella propria disciplina, serviva solo a creare confusione e conflitti.

Lord Killanin, in occasione del Congresso del Movimento Olimpico che si tenne a Varna nel 1973, con tema 'L'Olimpismo e il suo futuro', cercò di offrire una risposta ad alcuni di questi problemi proponendo la formazione di una commissione tripartita: CIO, Comitati olimpici nazionali, Federazioni internazionali. Nell'ambito di quella commissione si sarebbero dovute discutere le proposte dei partner olimpici, in modo che essi non avessero alcuna scusa per fomentare una protesta o, addirittura, l'aperta dissociazione dal CIO. Naturalmente la commissione, non essendo radicata nella costituzione del Comitato internazionale olimpico, contava esclusivamente sulla buona volontà dei partecipanti: le sue raccomandazioni potevano benissimo non essere accettate dall'esecutivo dell'ente olimpico. Tanto bastò a Keller e alla GAISF per intensificare un'azione di disturbo e di tentativo di demolizione dell'autorità del CIO, nello stesso tempo ribadendo l'insostituibilità delle Federazioni internazionali nell'organizzazione dello sport e delle Olimpiadi.

Un altro problema nasceva intanto per il CIO, questa volta provocato dalla FIFA, presieduta dal brasiliano João Havelange, membro del CIO. Per le Olimpiadi del 1980 la FIFA improvvisamente decise di proibire la partecipazione ai Giochi, per le squadre europee e latino-americane, dei calciatori che avessero preso parte alla precedente Coppa del Mondo (1978): una mossa chiaramente diretta a proteggere i campionati del mondo, nei confronti di una temuta crescita del torneo olimpico. La regolamentazione sulla eleggibilità olimpica per i tesserati FIFA fu poi perfezionata negli anni a seguire, specie quale conseguenza dell'apertura al professionismo operata da Samaranch, con l'istituzione di un limite d'età (under 23), fatta salva la possibilità di integrare la selezione olimpica con un ristretto numero di fuoriquota.

Verso la soluzione del conflitto

L'elezione di Samaranch al vertice del CIO, nell'estate del 1980, fu l'inizio di un periodo completamente nuovo nelle relazioni delle Federazioni internazionali-Movimento Olimpico. Anche i più critici dell'operato dell'ex diplomatico spagnolo non hanno potuto negare l'importanza che la sua presidenza ha avuto nel ricostituire non soltanto l'unità del Movimento ma, soprattutto, nel ridare al CIO il ruolo di guida che, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, aveva perduto.

La prima mossa di Samaranch fu quella di integrare maggiormente le Federazioni internazionali nella politica olimpica (con la creazione di una nuova Commissione per il Movimento Olimpico al posto della ormai sbiadita Commissione tripartita), riconoscendone il ruolo insostituibile, e di adoperarsi per indebolire l'organizzazione che più minacciava l'autorità del CIO, cioè la GAISF con il suo presidente Keller. Allo stesso tempo, Samaranch non dimenticava l'Associazione dei Comitati olimpici nazionali e mentre da un lato cercava di rafforzare l'alleanza con il messicano Mario Vázquez Raña, un magnate dei media messicano che presiedeva questa organizzazione, dall'altro si dava da fare perché queste associazioni si moltiplicassero, favorendo la nascita dell'ANOCA (African national committees association) e dell'OCA (Olympic council of Asia), alla testa dei quali favoriva l'elezione di personaggi a lui fedeli.

Attuò poi una sagace manovra in stile divide et impera per sottrarre le Federazioni internazionali al controllo di Keller. Poiché ogni organizzazione conta in quanto ha denaro da distribuire, pensò di bloccare i finanziamenti alla GAISF derivanti dalla suddivisione dei profitti olimpici. Propose dunque che quei finanziamenti non venissero più distribuiti tra tutte le Federazioni, ma suddivisi tra Federazioni delle Olimpiadi estive e Federazioni delle Olimpiadi invernali. Così favorì la nascita di due nuove organizzazioni, l'ASOIF (Association of summer olympic federations) e l'AIOWF (Association of international olympic winter federations), alla cui guida furono eletti uomini a lui vicini: l'italiano Primo Nebiolo, nel frattempo diventato presidente della IAAF, a capo dell'ASOIF, e lo svizzero Marc Hodler, anche presidente della Federazione internazionale dello sci, dell'AIOWF. Così la GAISF perse completamente d'importanza e, in pratica, Keller fu messo fuori gioco. I finanziamenti olimpici, difatti, venivano da quel momento in avanti discussi tra il CIO e le due nuove organizzazioni.

