Tipologie contrattuali e disciplina del rapporto di lavoro: Nuova disciplina delle mansioni

Libro dell'anno del Diritto 2016

Tipologie contrattuali e disciplina del rapporto di lavoro: Nuova disciplina delle mansioni

Vincenzo Ferrante

Nell’ambito della riforma del 2015 del rapporto di lavoro, il legislatore mette mano alla disciplina delle mansioni, dettando, a modifica della l. 20.5.1970, n. 300, un nuovo testo dell’art. 2103 c.c. fortemente orientato a favorire maggiore flessibilità nell’esecuzione del contratto, attraverso un ampliamento dei poteri datoriali e delle prerogative della contrattazione collettiva. Tale innovazione rischia di prestarsi ad abusi e di alimentare il contenzioso giudiziale.

La ricognizione: la norma del 1970e la l. n. 183/2014

Nell’ambito delle previsioni della l. delega 10.12.2014, n. 183 (cd. Jobs act), al co. 7, lett. e) dell’art. 1, si è prevista l’attribuzione al Governo di una delega legislativa diretta ad assicurare la «revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento».

Pur nell’ampia genericità, la previsione sembrava finalizzata a consentire, mediante decisione unilaterale del datore, quanto era già ammesso sulla scorta della previsioni della l. 23.7.1991, n. 223 in tema di crisi aziendale, là dove, giuridificando una prassi diffusa, si riconosceva, in presenza di accordo collettivo aziendale, la legittimità del “demansionamento”, quale antidoto al licenziamento (art. 4, co. 11). Sembrava trattarsi, insomma, almeno per questo aspetto, di una semplice revisione della storica disposizione di cui all’art. 13 st. lav., che, novellando l’art. 2103 c.c., era rimasta sostanzialmente immune da qualsiasi intervento per i decenni successivi.

Né peraltro si deve ritenere che siffatta invarianza abbia costituito un ostacolo alla modernizzazione del diritto del lavoro, atteso che la prassi industriale, non solo aziendale, ha sperimentato in molti casi soluzioni innovative, ammettendo la cd. “fungibilità” delle mansioni all’interno dell’area omogenea, in tutti quei settori nei quali la contrattazione collettiva ha sposato il cd. sistema “a banda larga” (broad band), come (per non parlare dei contratti dei comparti pubblici) per il personale delle ferrovie, delle poste e, prima ancora, per il contratto collettivo del settore chimico-farmaceutico. Si trattava, a fronte del venir meno delle mansioni esecutive di livello più semplice (determinato dalla meccanizzazione del lavoro), di ridistribuire il personale in livelli che meglio rispecchiassero le linee di gerarchia interna e comunque ampliassero notevolmente il novero delle mansioni esigibili.

In questo senso la delega si spingeva più in là, indicando altresì fra i criteri direttivi per l’emanazione della legge attuativa la «previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale … possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera».

Con riguardo a tale previsione, si era peraltro rilevato1 come gli ampi spazi oramai riconosciuti alla contrattazione di secondo livello dall’art. 8, d.l. 13.8.2011, n. 138 (conv. con mod. dalla l. 14.9.2011, n. 148), proprio in relazione «alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale» (art. 8, co. 2, lett. b), rendevano anche questa seconda delega ripetitiva, se non per un più ampio rinvio, ora esteso anche alla contrattazione nazionale.

Precisazione, quest’ultima, in certa misura inutile, poiché pare difficile negare che spetti alle parti collettive, in precisa adesione alle disposizioni costituzionali (artt. 36 e 39), la definizione di percorsi professionali coerenti e la stessa attribuzione al lavoro di un valore economico: ed infatti il rinvio costituzionale alla fonte collettiva per l’attuazione del diritto all’equa retribuzione non può che estendersi alla valutazione di proporzionalità circa la “qualità” del lavoro prestato, implicitamente contenuta nella definizione dei sistemi di inquadramento, senza che il giudice, salvi i casi di manifesta violazione del canone dell’equivalenza, possa poi pretendere di sovrapporre la propria valutazione a quella effettuata dalle parti collettive, nell’esercizio di una autonomia negoziale costituzionalmente tutelata.

