Temi olimpici: Pierre de Coubertin

Enciclopedia dello Sport (2004)

Temi olimpici: Pierre de Coubertin

Roberto L. Quercetani

Prima delle Olimpiadi

Dalle carte conservate negli archivi del CIO sappiamo che nella linea maschile la famiglia de Coubertin aveva lontane e nobili origini italiane. Gli antenati del barone vissero a lungo a Roma. A uno di loro, Felice de Fredis, si fa risalire, nel 1506, il ritrovamento del gruppo marmoreo del Laocoonte che, acquistato da Papa Giulio II, è annoverato fra i capolavori dei Musei Vaticani. Una branca della famiglia era emigrata in Francia e un Pierre de Frédy fu ciambellano alla corte del re Luigi XI. Suo nipote Jean de Frédy, che sposò una donna della ricca borghesia, acquistò nel 1577 la signoria di Coubertin, situata non lontano da Versailles, e da allora assunse quel nome nobiliare.

Pierre de Frédy, barone de Coubertin, era il terzo dei quattro figli di Charles-Louis, buon pittore di soggetti sacri, e di Agathe-Gabrielle de Crisenoy de Mirville, nobildonna di origini normanne. Nacque il l° gennaio 1863 a Parigi. Fin dalla più giovane età trasse vantaggio dal privilegio di esser nato da gens fortunés e si applicò con ardore allo studio, attirato dapprima dalla letteratura e dalla storia, più tardi dalla pedagogia e dalla sociologia. Profittò dei suoi viaggi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti per studiare i metodi pedagogici dei paesi di lingua inglese.

Nei suoi scritti rivela di essere stato ispirato principalmente da Thomas Arnold (1795-1842), rettore del Collegio inglese di Rugby, i cui insegnamenti erano stati ben riassunti da Thomas Hughes nel libro Tom Brown's schooldays. Da Arnold derivava un concetto divenuto poi fondamentale nella pedagogia anglosassone, cioè che lo sport potesse fungere da elemento di educazione, suscettibile di preparare adeguatamente, fin dalla scuola, alle future lotte della vita. Le teorie di Arnold attrassero grandemente de Coubertin, che quale buon patriota soffriva in quegli anni, al pari di molti suoi connazionali, le conseguenze morali della sconfitta subita dalla Francia nella guerra del 1870 contro la Germania. Il giovane barone rimproverava agli intellettuali francesi di "sedere troppo spesso sul proprio cervello", dimenticando di coltivare il fisico.

A tutti questi elementi de Coubertin collegò fin dal principio quanto aveva appreso dai suoi studi sull'antica Grecia e soprattutto su quei Giochi Olimpici che lo avevano affascinato. Fra il 1875 e il 1881 una spedizione tedesca diretta dall'archeologo Ernst Curtius aveva riportato alla luce proprio i resti di Olimpia, teatro degli agoni più celebri dell'antichità. Fu un ulteriore, potente incentivo per de Coubertin, il quale confessava, nel 1888: "Niente nella storia dell'antichità mi aveva fatto sognare più di Olimpia ...".

Sembra che l'idea di ridare vita ai Giochi Olimpici ‒ che nell'antica Grecia avevano richiamato l'attenzione di tanti uomini di cultura ‒ cominciò a prender corpo fin dal 1889, quando de Coubertin aveva 26 anni. La sua posizione sociale gli permetteva d'altronde di scambiare opinioni in proposito con eminenti personalità della cultura, della politica e del mondo dello sport, che stava allora muovendo i primi passi come fenomeno organizzativo e sociale. Il barone cominciò a darsi da fare attraverso la riorganizzata Union des sociétés françaises de sports athlétiques (USFSA). In Mémoires olympiques riferisce che fu la celebrazione del quinto anniversario di questa organizzazione a fornirgli l'occasione che attendeva. A Parigi, la sera del 25 novembre 1892 nel grande anfiteatro della Sorbona i festeggiamenti in onore dell'USFSA servirono a de Coubertin per lanciare, in presenza d'importanti personalità, il suo progetto più caro. Concluse dunque il suo intervento celebrativo con quella che egli stesso più tardi immodestamente definì "un'immaginazione creativa", cioè la proposta di riportare in vita i Giochi Olimpici. Nel suo libro riassume in questi termini la reazione dell'uditorio: "Avevo previsto tutto, eccetto quel che in realtà avvenne. Opposizioni, proteste, ironia o addirittura indifferenza? Niente di tutto ciò: i presenti applaudirono, approvarono e mi augurarono gran successo, ma ebbi subito la netta impressione che nessuno avesse capito. Era quell'incomprensione totale che doveva protrarsi per non poco tempo". A questo riguardo de Coubertin ricorda un episodio capitatogli nel 1896 ad Atene, nell'edizione inaugurale dei Giochi Olimpici moderni: "Mi ricordo di una signora americana, che dopo avermi fatto i suoi complimenti, mi disse sorridendo: "Ho assistito già una volta ai Giochi Olimpici". Al che mi capitò di esclamare: "Ah, e dove?" E lei : "A San Francisco, in un bello spettacolo nel quale figurava anche un imperatore romano"".

De Coubertin si doleva del fatto che la maggior parte dei suoi interlocutori, soprattutto in Francia, non sembrava compenetrare l'essenza del suo pensiero, che era quello di far rivivere 1'Olimpismo "separandone però l'anima, l'essenza e i principi da quelle forme antiche che l'avevano a suo tempo caratterizzato e che ormai erano morte da ben quindici secoli". Verso questa visione moderna del problema ebbe tuttavia la ventura di esser meglio compreso da almeno due eminenti personalità straniere, l'inglese Charles Herbert, segretario della Amateur athletic association (AAA), e l'americano William M. Sloane, un professore dell'Università di Princeton molto interessato ai problemi dello sport. Con loro il barone poté stabilire una solida alleanza. Nel già citato Mémoires olympiques egli riassume in otto punti il programma di studio di questo 'triumvirato': 1) definizione del dilettante, possibilmente su una base internazionale; 2) sospensione, squalifica ed eventuale reintegrazione del dilettante, con i motivi che le possono giustificare; 3) mantenimento o meno di distinzioni fra i vari sport nell'ottica del dilettantismo e possibilità di avere status professionistico in uno sport e dilettantistico in un altro; 4) valore degli oggetti d'arte eventualmente assegnati ai vincitori; 5) legittimità delle risorse provenienti dalle manifestazioni sportive ed eventuale ripartizione delle stesse fra società e atleti; 6) possibilità di applicare la definizione di dilettante a tutti gli sport; 7) compatibilità delle scommesse con il concetto di dilettantismo; 8) possibilità di ridare vita ai Giochi Olimpici e in quali condizioni. All'inizio del 1894 c'era già un orientamento di massima sugli indirizzi da prendere e a questi otto punti se ne erano aggiunti altri due, fondamentali per il 'varo' del progetto: 9) condizioni per la partecipazione dei concorrenti alle gare e sport rappresentati; 10) nomina di un Comitato internazionale incaricato di ridare vita ai Giochi Olimpici.

