Tempo

Universo del Corpo (2000)

Tempo

Giovanni Bruno Vicario
Paolo Casini

Il termine tempo (dal latino tempus, voce d'incerta origine), indica l'intuizione e la rappresentazione della modalità secondo cui i singoli eventi si susseguono e sono in rapporto l'uno con l'altro (per cui essi avvengono prima, dopo o durante altri eventi). Tale intuizione fondamentale è condizionata da fattori ambientali (i cicli biologici, il succedersi del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni ecc.) e psicologici (i vari stati della coscienza e della percezione, la memoria) ed è diversificata storicamente da cultura a cultura.

La percezione del tempo

di Giovanni Bruno Vicario


Per quanto riguarda l'uomo, il termine tempo si riferisce a un certo numero di esperienze soggettive che sono materia di studio della psicologia. Si tratta di contenuti mentali a volte semplici, a volte complessi, le cui relazioni non sono facilmente determinabili. Il problema è costituito dal fatto che quelle esperienze sono designate con termini (istantaneità, simultaneità, successione, durata ecc.) identici a quelli in uso nelle scienze fisiche e biologiche. In quest'ultime le relazioni fra i termini sono chiare ed è pertanto difficile resistere alla tentazione di trasferire le relazioni esistenti tra i vari aspetti del tempo fisico e biologico al tempo psicologico. Come si vedrà, l'operazione conduce a paradossi insostenibili, onde è preferibile trattare l'argomento cominciando con un elenco dei fatti accertati, ed esponendo successivamente le teorie proposte a spiegazione dei fatti medesimi.

l. Fatti

a) Istantaneità. L'istantaneità psicologica, cioè percepita, è caratteristica di eventi puntuali, dei quali non si riesce a distinguere l'inizio dalla fine (un lampo di luce, il rumore prodotto da una goccia che cade). L'istantaneità percepita corrisponde tuttavia anche a stimolazioni che non sono affatto puntuali, perché al di sotto di una durata fisica di circa 100 ms, qualsiasi presentazione appare istantanea, tanto in campo visivo che uditivo. Di più, l'improvvisa apparizione nel campo visivo di un oggetto, seguita da immediata sparizione, viene accompagnata dall'impressione che l'oggetto dapprima si espanda e poi si contragga (movimento gamma: per es., l'illuminazione prodotta da un flash). Il problema è come l'impressione di istantaneità possa andare d'accordo con l'evidenza di un'evoluzione (espansione/contrazione), che come tale deve occupare un certo tempo.

b) Durata. È la caratteristica di eventi estesi nel tempo, siano essi del mondo esterno oppure del mondo interiore, omogenei o variamente articolati. Se questi eventi sono relativamente brevi (fino a 1 s circa) la durata è percepita, se sono più lunghi essa viene stimata. Nella percezione di durate esiste una corrispondenza tra lunghezza di un evento fisico e lunghezza di un evento percepito, nel senso che la discriminazione è abbastanza fine. Nella stima di durate, invece, i fattori che intervengono sono così numerosi e variamente interagenti da non permettere una soddisfacente sistemazione dei dati emersi dalla ricerca sperimentale. Per es., l'ammontare della durata trascorsa dipende dall'attenzione, dal numero di eventi in essa percepibili, dalle condizioni di osservazione, dai metodi impiegati per studiarla. È osservazione comune che il tempo della noia è lungo e quello del divertimento breve, che gli eventi attesi giungono 'tardi' e quelli temuti 'troppo presto', che l'isolamento induce macroscopiche sottovalutazioni, che i compiti ripetitivi non finiscono mai, mentre quelli variati giungono presto al termine. La percezione e la valutazione della durata sono attualmente spiegate con l'esistenza, nel sistema nervoso centrale, di una sorta di orologio biologico, cioè di un 'contatore' di impulsi neurali ciclici. Tale ipotesi, che si ritiene verificata per comportamenti o per contenuti mentali elementari, deve tuttavia misurarsi con un'enorme quantità di fattori che sembrano modulare pesantemente l'operato di tale contatore.

c) Fluire. È la caratteristica distintiva del tempo, e tutte le metafore che lo riguardano (per es., tempus fugit) impiegano termini che denotano movimento. La genesi di questa impressione è ignota: potrebbe dipendere dal contrasto tra il ritmo di successione dei cambiamenti interni all'Io e il ritmo di successione dei cambiamenti esterni all'Io. Si dà anche l'impressione che il tempo fluisca a diverse velocità: come si diceva, il tempo della noia è lento e quello del divertimento rapido. L'impressione è tuttavia paradossale, perché non si riesce a immaginare un tempo superordinato sull'asse del quale si possa misurare la velocità di quello ordinario. Esiste poi un dimorfismo nella metafora del fluire del tempo: secondo alcuni esso sarebbe generato da una 'finestra viaggiante' su un ambiente sostanzialmente immoto e immutabile, secondo altri la finestra, cioè l'osservatore, sarebbe ferma, e al di fuori di essa si vedrebbe lo scorrere degli eventi. Il fluire del tempo è contraddistinto dall'inarrestabilità: al soggetto in stato di veglia è impossibile sospendere il succedersi degli istanti.

d) Continuità. È la proprietà del tempo psicologico che permette di compiere discriminazioni come stabilità, mutamento, contemporaneità, successione. Per quanto riguarda le esperienze di stabilità e di mutamento, si è ancora fermi alle indagini di W.L. Stern sulla percettibilità del mutamento e alle analisi fenomenologiche di A. Michotte (Vicario-Zambianchi 1998) sulle diverse forme assunte dal mutamento (permanenza di anteriorità, di posteriorità, di continuità). Per quanto riguarda la contemporaneità e la successione, giova dire che le ricerche in argomento sono tra le più antiche che si abbiano in psicologia, essendo iniziate ai primi dell'Ottocento in sede di osservazioni astronomiche. Studi sempre più approfonditi sulla capacità dei soggetti sperimentali di discriminare le relazioni temporali tra eventi puntuali hanno portato alla seguente conclusione: soltanto quando gli eventi sono della stessa natura, e quando sono disposti in un qualche ordine, le relazioni di prima/dopo percepite trovano riscontro nelle relazioni tra gli stimoli corrispondenti. Suoni e rumori simultanei vengono percepiti come successivi, o viceversa. Brevissime note musicali disposte in scala vengono udite tutte, e tutte al loro posto; le stesse note prodotte alla stessa velocità, ma in disordine, non permettono di percepire chiari rapporti di prima/dopo tra di esse, e molte volte non vengono nemmeno udite tutte.