Ed è certo che, anche al di là delle previsioni positive dell’ordinamento, è nella prospettiva della razionale organizzazione dell’impresa che l’inquadramento conosce normalmente una gestione collettiva, all’evidente fine di evitare conflitti fra i lavoratori in ordine alla attribuzione di valore alle singole prestazioni.

Appare evidente, quindi, come le ragioni dell’intervento protettivo del legislatore del 1970 vadano ricercate in direzione diversa, da quella attinente al riconoscimento del ruolo dell’autonomia collettiva in questa materia.

La formula dell’art. 13 st. lav. rappresentava, invero, un punto di arrivo di un dibattito che aveva animato dottrina e giurisprudenza nel corso degli anni ’60, tanto da indurre il legislatore a riscrivere la norma del codice del 1942, che già ammetteva un limitato potere imprenditoriale di modifica unilaterale delle mansioni (cd. jus variandi), mentre rimaneva incerto se fosse invece possibile applicare i principi generali in tema di contratto alle modifiche concordate fra le parti, «con la conseguenza aberrante della possibilità che anche il più radicale declassamento della posizione sia professionale, sia retributiva del lavoratore fosse considerato legittimo, in quanto consensuale, anche se accettato dal lavoratore solo con comportamento concludente»2.

Da qui l’interpretazione, ben presto consolidatasi in giurisprudenza, di riferire l’ipotesi di cui all’ultimo co. della norma nella nuova formulazione, che prevede la nullità di «ogni patto contrario», non solo a eventuali patti stipulati in sede di assunzione o comunque ex ante, per ampliare i poteri datoriali, ma anche ad accordi realizzati ex post, principalmente in via tacita, attraverso l’accettazione della modifica.

Condivisa questa conclusione, passava in secondo piano la soluzione circa la permanenza dello jus variandi datoriale, che, piuttosto che come potere unilaterale di modifica dell’oggetto del contratto, veniva a presentarsi ora quale esercizio di una prerogativa creditoria di specificazione, all’interno della pluralità di mansioni determinate dal concetto di equivalenza, in logica conseguenza del ruolo di organizzatore dei fattori produttivi che l’ordinamento riconosce in via generale all’imprenditore a mente dell’art. 2086 c.c.

Questo, in sintesi, il quadro normativo e concettuale precedente la riforma del 2015.

La focalizzazione: la norma del d.lgs. n. 81/2015

La l. delega ha trovato attuazione per gli aspetti anzidetti mediante l’art. 3 d.lgs. 15.6.2015, n. 81, che sostituisce integralmente il precedente disposto dell’art. 13 st. lav., con una previsione non più intitolata alla disciplina «delle mansioni», ma «della prestazione», e con un contenuto normativo che si presenta rinnovato, non solo quanto alla collocazione, rispetto al testo originariamente approvato dal Governo, forse anche a seguito delle osservazioni formulate a riguardo dalle Commissioni parlamentari.

La norma, invero, offre lo spunto per numerose osservazioni critiche.

Rinviando per la più minuta analisi del disposto dei singoli commi ai paragrafi successivi, può qui rilevarsi come l’art. 3 d.lgs. n. 81/2015 riproponga i precetti della disposizione statutaria, dilatandone però in genere la portata, così da favorire un rafforzamento del potere datoriale unilaterale. Viene meno, quindi, la nozione di equivalenza come limite nella adibizione a nuove mansioni (co. 1); si ammette altresì il «demansionamento», o mobilità verso il basso, nei casi di «modifica degli assetti organizzativi aziendali» (co. 2) ovvero a fronte di accordi collettivi (co. 4), con il solo limite dell’invarianza della retribuzione (co. 5); tale limite, peraltro, può venir meno qualora l’adibizione a mansioni inferiori sia consensuale, purché l’accordo fra le parti sia raggiunto in sede «protetta» (co. 6); si nega, poi, la possibilità di ricorrere a forme di autotutela individuale, affermando la cogente efficacia dell’ordine datoriale anche in caso di mancato «assolvimento dell’obbligo formativo» (co. 3); infine, si eleva a sei mesi la durata della assegnazione a mansioni superiori perché questa diventi irrevocabile (co. 7), mentre nessuna novità si registra in ordine al trasferimento cd. geografico (co. 8). Si mantiene parimenti la previsione di nullità dei patti contrari, salva però la legittimità delle adibizioni a mansioni inferiori realizzatasi per decisione unilaterale nei casi di cui al co. 2 o per accordo fra le parti, secondo quanto previsto al co. 4.