Nella trattativa sulla divisione dei fondi, Nebiolo ‒ che nel frattempo aveva lanciato l'organizzazione dei primi campionati del mondo di atletica, tenutisi nel 1983 a Helsinki, con un gran successo di pubblico, di audience televisiva e dunque di incassi per la IAAF ‒ fece una mossa diretta a rafforzare il suo ruolo e anche le sue ambizioni di diventare primo attore nella politica sportiva internazionale. Rinunciò al criterio di spartizione della quota CIO adottato fino a quel momento (il 20% alla IAAF, il rimanente 80% suddiviso tra tutte le Federazioni), proponendo invece che l'ammontare fosse diviso in parti uguali tra tutti gli associati. La mossa, apertamente populista, costò poco in termini monetari alla IAAF: a quell'epoca, difatti, un po' perché i profitti dei Giochi erano ancora bassi e un po' perché il CIO di quei pochi fondi ne distribuiva una minima parte alle Federazioni, il totale da dividere non arrivava ai 10 milioni di dollari (5,6 per il dopo Mosca, poco di più per Los Angeles). La IAAF da sola, con i diritti TV dei Mondiali e le sponsorizzazioni, incassava in un anno assai più dell'intera somma a disposizione di tutte le Federazioni internazionali.

Tuttavia, per molte altre Federazioni sportive la suddivisione dei profitti olimpici costituiva, e ancora più avrebbe costituito in futuro, la fonte primaria di finanziamento. Nebiolo, che nella conduzione degli affari era astuto almeno quanto Samaranch, capì immediatamente il problema e lo cavalcò per tutti gli anni della sua presidenza dell'ASOIF e della IAAF, cioè sino alla morte avvenuta nel novembre del 1999, proprio pochi giorni prima di un incontro in programma con Samaranch per decidere la quota relativa ai profitti dei Giochi di Sydney che sarebbe spettata alle Federazioni internazionali.

Gran parte della storia delle relazioni tra CIO e Federazioni internazionali è dunque stata, negli ultimi venti anni del 20° secolo, quella delle relazioni tra Samaranch e Nebiolo. In un certo senso, Samaranch fu l''inventore' di Nebiolo perché immediatamente ne scoprì le qualità di dirigente sportivo e capì che gli sarebbe stato indispensabile per risolvere i conflitti con le Federazioni internazionali e per portare a termine il progetto olimpico che aveva in mente. D'altro canto, non era immaginabile che il CIO non avesse al suo fianco l'atletica, lo sport più seguito e storicamente più importante dell'Olimpiade. Per Nebiolo, a sua volta, avere la fiducia e l'appoggio di Samaranch costituì un elemento di forza per la ricostruzione e la riorganizzazione della IAAF, per stringere contatti commerciali e, soprattutto, per imporre un'immagine di uomo politico di alto profilo. È dunque fuori di dubbio che l'alleanza dei due personaggi sia stata determinante nel cambiare l'Olimpismo.

