DE GUBERNATIS, Teresa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 36 (1988)

DE GUBERNATIS, Teresa

Fiorenza Taricone

Nacque il 21 marzo 1832 a Torino da Giovanni Battista e da Maria Cleofe Turchetti, primogenita di undici figli, dei quali, oltre al ben noto Angelo, si può ricordare Enrico.

Questi, nato a Torino l'8 sett. 1836 e morto a Susa in Tunisia il 21 apr. 1914, era entrato per concorso nella carriera consolare nel dicembre 1857, andando a riposo col grado di console generale di 1a classe nel luglio 1906. Dopo l'iniziale servizio a Smirne, le sedi principali erano state Scutari, Susa, La Goletta, Aleppo, Ruse, Guatemala, Lima, Anversa, Beirut, Corfù.

L'educazione della D. venne curata personalmente dal padre fino al 1848, quando essa iniziò a frequentare la scuola di metodo, fondata a Torino da F. Aporti.

I principî teorici e le realizzazioni pratiche aportiane ebbero sulla formazione didattica della D. una grande influenza. A Torino, del resto, si era seguito assai presto l'esempio degli asili ispirati al metodo dell'Aporti. Se il primo era stato inaugurato a Cremona nel 1831, già dal '37 si erano avute fondazioni analoghe in varie città del Piemonte, con la partecipazione di persone quali C. Bon Compagni, R. d'Azeglio, C. Cavour, L. Pareto. Nel 1844 re Carlo Alberto aveva invitato l'Aporti a tenere un ciclo di lezioni nella scuola superiore di metodo normale; il corso era stato criticato e osteggiato, ma di fatto aveva avuto una grossa risonanza, imprimendo un moto innovatore all'insegnamento della metodica per gli aspiranti maestri.

Negli anni in cui la D. frequentò la scuola e in quelli successivi l'Aporti continuò ad operare in Piemonte e ad interessarsi, fra l'altro, ai problemi della preparazione delle maestre, collegandone la formazione pedagogica ad una salda coscienza nazionale. A partire dal '49 ebbe la presidenza per otto anni della Commissione permanente per le scuole secondarie, e dal '57 l'incarico di ispettore generale degli asili di Torino. Quando l'Aporti istituì a Torino una scuola d'infanzia per le classi agiate, fu chiamata a dirigerla la vedova del filosofo rosminiano Michele Tarditi, Elena; passata questa a seconde nozze, la D. ne ottenne la direzione. Nel 1853 però lasciò la scuola per fondare, con l'aiuto del padre, della sorella Carolina, del fratello Enrico e di due insegnanti, un istituto femminile di educazione e istruzione, frequentato da ragazze delle migliori famiglie di Torino, che diresse fino al 1858, quando questo si fuse con l'istituto materno fondato quell'anno da D. Berti, il quale era stato tra i primi allievi della scuola di metodo dell'Aporti diplomandovisi nel 1846.

Emilia Mariani, che terrà nel 1894 la commemorazione della D. proprio nell'istituto materno, parlerà di quella iniziativa come di un tentativo ardito, e di una valida alternativa per le famiglie torinesi, di contro agli istituti condotti da religiosi che erano "formati tutti sopra un medesimo stampo". N. Tommaseo vi mandò la figlia Caterina, prima che gli fossero riaperte le porte di Firenze; lo frequentò anche la figlia di M. d'Azeglio, la marchesa Alessandrina, che sposerà poi il grecista M. Ricci.

Nel 1858 la D. sposò Michele Mannucci, nato nel 1823 a Massa di Lunigiana, giornalista a Roma, dove diresse La Speranza, preside di Civitavecchia durante la Repubblica Romana (e accusato di aver opposto scarsa resistenza all'occupazione francese), giornalista poi a Torino, dove diresse Il Giornale delle arti e delle industrie, e morto a Firenze nel 1871.