I profili problematici:equivalenza delle mansioni

Il nuovo art. 2103 c.c. prevede, innanzi tutto, che il lavoratore «deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte».

Viene meno, quindi, il parametro dell’equivalenza delle mansioni quale limite all’esercizio del potere direttivo dell’imprenditore, per essere sostituito dalla nuova categoria della «riconducibilità» delle mansioni di nuova attribuzione «allo stesso livello di inquadramento e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte».

L’aggettivo utilizzato («riconducibili»), seppur non estraneo al linguaggio forense3, potrebbe intendersi come sinonimo di «proprie», posto che altrimenti verrebbero a mancare criteri per determinare in maniera oggettiva siffatta potenzialità, di modo che si deve ipotizzare che il legislatore abbia voluto ammettere una illimitata fungibilità fra tutte le mansioni che la contrattazione collettiva colloca all’interno di un unitario livello di inquadramento. Così intesa, però, la norma è assolutamente irragionevole e appare financo restrittiva rispetto alla giurisprudenza formatasi in precedenza.

Se è indubbio che livelli retributivi omogenei contengono numerosissimi profili professionali (il contratto del trasporto ferroviario, per es., inquadra numerosi profili professionali al liv. D, con professionalità fra loro diversissime), ammettere una piena fungibilità fra tutti i profili, soprattutto nei settori manufatturieri (che richiedono competenze tecniche nella produzione), appare un esercizio che sconfina nella manifesta irragionevolezza, venendo a legittimare, per fare qualche esempio (forse paradossale) collegato al contratto collettivo prima richiamato, che, nell’ambito del livello B, il capotreno venga adibito a mansioni di ufficiale di macchina nei collegamenti tramite ferry-boat con le isole o che il tecnico «verificatore» faccia il carpentiere (liv. C).

Ed invero il ricorso alla “banda larga” prima richiamato dava per scontato ed implicito un quadro normativo che, attraverso previsioni espresse, o comunque mediante il riferimento all’equivalenza, limitava comunque la fungibilità delle mansioni, secondo criteri che rinviavano alla prassi aziendale o alla presenza di «precedenti» o al permanere di caratteristiche estrinseche ed intrinseche dell’attività. La nuova formulazione, invece, attraverso il richiamo ad una operazione dai confini (anche temporali) indefiniti affida la pratica operatività della norma alle incertezze della sua attuazione giurisprudenziale, senza riuscire ad identificare un nucleo concettuale intorno al quale fondare con sicurezza i limiti dei poteri datoriali rinnovati.

Né è di aiuto il criterio della categoria legale, pure richiamato dal legislatore del 2015, che vale semmai a evocare un fantasma del passato, posto che esso appariva superato già a Ludovico Barassi oltre ottanta anni fa4 e non si comprende per quale ragione il legislatore di oggi lo voglia riesumare, se non per introdurre illogiche limitazioni del tutto sconosciute anche al sentire comune, e a tutta la giurisprudenza a noi contemporanea5.

Né peraltro l’obbligo formativo gravante in capo al datore, previsto dal co. 3 con ipotesi però de plano riferibile alla mobilità «orizzontale» (e non solo al «demansionamento» di cui subito infra), può valere ad attenuare l’irrazionalità di siffatta previsione, sia perché il legislatore si preoccupa subito di precisare che l’efficacia dell’ordine datoriale non ne è condizionata, tanto che esso va eseguito anche in assenza di idonea attività formativa, sia perché la professionalità del lavoro finisce spesso per determinare l’insorgere di obblighi che vanno ben al di là del mero addestramento alla mansione, senza che sul piano della diligenza si venga a rilevare, se non in via implicita (v. infra), un corrispondente attenuazione dell’obbligazione di cui all’art. 2104, co. 2, c.c.