La IAAF fu la prima Federazione (fra quelle rimaste ancorate all'antico concetto del dilettantismo) a muoversi decisamente su una nuova strada, con l'introduzione dei trust funds per i propri atleti, poi con la possibilità a loro consentita di incassare direttamente gli ingaggi per i meeting e i diritti di sponsorizzazione, infine con il riconoscimento dei premi in denaro ai vincitori delle competizioni IAAF: dal circuito del Grand Prix ai campionati del mondo. Furono anche queste mosse a dare a Samaranch la forza di aprire le Olimpiadi agli sport professionisti, non soltanto riammettendo il tennis, ma soprattutto incoraggiando la presenza dei campioni della NBA (National basket association) nella squadra statunitense di basket: su chiara insistenza di Samaranch, infatti, la FIBA (Fédération internationale de basketball amateur) prese nel 1989 la decisione di permettere ai giocatori NBA di partecipare all'Olimpiade a partire dai Giochi di Barcellona 1992. Nella stessa Olimpiade per la prima volta venne introdotto in maniera ufficiale nel programma dei Giochi il baseball. Il sogno di Samaranch era di avere quanto prima i professionisti statunitensi nella squadra olimpica, ma per vari motivi la Federazione internazionale continuò a permettere la presenza solo di dilettanti, senza tuttavia impedire che Cuba inviasse i suoi professionisti. Il vero problema per i professionisti della MBL (Major league baseball) statunitense, come sarebbe emerso con il passare degli anni, era rappresentato dai controlli antidoping in uso all'Olimpiade. Nessuno di quei giocatori, liberi in patria da ogni obbligo in materia, intendeva mettere a rischio la propria immagine con un probabile test sull'uso di sostanze, principalmente steroidi anabolizzanti, dichiarate illecite dal CIO.

La partnership CIO-Federazioni internazionali (e Comitati olimpici nazionali) fu dunque una vera rivoluzione nella politica sportiva mondiale, rivoluzione per molti versi obbligata e comunque vantaggiosa per entrambe le parti. Se il CIO, difatti, rischiava di perdere la gestione delle Olimpiadi o, almeno, di vederne ridotta l'importanza, anche le Federazioni internazionali avvertivano il valore di una manifestazione universalmente riconosciuta dall'opinione pubblica, dunque da proteggere sia per motivi d'immagine sia come fonte di redditi crescenti e indispensabili alla sopravvivenza.

L'aspetto economico

Fino all'avvento della presidenza Samaranch nessuno aveva seriamente considerato l'aspetto economico del Movimento Olimpico, né studiato come trarre il massimo profitto dallo sfruttamento del 'marchio' con i cinque cerchi, che è il più conosciuto nel mondo, superiore, per esempio, a quello della Shell, della Mercedes, della McDonald's. Per trarne il massimo profitto occorreva che l'Olimpiade diventasse davvero il palcoscenico del più affascinante e completo spettacolo sportivo e perché ciò avvenisse serviva l'alleanza con le Federazioni internazionali. Il problema, a quel punto, era uno soltanto: le percentuali di azionariato che sarebbero state riconosciute alle Federazioni, da un lato, e ai Comitati olimpici nazionali dall'altro.

Le negoziazioni furono lunghe, sia per le resistenze all'interno del CIO, sia per le gelosie tra le varie organizzazioni. Più il tempo passava più il CIO aveva la possibilità di trattare da una posizione di forza, ma alcune Federazioni internazionali ‒ come quelle di calcio, atletica, basket, ciclismo, pallavolo e, tra gli sport invernali, quelle di pattinaggio (rappresentato dall'ISU, International skating union), sci e hockey ‒ erano talmente cresciute in prestigio e indipendenza economica da poter minacciare i Giochi, facendo balenare l'ipotesi di porre limiti alla partecipazione dei propri campioni (politica peraltro messa in pratica dalla FIFA). In questo gioco delle parti, Samaranch e Nebiolo ‒ e, in misura meno rilevante, Hodler, per quanto riguardava le Federazioni degli sport invernali ‒ adottarono una tattica di concessioni e minacce, ciascuno per strappare il meglio dell'accordo. Nebiolo, tra l'altro, inseguiva anche l'ambizione personale di diventare membro del CIO, riconoscimento che ottenne, nel 1992, attraverso una nomina motu proprio di Samaranch in ragione degli 'eccezionali servizi' resi al Movimento Olimpico e sportivo mondiale.

Nella trattativa, naturalmente, non entrarono questioni soltanto economiche ma anche giuridiche: cioè la cooptazione, ex officio, fra i membri CIO dei presidenti delle più importanti Federazioni internazionali e, infine, la nomina a membri dell'executive board dei presidenti dell'ASOIF e dell'AIOWF (a capo del quale venne eletto nel 2000 l'italiano Ottavio Cinquanta, anche presidente, dal 1994, della ISU). Tutte queste innovazioni, davvero rivoluzionarie se si pensa a come il CIO era vissuto ed era stato organizzato lungo un intero secolo, ebbero un ufficiale riconoscimento nella nuova Carta Olimpica, approvata dalla sessione straordinaria del CIO nel dicembre del 1999.