Da quanto si può dedurre dagli scritti di de Coubertin, lo schema generale del progetto scaturì dalle discussioni che ebbe con Herbert e Sloane. Quest'ultimo in particolare "vibrava all'idea" (delle Olimpiadi), come notò il barone, che nell'autunno del 1893 aveva soggiornato per ben quattro mesi negli Stati Uniti. Quasi contemporaneamente il francese ritenne utile e necessario stabilire solidi contatti con diverse personalità di altri paesi, compresa la Grecia, che naturalmente doveva avere un posto non secondario nella realizzazione dell'idea. Il suo referente fu Demetrios Vikelas, che ricopriva una carica importante nella Società per lo sviluppo degli studi sull'antichità greca. Inizialmente l'idea di de Coubertin era che l'edizione inaugurale dei moderni Giochi si tenesse all'inizio del 20° secolo nella sua Parigi. Non tardò però ad accettare il suggerimento di Vikelas a favore della candidatura di Atene, "possibilmente già prima della fine del 19° secolo".

Fra gli altri paesi da interessare al progetto, de Coubertin incluse l'Italia, rivolgendosi in primo luogo a un illustre letterato e parlamentare, Ruggiero Bonghi. Questi non poté o non volle dar seguito all'invito (già avanti negli anni e ammalato, morirà nel 1895) e al suo posto subentrò il giovane conte Ferdinando Lucchesi Palli, all'epoca viceconsole del Regno d'Italia a Parigi.

In patria de Coubertin era riuscito a interessare al suo progetto alcune personalità di rilievo delle scienze e delle lettere e perfino un uomo di Stato, Jules Simon, che nel 1888 scrisse la prefazione al suo primo libro, L'éducation en Angleterre, e l'anno successivo a L'éducation anglaise en France. Malgrado ciò, de Coubertin in Francia continuò a incontrare nei confronti del suo progetto resistenze più o meno sorde, che dovevano protrarsi anche agli inizi del 20° secolo.

La fondazione dei Giochi

Uno speciale congresso inteso a ridare vita ai Giochi Olimpici si tenne dal 16 al 24 giugno 1894 in una ristrutturata Sorbona. Vi parteciparono 79 delegati in rappresentanza di 14 nazioni e 49 società sportive, alla presenza di un folto uditorio. Si giunse così alla fondazione del Comitato internazionale olimpico, di cui fu nominato presidente Vikelas. De Coubertin preferì riservarsi il ruolo di segretario, in considerazione del fatto che sarebbe stata la Grecia a organizzare l'edizione inaugurale dei Giochi.

Del nuovo organismo facevano parte rappresentanti di 11 nazioni: Francia e Gran Bretagna (due membri ciascuna), Argentina, Boemia, Grecia, Italia ‒ nella persona del conte Palli ‒ Nuova Zelanda, Romania, Ungheria, Stati Uniti e Svezia (uno ciascuna). La decisione di rimettere in vita i Giochi Olimpici fu presa all'unanimità il 23 giugno 1894. Al pranzo di chiusura de Coubertin si lasciò andare a una comprensibile euforia, quando disse che i congressisti avevano votato a favore della "restituzione di un'idea vecchia di 2000 anni che, oggi come allora, agita il cuore degli uomini, soddisfacendo a uno dei loro interessi più vitali e più nobili". E aggiunse: "L'eredità che la Grecia ci ha trasmesso è così vasta che quanti hanno conosciuto l'esercizio fisico in uno qualsiasi dei suoi molteplici aspetti possono agevolmente riconoscersi in essa. Alcuni hanno visto l'addestramento fisico nell'ottica della difesa della patria, altri in quella della ricerca della bellezza fisica e della salute a beneficio di un soave equilibrio di anima e corpo; altri, infine, in quella di una sana ebbrezza del sangue chiamata gioia di vivere, che da nessuna parte può risultare intensa e squisita come nell'esercizio fisico. A Olimpia c'era tutto questo, ma anche qualcosa di più che in seguito è andato perduto perché dal Medio Evo in poi è planata sulla nostra civiltà una forma di discredito delle qualità corporali, che sono state isolate da quelle dello spirito. Recentemente le prime sono state ammesse al seguito delle seconde, tuttavia sono trattate ancora come 'schiave' e si continua in ogni modo e maniera a considerarle come inferiori. Errore immenso di cui è quasi impossibile calcolare le conseguenze scientifiche e sociali. Perché in definitiva non è che l'uomo si divida in due parti, il corpo e l'anima; in realtà le parti sono tre: corpo, spirito e carattere. Quest'ultimo non si forma attraverso lo spirito ma soprattutto attraverso il corpo. Gli antichi lo sapevano, ma i nostri padri l'hanno ignorato e noi adesso lo apprendiamo di nuovo, non senza fatica. Quelli della vecchia scuola sono stati sorpresi nel vederci assisi alla Sorbona; ci hanno considerato come dei ribelli che volessero degradare l'edificio della loro filosofia tarlata. È vero: siamo dei ribelli ed è per questo che la stampa, sempre pronta ad appoggiare le rivoluzioni benefiche, ci ha compresi e ci ha aiutati, cosa di cui la ringraziamo con tutto il cuore". È vero infatti che già si era dato risalto all'idea di de Coubertin, in qualche modo provocatoria, di tenere il congresso proprio in un tempio della scienza quale era la Sorbona.

Pur dopo questo avvio entusiasmante, de Coubertin si rendeva ben conto che il più restava ancora da fare. Il CIO in generale e i greci in particolare erano attesi da un compito molto severo nell'organizzare l'edizione inaugurale dei Giochi, che era stata fissata in coincidenza con le festività di Pasqua, greca e occidentale, nei giorni dal 5 al 15 aprile 1896 (corrispondenti ai giorni dal 24 marzo al 3 aprile nel calendario greco). La ricostruzione del vecchio e grande stadio Panellenico di Atene era l'aspetto più importante e più costoso: a risolverlo, con un contributo di 130.000 dracme pensò bene un greco residente ad Alessandria d'Egitto, il ricchissimo Georgios Averof. L'opera fu portata a termine giusto in tempo, anche se la struttura della pista di atletica, con lunghi rettilinei e curve molto strette, oltre che con un pessimo fondo, parve largamente inadeguata a inglesi e americani, cioè ai pionieri dell'atletica moderna, abituati a impianti molto migliori.

Al di là e al di sopra dei dettagli tecnici era comunque importante la rinascita dei Giochi. Ecco come il barone rievocò quel momento: "Suonò finalmente l'ora in cui, nel restaurato e splendente stadio (di Atene), il re Giorgio di Grecia decretò la rinascita della manifestazione, pronunciando la formula: Proclamo aperti i Giochi della prima Olimpiade dell'era moderna". Agli occhi di de Coubertin contava soprattutto il nuovo spirito che questi Giochi si ripromettevano di diffondere fra i giovani di tante nazioni diverse. Anche se i nove sport ammessi alla prima Olimpiade e i 13 paesi partecipanti possono sembrare ovviamente esigui nell'ottica del 21° secolo, c'è da dire che la Grecia fu una scelta tutt'altro che indegna come teatro delle gare. Fin da quando era tornata a essere un paese indipendente (1830), aveva in effetti pensato di far rivivere quell'attività atletica che era stata uno dei vanti dell'Ellade antica. Su iniziativa di un ricco greco residente a Bucarest, Evanghelios Zappas, gare sportive nazionali di un certo rilievo si erano tenute ad Atene fin dal 1859. Anche per questo il primo impegno olimpico poté essere onorato dignitosamente.