Non è difficile ipotizzare allora che, al fine di trovare una soluzione più coerente con la tradizione e con condivisibili esigenze sistematiche, la «riconducibilità» venga, alla fine, ad essere intesa quale variante semantica dell’equivalenza, valorizzando la terminologia diffusasi in precedenza, nei termini quindi di una equivalenza per così dire «dinamica»6, come possibile sviluppo, anche attraverso un percorso formativo, della professionalità già acquisita dal lavoratore, secondo un significato che, tuttavia, poco o nulla innova, rispetto all’attuale disciplina.

3.1 Demansionamento e assetti organizzativi aziendali

I co. 26 si occupano di disciplinare l’ipotesi nella quale al lavoratore siano attribuite mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione o a quelle successivamente raggiunte, collegando (co. 2) questa ipotesi alla «modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore», salvo tuttavia il limite della categoria legale.

Il co. 4 prevede poi che «ulteriori ipotesi» di mobilità “verso il basso”, «possono essere previste dai contratti collettivi».

Il co. 3 precisa, con ipotesi che, come già sopra richiamato, sembra dotata di portata generale e quindi applicabile anche all’ipotesi di modifica “orizzontale”, che il «mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni».

Il co. 5, stabilisce poi che nelle ipotesi di adibizione a mansioni inferiori per esigenze organizzative aziendali (co. 2) o per altri presupposti individuati dalla contrattazione collettiva (co. 4), «il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa».

Si potrebbe ipotizzare che le norme ora citate contengano la mera esplicitazione di conclusioni oramai ampiamente avallate dalla prassi e dalla giurisprudenza: il richiamo alle fonti collettive contenuto nell’art. 2095, co. 2, c.c. in tema di categorie legali, infatti, vale a determinare una ampia devoluzione normativa alla contrattazione, tanto che questa ha introdotto le clausole “di fungibilità”, soprattutto nei settori prima ricordati, nei quali la sostanziale scomparsa del lavoro manuale ha compresso a tre o quattro i livelli di inquadramento, cancellando di fatto la categoria operaia. Se però fosse questa l’originaria intenzione del legislatore delegante, si dovrà riconoscere che il complessivo disposto della norma, sembra andare ben oltre il bersaglio, moltiplicando senza un preciso ordine le ipotesi di deroga.

Ed invero, il termine «ipotesi» di cui al co. 4 sembra rinviare alla previsione di specifiche situazioni oggettive anche se non è difficile pensare ad accordi aziendali che contengano una sorta di autorizzazione concessa ad hoc.

Il rinvio alla contrattazione merita senz’altro una riflessione, posto che nel caso di norme collettive di «demansionamento» potrebbe sussistere un potere ablatorio del sindacato che si risolve, non nella applicazione generalizzata di differenti condizioni economiche, ma nella modifica della posizione soggettiva individuale, in assenza di un vantaggio che giustifichi un sacrificio di tale portata. La questione è, ovviamente, quella (che esula da queste note) della sussistenza di un potere, della contrattazione collettiva, dispositivo di una posizione individuale già esistente.

Si presenta invece in termini di spiccata novità il riconoscimento di un potere datoriale di adibizione a mansioni inferiori a fronte di una modifica degli assetti organizzativi aziendali.

A riguardo, si deve segnalare un contrasto, che appare evidente a chi scrive, con la l. delega prima riportata, posto che quella, seppure con una formula resa incerta dal rinvio a finalità individuali, ricollegava la modifica peggiorativa del contenuto professionale comunque al «caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi»; basta poco, invece, per rendersi conto che il presupposto ora individuato dal legislatore appare del tutto inidoneo a costituire garanzia di un esercizio non autocratico del potere direttivo, atteso che, se anche si modificano le mansioni di un lavoratore per puro capriccio, si realizza comunque in via di fatto una «modifica degli assetti organizzativi aziendali».