La richiesta avanzata dalle Federazioni internazionali in merito alla divisione dei profitti olimpici si basava, principalmente, sui contratti televisivi che il CIO andava firmando con i vari network, soprattutto statunitensi ma, in seguito, anche giapponesi e con l'EBU (European broadcasting union), cioè il raggruppamento delle televisioni pubbliche europee. Ma non era l'unica parte delle entrate del CIO sotto controllo: un'altra consistente fetta derivava dai proventi di marketing e in particolare da quelli del programma TOP (The olympic programme), riservato a compagnie disposte a pagare centinaia di milioni di dollari per potersi fregiare del marchio olimpico. Questa idea di marketing era stata portata al CIO, nei primi anni della presidenza Samaranch, da Horst Dassler, il fondatore dell'Adidas e in seguito della società ISL, specialista nella vendita dei diritti televisivi e nello sfruttamento dei marchi sportivi. Dassler ebbe una parte rilevante nella costruzione commerciale del CIO (che, in seguito, avrebbe costituito una propria direzione commerciale, lasciando la ISL, poi fallita nel 2001) e, anche, di molte Federazioni internazionali (tra cui FIFA e IAAF).

Se nel 1980, a Mosca, le Olimpiadi furono viste in televisione in 111 paesi per un totale di 500 ore di trasmissione, il numero delle nazioni per Sydney 2000 era pressoché raddoppiato (220), mentre quello delle ore di trasmissioni era salito a 3400. Ancora più vertiginoso l'aumento delle entrate per diritti televisivi: dai 101 milioni di dollari di Mosca ai 1332 milioni di Sydney. Sempre a Mosca, nel 1980, dalle sponsorizzazioni non arrivò neppure un dollaro: l'idea di vendere la propria immagine era ancora estranea alla dirigenza del CIO. Al contrario, per il quadriennio 2000 (comprendente anche i Giochi invernali di Nagano 1998) il totale dei redditi dell'Olympic marketing raggiunse la cifra di 3750 milioni di dollari. I contratti firmati dal CIO per le Olimpiadi di Atene 2004 e per quelle di Pechino 2008 sono dell'ordine, rispettivamente, di 1,498 miliardi di dollari USA (di cui 705 milioni da network non americani) e 1,715 miliardi di dollari USA (di cui 821 milioni da network non americani). Naturalmente, il CIO mette una gran parte di questo reddito a disposizione del Comitato organizzatore dei Giochi: per esempio, agli organizzatori di Sydney andarono 1,100 miliardi di dollari USA (mentre a quelli di Mosca 1980 furono trasferiti 88 milioni di dollari). Un'altra parte è distribuita alle Federazioni internazionali e ai Comitati olimpici nazionali; al CIO rimane il 7%.

Sulle percentuali della divisione le Federazioni internazionali hanno dato battaglia, chiedendo che, nel totale, venisse compreso anche il ricavato della vendita dei biglietti (per contratto appannaggio del Comitato organizzatore). Soprattutto interessata a questa spartizione era la IAAF che, tradizionalmente, conta sulla maggiore affluenza di pubblico: a Sydney, per esempio, quasi un milione e mezzo di spettatori riempirono lo stadio per i nove giorni di gare (su due sessioni, mattino e pomeriggio). Nel 1996, dopo i Giochi di Atlanta, Nebiolo ‒ trattando a nome dell'ASOIF ‒ riuscì a ottenere un'ulteriore somma di 32 milioni di dollari per compensare il fatto che i proventi del programma di marketing TOP non erano stati inclusi nel totale da dividere. Per i diritti 2000, invece, un accordo tra il nuovo presidente dell'ASOIF, lo svizzero Denis Oswald, e il CIO venne raggiunto ‒ sulla falsariga di quello preparato da Nebiolo ‒ nel dicembre del 2002, comprendendo in esso anche il riconoscimento di due nuove Federazioni, taekwondo e triathlon. In base a questa nuova formula, le Federazioni internazionali furono divise in diverse categorie, basandosi sui rating televisivi di ciascuno sport e sul numero di spettatori. Il gruppo A comprende l'atletica, 26,3 milioni di dollari; il gruppo B pallacanestro, ciclismo, calcio, ginnastica, nuoto, tennis, pallavolo, 12,1 milioni di dollari ciascuno; il gruppo C handball, hockey, equitazione, canottaggio, 7,6 milioni di dollari ciascuno; il gruppo D 16 sport, 6,2 milioni di dollari; il gruppo E taekwondo e triathlon, 5,4 milioni di dollari.