e) Irreversibilità. L'irreversibilità del tempo ha due significati. Per il primo, essa è la caratteristica secondo la quale gli eventi non possono essere ripercorsi dalla fine all'inizio. Questa formulazione opera un'ingiustificata identificazione del tempo con gli eventi: poiché noi siamo perfettamente in grado di vedere un film dall'ultima alla prima scena, o di udire una melodia dall'ultima nota alla prima, non ci accorgiamo che le versioni 'retrograde' non sono inversioni di quella 'diretta', ma semplicemente altri eventi che noi osserviamo in un tempo che corre sempre in avanti. Per il secondo significato, l'irreversibilità postula l'impossibilità di rivivere una seconda volta, in tutti i dettagli, esperienze pregresse. Tale formulazione confonde una pretesa impossibilità materiale con un'impossibilità di carattere logico: il rivivere una determinata esperienza in tutti i dettagli è una percezione di identità tra due eventi che deve essere contenuta anche nell'esperienza originaria. L'irreversibilità del tempo viene di solito accomunata all'inarrestabile aumento di entropia (passaggio dall'ordine al disordine) che si verifica in un sistema chiuso, e di questo aumento sarebbe in sostanza il riflesso. C'è da osservare che gli esseri viventi sono al contrario isole di 'entropia negativa', poiché dalla nascita alla morte creano ordine infliggendo un più rapido aumento di entropia positiva nell'ambiente circostante: il senso del tempo sarebbe, di conseguenza, da ascriversi all'aumento dell'ordine, e non del disordine.

f) Tempo e coscienza. Esiste un legame indissolubile tra tempo e coscienza: il tempo cessa di esistere non appena ci si addormenta, e riprende a fluire non appena ci si risveglia. Non c'è poi percezione di alcunché se non nel flusso del tempo: tutto avviene come se i meccanismi che assicurano la percezione del Sé e dell'ambiente fossero gli stessi che producono la dimensione del tempo. Ciò appare anche nei legami che esistono tra l'attenzione e la percezione: oggetti ed eventi ai quali non si presta attenzione semplicemente non esistono.

g) Il presente psichico. Il presente psichico, o fenomenico, o specioso, detto anche tempo di presenza, è il tempo fisico in cui gli stimoli appartenenti a una sequenza danno origine a una successione di eventi fenomenicamente compresenti. L'esempio classico è quello della melodia, che viene percepita come una successione di note in cui, arrivati alle ultime, si odono ancora, 'in qualche modo', le prime. Siccome la melodia nasce dai rapporti tra le note, noi non potremmo udirla se il presente fosse puntuale, o limitato alla durata di una singola nota. L'ampiezza del presente psichico varia notevolmente, a seconda dei contenuti percettivi e dello stato attentivo del soggetto. Il presente psichico è una grandezza fisica, dato che la sua ampiezza è espressa in termini di millisecondi. Di tutt'altra natura è invece l''ora', cioè questo presente psichico, quello che si sta vivendo, il quale ha una connotazione affettiva (come un colore o un'emozione). Di più, esiste un solo 'ora', i cui contenuti cambiano in continuazione, mentre in memoria esistono parecchi presenti psichici generati dalle successive incarnazioni dell''ora'.

h) Il tempo della memoria. È la rappresentazione del passato. Solitamente è sufficientemente corretta, nel senso che permette un comportamento adattativo: la rievocazione delle proprie esperienze pregresse consente di valutare le situazioni passate, presenti e future, in modo da evitare errori nell'agire concreto e risparmiare tempo ed energia nell'esecuzione dei comportamenti. Di tanto in tanto il passato è rievocato in maniera imprecisa, cosicché l'ordine temporale in cui sono collocati i ricordi non è quello dei fatti realmente accaduti; errori di questo tipo sono attribuiti a diverse patologie (traumi, carenze biologiche, droghe), a fattori motivazionali (maggiore o minore importanza attribuita ai ricordi medesimi) o a meccanismi di difesa (rimozione di ricordi sgradevoli o minacciosi). L'impossibilità di rievocare il proprio passato (amnesia) ha un effetto catastrofico sulla stabilità dell'Io, amputato della sua parte, per così dire, sommersa: si manifestano esperienze angosciose, come quella di non essere mai esistiti prima, o quella di essere impotenti ad affrontare il succedersi degli eventi imminenti (disorientamento).

i) Il passato. Il carattere di passato inerisce a certi contenuti mentali in modo non diverso da aspetti sensoriali (colore, forma ecc.) e da connotazioni 'terziarie' (favorevole/sfavorevole, gioioso/lugubre ecc.). La discussione su questo punto sembra essersi arenata ai primi del Novecento: secondo F. Brentano ed E. Husserl, un processo automatico (proterestesi) provvederebbe a marcare i contenuti mentali mano a mano che escono dalla coscienza del presente e sprofondano nella memoria; secondo V. Benussi, il carattere di passato non deriva da una marcatura estrinseca dei contenuti mentali (una specie di timbro datario interno), ma dalla relazione intrinseca (Gestalt) che si viene costituendo tra i contenuti appena vissuti e quelli che popolano il presente fenomenico. Alternativa è la visione cognitivistica, secondo cui il carattere di passato emergerebbe dalla posizione che possiedono le tracce mnestiche nel magazzino della memoria: il recupero di ricordi situati sempre più in basso, in una catasta ordinata, porterebbe con sé il segno del luogo dal quale sono stati estratti, sotto forma di maggior distanza dal presente. Nel caso del carattere di passato, tuttavia, il problema non è quello dell'identificazione del meccanismo che assicura un'ordinata collocazione dei ricordi, ma quello di capire come l'operare di un simile meccanismo sia compatibile con la specifica 'colorazione' temporale assunta dai ricordi.