A Torino, fino a che visse il marito, la D. si occupò principalmente di economia domestica, in una serie di articoli comparsi su vari periodici come La Scienza pratica e La Famiglia, e su L'Economia domestica e Istruzione e civiltà, che fondò e, diresse insieme con il marito. Grande era ancora la diffidenza delle famiglie sull'efficacia e l'opportunità dell'istruzione femminile; il Berti, ad esempio, ministro della Pubblica Istruzione nel terzo ministero La Marmora e nel successivo secondo ministero Ricasoli (31 dic. 1865-17 febbr. 1867), se ne lamentava nelle circolari inviate ai prefetti e ai provveditori, invitando a un'opera di persuasione.

Dopo la morte del marito, la D. ritornò a coprire incarichi pubblici. A Firenze fu infatti direttrice della sezione femminile telegrafica, poi a Roma della scuola femminile municipale, succedendo a Erminia Fuà Fusinato che, dopo essere stata per anni istitutrice nella scuola normale, era stata chiamata a dirigere la scuola della Palombella, istituita dal comune di Roma con deliberazione del 21 luglio 1873. Fu anche presidente della Società per l'istruzione superiore della donna, posta sotto il patronato della regina, che operava con conferenze su svariati argomenti, di carattere scientifico e artistico.

Morì a Roma il 28 dic. 1893.

Oltre che in articoli e saggi specifici, la D. espose le sue teorie didattiche nelle più diverse forme letterarie, dalle novelle e novelline per l'infanzia, ai racconti morali, alle commediole educative. Il cardine del suo pensiero, frutto dell'esperienza di anni d'insegnamento pubblico e privato, è ben sintetizzato nel volume Cento novelline per l'infanzia (Torino 1885; varie ristampe, l'ultima del 1895), adottato in molte scuole infantili ed elementari. "Istruire, educare, migliorare, dilettando" era il criterio che doveva innanzi tutto guidare le educatrici. Anche nella Morale in pratica (ibid. 1887) illustrava i suoi precetti morali attraverso una serie di racconti che non riguardavano tanto l'infanzia quanto l'età che andava dalla prima adolescenza alla cosiddetta "età da marito". Indicando nell'egoismo e nella superbia i primi difetti da sconfiggere, la D. dedicava agli altri principali difetti del carattere le "commediole" di cui si componeva il testo, dai titoli come La paurosa, La chiacchierona, La flemmatica e L'impaziente. Ne sono protagoniste giovani fanciulle danneggiate moralmente e praticamente da una cattiva piega del carattere, rappresentata in termini assolutamente negativi, cui spesso si contrappongono altri personaggi femminili che incarnano l'opposta virtù. Talvolta la D. sembra proporre a modello chi riesce a mantenere un giusto equilibrio, perché, come affermava, "non v'ha nazione, famiglia, individuo senza difetti, condizione sociale senza triboli, perché la perfezione non è di quaggiù" (La volubilità, Torino 1887, p. 93). Spesso si serviva dei personaggi femminili per chiarire punti fondamentali per una educatrice, come ad esempio la definizione del carattere: che consiste nell'avere idee chiare e precise, convinzioni profonde sul vero, sul bene, sui doveri, nel non parlare né scrivere diversamente da ciò che si pensa e si sente, nel non fare e dire ciò che è vietato, anche se certi dell'impunità.

Nel Manuale pratico ad uso delle madri e delle educatrici dell'infanzia (Torino 1887) ribadiva che alla base di ogni sano sistema educativo andavano poste quelle che definisce "tre care e sante sorelle": l'economia domestica, l'igiene, la vera scienza. Per esaltare la missione educativa della donna e il valore dei sacrifici ad essa connessi, scriveva che Dio le affidava la prima età dell'uomo, la più importante perché "la più angelica": dalle educatrici, la società legittimamente si aspettava che sapessero far nascere uomini sani e forti dai bambini loro affidati) in grado di adempiere tutti i doveri, pronti al sacrificio per ogni nobile causa. Nel Manuale chiariva le sue idee sugli scopi prioritari dell'educazione, intesa questa più come piano propedeutico alla conoscenza e al perfezionamento di se stessi, che analisi di un metodo per specifiche materie di studio. L'educazione doveva soprattutto essere rivolta a estrinsecare, sviluppare e rinforzare perfezionandole tutte le facoltà naturali, le inclinazioni, l'istintività degli affetti e delle passioni. L'anima e il corpo sarebbero stati così abilitati a un lavoro socialmente utile e fonte di onesti guadagni, unico rimedio al pauperismo e ai vizi ad esso collegati, che deterioravano moralmente e fisicamente le giovani generazioni.