Lo stesso de Coubertin ammise che le gare in generale non erano state esaltanti, ma mise in rilievo l'entusiasmo suscitato dalla corsa di maratona, la cui inclusione nel programma era stata caldeggiata da un suo connazionale, Michel Bréal, personalità molto nota nel mondo della cultura. Fu proprio questa corsa a mandare in visibilio la folla raccolta nel grande stadio, con la vittoria di un greco praticamente sconosciuto, Spyridon Louis, un contadino di Maroussi. De Coubertin la rievocò in questi termini: "All'ingresso nell'arena, dove erano assiepati più di 60.000 spettatori, si presentò con apparente freschezza e quando i principi Costantino e Giorgio, con gesto spontaneo, lo presero fra le loro braccia per portarlo là dov'era il re, nel suo trono di marmo, avemmo l'impressione che tutta l'antichità greca rivivesse in lui ... Fu uno spettacolo fra i più straordinari che io ricordi".

De Coubertin considerò positivo il primo 'incontro' fra sport diversi nel quadro della stessa manifestazione. A tale riguardo osservò: "Un altro motivo d'incomprensione era stata fino ad allora l'incapacità di uno sport a collaborare e convivere con qualsiasi altro sport per quanto identico potesse essere il loro piedistallo originario. La generazione attuale troverà difficile capire perché gli sportivi del 19° secolo giudicassero antitetici fra loro i vari sport, fino a credere che la pratica di uno potesse nuocere a quella di un altro... Queste ed altre incomprensioni ricevettero una prima scossa quando le discipline vennero finalmente a far parte di un'opera comune".

Dopo Atene

Dopo il 'varo' dell'Olimpismo moderno si presentarono inevitabilmente vari problemi. Il più importante riguardò i luoghi destinati a ospitare le edizioni successive. Era ferma intenzione di de Coubertin che prendesse corpo una continua alternanza, in modo che con il tempo il numero più vasto possibile di paesi fosse coinvolto direttamente nell'iniziativa, destinata a promuovere attraverso i Giochi una nuova fratellanza fra i popoli. I greci, invece, erano così gelosi di quella che consideravano in definitiva una loro 'creatura' da avanzare l'ipotesi di scegliere Atene come sede permanente della manifestazione, un'idea che de Coubertin non poteva certo condividere, ma che si rivelò dura a superare.

Fu comunque in omaggio all'opera di rinnovatore del barone che il CIO finì per acconsentire alla sua idea di scegliere Parigi come sede della seconda edizione, che rifacendosi all'antica tradizione quadriennale, già ripresa a modello, si svolse nel 1900. Questa e anche la terza, quella di St. Louis nel 1904, coincisero e 'convissero' con Esposizioni universali che da una parte aiutarono dal lato economico gli organizzatori, ma dall'altra crearono una certa confusione, nell'ottica dei Giochi, fra gare ufficiali e ufficiose. Sotto questo punto di vista la navigazione del CIO continuava a essere alquanto precaria.

Un'altra idea avanzata da de Coubertin era quella di far 'circolare' anche la presidenza del CIO, assegnandola ogni volta a un rappresentante del paese scelto per ospitare la prossima edizione dei Giochi. Nel 1901 propose dunque al congresso del CIO di assegnare la carica a William M. Sloane, visto che i Giochi del 1904 si sarebbero svolti negli Stati Uniti. Sloane, però, declinò l'offerta, anche perché intimorito dai gravi problemi già sorti nel 1900 con i Giochi di Parigi, e propose di assegnare tale carica a vita allo stesso de Coubertin. Il barone accettò, ma stimò prudente assumere l'impegno solo per dieci anni. In realtà il suo 'regno' doveva durare ben più a lungo.

Dopo l'insoddisfacente edizione di St. Louis, nella quale la partecipazione straniera, per evidenti difficoltà logistiche, fu ridotta praticamente al minimo, i problemi si fecero gravi anche per altri versi. L'Italia fu, nell'ambito europeo, una delle nazioni che incontrarono le maggiori difficoltà. Era stata appena sfiorata dall'evento inaugurale del 1896, praticamente ignorato dai mezzi d'informazione, tanto da esser presente alle gare di Atene con un solo atleta, Rivabella, che partecipò al tiro a segno. Le cose erano andate assai meglio nel 1900 a Parigi, con 33 partecipanti italiani e tre medaglie, le prime della serie azzurra. L'Italia fu assente del tutto nel 1904 a St. Louis. A quel punto, però, qualcuno aveva cominciato a interessarsi attivamente all'idea dei Giochi Olimpici. Già da un certo tempo erano nate le prime federazioni sportive e verso la fine del 1902 cominciò a farsi strada un'idea: quella di tenere a Roma i Giochi Olimpici del 1908. Ne fu principale fautore il conte Eugenio Brunetta d'Usseaux, un piemontese assai bene introdotto negli ambienti francesi. L'idea piacque a de Coubertin, che grazie ai suoi studi classici era mentalmente orientato ad apprezzare in pieno il significato storico di Roma e dell'Italia. In linea di massima la candidatura di Roma era stata accettata dal CIO, ma in seguito le difficoltà di ordine economico e anche politico che affliggevano in quegli anni il paese, sommate all'impreparazione degli organi sportivi, indussero a dichiarare forfait.

Intanto de Coubertin aveva dovuto affrontare una nuova tempesta. I greci erano fermamente decisi a celebrare ad Atene nel 1906 il decimo anniversario della rinascita dei Giochi Olimpici. Era praticamente impossibile opporsi a questa idea e sia pure obtorto collo il CIO dovette dare il suo assenso. Nacque peraltro una polemica su come classificare quella edizione dei Giochi, abnorme in quanto interrompeva la tradizionale scadenza quadriennale. In definitiva il problema fu risolto solo a posteriori, definendo 'intercalati' o 'intermedi' quei Giochi, che in realtà non figurano nella numerazione ufficiale adottata dal CIO. Malgrado questa differenza formale, l'edizione di Atene 1906 risultò la migliore fino a quel momento, se non altro sul piano della partecipazione.

Furono però i Giochi del 1908 a Londra a far registrare un decisivo passo avanti nell'organizzazione della manifestazione, sotto tutti i punti di vista. Le precedenti edizioni avevano visto scendere in gara dei concorrenti per lo più messi assieme per iniziativa di singoli club. A Londra, per la prima volta, si videro gli atleti sfilare sotto le insegne delle rispettive nazioni. Strano a dirsi, però, la formazione di squadre strette intorno ai loro colori coincise anche con le prime liti di un certo rilievo, per esempio nella gara dei 400 m piani, dove la squalifica dell'americano John Carpenter da parte dei giudici inglesi fu ritenuta ingiusta dai suoi connazionali, che pertanto si astennero dal partecipare alla ripetizione della corsa. Così lo scozzese Wyndham Halswelle divenne il primo ‒ e a tutt'oggi l'unico ‒ concorrente a vincere un titolo olimpico correndo in assolo.