l) Prospettiva temporale. Si dà questo nome alla rappresentazione del futuro, tanto del soggetto come dell'ambiente circostante. La sua 'profondità' dipende da molti fattori, tra i quali importanti sono l'età e la personalità del soggetto. Essa è popolata di scopi (per es., la fine degli studi, l'assunzione di un lavoro, l'acquisto della casa, il matrimonio, i figli ecc.), nonché di eventi inevitabili, quali le malattie, la guerra, la morte. La prospettiva è di regola commisurata all'età del soggetto: lunga o indefinita per il giovane, breve per il vecchio. Ma risente anche della personalità dell'individuo: certi giovani non hanno rappresentazione nemmeno del futuro immediato (vivono alla giornata), e certi vecchi hanno una prospettiva lunghissima, che va al di là della propria morte fisica, coinvolgendo i familiari o le attività intraprese (quanto più minuziose sono le disposizioni testamentarie, e destinate a durare, tanto più profonda è la prospettiva temporale del soggetto testatore). Fattori sociali influiscono in modo peculiare sulla prospettiva temporale: di norma, chi ha un grado di cultura superiore, o appartiene a un ceto sociale alto, ha prospettive temporali più protese e articolate. Occupazioni di basso livello, ristrettezze economiche, precarietà del quadro sociale accorciano e immiseriscono la prospettiva temporale. Esistono test che permettono di obiettivare e di misurare la prospettiva temporale di un soggetto. È denominata 'pressione temporale' l'azione esercitata dai compiti o dalle minacce a breve scadenza, quando il tempo per eseguire i primi o per annullare le seconde viene stimato come troppo breve.

m) Il tempo dei sogni. È un tempo che si caratterizza per lo sconvolgimento dei nessi causali tra gli eventi in esso rappresentati: nel sogno sono liberamente mescolate tracce di eventi pregressi senza alcun rispetto per la loro effettiva cronologia. Ma il fenomeno più notevole è costituito dalla scissione del tempo degli eventi che si svolgono nel sogno dal tempo dell'orologio. Tipico il caso delle persone che vengono ridestate dalla suoneria della sveglia: non di rado il pieno possesso della coscienza è preceduto da sogni a volte lunghi ed elaborati, comprendenti vicende il cui tempo proprio è di ore, e magari di giorni. Queste vicende terminano con la rappresentazione di rumori che alludono alla suoneria della sveglia. Siccome il sogno, stando a S. Freud, ha il compito primario di proteggere il sonno, queste vicende hanno il ruolo di guidare la persona al risveglio senza eccessivi traumi. Il problema di tali casi è costituito dal fatto che quelle ore o giorni sono manifestamente 'compressi' nel lasso dei pochissimi minuti secondi che intercorrono tra l'inizio della suoneria e la presa di coscienza, e non si ha idea di come ciò possa avvenire.

n) Il tempo nella malattia mentale. È opinione diffusa tra gli psichiatri e gli psicanalisti che le psicosi deteriorino irreparabilmente il senso del tempo, come conseguenza della dissoluzione della personalità (in ciò confermando la natura temporale dell'Io). Non esiste tuttavia una chiara relazione tra le caratteristiche del tempo vissuto e patologie definite. Si parla, per es., di 'rallentamento del tempo' nella schizofrenia (v.), alludendo all'impressione che questi malati hanno che i propri pensieri scorrano a inusitata velocità. Ma la depressione (v.), che rende faticosi e lenti a svolgersi i pensieri (ed è accompagnata da un notevole accorciamento della prospettiva temporale, per l'affievolirsi o il cessare delle motivazioni), si accompagna egualmente all'impressione che il tempo scorra troppo lentamente. In definitiva, se si considerano le anomalie riscontrate (disorientamenti nel collocare sé stessi e gli eventi nel flusso del tempo sociale, idee deliranti riguardanti le connessioni tra eventi o la stessa durata della propria esistenza) e l'assenza di anomalie per quanto riguarda l'adattamento del comportamento (gli psicotici governano benissimo i propri atti, commisurandoli efficacemente con i cambiamenti che avvengono nell'ambiente), non sembra impropria la conclusione che la malattia mentale colpisce la rappresentazione cosciente del tempo, piuttosto che la sua esperienza concreta.

o) Il tempo e l'età. È esperienza comune che il tempo dell'esistenza sembra passare lentamente fino alla tarda giovinezza, e quindi subire un'accelerazione sempre più grande nella maturità e nella vecchiaia. Anche in questo caso non si può parlare di modi diversi di vivere il tempo che siano propri dell'uomo adulto e dell'anziano (l'adattamento al mutare degli eventi nell'ambiente si deteriora soltanto in pochi casi limite), ma di una rappresentazione del passato che fa ricorso a contenuti di memoria sempre più radi e privi di importanti significati. Tranne ben definite eccezioni (riconducibili all'apprendimento latente), la memoria conserva soltanto i contenuti dell'esperienza che sono stati vissuti in maniera consapevole, cioè avendo per guide l'attenzione e la motivazione. Il tempo del giovane è 'lungo' probabilmente perché il mondo viene osservato con continua curiosità, e i ricordi sono numerosi e dettagliati. Diminuendo invece nell'uomo adulto l'attenzione verso le peculiarità dei fatti che lo circondano (l'esigenza di fornire risposte pronte alle circostanze della vita rende stereotipati e intercambiabili i ricordi delle medesime), e cessando nell'uomo anziano e vecchio ogni motivazione alla comprensione del mondo circostante, i contenuti di memoria si riducono in numero e in chiarezza. È verosimile che qualsiasi funzione cognitiva deputata alla rappresentazione del tempo passato sulla base della quantità e della qualità dei contenuti mnestici, trovandosi a operare su materiale scarso e mediocre nello stesso modo in cui operava su materiale abbondante ed eccellente, fornisca rappresentazioni del tempo passato rimpicciolite o contratte.