La moltiplicazione delle gare

Un'altra materia di continua controversia tra il CIO e le Federazioni internazionali è stata la definizione del programma olimpico. La politica sportiva di molte Federazioni ha sempre mirato all'aumento del numero delle gare, sia per incoraggiare nuovi atleti a prendervi parte, sia per accrescere il proprio richiamo sul pubblico. Tipico caso quello del canottaggio, che ha nel tempo moltiplicato il numero delle competizioni includendo la categoria dei 'pesi leggeri'. Un'altra ragione dell'aumento delle competizioni è stata conseguenza del principio di uguaglianza tra uomini e donne, cioè uguali gare per i due sessi. L'atletica rappresenta al proposito l'esempio più clamoroso, ove si consideri che nel 1928 le donne disputarono soltanto cinque gare (100 m, 800 m, 4 x 100 m, salto in alto, lancio del disco) mentre attualmente il programma femminile è identico a quello maschile, con le sole eccezioni dei 3000 m siepi e della marcia 50 km (per le donne, la distanza è unica: 20 km): quindi 22 eventi femminili rispetto ai 24 per gli uomini.

In linea generale, l'introduzione di una nuova competizione a livello olimpico può avvenire soltanto dopo che quella gara sia stata sperimentata dalla relativa Federazione internazionale a livello continentale e poi mondiale. Per esempio il CIO accettò l'ampliamento del programma femminile delle competizioni dell'atletica, ammettendovi il salto con l'asta e il lancio del martello (a partire dai Giochi di Sydney 2000), dopo che queste gare si erano disputate ai campionati del mondo di Atene 1997 e Siviglia 1999.

Questa tendenza a occupare sempre nuovi spazi e a moltiplicare il numero delle medaglie in palio non poteva non suscitare severi problemi all'organizzazione dei Giochi. In molte occasioni Samaranch, che creò una Commissione per lo studio del programma, dichiarò che il programma olimpico (particolarmente quello estivo) era ormai dilatato in maniera eccessiva. Tuttavia ancora altri sport furono ammessi (come il triathlon e il taekwondo) senza che si procedesse a tagli in altre discipline. Era evidente la difficoltà politica di colpire questo o quello sport, questa o quell'altra gara senza provocare una forte opposizione.

Con l'arrivo alla presidenza di Jacques Rogge la questione fu subito riportata all'attenzione dell'executive board e della sessione del CIO. L'idea di Rogge era quella di operare una serie di esclusioni in modo da far posto ad altri sport, giudicati più attraenti dal punto di vista televisivo, andando così incontro alle richieste dei network americani, europei e giapponesi e degli sponsor pubblicitari. A questo proposito fu nominata una commissione (Programme commission) composta da membri CIO, rappresentanti degli atleti e funzionari del CIO, e presieduta dall'italiano Franco Carraro. I suoi lavori andarono avanti per alcuni mesi, ma presto cominciarono ad alzarsi non poche voci di scontento sul modo di procedere. In verità, la commissione si atteneva alle proposte di un funzionario del CIO, lo svizzero Gilbert Felli, dirigente del servizio 'sport'. Queste proposte erano forse frutto delle idee dello stesso Felli e dei suoi collaboratori, forse suggerite dal presidente Rogge. Fatto sta che la commissione e, per essa, il presidente Carraro le avallarono, portandole di fronte a una sessione straordinaria del CIO, appositamente convocata per votarle, nel novembre del 2002.