Fu proprio in occasione dei Giochi di Londra che Pierre de Coubertin pronunciò, durante un banchetto offerto dal governo di S.M. britannica, una frase rimasta così celebre che a distanza di quasi un secolo da allora molti, anzi moltissimi, la ricordano ancora, più o meno correttamente rispetto all'originale, che suonava così: "Domenica scorsa [il 24 luglio 1908], durante una cerimonia in onore degli atleti tenuta nella Cattedrale di San Paolo (qui a Londra), il vescovo di Pennsylvania si è espresso in termini molto appropriati: l'importante in queste Olimpiadi non è vincere ma prendervi parte". Lo stesso de Coubertin, quindi, mise bene in chiaro che la frase, di cui condivideva la sostanza, non era sua. Oggi molti enunciano impropriamente il concetto, sì da farlo suonare ben più categorico: "Nei Giochi Olimpici la cosa più importante non è vincere, ma partecipare". Due studiosi dell'Olimpismo, lo svedese Ture Wiklund e l'americano John Lucas, hanno appurato che il famoso sermone a cui faceva riferimento il barone fu pronunciato da Ethelbert Talbot, che all'epoca era vescovo della diocesi episcopale della Central Pennsylvania e non dal vescovo principale di quello Stato, come aveva detto de Coubertin. Le parole di Talbot erano state in realtà queste: "Nei Giochi uno solo può cingersi della corona d'alloro, ma tutti possono provare la gioia di partecipare alla gara". Si tratta d'altronde di sfumature: il concetto era più o meno lo stesso e de Coubertin ebbe soprattutto il merito di averlo divulgato.

Un ulteriore e importante progresso si ebbe nel 1912 a Stoccolma. Per molti versi e soprattutto per l'efficienza dell'organizzazione quella edizione dei Giochi fu così encomiabile da indurre più tardi lo stesso de Coubertin a definire 'incantevole' il ricordo di quelle giornate scandinave. A contribuire almeno in parte al suo entusiasmo ci fu l'inclusione di concorsi artistici (art contests) su soggetti sportivi, da sottoporre alcuni mesi prima della disputa dei Giochi: un'aggiunta sia pure di contorno, che aveva da tempo auspicata nel suo costante desiderio di 'sposare' il concetto di arte con quello di sport. Vennero così premiati lavori di architettura, letteratura, musica, pittura e scultura. Due di questi furono vinti da italiani: Riccardo Barthelemy per la musica con Marcia trionfale olimpica e Giovanni Pellegrini per la pittura con un trittico intitolato Sport invernali. Questi concorsi artistici cadranno in disuso dopo i Giochi di Londra del 1948, undici anni dopo la morte di de Coubertin.

La ripresa del dopoguerra

Nelle due ultime edizioni dei Giochi (Londra 1908 e Stoccolma 1912) si era finalmente fatto strada il concetto che il movimento olimpico, superata la sua difficile infanzia, fosse ormai in procinto di navigare più o meno speditamente, anche dal punto di vista economico, visto che erano pure cresciute le 'platee' di quanti amavano seguire i vari sport. A sconvolgere tutto sopravvenne però il Primo conflitto mondiale (1914-1918). I popoli coinvolti dovettero necessariamente distrarre la loro attenzione dai problemi dello sport. A causa della guerra cadde l'edizione dei Giochi del 1916, che era stata assegnata a Berlino. Nel 1915 il CIO ritenne utile e necessario, per continuare in qualche modo a svolgere la sua attività, di trasferire la sua sede da Parigi (dove era rimasta fino ad allora, in omaggio al luogo di residenza di de Coubertin) a Losanna, nella neutrale Svizzera, dove, nel castello di Vidy, si trovano tuttora la sede amministrativa e l'archivio del CIO. La scelta di una città svizzera come 'casa' permanente del principale organismo sportivo internazionale rispondeva probabilmente a un vecchio desiderio dello stesso de Coubertin, che una volta aveva scritto: "C'è al centro dell'Europa un piccolo Stato che ricopre silenziosamente il ruolo di jardin d'essai delle nazioni civili".

La prima Olimpiade postbellica si tenne nel 1920 ad Anversa, una città di quel Belgio che molto aveva sofferto per la guerra e l'occupazione tedesca. Questo pose il CIO davanti a un problema nuovo: era lecito e consigliabile riunire negli stessi luoghi di gara cittadini di paesi fino a ieri in conflitto fra loro, quando le ferite materiali e morali erano ancora aperte? Pur fra non poche perplessità, il CIO non se la sentì di correre questo rischio e così ricorse allo stratagemma di 'non invitare' ai Giochi di Anversa le nazioni giudicate 'potenze aggressive': Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia, che in realtà pagarono il prezzo di essere uscite perdenti dall'orrendo conflitto. Per de Coubertin, e non solo per lui, fu comunque una decisione molto sofferta. Da notare che per la Germania, ritenuta chef-de-file del gruppo, tale ostracismo fu applicato anche per i Giochi del 1924.

Il Belgio come paese organizzatore dei Giochi del 1920 assolse il suo difficile compito molto dignitosamente. Gli anni Venti videro del resto una vigorosa ripresa dell'attività sportiva, anche se cominciava fin da allora a delinearsi il conflitto fra gli sport olimpici, necessariamente amatoriali, e quelli professionistici, specialmente il calcio e il pugilato. All'inizio del 1924 ci fu peraltro una novità che dette nuovo vigore al movimento voluto da de Coubertin: a Chamonix, in Francia, dal 25 gennaio al 4 febbraio si tenne la prima edizione dei Giochi Olimpici invernali.

II barone espresse il desiderio, già manifestato, di ritirarsi dalla carica di presidente del CIO nel 1925, anno successivo a quello in cui aveva avuto il piacere di vedere la Francia ospitare sia i nuovi Giochi invernali sia per la seconda volta quelli estivi. Aveva ormai 62 anni e sentiva il bisogno di riposarsi dopo le molte lotte sostenute nell'arco di oltre un trentennio. Nello stesso 1925 fu eletto suo successore il conte Henri de Baillet-Latour, belga, con un mandato di sette anni. Si trattava ovviamente di un uomo molto esperto, perfettamente in linea con la tradizione del CIO. De Coubertin fu eletto presidente onorario a vita e continuò a mantenersi vicino alla sua 'creatura', facilitato in questo dal fatto di vivere allora a Losanna.

Dedicò gli ultimi anni della sua esistenza agli studi, in particolare a quelli di pedagogia sportiva. Fu proposto come candidato al premio Nobel per la pace, ma l'iniziativa non ebbe seguito a causa del suo decesso, avvenuto il 2 settembre 1937, durante una passeggiata nel Parc des Eaux-Vives a Ginevra. In ottemperanza a un desiderio da lui espresso, il suo cuore fu collocato nel luogo più consono a quella che era stata la 'missione' della sua vita, cioè a Olimpia, in un'urna di bronzo sigillata in una stele di marmo. L'omaggio forse più gradito gli era stato fatto nel 1933, in occasione del suo settantesimo anniversario: una corona d'oro inviatagli dal governo greco.