Ricollegandosi in particolare a questi ultimi due punti, l'igiene fisica e morale delle giovani generazioni e i nuovi rami di attività lavorative femminili, la D. pubblicò a Torino nel 1890 il romanzo La sora Gegia, che è sostanzialmente una raccolta di norme igieniche, educative e di nozioni di economia "per le giovani massaie e madri di famiglia", esposte in forma di racconto, subito adottato come libro di lettura nelle scuole femminili normali e superiori. Si interessò anche del valore didattico della declamazione e della recitazione, che all'esercizio mnemonico e ortofonico univano l'acquisizione di spigliatezza e padronanza di sé. Nelle Commediole educative (Firenze 1881), scritte per gli educandati femminili e precedute da una lettera di T. Mamiani, sostenne che la declamazione avrebbe potuto dimostrarsi un potente mezzo di educazione sia fisica sia intellettuale, e arricchire la mente di cognizioni utili senza stancarla. Tra le produzioni teatrali poche erano però quelle effettivamente educative, o per carenza di vivacità di intreccio o per il modo poco allettante di presentare gli argomenti; il risultato finale era quindi quello di annoiare e allontanare le spettatrici, spesso anche perché si trattava di questioni superiori al livello di sviluppo intellettuale e morale del giovane pubblico destinatario. Era un sistema erroneo, per la D., quello di sollecitare passioni premature di ogni tipo: solo rispettando precise tappe fisiologiche e mentali il lavoro del commediografo diventava uno strumento educativo.

Sostenitrice dei diritti femminili, non fu però una accesa emancipazionista. La donna aveva innanzitutto il dovere di liberarsi da difetti atavici e da vizi rinsaldati da erronee abitudini di vita. Lo affermava esplicitamente alla conferenza tenutasi a Firenze nel 1890, in occasione della Esposizione nazionale femminile intitolata alla Beatrice dantesca, organizzata tra gli altri dal fratello Angelo. La D. espose una rassegna tipologica delle donne dei diversi ceti sociali, dalle patrizie e dalle alto e medio borghesi, alle massaie simili "alle bisnonne redivive", alle donne del popolo afflitte spesso da misere condizioni economiche e da mariti brutali.

La donna, col progresso della civiltà, aveva acquistato più ampia coscienza dei suoi diritti e doveri, e in più aveva affiancato alle forze fisiche e intellettuali un'altra forza, la crescita morale. E questo era il frutto di un armonico sviluppo di tutte le virtù, non ultima quella collegata alla pratica dell'economia domestica. In altre parole, secondo la D., la donna nuova si formava e sviluppava nell'ambito sociale della famiglia, l'emancipazione femminile si sviluppava più attraverso la vita familiare che non attraverso il lavoro extradomestico (La donna italiana in famiglia, in La donna italiana descritta da scrittrici italiane, Firenze 1890, pp. 203-221).

Bibl.: A. De Gubernatis, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, Firenze 1879, pp. 360 s.; C. Catanzaro, La donna italiana, Firenze 1890, pp. 56-57; E. Mariani, T. D. vedova Mannucci, Torino 1894; L. Alberini, T. D. Mannucci nell'intimità, in Vita italiana, II(1895), 4, p. 336; C. Villani, Stelle femminili, Napoli 1913, p. 98. Per Enrico, si veda Repertorio biogr. dei diplomatici ital. in servizio dal 1861 al 1915, in corso di stampa.

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