L'opposizione si era già andata consolidando in un largo fronte della maggioranza dei membri del CIO. Nonostante ciò, Carraro presentò ugualmente il suo programma chiedendo che venissero esclusi dai Giochi il baseball, il softball e il pentathlon moderno. Fu anche suggerita l'abolizione della gara di marcia maschile sui 20 km, citando problemi arbitrali più volte verificatisi, che avevano portato a squalificare per marcia scorretta alcuni atleti addirittura dopo l'arrivo (a Sydney il supposto vincitore, il messicano Bernardo Segura, fu squalificato mentre già riceveva per telefono le congratulazioni del presidente della Repubblica Vicente Fox). Al posto dei tre sport, la commissione Carraro prospettava la promozione olimpica del rugby (che si era disputato soltanto ai Giochi di Parigi del 1900) e del golf. Appena le proposte furono messe in discussione, apparve subito chiaro che l'opposizione era ferma nel rigettarle.

Su uno sport in particolare si appuntarono le reazioni dei partecipanti alla sessione straordinaria: il pentathlon moderno, introdotto nel 1912 dallo stesso de Coubertin che ne aveva anche formulato le regole. Il pentathlon, seppure in una forma diversa comprendente una prova di corsa di resistenza, un salto, i lanci del giavellotto e del disco e una gara di lotta, faceva parte dei Giochi antichi. I greci lo consideravano disciplina militare, e come tale lo reinventò de Coubertin, attraverso le gare di tiro, scherma, nuoto, equitazione e corsa campestre. Per tradizione, per rispetto alla storia del Movimento Olimpico e anche per non decretare la morte di uno sport che de Coubertin aveva fatto nascere ‒ senza la presenza alle Olimpiadi, con il relativo sostegno finanziario, quella Federazione sarebbe stata condannata a sparire ‒ i membri del CIO si dichiararono nella stragrande maggioranza contrari alla proposta di abolizione.

Le critiche si concentrarono poi sul metodo seguito dalla commissione, sulle decisioni prese senza che fossero consultate le Federazioni interessate e senza un'analisi del valore tecnico-sportivo delle prove in questione, sull'esagerato potere concesso a un funzionario del CIO che, proprio in quanto tale, avrebbe dovuto solo fornire una consulenza specialistica. In conclusione la sessione straordinaria decise di riappropriarsi del diritto di decidere la politica sportiva dell'ente e, prima che le proposte fossero messe ai voti, l'executive board le ritirò. Si trattò di una severa sconfitta per Rogge, uomo non alieno da certe tendenze autocratiche, e di una gran brutta figura per Carraro che, al suo primo incarico importante come leader della commissione che avrebbe dovuto disegnare il futuro del programma olimpico, aveva dimostrato di non avere sufficiente sensibilità politica.

La ridefinizione del programma olimpico rimane, tuttavia, uno dei punti principali non soltanto della presidenza Rogge ma, anche, delle Federazioni internazionali e, soprattutto, dell'ASOIF. Difatti dovrà esser trovata una soluzione per contenere il numero degli atleti partecipanti alle Olimpiadi entro la cifra di 10.500, quello degli eventi entro i 272 (come a Sydney), quello delle Federazioni internazionali riconosciute come olimpiche entro le 28 (quante attualmente). È possibile che l'eventuale soluzione passi per gli studi già avviati dalla Games study commission, presieduta dall'avvocato canadese Richard Pound, già candidato alla presidenza e sconfitto da Rogge. A far parte di questa Commissione, che dovrà avanzare proposte per ridurre i costi organizzativi dell'Olimpiade, ormai esorbitanti nonostante il continuo aumento delle contribuzioni televisive e pubblicitarie, sono stati chiamati Ruben Acosta (messicano, presidente della Federazione internazionale pallavolo), John Coates (presidente del Comitato olimpico australiano), Robert Ctvrtlik (statunitense, ex giocatore di pallavolo), Lamine Diack (senegalese, presidente della IAAF), Sinan Erdem (fino al 2003 presidente del Comitato olimpico turco), Bruno Grandi (italiano, presidente della Federazione internazionale di ginnastica), Patrick Hickey (presidente del Comitato olimpico irlandese), Gianfranco Kasper (svizzero, presidente della Federazione internazionale di sci), Mustapha Larfaoui (algerino, presidente della Federazione internazionale di nuoto), Randhir Singh (indiano, segretario generale dell'Asian olympic council) e Ching-kuo Wu (che è stato vicepresidente del Comitato olimpico di Taiwan).

