Relatività, teoria della

Dizionario di filosofia (2009)

relativita, teoria della


relatività, teoria della

Complesso di costruzioni teoriche formulato da Einstein a partire dal 1905, che ha profondamente trasformato l’immagine del mondo fisico, investendo in partic. le nozioni classiche di spazio, tempo, materia. La teoria della r. fu elaborata da Einstein in fasi successive, contrassegnate dall’iniziale enunciazione della teoria della r. speciale, dai suoi sviluppi nella teoria della r. generale (1916), e infine dai ripetuti tentativi (1925-55) di costituzione di un terzo e più universale livello, la teoria unitaria di campo, capace di unificare per via geometrico-causale la gravitazione e le altre forze della materia in un’immagine coerente e complessiva della natura.

Le origini del problema relativistico

Formulata nel saggio Zur Elektrodynamik bewegter Körper (Annalen der Physik, ser. 4, 18, 1905, trad. it. L’elettrodinamica dei corpi in movimento); la teoria della r. speciale di Einstein prese le mosse dal fallimento dei tentativi di estendere all’elettrodinamica (la teoria che includeva le equazioni di Maxwell descriventi il comportamento dei campi elettrici e magnetici) il principio dell’equivalenza di tutti i sistemi inerziali per la descrizione delle leggi del moto (r. galileiana), che era alla base della meccanica classica. La teoria condivisa all’inizio del 20° sec. dei principi dell’elettrodinamica, quella formulata da H. Lorentz, era fondata sulla postulazione dell’esistenza di una specifica sostanza materiale in quiete assoluta, l’etere, che riempiva lo spazio e fungeva da supporto fisico ai fenomeni elettromagnetici senza esserne influenzato, costituendo il sistema di riferimento privilegiato rispetto a cui la velocità della luce risultava costante. L’ipotesi dell’esistenza di un etere stazionario era all’origine delle asimmetrie, che il saggio einsteiniano sulla r. del 1905 si proponeva di eliminare, pregiudicanti il rapporto tra teoria ed esperienza nella spiegazione dei fenomeni che emergevano nelle esperienze elementari, risalenti a Faraday, sul moto relativo reciproco tra conduttori e magneti: dell’induzione di una corrente elettrica in esso osservata l’interpretazione standard forniva infatti due spiegazioni distinte del fenomeno (generazione di campo magnetico o, viceversa, di campo elettrico), a seconda di quale corpo, tra il magnete e il conduttore, fosse considerato in quiete rispetto all’etere. L’approccio teorico di Einstein a tale problema generale reclamò una spiegazione del fenomeno dell’induzione che non facesse appello all’etere – la cui esistenza era stata messa in questione dall’esito negativo delle sofisticate sperimentazioni ottiche ed elettromagnetiche iniziate nel 1881 da A.A. Michelson per la rilevazione del moto della Terra –, ma che considerasse i due sistemi di riferimento, quello in moto con il conduttore e quello in moto con il magnete, come due diverse prospettive di un unico processo.

La teoria della relatività speciale

In riferimento all’esito degli esperimenti di Michelson, Einstein dichiarò, in apertura della memoria L’elettrodinamica dei corpi in movimento, che «i tentativi falliti di individuare un qualche movimento della Terra relativamente al ‘mezzo luminifero’ suggeriscono che i fenomeni elettrodinamici, al pari di quelli meccanici, non possiedono proprietà corrispondenti all’idea di quiete assoluta», ma al contrario che «per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazioni della meccanica varranno anche le stesse leggi elettrodinamiche e ottiche». Nata dall’esigenza concettuale e metodologica dell’attribuzione alle leggi della natura di un significato univoco e assoluto, indipendente dal punto di vista di particolari osservatori, la teoria della r. si presentava come una «teoria dell’invarianza», fondata sui seguenti postulati: (1) tutti i sistemi inerziali sono equivalenti; (2) la velocità della luce nel vuoto è invariante rispetto al passaggio da un sistema di riferimento inerziale a un altro, vale a dire è la stessa per ogni osservatore, a prescindere dal suo moto o da quello della sorgente. Applicando sistematicamente tali postulati all’elettrodinamica, Einstein riuscì a invalidare diverse assunzioni implicite della fisica classica, dimostrando che le leggi del moto di Newton sono valide per velocità molto piccole rispetto a quella della luce; che questa costituisce un limite per tutti i corpi materiali; che lo spazio e il tempo sono tra loro inseparabili, e che, unitamente alla massa, essi sono relativi all’osservatore. Ne derivava inoltre, man mano che la velocità relativa di un sistema diverso da quello dell’osservatore si approssima alla velocità limite della luce, la contrazione delle lunghezze, il rallentamento degli orologi e l’aumento delle masse. La simultaneità assoluta degli eventi perdeva così ogni significato, ed era ottenuta l’unificazione di massa ed energia come aspetti di una medesima realtà, espressa dall’equazione E=mc2.