p) Il tempo delle droghe. È noto che l'assunzione di droghe può causare anche vistose distorsioni del tempo vissuto, come rallentamento nel suo fluire, accorciamento o cancellazione della prospettiva temporale, generico disorientamento (impossibilità di collocare l''ora' nel tempo della memoria personale e nel tempo sociale). Ricerche sperimentali condotte su abituali consumatori di ogni genere di droghe (marijuana, cocaina, allucinogeni, oppiacei, alcol ecc.) non sono tuttavia riuscite a stabilire fondate correlazioni tra il tipo di droga e il tipo di disturbo temporale dimostrato: quest'ultimo sembra dipendente anche dalla dose assunta e dalla personalità del soggetto. Ricerche sperimentali eseguite su animali dimostrano soltanto un decremento nell'accuratezza dell'esecuzione di compiti in cui il tempo concesso per produrre determinati comportamenti risulta la variabile indipendente.

q) Il time gap. Il time gap (falla nel tempo) è l'esperienza di aver smarrito un tratto del proprio tempo personale: si tratta di un'esperienza abbastanza rara, ma del tutto normale. Mentre si è in viaggio in automobile, per es., può capitare di immergersi in importanti pensieri: non appena si torna alla realtà si scopre, con una certa sorpresa, di essere giunti a un punto del percorso in maniera improvvisa e di aver perso completamente il ricordo del tratto immediatamente precedente. In realtà non esiste alcuna falla nel tempo soggettivo: è semplicemente accaduto che l'attenzione prestata ai propri pensieri ha messo fra parentesi l'evoluzione delle percezioni dell'ambiente circostante; nel momento in cui si riprende a considerare quello che accade all'esterno, si rende manifesta una soluzione nella continuità di quell'evoluzione, che è per l'appunto il fatto che genera la sensazione del time gap.

r) Il déjà vu. Il fenomeno del déjà vu (v.) è la caratteristica di certi segmenti dell'esperienza quotidiana, fortunatamente non frequenti, di apparire come meccaniche e incoercibili ripetizioni di eventi già accaduti in passato. Poiché è lecito supporre che nessuna vicenda umana si ripeta in tutti i dettagli, si ammette che il déjà vu sia la conseguenza di false identificazioni dell'esperienza del momento. In tal senso, il déjà vu verrebbe accomunato ai 'falsi ricordi', perlopiù riferentisi all'infanzia, e spesso emergenti nelle sedute psicoanalitiche: malgrado la loro vivezza e l'incrollabile persuasione che si riferiscano a episodi realmente accaduti, risultano elementi di scenari senza fondamento nel passato del soggetto. Un'altra plausibile spiegazione del fenomeno si ha supponendo che i processi percettivi, invece di essere inviati in memoria, ritornino all'ingresso come altri processi percettivi: ciò renderebbe ragione, oltre che dell'identificazione, dell'incoercibilità del déjà vu, e del senso di smarrimento che l'accompagna. Un fenomeno simile si verifica inviando a un soggetto, negli auricolari, le parole che sta pronunciando, con un ritardo opportunamente calcolato (shadowing): il soggetto entra in crisi e smette di parlare.

s) La nozione di tempo. Lo sviluppo della nozione di tempo è stato oggetto di indagini da parte di J. Piaget (1946). Da esse appare che la nozione di tempo, come schema di riferimento universale per tutti gli eventi, è un'acquisizione piuttosto tardiva (a infanzia inoltrata): nei primi stadi di sviluppo del pensiero, il tempo è 'locale', nel senso che simultaneità, successione, durata, omogeneità del fluire ecc. sono giudicate soltanto all'interno di un medesimo evento, e non tra eventi che scorrono parallelamente. Giova osservare che ciò ha un riscontro anche sul piano storico: la simultaneità o la successione temporale di battaglie avvenute in luoghi lontani erano nell'antichità greca fonte di incertezze o di spiegazioni portentose.

2.

Teorie

Nella storia del pensiero si sono manifestate due tendenze nella soluzione dei problemi posti dalle esperienze di tempo. La prima affonda le sue radici in Pitagora (6°-5° secolo a.C.) e in Aristotele (4° secolo a.C.), è stata sviluppata da I. Newton e I. Kant ed è quella che troviamo sostanzialmente rispecchiata nel pensiero dei fisici antichi e moderni. Secondo tale opinione, il tempo è un fatto di natura, cui la mente più o meno si adegua. La seconda tendenza ha le sue radici in Plotino (3° secolo d.C.) e in Agostino (4°-5° secolo d.C.), ed è stata sviluppata principalmente da due filosofi e psicologi a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, Brentano e Husserl. In questa prospettiva, il tempo è un fatto che appartiene alla mente, e il tempo di cui parlano i fisici sarebbe un'idealizzazione di contenuti mentali. In altre parole, nella prima soluzione il divenire sarebbe 'reale', nella seconda 'illusorio'. Il punto di vista corrente, nella psicologia attuale, è che la coscienza del tempo sorga dal materiale adattamento dei processi fisiologici dell'organismo al divenire dell'ambiente fisico, tramite attività biologiche (per es. i ritmi circadiani) o neurali (onde cerebrali) di carattere ciclico. Nel sistema nervoso avrebbe sede una sorta di orologio biologico che fornirebbe le informazioni necessarie a un proficuo adattamento al mutare delle condizioni ambientali e alla generazione di tutte le esperienze temporali. In seguito, il diffondersi dell'informatica e della scienza dei calcolatori nella psicologia ha portato a un'impostazione cognitivistica dei problemi posti dalle esperienze temporali. Secondo quest'impostazione, il tempo psicologico sarebbe una copia imperfetta del tempo fisico (l'unico a essere 'reale'), e le discrepanze tra l'uno e l'altro troverebbero spiegazione nei modi in cui il sistema nervoso centrale acquisisce, elabora, immagazzina e gestisce l'informazione (ottenuta dagli organi di senso) sul mondo circostante. Teorie del tempo psicologico eccentriche rispetto a quella comunemente accettata sono sviluppate, per es., da E. Minkowski (1933), il quale vede nelle intuizioni primarie di eguaglianza e di diversità, di continuità e di reiterazione le radici dell'esperienza di tempo, e da E. Jaques (1982), il quale propone una teoria bimodale del tempo psicologico, contrapponendo il tempo della successione, chrònos, al tempo dell'intenzione, kairòs.