La lotta al doping

La definizione di doping e di sostanze dopanti, l'organizzazione e le procedure dell'antidoping, le punizioni in caso di positività, sono state a lungo uno degli argomenti più spinosi nei rapporti tra CIO e Federazioni internazionali.

La prima Federazione internazionale a interdire l'uso di prodotti stimolanti nelle competizioni fu, nel 1928, la IAAF. Ma si trattava, più che altro, di una norma etica, senza alcuna efficacia pratica per l'impossibilità di accertare eventuali infrazioni. In ogni caso, era già evidente allora che il problema del doping cominciava ad assumere proporzioni notevoli. Ma dopo quel primo 'editto morale' lanciato dalla IAAF sul doping calò un lungo silenzio. Se ne ritornò a parlare in occasione della morte di un ciclista danese, Knut Jensen, nella cronometro a squadre dell'Olimpiade di Roma 1960. È probabile, anche se non accertato, che quella morte sia stata procurata dall'elevato calore e dall'umidità, dalla rilevanza dello sforzo e dal contemporaneo uso di amfetamine. Quattro anni dopo, in occasione della stessa gara alle Olimpiadi di Tokyo, furono condotti test sperimentali antidoping sugli atleti che vi presero parte, prima e dopo l'arrivo. Si trattò, in effetti, del primo esame antidoping nella storia olimpica.

Nel 1966, per le conseguenze che cominciavano a constatarsi tra i ciclisti, l'UCI (Union cycliste internationale), introdusse controlli antidoping ai campionati del mondo. Lo stesso fece la FIFA, per i campionati del mondo di calcio. I test si limitavano a ricercare l'uso di stimolanti, soprattutto amfetamine. Nel 1967, il CIO creò la Commissione medica con a capo sir Arthur Porritt, un neozelandese, varando contemporaneamente una lista di sostanze proibite. Ai Giochi di Grenoble e di Città del Messico, nel 1968, furono effettuati test a tutti gli atleti per la ricerca dell'uso di stimolanti.

Fu di nuovo la IAAF ad anticipare ogni altra organizzazione nel controllare il possibile uso di steroidi anabolizzanti. Il test, studiato e attuato principalmente grazie al lavoro del dottor Manfred Donike, un medico tedesco che aveva avuto esperienze come 'dopatore' nel ciclismo, venne utilizzato per controlli ai campionati europei di atletica di Roma nel 1974 e, due anni dopo, alle Olimpiadi di Montreal fu introdotto dalla Commissione medica del CIO, allora guidata dal principe Alessandro de Merode.

Lo scandalo di Ben Johnson, alle Olimpiadi di Seul 1988, fu infine l'occasione perché il CIO prendesse nelle proprie mani la leadership della lotta al doping. Ma fu proprio a quel punto che le divergenze con le Federazioni internazionali si fecero più evidenti. Non esisteva, infatti, una regolamentazione dell'antidoping che fosse accettata da tutte le organizzazioni sportive. Ciascuna proseguiva per la propria strada e diffidava dei tentativi di istituire un controllo che fosse obbligatorio per tutti. In particolare, le Federazioni degli sport più squisitamente professionistici ‒ come il calcio, il ciclismo, la boxe, il basket, per non dire di quelli tipicamente americani, come l'hockey su ghiaccio, il baseball, il football ‒ non intendevano assoggettarsi alle norme che il CIO avrebbe voluto istituire.

Il lavoro compiuto dalla Commissione medica del Comitato internazionale olimpico sotto la guida politica di de Merode fu un'opera paziente per introdurre una cultura dell'antidoping evitando fratture clamorose fra le varie componenti dello sport. Per oltre venti anni, le Federazioni internazionali in possesso di mezzi finanziari e della volontà politica di organizzare dei controlli, lo avevano fatto autonomamente e in assenza di coordinamento sia tra di loro sia con il CIO. Di più: ogni Federazione imponeva sanzioni diverse a seconda della sensibilità, o dell'emotività, dei propri dirigenti; a lungo, per la stessa offesa ‒ doping da anabolizzanti o amfetamine, doping del sangue (proibito nel 1986), uso di eritropoietina (probita nel 1990) ‒ si ondeggiò dai due ai quattro anni di squalifica sino all'interdizione a vita a competere, dopo la prima offesa. Impossibile per il CIO convincere a imporre penalizzazioni uguali per tutti e, soprattutto, accettabili dai tribunali civili ai quali gli atleti dei vari paesi sempre più spesso ricorrevano.