E parimenti, su un altro versante, deve apparire chiaro come ogni impresa, anche quella che produce utili, necessita periodicamente di modificare l’organizzazione interna e, spesso, i sistemi di lavoro. Collegare quindi una dilatazione dei poteri dell’imprenditore alla sussistenza di situazioni descritte non già attraverso elementi oggettivi che prendono in considerazioni situazioni estranee alla mera volontà del vertice aziendale, e comunque di così frequente manifestazione, rischia, di fatto, in contrasto con la l. delega, di rendere l’applicazione del principio della corrispondenza fra retribuzione e mansioni, di cui all’attuale art. 2103 c.c., condizionata ad una clausola meramente potestativa.

Detto in altri termini, la «modifica degli assetti organizzativi» è effetto della decisione aziendale, non ne è causa (e, quindi, non può divenirne presupposto legittimante, a mente della tradizionale tecnica di limitazione del potere datoriale, attraverso il riferimento a specifiche situazioni di fatto).

Il contrasto, peraltro, non si ferma solamente al piano dell’alterazione delle regole elementari del contratto, che vogliono che il debitore si rappresenti sin dall’inizio la prestazione che gli sarà richiesta per la sua liberazione (principio di determinabilità dell’oggetto del contratto), ma anche al piano costituzionale, posto che, con l’autorevole conforto della sentenza C. cost., 31.3.1995, n. 101, si può senz’altro affermare che il principio che fa corrispondere, a parità di mansioni, parità di retribuzione, sembra proiettarsi su un piano che trascende il diritto positivo, quale manifestazione di un elementare principio di giustizia.

Si tratta, peraltro, di un principio che, come riconosce la consolidata giurisprudenza che condanna il datore al risarcimento del danno «da demansionamento» richiamandosi a valori che attengono alla tutela della persona, instaura una corrispondenza biunivoca, di modo che non appare in alcun modo lecita, al di là di situazioni meramente temporanee o eccezionali, una adibizione a mansioni inferiori quand’anche la retribuzione resti invariata.

Ed invero, la lunga evoluzione giurisprudenziale dell’applicazione dell’art. 2103 c.c. ha finito oramai per collocare la violazione del disposto codicistico, non già nella prospettiva di un lucro cessante, ma piuttosto in quella del danno alla persona, nella forma di una lesione alla vita di relazione, alla propria identificazione sociale, o alle conseguenze derivanti da una alterazione del complessivo stato di benessere7.

In questa prospettiva, appare evidente come la legittimazione di «demansionamenti» non temporanei, pur se legittima alla luce della disposizione oggi vigente, finisce comunque per lasciare aperta la questione dell’eventuale danno che ad essi può conseguire, e su cui il legislatore tace, con l’evidente pericolo di dar vita ad un tortuoso percorso, al termine del quale il divieto di adibizione a mansioni inferiori rischierebbe di riemergere quale conseguenza della tutela della personalità morale del lavoratore, a mente del disposto dell’art. 2087 c.c.

La norma ora introdotta che legittima adibizione a mansioni inferiori a retribuzione invariata è quindi costretta a misurarsi con quest’assetto, concettuale e costituzionale, che si presenta come consolidato e condiviso, oramai al di là della espressa previsione del 1970, tanto da svelare chiaramente la natura puramente transitoria della soluzione unilaterale di cui al co. 5 della norma in commento, come è fatto palese dal successivo co. 6, modificato in fase di redazione finale, che ammette la riduzione della retribuzione in forza di uno specifico accordo fra le parti del rapporto sottoscritto in sede protetta.

Ed invero, contrasta con ogni possibile criterio di logica un utilizzo protratto del lavoratore in mansioni inferiori, mentre la norma avrebbe dovuto avere riguardo ai tanti casi che sono riportati nella casistica giurisprudenziale, nella quale i giudici sono chiamati a giudicare della legittimità di modifiche giustificate, dalla parte imprenditoriale, da esigenze transitorie dell’impresa o del lavoratore, da riorganizzazioni aziendali, da richieste individuali o da esigenze familiari del lavoratore. Queste circostanze, invero, venivano confusamente richiamate nella l. delega, nella prospettiva che l’esecutivo sapesse poi trovare una formula giuridica idonea a dare ad esse più preciso rilievo.