La teoria della relatività generale

L’eliminazione, da parte della teoria della r. speciale, dell’etere stazionario e la critica radicale della nozione di simultaneità, costituirono la necessaria premessa alla geometrizzazione della teoria relativistica in un continuo spazio-temporale a quattro dimensioni con metrica pseudoeuclidea (cronotopo), operata nel 1908 da H. Minkowski, che dischiuse possibili sviluppi verso la teoria della r. generale. Concepita come teoria dell’invarianza e della simmetria, la teoria della r. del 1905 apparve infatti ben presto agli occhi di Einstein costitutivamente incompleta: limitando l’invarianza delle leggi fisiche ai sistemi di coordinate in moto di traslazione uniforme reciproco, essa manteneva comunque un’asimmetria, quella tra moto inerziale e moto accelerato, lasciando irrisolto il problema della natura della gravitazione e inspiegata l’equivalenza numerica, rilevata sperimentalmente, della massa inerziale e di quella gravitazionale. L’estensione einsteiniana del principio di r. ai sistemi in moto accelerato, culminata nella formulazione della teoria della r. generale, non intervenne tuttavia semplicemente a colmare questa lacuna, ma comportò la radicale trasformazione di un concetto, quello di spazio, che nella r. speciale era rimasto per molti aspetti inalterato rispetto alla fisica newtoniana. La teoria del 1905 aveva in effetti sottoposto a profonda revisione essenzialmente il concetto classico di tempo mediante una definizione puramente procedurale della simultaneità, che mostrava l’inscindibile rapporto fra tempo e velocità dei segnali elettromagnetici con cui era effettuabile la sincronizzazione di orologi fra loro distanti. Ciò aveva consentito una coerente strutturazione dei principi dell’elettrodinamica dei corpi in movimento senza alcun riferimento a un tempo unico, assoluto, per tutti gli eventi fisici. Se il tempo, in questo modo, era stato ridotto a puro concetto metrico, privo di esistenza autonoma dallo stato di moto dei corpi di riferimento, altrettanto non poteva dirsi dello spazio. Come nella meccanica classica, lo spazio della r. speciale è uno spazio vuoto, che ha un’esistenza indipendente tanto dalla materia ponderabile quanto dai campi elettromagnetici. Guidata dall’idea, concepita da Einstein nel 1907, che il campo gravitazionale abbia solo un’esistenza relativa, al pari dell’induzione elettromagnetica, la generalizzazione della teoria relativistica al moto accelerato e alla gravitazione fu resa possibile mediante l’adozione del «calcolo differenziale assoluto», sviluppato da G. Ricci Curbastro e T. Levi-Civita, e la risoluzione dello spazio in un continuo tetradimensionale non euclideo, che incorpora strutturalmente il tempo in una metrica pseudo-riemanniana, la cui geometria è definita dalla distribuzione della materia. La teoria della r. generale (Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, 1916; trad. it. I fondamenti della teoria della relatività generale) segnò insieme l’emancipazione della fisica dalle nozioni metriche intuitive della geometria euclidea e l’abbandono della concezione newtoniana dello spazio e del tempo come cornici autonome dell’accadere fisico: descritta non più come una forza a distanza istantanea, ma identificata con la curvatura locale dello spazio-tempo, la gravitazione poté esser definita come una proprietà universale della geometria dell’Universo. Con ciò perdeva senso parlare di spazio, materia e forza gravitazionale come realtà fisiche distinte, in quanto «non vi è nessuno spazio, e anzi nessuna parte di spazio, senza potenziali gravitazionali, perché sono questi appunto a conferirgli le sue proprietà metriche, senza le quali esso non sarebbe neppure concepibile: l’esistenza del campo gravitazionale è intimamente legata all’esistenza dello spazio» (Äther und Relativitästheorie, 1920; trad. it. Etere e teoria della relatività).

