CARNIANI, Teresa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARNIANI, Teresa

Giovanna Sarra

Nata a Firenze nel 1785 da Cipriano e da Elisabetta Fabbroni, ancora bambina fu istruita nella geometria dal dotto zio Giovanni Fabbroni; ma la madre volle abituarla soprattutto alle cure domestiche, dandole in seguito qualche cognizione superficiale di inglese e francese, musica e disegno "a solo ornamento". Aveva sedici anni quando il conte Francesco Malvezzi de' Medici, bolognese d'antichissima famiglia, cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, la sposò, conducendola, nel novembre del 1802, nella sua città. A Bologna la C. visse quietamente, frequentando la buona società; ebbe tre figli che morirono subito, poi, il 10 sett. 1819, le nacque un maschio, Giovanni, che sopravvisse e della cui educazione volle occuparsi personalmente.

Felice nel matrimonio, poco impegnata dalle attività domestiche, la giovane contessa pensò di tornare agli studi di mal grado abbandonati, anche attratta dalla magnifica biblioteca del suocero, dottissimo bibliografo. Con l'amore agli studi, sorse in lei il desiderio di conoscere di persona gl'illustri letterati di passaggio per la città, o ivi residenti, e perciò aprì a un'ospitalità garbata il suo salotto ottenendo, in cambio, l'amicizia di molti esponenti della cultura.

L'abate G. Biamonti, finché fu professore di eloquenza a Bologna, le dette lezioni di filosofia antica, e, attraverso le proprie traduzioni, le fece conoscere i classici greci; partito dalla città, si mantenne in contatto epistolare con lei, su un piano di fervore religioso che era comune ad entrambi; P. Costa la trattava come un "amico" stimato e caro, piuttosto che come una dama, mentre la distoglieva dalla imitazione del Frugoni, presente nei versi giovanili di lei; col Mezzofanti, allora semplice prete, riprendeva lo studio della lingua inglese e con la contessa Olimpia de Bianchi, amica di M.me de Staël, quello della lingua e letteratura francese; da sola la C. studiava il latino, consultandosi col Garattoni circa il modo di tradurre Cicerone.

Frutto di tali studi furono i volgarizzamenti ciceroniani Della Repubblica (Bologna 1827), Della Natura degli dei (Bologna 1828, Milano 1836), Della divinazione e del fato (Bologna 1830), Del Supremo dei beni e dei mali (Bologna 1835) e del Lucullo (Bologna 1836), dei quali furono apprezzati la serietà e lo stile elegante e sostenuto, forse con un eccesso di cortesia rivolto più alla dama ospitale e graziosa che alla letterata troppo toscaneggiante. Dall'inglese la C. tradusse Il Riccio rapito del Pope (Bologna 1822) e il Messia, egloga dello stesso (Bologna 1927), diffusamente recensito da S. Betti nel Giornale arcadico del novembre 1827. Altri lavori degni di considerazione sono il volgarizzamento Alla Maestà di Carlo IV imperatore esortazione di F. Petrarca per la pace d'Italia (Firenze 1827) e le trentun ottave anonime, Firenze tornata al granducal governo l'anno 1815 (Bologna 1854), che le si posson facilmente attribuire poiché l'esemplare trovato nell'archivio Malvezzi de' Medici porta correzioni di sua mano.

Scrisse altre poesie originali, alcune per modestia pubblicate anonime, che rivelano una cultura non comune e un'indole dolce e malinconica, sovente espressa nell'imitazione del Petrarca. La principale sua opera poetica è il poemetto La cacciata del tiranno Gualtieri accaduta in Firenze l'anno 1343, Bologna 1832 (i primi tre canti erano già usciti a Firenze nel 1827). L'argomento è ricavato dalla cronaca di G. Villani e dalla storia di Bologna del Ghirardacci, le descrizioni di luoghi e paesi da La montagna bolognese del Calindri.