Il pensiero di de Coubertin

Pur dopo tutti i riconoscimenti che gli sono stati accordati da scrittori, sportivi e non, di molti paesi, de Coubertin nella sua essenza è rimasto praticamente sconosciuto. Sono illuminanti in proposito le riflessioni fatte da Louis Meylan, direttore dell'école supérieure de jeunes filles di Losanna e curatore nel 1944 di una biografia del barone: "Per il grande pubblico, il barone de Coubertin è il rinnovatore dei Giochi Olimpici. Ma in generale s'ignora che nel 1906 fondò e presiedette la Association pour la réforme de l'enseignement e nel 1910 la Ligue d'éducation nationale; che negli anni 1917-18 organizzò e animò a Losanna un Istituto Olimpico che era un centro di educazione integrale, nella quale trovarono per la prima volta applicazione le sue idee in materia di pedagogia; che consacrò non pochi anni della sua vita alla preparazione di una Histoire universelle in quattro volumi, scritta in uno spirito del tutto innovatore; e che nel 1925 fu strumentale nella creazione di una Union pédagogique universelle; e che in definitiva il problema dell'educazione dei giovani rimase sempre al culmine delle sue meditazioni e delle sue azioni".

I principali fra i numerosi scritti di Pierre de Coubertin sono: L'éducation en Angleterre (1888); Universités transatlantiques (1890); L'évolution française sous la 3ème République (1896); Souvenirs d'Amérique et de Grèce (1897); France since 1814 (1900, in inglese); Notes sur l'éducation publique (1901); Pages d'histoire contemporaine (1906); Essais de psychologie sportive (1913); Pédagogie sportive (1922); Histoire universelle (4 voll., 1926-27); La réforme de l'enseignement (1929); Mémoires olympiques (1931).

Forse il più diffuso malinteso a proposito del suo pensiero assai complesso riguarda il concetto di dilettantismo. La famosa frase del 1908, già ricordata, sembra aver fatto di lui l'apostolo di quel credo. Dai suoi scritti si deduce invece che il concetto di amateurisme era di chiara emanazione anglosassone e lo accettò solo come 'merce di scambio', nell'inevitabile gioco di compromessi che si verifica alla nascita di molte istituzioni umane, quando si tratta di mettersi d'accordo fra persone diverse per provenienza ed educazione, anche se animate da un comune scopo. Ecco in proposito un brano di Mémoires olympiques: "Non esito a confessare che non mi sono mai appassionato riguardo a questo problema. Esso mi servì di paravento per convocare quel congresso destinato a ridar vita ai Giochi Olimpici. Avendo notato l'importanza che veniva attribuita a tale questione (principalmente dagli anglosassoni), non feci mancare un certo zelo in tal senso anche da parte mia ‒ ma era uno zelo senza il supporto di una convinzione reale. Il mio concetto dello sport è stato molto diverso da quello apparentemente prevalente. Per me lo sport è una religione con chiesa, dogmi e culto ... ma soprattutto un sentimento religioso. E mi sembra infantile legarlo al fatto che uno sportivo ricavi dalle sue fatiche un pezzo di cento soldi, come sarebbe infantile sostenere che lo scaccino della parrocchia è un miscredente solo perché riceve un compenso per assicurare il servizio al santuario. Avendo ormai raggiunto, e addirittura oltrepassato, l'età in cui può esser lecito praticare e proclamare liberamente delle eresie, non esito a confessare il mio reale punto di vista. Tuttavia, in mancanza di meglio, capisco bene che è necessario ammettere determinate regole, elevando cioè certe barriere, più o meno fittizie sia pure… per aiutare il movimento a sopravvivere. Gli inglesi, ad esempio, sono stati a lungo adamantini nella difesa del dilettantismo, ma ora mi sembra evidente che sono anche loro disponibili ad una revisione". E più oltre ammette apertamente: "La definizione di dilettante accettata fino ad allora, che proveniva appunto dall'Inghilterra, appariva ormai vetusta".

Questi pensieri sono del 1931, quando già de Coubertin aveva abbandonato la sua carica ufficiale di presidente del CIO. Proprio negli anni Trenta, del resto, le squalifiche per 'leso dilettantismo' di celebri atleti come il finlandese Paavo Nurmi e il francese Jules Ladoumègue avevano dato ampia materia di riflessione. Nella misura in cui lo sport imponeva, per la sua stessa evoluzione, carichi di allenamento sempre più pesanti, era evidente che il dilettantismo puro non era più concepibile. Il fatto che proprio de Coubertin ‒ contrariamente a quanto si crede ‒ lo avesse capito prima di altri, non fa che confermare la sua lungimiranza. Qualcuno potrà magari rimproverargli i compromessi a cui si piegò di fronte ai suoi amici anglo-americani, negli anni cruciali del 'varo' del progetto olimpico. D'altronde il barone fu sempre un uomo misurato e come tale vide pure, e disse di temere, i possibili eccessi del professionismo, già intuibili quando era negli ultimi anni della sua vita.

Il mezzo migliore per penetrare nelle intime convinzioni di de Coubertin è offerto dalla lettura di Pédagogie sportive, forse il più importante dei suoi scritti. Pur con tutto il rispetto che nutriva verso le svariate manifestazioni sportive della più remota antichità, de Coubertin non aveva tardato a scoprire nella civiltà ellenica la molla più importante verso quella che lui stesso chiama 'la religione dell'esercizio atletico'. "La società di cui si parla nell'Iliade è già fortemente sportiva: lotta, corsa a piedi, lanci, gare solenni per le quali ognuno si prepara con spirito religioso nel fisico e nel morale. Per questo ebbe presto cerimonie a scadenze regolari e templi per il culto quotidiano. Le prime s'identificarono nei grandi Giochi: Pitici, Istmici, Nemeici e i più illustri di tutti, i Giochi Olimpici. I templi s'identificavano nei cosiddetti 'ginnasi', dove si affollavano a turno adolescenti, adulti ed anziani, tutti animati dall'idea di esaltare la vita attraverso la pratica dell'esercizio fisico". Sulla lunga vita e sul declino finale dei Giochi Olimpici dell'antichità de Coubertin rifletté profondamente: "Qualsiasi istituzione che duri sull'arco di un millennio va inevitabilmente soggetta a deviazioni e deformazioni". Osservò anche che "studiare sotto questo aspetto le peripezie dello sport nell'antichità può essere altamente istruttivo anche in un'ottica moderna. Di pari passo con il successo sorgono infatti e si sviluppano svariate complicazioni. In mano ad allenatori e manager senza scrupoli anche i migliori atleti precipitano prima o poi nel mercantilismo". A questo riguardo ricordava fra l'altro: "che a un dato momento anche la medicina volle metter mano sullo sport e orientarlo secondo i suoi profitti". Accadde così che i Giochi "divennero a un certo punto una grande fiera, che esigeva sempre qualcosa di nuovo e di sensazionale per soddisfare i desideri di una folla sempre più eccitata e rumorosa. Malgrado qualche lodevole tentativo di frenare questa tendenza, inevitabilmente si giunse al punto in cui la religione dell'esercizio atletico perse i suoi fedeli e si trovò ad avere solo dei clienti".