La svolta avvenne a seguito di un'inchiesta della polizia francese, dopo un sequestro di medicinali proibiti al Tour de France del 1998. La Francia era stata uno dei primi paesi a dotarsi, sin dal 1963, di una legislazione ordinaria antidoping, poi rafforzata con il passare degli anni e il succedersi dei governi (quello del socialista Jospin varò una legge molto severa in proposito, la cosiddetta legge Buffet, dal nome del ministro dello Sport dell'epoca). Allora il CIO ‒ pressato anche su altri fronti dallo scandalo sulla corruzione di alcuni suoi membri ‒ chiamò a raccolta le Federazioni internazionali per adottare in comune una linea d'azione in grado di correggere l'immagine di uno sport ormai in mano ai farmacologi e ai biochimici. Le Federazioni internazionali ‒ in particolare l'ASOIF, ancora guidata da Nebiolo ‒ accettarono l'impostazione di Samaranch per l'adozione di un codice antidoping valido per tutti e, in prospettiva, per l'istituzione di un'Agenzia autonoma che procedesse ai controlli.

Nel novembre del 1999, quasi in coincidenza con le altre riforme del CIO, venne varata la WADA (World anti-doping agency), con sede a Montreal, di cui fu nominato chairman il canadese Richard Pound. Prima incombenza della WADA, incaricata di elaborare una politica comune nella lotta al doping, fu quella di formulare un codice, il World anti-doping code (WADC), che sostituisse l'Olympic anti-doping code e contenesse le regole da rispettare e i passi da intraprendere da parte di tutte le Federazioni sportive internazionali, per uniformare la lotta al doping. Un primo abbozzo del codice venne reso noto e inviato a tutte le Federazioni internazionali nel giugno del 2002, al fine di ricevere osservazioni e suggerimenti. La versione definitiva fu presentata il 20 febbraio 2003, con l'impegno che lo stesso codice avrebbe dovuto essere accettato e implementato prima delle Olimpiadi estive del 2004 e, per le Federazioni degli sport invernali, prima di quelle di Torino del 2006. Di 28 Federazioni internazionali degli sport olimpici estivi 24 hanno dichiarato di accettare il codice varato dalla WADA: AIBA (Association internationale de boxe amateur), FEI (Fédération equestre internationale), FIBA, FIE (Fédération internationale d'escrime), FIG (Fédération internationale de gymnastique), FIH (Fédération internationale de hockey), FILA (Fédération internationale des luttes associées), FINA, FISA (Fédération internationale des sociétés d'aviron), FITA (Fédération internationale de tir à l'arc), IAAF, IBAF (International baseball federation), ICF (International canoe federation), IHF (Internationale handball federation), IJF (Internationale judo federation), ISAF (International sailing federation), ISF (International softball federation), ISSF (International shooting sport federation), ITF (International tennis federation), ITTF (International table tennis federation), ITU (International triathlon union), IWF (International weightlifting federation), UIPM (Union internationale de pentathlon moderne), WTF (World taekwondo federation).

La FIFA ha svolto lunghe trattative per conciliare le sue esigenze di sport professionistico e tutelare i giocatori, oltreché le squadre che pagano i calciatori. Le negoziazioni tra il presidente della FIFA, Joseph Blatter, e il presidente della WADA, Pound, hanno avuto per risultato un accordo sottoposto per l'approvazione, nel giugno del 2004, a Parigi, al congresso del centenario della Federazione internazionale. Nessun accordo è stato, invece, ancora trovato ‒ anche se sembra ormai vicinissimo ‒ con la Federazione del ciclismo (UCI, Union cycliste international), del badminton (IBF, International badminton federation) e della pallavolo (FIVB, Fédération internationale de volleyball).

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