La teoria unitaria di campo

Molti fenomeni che le leggi di Newton non riuscivano a spiegare si rivelarono conseguenze della generalizzazione della teoria della r., come le deviazioni dell’orbita di Mercurio; altri, come la previsione della curvatura dei raggi luminosi nelle vicinanze delle masse gravitanti, furono confermati sperimentalmente. Alcune conseguenze cosmologiche della r. generale delineavano infine l’immagine dell’Universo come finito e in espansione, che apriva una nuova era per l’astronomia. A partire dagli anni Venti l’interesse di Einstein, riguardo alla r. generale, fu di ricomprenderla all’interno di una teoria più comprensiva, verso l’unificazione geometrico-causale dei due campi, quello gravitazionale e quello elettromagnetico, che nella teoria del 1916 definivano i concetti di spazio e di materia ma restavano irriducibili. Le equazioni differenziali che stabilivano la metrica del campo gravitazionale non erano infatti in grado di render conto dell’effetto gravitazionale del campo elettromagnetico, ovvero di fondare una teoria relativistica delle particelle elementari che generano il campo, e ciò mostrava, secondo Einstein, l’incompletezza e la provvisorietà della teoria della r. generale. Avvalendosi delle ricerche sulla teoria unitaria di campo sviluppate nella prima metà degli anni Venti dai matematici H. Weyl, Th. Kaluza e F. Klein, Einstein investigò le geometrie postriemanniane, alla ricerca di quella struttura del continuo spazio-tempo che gli consentisse di derivare l’elettrone dalle equazioni relativistiche del campo gravitazionale. Nel suo procedere dalla r. speciale a quella generale, Einstein aveva trovato già pronta una nuova metrica dello spazio, quella di Riemann, di cui comprese le profonde implicazioni fisiche. Dimostratosi però lo spazio riemanniano insufficiente a istituire un modello unitario dei fenomeni gravitazionali e di quelli elettromagnetici, perché le proprietà atomiche sono descritte solo in uno spazio di Minkowski, cioè assoluto e «piatto», privo di curvatura spaziale e temporale, Einstein si addentrò via via nello studio di diverse tipologie di spazi e iperspazi (continuo quadrimensionale non riemanniano a connessione simmetrica, proposto da Weyl; continuo reimanniano pentadimensionale, proposto da Kaluza e Klein; continuo quadrimensionale non riemanniano a connessione antisimmetrica; continuo riemanniano quadrimensionale con teleparallelismo, ecc.), abbandonando una strada dopo l’altra. Nessuno di questi spazi si rivelò infatti adatto allo scopo: privo di un principio-guida fisico di simmetria, Einstein non riuscì a derivare la materia dalla geometria dello spazio-tempo, senza però mai rinnegare, nonostante gli insuccessi, il programma della teoria unificata di campo. Nell’angosciosa esplorazione di modelli di mondi fisici con spazi ritorti, antisimmetrici o con un numero di dimensioni extra, Einstein mantenne comunque ferma la convinzione che una teoria gravitazionale ed elettromagnetica unificata non poteva ammettere le particelle elementari come porzioni discontinue dello spazio, in cui cioè le leggi del campo non sono valide, perché questo avrebbe significato che le particelle della materia devono essere considerate, in ultima analisi, al di fuori dello spazio-tempo. Nel testo inviato, due settimane prima della scomparsa, a prefazione del volume a lui dedicato da studiosi italiani in occasione dei cinquant’anni dalla prima formulazione della teoria della r., Einstein ribadisce significativamente questo punto essenziale: «L’antico contrasto tra continuità contro discontinuità appare, dal punto di vista relativistico generale, particolarmente aspro, perché proprio qui lo spazio si presenta, non come indipendente, ma solo come campo continuo a quattro dimensioni. Una teoria discontinua della materia significa dunque nello stesso tempo rinunzia allo spazio» (Cinquant’anni di relatività, Prefazione, a cura di M. Pantaleo, 1955). La scoperta, a partire degli anni Trenta, di altre forze oltre alla gravità e all’elettromagnetismo, quali l’interazione nucleare forte e quella debole, e gli spettacolari successi della meccanica quantistica, determinarono per alcuni decenni l’accantonamento del progetto einsteinano di unificazione della gravitazione e dell’infinitamente piccolo, che ha ripreso tuttavia vigore con le recenti teorie di «simmetria», «supersimmetria» e le «teorie delle stringhe».