A parere di de Coubertin quanto andò perduto con l'eclisse dell'Olimpismo, ufficialmente decretata dall'imperatore Teodosio nel 393, non poté esser recuperato con altre civiltà, come mostrano le esperienze profondamente diverse di Roma e di Bisanzio, nonché del Medio Evo in generale. Il barone giudicava severamente anche alcuni epigoni del pensiero francese, osservando per esempio che Jean-Jacques Rousseau raccomandava una cultura fisica rimasta senza eco in quanto "non riposava affatto su principi sportivi". Più favorevole fu il suo giudizio sui patriarchi della ginnastica moderna, dallo svedese Pehr Henrik Ling, al tedesco Friedrich Ludwig Jahn. È evidente però che la spinta principale verso il sogno della sua vita ‒ la rinascita dell'Olimpismo ‒ gli venne soprattutto dagli insegnamenti dell'inglese Arnold, di cui abbiamo già detto. Fu a essi che si richiamò il Comité pour la propagation des exercises physiques, sorto a Parigi nel 1888.

Malgrado le sue origini aristocratiche, Pierre de Coubertin guardava allo sport come a una potente leva verso la democrazia. Diceva al riguardo: "Lo sport dell'antichità teneva lontani dalle sue arene gli schiavi. Bisogna fare in modo che quello dei tempi moderni non segua la stessa regola nei confronti dei meno abbienti". A suo parere i principali agenti della democratizzazione nello sport moderno erano il gusto dello sport all'aria aperta, lontano dalle enclaves più esclusive e costose, la semplicità dell'equipaggiamento individuale, il calcio "gioco magnifico che ha propiziato non solo lo sviluppo muscolare ma anche quello sociale". A quest'ultimo proposito ricordava come già nel 1906 il club Slavia di Praga fosse stato capace di mettere in campo ben 7 squadre. Citava anche il corpo dei Boy Scouts, che in Inghilterra era stato preceduto dall'istituzione dei campi scuola a favore dei ragazzi delle famiglie più povere, nonché un'istituzione di origine americana, una specie di Kindergarten dell'atletica che all'inizio del 20° secolo ebbe diramazioni importanti anche nell'Estremo Oriente. Tutti questi fenomeni, secondo de Coubertin, contribuirono a passare dall'interesse sportivo dell'individuo come entità isolata a quello di gruppo. La necessità di ricorrere a determinate regole facilitava, a suo dire, lo sviluppo dell'autodisciplina nella mentalità dei giovani. D'altra parte de Coubertin era tormentato da un timore ricorrente, cioè che la civiltà sempre più in fermento del suo tempo potesse spingere gli adepti dello sport e i loro agenti verso forme di frenesia capaci di allontanarlo da quella saggezza da 'Impero del mattino calmo' che lui aveva sempre vagheggiato per la sua creatura. A distanza di circa settant'anni dal giorno in cui egli affidò alle stampe questi pensieri, non si può certo dire che si trattasse di timori infondati.

Il rinnovatore dell'Olimpismo moderno indugiò anche nello studio di quella che chiamava la 'tecnica degli esercizi sportivi', dando prova di avere cognizioni generali assai avanzate rispetto alla sua epoca su tutti gli sport che facevano parte del programma dei Giochi, estivi e invernali. Intravedeva tre fasi o aspetti nella pratica di uno sport, così scandite: la ginnastica, capace di assuefare il corpo a determinati movimenti; la scienza, acquisita con il tempo e la pratica; l'arte, secondo il grado di perfezione raggiunto. Non c'è dubbio però che la materia di studio da lui preferita era quella attinente all''azione morale e sociale dell'esercizio sportivo'. Sempre in Pédagogie sportive introduceva l'argomento con queste considerazioni: "In generale i risultati sportivi sono espressi con un linguaggio matematico e realistico, cioè da cifre e fatti… Questi sono di volta in volta il prodotto di possibilità muscolari, determinate dagli sforzi e dalla volontà dell'individuo. Questi ha in sé i suoi limiti ‒ ma non sa quali sono, si tratti di tempi o di distanze. In molti casi avrà bisogno non solo di muscoli e di volontà ma anche di sangue freddo, colpo d'occhio, osservazione e riflessione. È così che lo sport può propiziare la nascita di qualità intellettuali e morali". De Coubertin non era così ingenuo o dogmatico da credere che lo sportivo avesse necessariamente più intelligenza di un non sportivo, tuttavia osservava: "che la capacità di giudizio e riflessione può trarre beneficio dal fatto di doversi estrinsecare in breve tempo, cioè rapidamente, come avviene in molti sport". Affiora nel suo pensiero anche una considerazione tutta particolare: "Lo sport porta di preferenza ad un certo realismo e contraddice in questo quella tendenza all'iperbole che è difetto frequente dei giovani appartenenti alle razze meridionali. Impone spesso il silenzio e predispone alla concentrazione mentale; in determinati casi può perfino dare allo spirito un'inclinazione verso certe dottrine filosofiche ‒ in principio stoiche ma anche fatalistiche ‒ sebbene nello sport il fatalismo, per rimanere coerente con l'azione, non debba mai precludere la speranza". Come sempre, però, de Coubertin scopriva anche qui la possibilità che si manifestassero tendenze negative, come quella che un certo tipo di argot sportivo degenerasse nella volgarità.

È comunque certo che pochissimi dirigenti dello sport, sia pure fra quelli più ancorati nel mondo della cultura, hanno studiato altrettanto a fondo in quanti e quali modi la pratica sportiva può influire sul temperamento, il carattere e la coscienza di un individuo. Per primo de Coubertin disse che lo sport può intervenire in varie forme, la cui importanza varia con l'età dei soggetti. Lo sport può essere molto utile ai giovani impedendo loro un certo 'vagabondaggio dell'immaginazione' e tenendoli lontani da un'esistenza troppo sedentaria. Per quanto riguarda gli adulti, essi "hanno bisogno di tener sempre viva la fiaccola della voluttà e questa, contrariamente a quanto si può credere, non s'identifica con il semplice benessere, ma piuttosto con un intenso piacere fisico". A suo dire il pregio più grande dello sport è quello di aiutare chi lo pratica a non indulgere troppo alla collera, "uno stato d'animo che nella vita può scaturire da infinite cause: ingiustizie, sfortuna, malintesi, istinti frustrati, sentimenti non ricambiati, occasioni mancate… Al momento attuale lo stato di collera è il male più diffuso nel mondo: minaccia il foyer familiare e le istituzioni sociali, compromette il riposo dell'individuo e la pace pubblica. A questo riguardo io credo che lo sport possa rivelarsi il calmante [apaiseur] più efficace. Un uomo esasperato può calmarsi rompendo una sedia, ma con la rovina di questo oggetto macchia anche la sua dignità. Attraverso un esercizio fisico intensivo otterrà lo stesso risultato, ma niente andrà distrutto. Al contrario otterrà di produrre e immagazzinare una forza preziosa". Citava il caso di Theodore Roosevelt, che all'inizio della sua carriera politica (divenne il 26° presidente degli Stati Uniti), "avendo sotto la sua giurisdizione la polizia di New York, pensò di aprire diverse sale di pugilato, con accesso gratuito, nei quartieri più malfamati della città. Questa misura portò a una diminuzione immediata e considerevole delle risse, spesso sanguinose, di cui la città era stata a lungo teatro".