Esiste una International society for the study of time (fondata da J.T. Fraser nel 1966) nel cui seno si confrontano opinioni e ricerche di studiosi di discipline scientifiche, letterarie e artistiche, le quali abbiano per oggetto comune il tempo. L'idea emergente, dopo più di trent'anni di discussioni, è che il termine tempo venga usato in maniera indiscriminata nel trattare fenomeni sostanzialmente diversi, perché appartenenti a livelli di complessità crescente del reale. Fraser (1987) distingue almeno sei di tali livelli. Il primo livello è quello dell'atemporalità: in un mondo costituito da sola radiazione elettromagnetica che procede alla velocità della luce, il tempo non esiste, almeno nel senso da noi conosciuto. Il secondo livello è quello della prototemporalità: in un mondo costituito da radiazione, ma anche da particelle elementari, il tempo esiste, ma è discontinuo e immobile; l'individuazione di istanti precisi non ha significato e gli eventi possono essere localizzati soltanto in maniera probabilistica. Il terzo livello è quello della eotemporalità: nel mondo della materia dotata di massa il tempo è continuo, ma immobile e privo di freccia. Il quarto livello è quello della biotemporalità: in un mondo che possieda anche materia vivente, il tempo è dotato di freccia ed è possibile fare una distinzione tra passato, presente e futuro; gli orizzonti del passato e del futuro sono limitati e il presente ha un'ampiezza variabile a seconda delle specie animali. Il quinto livello è quello della nootemporalità, cioè della mente umana matura: gli orizzonti del passato e del futuro sono illimitati e il presente ha un'ampiezza variabile a seconda dell'attenzione selettiva. Il sesto livello è quello della sociotemporalità: è il mondo degli orologi, dei calendari e della storia, cioè del tempo che gli esseri umani condividono e valutano allo stesso modo. A ciascun livello, il tempo possiede tutte le proprietà del livello sottostante e in più una proprietà nuova, che non si riscontra in nessuno dei livelli sottostanti (Lorenz 1973). Per es., il tempo sociale possiede tutte le proprietà del tempo soggettivo (fluire, freccia ecc.), ma presenta un aspetto che il tempo degli animali non ha, e cioè la condivisione (la sensazione di vivere tutti nello stesso tempo). A sua volta, il tempo psicologico si caratterizza per l'esistenza dell''ora', proprietà che nel tempo della fisica non si ritrova.

Allo stato attuale delle conoscenze dei fatti, e dell'elaborazione di teorie, almeno tre cose appaiono ragionevolmente sostenibili. La prima è che il senso del tempo, nell'uomo, è il risultato dell'evoluzione di processi che hanno per scopo un sempre più vantaggioso rapporto con i mutamenti che occorrono nell'ambiente circostante. Sotto questo profilo, si spiega l'insistenza degli psicologi cognitivisti nel comparare il tempo psicologico con quello fisico. Fino a un certo livello quei processi sono strettamente biologici e silenti, ma diventano mentali (coscienti) allorché si rende necessaria una rappresentazione dell'immediatamente trascorso e dell'immediatamente successivo, onde regolare 'in tempo reale' l'azione. Poiché nell'ambiente esistono altre fonti autonome di comportamento (altri uomini, ma anche animali), l'esigenza di armonizzare o di concordare le rispettive azioni porta alla fine a una sorta di condivisione dei diversi tempi soggettivi, formandosi così un tempo sociale (orologi, calendari, storia) unico per tutti. La seconda cosa è la sostanziale identità di costrutti affatto diversi, quali il tempo vissuto, la coscienza e l'identità personale. Non c'è tempo senza stato di veglia, e non c'è identità personale senza tempo vissuto; di più, il deteriorarsi del senso del tempo è sintomo certo della dissoluzione della personalità. La terza cosa è che non si otterrà mai una spiegazione delle caratteristiche del tempo vissuto indagando quelle del tempo della fisica (classica o moderna) o del tempo fisico dei processi fisiologici. Allo stesso modo, le caratteristiche dei fotoni non rendono ragione di quelle dei colori, e gli spikes registrabili lungo il nervo acustico non spiegano quelle dei suoni. Parafrasando Aristotele, gli orologi non misurano il tempo, se non c'è nessuno a guardarli.

Concezioni del tempo

di Paolo Casini


l. Tempo e coscienza mitica

Il tempo, come oggetto di studio interdisciplinare, ha avuto definizioni assai diverse sotto una varietà di punti di vista: mitico, religioso, psicologico, filosofico, storico, biologico, astronomico, fisico-matematico, musicale. Non è possibile tracciare una successione lineare di queste varie definizioni del tempo, che si presentano in realtà come stratificate nella storia del pensiero e sono in molti casi compresenti nella coscienza moderna. In età tardoantica l'evanescenza della nozione di tempo fu colta da Agostino (4°-5° secolo d.C.) nel soliloquio delle Confessioni (11,14): "Che cos'è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so". Saper usare la parola tempo e i termini connessi - prima, poi, e presente, passato, futuro - non significa spiegare chiaramente quest'uso, né rispondere alla domanda: "Che cos'è il tempo?". La questione passa così dal piano della psicologia empirica al piano della metafisica e della cosmogonia, dal monologo al dialogo con Dio, nel più vasto contesto esistenziale ed escatologico che fa da sfondo alle Confessioni agostiniane.