Per questo e per gli altri suoi lavori alla C. non mancarono lodi e onori, diplomi e titoli accademici. Intanto il suo salotto, reso prezioso dalla fama letteraria della contessa, ospitava pure, nell'arco di venti anni, lo Strocchi, il marchese Angelelli, l'Orioli, l'Azzoguidi, il Testa, don Apponte, la Tambroni, il Prandi, il Pozzetti, il Butturini, il Perticari, i cardinali Lante e Spina. Amicissimo le fu il Monti, che ne cantò le lodi in un'ottava estemporanea ("Bionda la chioma in vaghe trecce avvolta / Ed alta fronte ov'è l'ingegno espresso…": cfr. V. Monti, Epistolario, IV, p. 145) e le chiese quale fiore voleva le fosse dedicato nella sua Feroniade (la C. gli rispose in un sonetto che preferiva il modesto ligustro). Molto la stimava anche il Pindemonte (le lettere di questo e altri illustri personaggi indirizzate alla contessa si trovano nell'archivio Malvezzi de' Medici a Bologna); affettuosi furono i suoi rapporti con Giacomo Leopardi, dal maggio all'ottobre del 1826.

La C. - che aveva oltrepassato i quaranta anni quando conobbe il poeta, residente già da qualche anno in Bologna, ove nel 1824 aveva stampato le Canzoni e in quello stesso 1826 I versi - venne da lui giudicata una delle donne più colte del suo tempo e pur non essendo più giovane, gli apparve fornita di una grazia e uno spirito tali da creare "una illusione meravigliosa" di freschezza (G. Leopardi, Epistolario, I, p. 288: lettera del 30 maggio 1826 al fratello Carlo). Il Leopardi visse i giorni seguenti al primo incontro "in una specie di delirio e di febbre" (ibid.); poi la relazione, consolidatasi in tranquilli incontri serali dedicati alla conversazione e alla lettura, divenne per lui come "un amore senza inquietudine" (ibid.). La C. si commuoveva fino alle lacrime all'ascolto dei suoi versi. Questa affettuosa relazione persuase il Leopardi che "ci sono veramente al mondo dei piaceri che io credeva impossibili e che io sono ancor capace d'illusioni stabili, malgrado la cognizione e l'assuefazione contraria, così radicata, ed ha risuscitato il mio cuore, dopo un sonno anzi una morte completa, durata per tanti anni" (ibid.). Tuttavia, le sue visite troppo lunghe e frequenti cominciarono a infastidirla e, quando il poeta tornò nell'ottobre a Recanati, ella non gli scrisse mai, sebbene l'avesse promesso, mandandogli soltanto un esemplare dei suoi Frammenti della Repubblica di Cicerone volgarizzati (Bologna 1827), che il Leopardi, forse per cortesia, trovò degni di lode. Tornato a Bologna sul finire dell'aprile del 1827, il Leopardi non ebbe più alcun pretesto per continuare la relazione con la Malvezzi, avendogli ella detto chiaramente che la sua conversazione l'annoiava. In due lettere a lei dirette egli dichiara e ripete di essere un suo "molto fedele e vero e cordiale amico", ma dopo l'uscita del poema della Malvezzi, gratificato di un breve, sprezzante commento: "povera donna! Aveva veduto già il manoscritto" (nella lettera al conte Papadopoli del 25 febbr. 1828: Epistolario, II, p. 42), non si occupò più di lei. Il Mestica tuttavia credette di veder consacrato nel Consalvo l'amore del poeta per lei, raffigurata nella pietosa Elvira, che accorda un bacio all'amante morente.

Gli ultimi anni della C. passarono nelle quiete abitudini studiose e casalinghe, benché per lungo tempo fosse tormentata da una malattia nervosa, le maggiori gioie venendole dal figlio Giovanni, che assunse nel '49 il comando della guardia civica. Si spense a Bologna la notte del 9 gennaio 1859.

Fonti e Bibl.: D. Diamilla Müller, Biogr. autografe ed ined. di illustri ital. di questo secolo, Torino 1853, pp. 216-23 (lettera autobiogr. scritta dalla C. a mons. C. E. Muzzarelli, da Bologna, in data 18 dic. 1829); F. Rocchi, Cenni necrol. della contessa T. C. Malvezzi, in Gazz. di Bologna, 9 genn. 1859; G. Leopardi, Epistolario, a cura di P. Viani, I-II, Napoli 1912, ad Indicem;V.Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, IV, Firenze 1929, ad Indicem;G. Mestica, Gli amori di G. Leopardi, in Fanfulla della domenica, 4 apr. 1880; C. U. Posocco, Gli amori di G. Leopardi, Vittorio 1891, pp. 9-12; E. Boglien-Conigliani, La donna nella vita e nelle opere di G. Leopardi, Firenze 1898, pp. 173-219; G. Gandolfi, La contessa T. Malvezzi e il suo salotto, Bologna 1900; G. Mazzoni, L'Ottocento, II, Torino 1964, p. 465.

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