Su un piano più spirituale, de Coubertin pensava anche alle ripercussioni che lo sport può avere, nel senso di allontanare l'individuo dalla menzogna e dalla sfiducia. Lo sportivo deve accettare il verdetto della competizione, non può eluderlo con considerazioni più o meno menzognere. Le cifre del risultato sono là a insegnargli il culto della verità. Finché la gara dura potrà altresì imparare a non scoraggiarsi e la disciplina impostagli in quei momenti può insegnargli anche la virtù dell'autocontrollo. Per quanto poi riguarda gli sport di squadra, de Coubertin discerne in essi una qualità d'indubbio valore sociale, quella di promuovere la collaborazione fra individui diversi per il raggiungimento di uno scopo comune. In relazione a ciò sostiene che la disciplina sportiva può avere riflessi importanti nella vita militare, com'era d'altronde accaduto in passato in tanti luoghi e situazioni.

Un altro lato importante della personalità di de Coubertin era evidenziato da una costante preoccupazione per i problemi sociali. Nobile e abbiente per nascita, bacchettò in più occasioni quelli che considerava i circoli più conservatori della società contemporanea. Al riguardo avanzò anche proposte ardite, dicendo fra l'altro che: "la limitazione legale delle fortune private, che pure sembra la sola maniera capace di combattere quella lebbra plutocratica che infesta le assemblee degli Stati europei, non basterebbe da sola ad assicurare un avvenire di pace sociale, perché nella vita umana non tutto dipende dalle legislazioni, ma più ancora dai costumi. A questo riguardo bisognerebbe superare quel pregiudizio millenario che pone il lavoro manuale in una situazione di costante umiliazione rispetto all'intelligenza e alla cultura. Al di là di ogni dissertazione sull'argomento, è evidente che questo pregiudizio, ereditato dalla storia, trova la sua raison d'être solo nell'interesse materiale di coloro che lo invocano. A mio avviso è privo di qualsiasi significato scientifico… I muscoli e il cervello, lungi dall'essere elementi antitetici, possono equilibrarsi con un esercizio alternativo".

Alla visione complessa e bene articolata che de Coubertin aveva del fenomeno sport non poteva rimanere estraneo il rapporto che esso può avere con l'arte: a suo giudizio lo sport è "produttore d'arte nonché occasione d'arte. Produce la bellezza perché l'atleta in azione è una bellissima scultura vivente. Ed è occasione di bellezza anche attraverso gli edifici che gli vengono riservati e gli spettacoli e le feste a cui dà luogo".

Naturalmente il barone non era insensibile alle accuse che già negli ultimi anni della sua vita circolavano nei confronti dello sport, tacciato di provocare surmenage fisico, contribuire alla decadenza dell'intelletto e diffondere uno spirito mercantile e un eccessivo amore per il denaro. De Coubertin non negava che questi fenomeni in una certa misura esistessero, ma aggiungeva: "la colpa di questi mali, quando si verificano, non è dello sport di per sé bensì dei genitori, degli allenatori, dei pubblici poteri e in certi casi dei dirigenti, delle federazioni e della stampa che contribuiscono a esasperarne la natura". In Mémoires olympiques riporta il testo della 'Carta della riforma sportiva', nella quale indicava quelle che a suo avviso potevano essere le mesures de salut per rimediare ai mali dello sport. La Carta, resa pubblica il 13 settembre 1930 in un'aula dell'Università di Ginevra e subito tradotta in diverse lingue, prevedeva: a) la distinzione netta fra cultura fisica ed educazione sportiva da un lato, fra educazione sportiva e competizione da un altro; b) la creazione di un 'baccalaureato del muscolo' secondo la formula svedese, con prove di difficoltà variabile secondo l'età e il sesso; c) l'istituzione di campionati internazionali a scadenze biennali, da disputare nel primo e nel terzo anno di ogni Olimpiade; d) la soppressione di tutti i campionati organizzati in occasione di esposizioni e festività pubbliche, di tutti i giochi mondiali che potessero costituire dei 'doppioni' dei Giochi Olimpici e che avessero carattere etnico, politico o confessionale, e dei combattimenti di pugilato dotati di 'borse'; e) l'introduzione di esercizi agli attrezzi in sport individuali, su un piede di perfetta eguaglianza; f) l'unione fra società dette di 'ginnastica' e società dette 'sportive'; g) il riconoscimento della diversità fra professore e professionista, il primo da considerare come dilettante in tutti gli sport al di fuori della materia di suo insegnamento; h) il ricorso a una dichiarazione individuale da farsi per iscritto citando le diverse fonti dei profitti realizzabili; i) la soppressione dell'ammissione delle donne alle gare aperte agli uomini; l) la rinuncia da parte delle municipalità a costruire stadi enormi, preferendo a questi degli edifici concepiti secondo un piano modernizzato dell'antico 'ginnasio' ellenico; m) l'interdizione agli spettatori di gare disputate da giovani sotto i 16 anni; n) la creazione di associazioni sportive scolastiche sotto i colori delle quali ammettere alle gare gli scolari e i collegiali; o) l'elevazione dell'età di ammissione al corpo dei Boy Scouts; p) lo sviluppo di una medicina sportiva basata sullo 'stato di salute' anziché sullo 'stato morboso', riservando una parte più grande all'esame delle caratteristiche psichiche dell'individuo; q) l'incoraggiamento, con tutti i mezzi possibili, dell'esercizio sportivo riservato agli adulti ben più che a quello degli adolescenti, verso i quali sembrava auspicabile una promozione più cauta; r) l'intellettualizzazione dello scoutismo, mediante lezioni di storia, geografia e astronomia, e della stampa sportiva, mediante l'introduzione di cronache riservate alla politica estera e agli avvenimenti mondiali.

In margine a queste possibili 'cure' de Coubertin osservava: "Come si può vedere, in questa Carta non proponiamo alcuna sostanziale riforma che riguardi i Giochi Olimpici. La nostra preoccupazione è piuttosto quella di ripulire il terreno che li circonda per metterli ancor più in rilievo, isolarli e ingrandirli. Le misure suggerite tendono a frenare certi abusi e certi eccessi. Anche se sappiamo che l'idea di sopprimere tout-court gli eccessi è un'utopia che solo i non sportivi possono coltivare. Se vogliamo che cento persone si diano alla cultura fisica, occorre che almeno cinquanta di esse pratichino un qualsiasi sport. Se vogliamo che cinquanta facciano dello sport, è inevitabile che venti di loro si specializzino. Affinché venti divengano specialisti è inevitabile che cinque si mostrino capaci di risultati sorprendenti. È impossibile sottrarsi a questa logica. È così che il record si trova al culmine dell'edificio sportivo, come quell''assioma eterno' di cui parlava Taine a proposito della legge di Newton. Non sperate di abbatterlo senza distruggere tutto. Rassegnatevi, voi adepti di quell'utopia contro natura che si chiama moderazione, a lasciarci mettere in pratica la divisa data da padre Didon ai suoi allevi, poi divenuta quella dell'Olimpismo: 'Citius, Altius, Fortius'".