Nonostante il carattere prevalentemente religioso della sua ricerca, Agostino non ignorava la problematica, assai antica, della misura empirica del tempo, ossia il confronto tra il flusso interiore della coscienza e il moto di oggetti reali nello spazio. Si poneva così a metà strada tra la concezione qualitativa del tempo, caratteristica della mentalità mitico-religiosa in generale, e la concezione quantitativa o 'matematica', che privilegia la scansione della durata in cicli, intervalli, momenti misurabili essenzialmente in base a movimenti oggettivi e costanti: per es., la pulsazione cardiaca, la caduta di una certa quantità di sabbia nella clessidra, il moto oscillatorio di un pendolo, i moti celesti. I fenomeni astronomici osservabili a occhio nudo, ancor prima di diventare criteri di misura e oggetto di analisi quantitativa o matematica - nella mentalità mitica, nelle fedi religiose, nell'astrologia - ebbero uno status privilegiato ma qualitativo, come manifestazioni di poteri sovrannaturali. Fin dai primi albori della coscienza in Homo sapiens, un'oscura memoria ancestrale del ruolo del tempo nell'evoluzione della specie e nel divenire della natura si presentò certamente avvolta nel senso primordiale del sacro e del mistero. L'alternanza della luce e delle tenebre, i percorsi del Sole e della Luna, i moti regolari dei pianeti e delle costellazioni, il ciclo delle stagioni hanno ritmato non soltanto le pratiche agricole e gli usi della vita sociale, ma si sono riflessi nei miti circa le origini del mondo, la creazione e la fine di tutte le cose, l'intervento di divinità o di poteri sovrannaturali nelle vicissitudini della natura. In tal modo la percezione soggettiva della durata interiore e quella oggettiva dei mutamenti nel mondo fisico si proiettarono in eventi di portata universale, tali da coinvolgere non solo l'esistenza naturale dell'uomo, ma le domande più inquietanti circa le proprie origini, il significato della vita, le ansie, i timori, le speranze per il presente e il futuro individuale e della comunità. Considerando tutto ciò, la percezione della durata e la meditazione sul tempo si sono intrinsecamente legate sia alle attività produttive, sia ai culti, ai miti e alle speculazioni escatologiche, sia, infine, alla previsione razionale degli eventi naturali, mediante leggi deterministiche. Il carattere qualitativo della temporalità si coglie con la massima evidenza nei miti, nei culti, nelle teogonie, che collocano nella sfera del sacro figure o eventi remoti, irripetibili, enigmatici e perciò venerabili, quali la creazione dell'Universo e dell'uomo, i patriarchi di nazioni e di famiglie, la genesi di stirpi, la fondazione di religioni, di città e di ordinamenti civili. L'evento originario giustifica di per sé tutto ciò che ne consegue; si configura come un fatto sovrannaturale, miracoloso che introduce una cesura nel flusso indifferenziato della durata, segna la data d'inizio di un tempo qualificato, dà il proprio senso a una storia, crea un calendario che si ripete ciclicamente, con le sue cerimonie e celebrazioni simboleggianti la replica rituale dell'evento stesso, ossia un periodico ritorno alle origini che assume valore memorativo ed edificante.

Come esempi, nell'ambito del paganesimo occidentale, si pensi alla mitologia olimpica di Crono (il dio-tempo), di Zeus e dei Titani; ai riti agrari della Terra-madre; ai miti della generazione degli uomini; ai riti immemoriali che celebravano la fondazione di città-Stato come Atene e Roma, la deduzione di colonie, i giochi olimpici; miti e rituali connessi a specifici calendari che scandivano i tempi della vita sociale, affidandone la tutela ad apposite magistrature e caste sacerdotali. In tal senso i miti della creazione trasfigurano la percezione della durata sub specie aeternitatis, assegnando la genesi dei tempi a un inizio assoluto al di fuori del tempo. Nelle narrazioni degli assiri, dei babilonesi, degli egizi circa l'origine del mondo, il primordiale culto magico di molteplici potenze demoniche cede alla venerazione di un ordine astrologico, dove l'osservazione dei regolari cicli celesti rientra in una scienza arcana soggetta alla sacralità dei numeri. Nel pantheon egizio il dio della misura e del tempo è Toth, scriba degli dei, ministro supremo della giustizia e dei buoni costumi. Nel politeismo indoeuropeo l'introduzione della nozione di tempo segna il passaggio dal caos all'idea, presente nei Veda e negli Avesta, di un ordine regolare e benefico, responsabile sia delle leggi dei moti celesti sia di quelle del giusto e dell'ingiusto. Nel monoteismo ebraico la genesi del mondo fisico dal caos, la creazione di Adamo, il mito della caduta e la storia del popolo eletto disegnano una coerente visione escatologica del tempo, coronata dall'attesa messianica della redenzione e del riscatto. Tale concezione qualitativa, comune a numerose altre mitologie e religioni, fu accolta dal cristianesimo, il quale proiettò entro un ciclo temporale concluso il destino del mondo della natura e della storia umana, ossia il dramma della caduta, della redenzione e del giudizio finale, che dà un senso sia ai grandi eventi della storia sia ai minimi accadimenti della vita umana e contribuisce a orientare ogni azione verso un'unica finalità. Una cognizione opposta del tempo, puramente contemplativa e ascetica, è presente in altre religioni orientali. Si pensi alle Upanishad indiane, dov'è dominante la seduzione del dissolvimento dell'essere in una dimensione extratemporale. Una volontà di fuga dal tempo si ritrova nelle fonti della dottrina di Buddha, che relegano nascita e morte, con tutto ciò che diviene ed è transitorio, nella sfera del dolore e dell'assurdo: la liberazione dal tempo e dall'agire nel tempo apre l'accesso al Nirvana, totale annichilimento che rende perfetto il possesso della verità. Inversamente la mistica del Tao, propria della religione cinese, riassume sia l'eredità del passato sia il senso del futuro nella dimensione eterna di un presente illimitato, ossia di una pienezza dei tempi, permanente e priva di cesure: concezione che sottende l'etica di Confucio e il connesso culto degli antenati.