Implicazioni filosofiche ed epistemologiche della teoria della relatività

Le teorie di Einstein suscitarono vasto interesse filosofico per le loro implicazioni su concetti cruciali come quelli di spazio, tempo, materia, assoluto, relativo, e per l’attribuzione di significato fisico alle geometrie non-euclidee, che investiva in primo luogo il fondamento dell’a priori kantiano, le intuizioni spaziali e temporali, e l’idea di oggetto conoscitivo che ne derivava. Sottolineando in senso antiintuizionistico alcuni concetti della r. einsteniana, il maggior esponente del neokantismo, Cassirer (Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, 1921; trad. it. Sulla teoria della relatività di Einstein), indicò nella nuova teoria un importate progresso in direzione del superamento della teoria sostanzialistica del conoscere: annullando il dualismo di spazio e materia come classi distinte di concetti fisici oggettivi, la teoria della r. generale segna in maniera consapevole, nello spirito dell’idealismo ‘critico’ kantiano, il passaggio dalla teoria della conoscenza come riproduzione alla teoria della conoscenza come funzione. In Durée et simultaneité (1922; trad. it. Durata e simultaneità) Bergson individua nello sviluppo coerente dei fondamenti della fisica cartesiana l’autentico significato della teoria relativistica. La verità sul piano scientifico della fisica cartesiana e di quella einsteiniana – così come la loro simmetrica incapacità di cogliere sul piano metafisico la specifica natura del tempo – risiede per Bergson nella funzionalità operativa che il concetto di spazio assume con l’identificazione di materia ed estensione nella nozione di misura. Mentre infatti tempo e durata appartengono «all’ordine della qualità», e per questo «nessuno sforzo analitico potrà risolverli in quantità pura, il concetto di spazio è esaurito nella nozione di misura, cosicché «la riduzione della gravitazione all’inerzia è stata l’eliminazione di quei concetti che, frapponendosi tra il fisico e il suo oggetto, tra lo spirito e le relazioni costitutive della cosa, impediva sin qui alla fisica di essere geometria. Da questo punto di vista, Einstein è il continuatore di Descartes». Il rilievo filosofico, negato a Einstein da Bergson, fu al contrario reclamato da Weyl – il quale sostenne che Einstein, identificando spazio e campo gravitazionale, fa della fisica «una vera geometria, una dottrina dello spazio stesso, e non soltanto, come la geometria di Euclide, e come quasi tutto ciò che è solito chiamarsi geometria, una dottrina delle forme possibili nello spazio» (Raum, Zeit, Materie, 1918) –, da Whitehead, che vedeva nella teoria della r. una rivoluzione del concetto di corpo come connessione degli eventi riuniti nello spazio-tempo, e, soprattutto, dagli esponenti del neopositivismo: per Schlick la r. di Einstein perfeziona l’idea kantiana di soggettività di spazio e di tempo come costrutti concettuali, mentre per Reichenbach essa si fonda sulla critica del carattere apodittico di ogni concetto a priori, mediante l’impiego del metodo di approssimazione successiva dei principi all’esperienza.

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