Queste considerazioni risalgono a più di settanta anni fa. Tenendo conto di quanto sono cambiati, nel frattempo, lo scenario e la sostanza del fenomeno sport, può essere facile considerare superati questo o quel suggerimento, ma non c'è dubbio che alcuni punti sono tali da richiamare tuttora l'attenzione. Fra questi non può essere compreso il tema della partecipazione della donna allo sport, a proposito del quale de Coubertin non fu certo un progressista. Sembra lecito dedurre che fosse anche in questo fedele alla mentalità degli antichi greci, presso i quali i Giochi Olimpici per i due sessi si tenevano in periodi e sedi ben distinti fra loro.

In definitiva de Coubertin guardò sempre allo sport come a un grande ideale di vita. Nel libro menzionato conclude esprimendo il desiderio che "gli educatori della gioventù riescano a penetrarne l'essenza. Vi troveranno una solida leva verso il benessere della stessa, in modo da renderla ‒ secondo la formula usata nella cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici ‒ sempre più ardente, più coraggiosa e più pura".

Naturalmente occorre guardarsi dalla tendenza di attribuire al solo de Coubertin tutto il merito di aver riportato in vita un'istituzione importante come i Giochi Olimpici, che pur con il mutare dei tempi sono rimasti a tutt'oggi la manifestazione faro dello sport moderno. Come in ogni scoperta, o riscoperta, dei grandi eventi umani, anche il barone dovette ispirarsi a quanti prima di lui avevano accarezzato la stessa idea, che aveva iniziato a circolare in varie parti d'Europa già nei primi decenni del 19° secolo. Di manifestazioni più o meno sportive accompagnate dall'etichetta Olympic ce n'erano state per esempio in Inghilterra fin dal 1850, per iniziativa di un uomo di legge, William Penny Brookes, e ancor prima, nel 1830, il poeta greco Panayotis Soutas aveva scritto un poema ispirato al sogno della rinascita dei Giochi. Senza naturalmente dimenticare le gare olimpiche, sia pure solo nazionali, promosse ad Atene fin dal 1859 da Zappas, né sottovalutare l'influenza che ebbero sul pensiero di de Coubertin personaggi come Arnold e i suoi amici Herbert e Sloane o quanti, specialmente in Francia, Grecia e Germania, lo aiutarono nel varo del suo progetto. Ma è evidente che fu grazie alla sua perseveranza nel perseguire quel 'sogno' che si arrivò ai Giochi del 1896: su questo, storicamente, non possono esistere dubbi. Inoltre fu in virtù del suo equilibrato lavoro di mediazione che il CIO poté superare tanti ostacoli nel primo quarto di secolo della sua vita. De Coubertin dette prova di saper collegare i sogni con le necessità imposte dai suoi tempi. Sul famoso tema del dilettantismo, come abbiamo visto, non era quel teorico immacolato e un po' avulso dalla realtà che una diffusa agiografia ha fatto credere. Ma era altresì convinto che si dovessero evitare in ogni modo gli eccessi del professionismo, da lui deprecati fin dal 1925 nel suo discorso di addio ai membri del CIO.

De Coubertin ambiva a migliorare l'uomo e l'ambiente sociale in cui viveva attraverso lo sport, che vide sempre e solo in questa ottica. L'ultimo suo appello porta la data del 1936, alla vigilia dei Giochi Olimpici di Berlino e a meno di un anno dalla sua morte. Era un momento in cui già si addensavano sull'Europa e sul resto del mondo pesantissime nubi, sfociate poi nel Secondo conflitto mondiale, che avrebbe avuto fra le sue colpe ‒ sia pure minori ‒, quella di privare la gioventù sportiva di due edizioni dei Giochi Olimpici (1940 e 1944). Non mancano in quell'appello accenti di soddisfazione, ai quali se ne accompagnano però altri di preoccupata riflessione: "Viviamo ore solenni nelle quali si snodano intorno a noi spettacoli inattesi... Ho la coscienza di avere adempiuto alla mia missione, ma non del tutto. Occorre che lo spirito si liberi da quei legami che gli sono imposti da certe specializzazioni esasperate e che si sottragga all'opprimente strettezza della professionalità esclusiva. L'ideale resta a mio avviso quello di sigillare definitivamente l'unione dei muscoli e del pensiero a vantaggio del progresso e della dignità umana".

Estimatori e oppositori

Su un piano più strettamente personale, de Coubertin fu geloso della sua privacy, com'era del resto la regola per molti uomini eminenti della sua epoca. Si sa comunque che nel 1894 sposò Marie Rothan, dalla quale ebbe due figli, Jacques e Renée.

In Francia i suoi biografi più apprezzati furono André Senay e Robert Hervet (Monsieur de Coubertin, 1956) che misero particolarmente in luce la sua lungimiranza, citando per esempio quanto disse di lui Paul Perret, capo del Dipartimento dell'istruzione pubblica e dei culti: "Quanti ebbero il privilegio di conoscerlo non dimenticheranno facilmente questo francese di bella razza, rimasto sempre all'erta con il corpo e con la mente, tanto che il peso degli anni poté incidere solo minimamente sulla sua andatura di sportivo. Grande viaggiatore, aveva fatto il giro del mondo e degli uomini e sapeva che cosa era lecito attendersi da loro. Nella composizione del CIO, che si rinnovava per cooptazione, aveva scelto in tutti i paesi uomini per lo più appartenenti, come lui, alla più autentica aristocrazia. Pur con questo rimase sempre un sincero democratico, come prova del resto tutta la sua attività. Seppe muoversi con elasticità negli ambienti più diversi. Sapeva amare e apprezzare la gente semplice ed era un maestro nel suscitare l'entusiasmo dei giovani. Interamente consacrato alla grande causa da lui scelta, ne parlava con un fervore contenuto. Il suo eloquio, elegante e preciso, spogliato di ogni ornamento superfluo, andava diritto all'essenziale e a quello che si chiama il nocciolo della questione. In lui tutto si muoveva secondo equilibrio, saggezza, eleganza e misura. Ma sotto il suo sorriso, la sua semplicità e il suo charme s'intravedeva sempre una straordinaria forza di volontà".

Lungo il suo cammino Pierre de Coubertin incontrò molti ostacoli, dovette talvolta mediare con i suoi stessi amici e combattere con i suoi nemici. Ecco quanto dicono Senay e Hervet a proposito di questi ultimi: "La nube più inquietante per il suo amor proprio si elevò proprio nel cielo nazionale, nel 1910, quando al Quai d'Orsay sembrò prender corpo la decisione che il governo francese dovesse per parte sua rifiutarsi di riconoscere i Giochi Olimpici" (a quel momento già in vita da 14 anni). Per fortuna quest'idea, che oggi può sembrare quasi assurda, non ebbe poi alcun seguito. Questa e altre nubi si dissiparono nel corso degli anni, lasciando però ancora a lungo l'impressione che de Coubertin fosse stato conosciuto e apprezzato altrove, prima che nel suo paese natale.

Già nel 1938 in un giardino pubblico di Baden-Baden, in Germania, fu eretta una stele sormontata da un busto del rinnovatore dei Giochi Olimpici. E nel 1940 la Repubblica, peraltro francofona, di Haiti emise un francobollo con la sua effigie. Da allora de Coubertin ha avuto, qua e là per il mondo, molti riconoscimenti postumi. Come già detto, il suo cuore è conservato a Olimpia, mentre la tomba con i suoi resti, situata nel Bois de Vaux a Losanna, attira tuttora l'attenzione dei visitatori.

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