Dalle religioni orientali, in forme più propriamente speculative, passò agli esordi del pensiero greco l'opposizione tra il senso effimero, ingannevole dello scorrere del tempo e la pienezza di un presente extratemporale. Così, nel 5° secolo a.C., nel poema di Empedocle l'apparenza della temporalità si identifica con la ferrea legge del fato e della necessità, e l'espiazione del male si attua nella condanna ai castighi di una metempsicosi delle anime destinate a reincarnazioni senza fine. Nel lògos extratemporale e immobile di Parmenide, sotto la forma concettuale puramente speculativa dell'essere, si celebra un totale distacco dal divenire e dal tempo. Una negazione del tempo così radicale però pose d'altra parte l'esigenza di una dialettica più complessa tra i termini di una dicotomia fondamentale: da un lato il mondo dell'apparenza, dell'opinione, del divenire; d'altro lato il dominio extratemporale peculiare dei modelli di tutte le cose. Sia gli atomi di Democrito sia gli archetipi ideali di Platone (5°-4° secolo a.C.) hanno in comune una medesima esigenza formale di assolutezza e permanenza, che non annulla tuttavia l'effimera vicenda della nascita, della vita e della corruzione delle cose nel tempo. Platone ha presentato in forma razionale la dicotomia tra essere e divenire, iperuranio e mondo dell'apparenza, come un processo di imitazione dei modelli eterni nel mondo sensibile; la sua riflessione sul tempo e l'eternità ha la forma del mito nella visione di Er del libro 10° della Repubblica, dove il giudizio sulle anime è affidato alle "figlie della necessità, le Moire che cantano sull'armonia delle Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente e Atropo il futuro". Il decreto del fato, che comporta la condanna o l'emancipazione delle anime, non esclude tuttavia la libertà individuale né l'intervento della responsabilità etica. Altrove, nel Timeo, il mito cosmogonico introduce il tempo come elemento mediatore tra le idee e le cose, grazie all'opera del demiurgo che crea a imitazione delle idee eterne. Il tempo, mobile copia dell'eternità, è un eterno divenire, ed è elevato a strumento essenziale di conoscenza del cosmo che, secondo lo spirito del pitagorismo, Platone presenta come una complessa costruzione fondata su rapporti armonici e matematici. Nel sistema aristotelico il tempo è anzitutto, dal punto di vista della logica, uno dei dieci predicati o categorie, sia del giudizio sia dell'essere; in senso fisico è misura del movimento, ma solo nella sfera limitata della generazione e corruzione, in quanto l'Universo, increato ed eterno, è sottratto al tempo. Il passaggio dalla potenza all'atto, il gioco alterno delle quattro cause, i fenomeni della generazione e corruzione delle cose sensibili, sono aspetti di un processo limitato al mondo sublunare, dove si realizzano solo moti imperfetti; il moto circolare dei cieli, ritornando perpetuamente su sé stesso, scandisce i tempi di quei moti imperfetti ma è perfetto e intemporale, contenuto a sua volta entro l'empireo immutabile ed eterno.

2.

Tempo relativo e tempo assoluto

L'uso di una nozione quantitativa o matematica del tempo nella valutazione dei fenomeni naturali, benché sporadicamente presente fin dall'antichità in scienze come l'astronomia d'osservazione, la statica, la teoria musicale, non ebbe sviluppi significativi fino alla prima rivoluzione scientifica. All'inizio del Seicento, Keplero e Galileo introdussero con crescente rigore il calcolo degli intervalli di tempo nella misurazione del moto come una variabile dipendente da altre grandezze (massa, gravità, inerzia). La quiete e il moto dei corpi terrestri e celesti non furono più intesi come momenti qualitativamente distinti di processi; ma, presupposta l'equivalenza dello stato di moto o di quiete, come variazioni di stato quantificabili mediante formule algebriche. Le regole cinematiche dei moti celesti formulate da Keplero, attorno al 1619, misurano le traiettorie e i tempi periodici dei pianeti e dei satelliti del nostro sistema in funzione degli spazi descritti dai raggi vettori che congiungono, rispetto a ciascuno dei punti dell'orbita ellittica, il centro del sistema al pianeta in movimento. Qui, come pure nella legge galileiana di caduta dei gravi formulata attorno al 1604, una precisa nozione di tempo 'quanto' entrò per la prima volta nell'enunciato di una legge deterministica della natura. L'assiomatizzazione delle leggi del moto, raggiunta dalla fisica sperimentale soltanto un sessantennio più tardi come sintesi dei diversi contributi teorici dovuti a Galileo, R. Descartes, Ch. Huygens, I. Newton, segnò la nascita di una nuova scienza matematica: la dinamica, o analisi del moto dei corpi nello spazio e nel tempo sotto l'azione di forze, con le sue nozioni chiave di inerzia, forza, momento, accelerazione, velocità, urto. La messa a fuoco di queste nozioni implicò la discussione di una serie di quesiti teorici e sperimentali tra loro interdipendenti, tra i quali il concetto di tempo appare quello più problematico. Lo studio dei moti dei corpi poneva infatti il problema di definire con rigore i parametri di riferimento: in sintesi, come parlare del moto di un corpo entro una certa porzione dello spazio se non facendo intervenire nozioni come variazione o costanza del moto in funzione degli intervalli di tempo? Galileo immaginò vari esperimenti mentali per ipotizzare moti rettilinei uniformi di sfere su piani orizzontali, privi di attriti, tangenti alla superficie terrestre: moti e piani puramente ideali, data la sfericità della Terra e la gravità. Descartes affrontò a sua volta il problema geometrizzando a oltranza lo spazio fisico tridimensionale della geometria euclidea (la res extensa, intesa anzitutto in senso metafisico) e riferendo il moto rettilineo uniforme ai moti 'relativi' di altri corpi, anch'essi in moto nella res extensa. Paradossalmente, era questo un caso limite della cinematica, puramente tendenziale e irrealizzabile, data la coincidenza tra spazio e materia e la conseguente nozione di impulso. Infatti nel plenum cartesiano i moti inerziali di punti materiali, relativi ad altri punti materiali in moto e così via all'infinito, sono soltanto virtuali. Fu tuttavia il primo passo della fisica inerziale. Newton criticò puntigliosamente in tutte le sue implicazioni la nozione cartesiana di moto relativo, contraddittoria rispetto al presupposto dello spazio pieno, e fece del principio d'inerzia (spazi eguali percorsi in tempi eguali da un punto materiale che si muove di moto rettilineo uniforme) uno stato di moto concettualmente equivalente allo stato di quiete. La prima legge newtoniana del moto, che assiomatizza questo principio in forma del tutto astratta, postula il moto 'assoluto' come riferito alle nozioni di spazio e tempo assoluti. La misura del moto rettilineo uniforme è possibile soltanto se ciascuno degli infiniti possibili sistemi inerziali di corpi, che si trovano in stato di quiete o si muovono di moto rettilineo uniforme, è riferibile non a ulteriori sistemi inerziali, ma a un contenitore immobile, lo spazio, e a un flusso di tempo scorrente con rigorosa uniformità. Di qui la classica dicotomia: il tempo assoluto, vero e matematico, in sé stesso e per sua natura, scorre uniformemente senza relazione alcuna con alcunché di esterno, ed è detto in altri termini 'durata'. Il tempo relativo, apparente e comune, è una misura sensibile ed esterna, divisa con precisione o meno, della durata mediante il moto, comunemente usata in luogo del tempo vero: tale è l'ora, il giorno, il mese, l'anno. Formulato in questo stile dogmatico il concetto di tempo assoluto, Newton non mancò di registrare le sue perplessità. In astronomia, aggiunse, è possibile correggere con un'equazione le anomalie dei tempi 'naturali'. D'altra parte ammise la possibilità che non esista un moto equabile mediante il quale il tempo possa essere misurato esattamente; nonostante ciò, tutti i moti possono essere accelerati o ritardati, ma il flusso del tempo assoluto non è soggetto a mutamenti. Come si vede, il tempo assoluto era un articolo di fede, la cui dissimulata natura teosofica affiora in alcuni accenni dello Scolio generale aggiunto alla seconda edizione dei Principi matematici, e soprattutto in uno scritto giovanile non pubblicato, dove sia lo spazio sia il tempo sono definiti esplicitamente come 'emanazioni' o 'attributi' di un Dio eterno e onnipresente.

Il tempo assoluto matematico rappresentava una scelta concettuale ad hoc per la fisica inerziale (scelta quantitativa, ma non priva di implicazioni qualitative nel tradizionale senso teologico). La formulazione di Newton, pur sollevando ogni genere di obiezioni epistemologiche e teologiche tra i suoi contemporanei e successori del 18° secolo, entrò comunque a far parte dell'edificio assiomatico della fisica classica. L'assioma comportava la simultaneità del tempo in ogni parte dello spazio: Newton precisa che alle diverse parti dello spazio non attribuiamo durate diverse, ma diciamo che tutte durano simultaneamente; identico è un momento della durata a Roma e a Londra, identico sulla Terra e negli astri di tutto l'Universo. Il postulato della simultaneità universale di tutti gli eventi in qualsiasi punto dello spazio è indimostrabile, ma è legato in estrema analisi alla ubiquità e onnipresenza di Dio; esso non fu mai scalfito dalle numerose discussioni che sorsero attorno alla sintesi newtoniana. Non lo scalfì neppure G.W. Leibniz, l'avversario più diretto e determinato di Newton, che oppose al tempo assoluto una definizione relativistica del tempo inteso come 'ordine di successione' degli eventi; tuttavia, conservò la nozione di simultaneità nella celebre formula dell''armonia prestabilita'. Una riformulazione critica del concetto newtoniano di tempo (e spazio) assoluto fu data da Kant, che negò la natura oggettiva o metafisica del tempo, ma ne preservò a suo modo il carattere assoluto a parte subiecti. Nel quadro della filosofia critica il tempo assunse infatti il ruolo di forma a priori del senso interno (simmetricamente, lo spazio di forma a priori del senso esterno; v. spazio), come condizione trascendentale di qualsiasi esperienza possibile. Ogni evento fenomenico proveniente dal mondo esterno veniva a collocarsi così entro il flusso uniforme del tempo: il tempo non è alcunché di sussistente per sé stesso o di inerente alle cose come loro determinazione oggettiva, non è altro che la forma del senso interno, ossia dell'intuizione di noi stessi e del nostro stato interno, è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale. La soluzione kantiana ricalca esattamente la nozione di tempo assoluto della sintesi di Newton, pur interiorizzando il flusso della durata. In tal modo scomparivano dall'orizzonte dell'esperienza possibile, ed erano sottratte a ogni possibilità di dimostrazione razionale, le tradizionali problematiche riguardanti gli attributi divini dell'eternità e dell'ubiquità, la creazione del mondo nello spazio e nel tempo, la fine dei tempi, e così via. I ragionamenti della metafisica e della teologia razionale pro e contro tali asserti sono relegati da Kant nel dominio delle antinomie 'dialettiche', in quanto tesi e antitesi risultano contrapposte ed egualmente indimostrabili, cioè prive di qualsiasi contenuto empirico; sono questioni inevitabili, imposte dalla finitezza della mente umana ma insolubili.

L'interiorizzazione del concetto di tempo ha offerto ad altri filosofi ‒ come via di fuga dall'intellettualismo kantiano ‒ la possibilità di rinnovare la concezione qualitativa e metafisica della durata su un terreno 'biologico-coscienziale' (come in H. Bergson); oppure, attraverso il rigetto in blocco della 'storia della metafisica' intesa come smarrimento dell'essere, la ricerca di una temporalità pura, enigmatica e sfuggente, cui la finitezza dell'uomo tende in forma arazionale (come in M. Heidegger). Kant, come non pochi interpreti hanno inteso la sua impresa, aveva tentato di consolidare all'edificio della fisica classica mediante un fondamento speculativo, estrapolando dalla fisica stessa il metodo e i criteri della sua ricerca. Cercò inoltre di coronare la filosofia critica con una 'fisica trascendentale' tutta fondata a priori, tentativo che non può non apparire uno strano paradosso nella prospettiva della filosofia della scienza moderna. Giacché il punctum dolens dell'a priori kantiano è appunto l'estetica trascendentale, ove tempo e spazio sono intesi come forme a priori modellate sull'unica geometria tridimensionale. Inoltre non ha retto alla critica l'assioma di origine newtoniana riguardante la simultaneità nel mondo fenomenico di tutti gli eventi possibili. Un empirismo più rigoroso richiese all'inizio del 20° secolo di dimostrare, orologi alla mano, la simultaneità di due eventi in due punti dello spazio lontani tra loro. Come sincronizzare gli orologi? Come trasmettere la misura esatta del tempo da un punto all'altro dell'Universo? La velocità della luce apparve l'unica unità di misura, ma questa scelta comportò la crisi radicale dell'Universo a tre dimensioni e dell'assolutezza del tempo e dello spazio. La dinamica newtoniana restò valida solo come prima approssimazione; la teoria della relatività di A. Einstein eliminò dalla fisica il flusso assoluto del tempo e introdusse lo spazio-tempo come quarta dimensione.

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