3.2 L’adibizione consensuale a mansioni inferiori

Il co. 6 stabilisce che «nelle sedi di cui all’articolo 2113 c.c., quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro».

La norma associa ad una previsione, formulata secondo gli schemi classici del diritto privato, ed attributiva di una valore permissivo alle manifestazioni dell’autonomia negoziale, il perseguimento di specifiche finalità delle parti private, senza chiarire se tale aggiunta costituisca individuazione di un elemento della fattispecie o una mera esemplificazione dei possibili motivi dell’agire giuridico del singolo.

La confusione, in una situazione siffatta, non può che essere grande, poiché o si deve reputare che il legislatore parli sostanzialmente ad un pubblico “laico”, oppure si è costretti ad attribuire un significato ad una così impegnativa previsione, nei termini ovviamente della verifica della sussistenza del presupposto legittimante, ai fini della validità degli accordi, secondo il modello tipico di controllo della legittimità degli atti (unilaterali) di esercizio del potere datoriale.

Ma, ove si vada a questa seconda ipotesi, il compito sfiora il ridicolo, posto che il giudice chiamato a valutare della validità dell’accordo dovrebbe esprimersi sulla sussistenza di un interesse del lavoratore non solo alla conservazione dell’occupazione, ma anche «all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita»: presupposti questi o tautologici (il primo) o, almeno prima facie, contraddittori.

In ogni caso, anche a voler ritenere del tutto esemplificative queste precisazioni e prive, quindi, di un valore quali elementi di fattispecie, resta che esse valgono a qualificare, se non altro in termini di causa individualmente perseguita, la manifestazione di volontà espressa, esponendo quindi il negozio sottoscritto al rischio di una successiva richiesta di annullamento (1429 c.c.), senza che l’assistenza fornita dai professionisti richiamati dalla norma (o dai rappresentanti sindacali) possa valere, al di là di una eventuale testimonianza, ad attribuire alla volizione una efficacia per così dire rafforzata.

In altri termini, il legislatore del diritto del lavoro si è sempre mantenuto alla larga dalle questioni attinenti ai vizi della volontà, temendo le insidie di un accertamento in sede giudiziale della effettiva libertà delle dichiarazioni negoziali del lavoratore. Ora, invece, si abbandona quell’approccio per attribuire un valore abdicativo incondizionato alla volontà del lavoratore, sia pure manifestata in una certa sede.

In questo senso non sarebbe stato illogico se il legislatore si fosse dato carico di meglio precisare, in caso di modifiche consensuali del rapporto di lavoro, in che termini possa configurarsi una responsabilità per chi raccoglie le manifestazioni di volontà delle parti o per chi le assiste, laddove sorga successivamente contestazione in ordine alla sussistenza di vizi della volontà. Aspetto, questo, forse più consono ad una fonte secondaria o ad istruzioni amministrative, ma che non potrà che riflettersi sulla concreta funzionalità di una previsione che, altrimenti, finirà per aprire la strada ad un contenzioso per nulla facile, a mente della giurisprudenza registratasi in tema di annullamento delle dimissioni, in relazione alla quale non è raro registrare un ampliamento in via di fatto della portata della norma di legge, ben al di là della stretta interpretazione.

Insomma, anche in questo caso, al pari di quanto è avvenuto ad es. per la certificazione, la soluzione nuova imposta dal legislatore delegato appare priva di quella necessaria chiarezza, anche in ordine alle ricadute pratiche, che solo può determinarne il successo fra gli operatori e, di conseguenza, denota una evoluzione per nulla conforme al canone di semplificazione, che pure il legislatore delegante aveva indicato all’esecutivo (art. 1, co. 7, lett. e l. n. 183/2014).

3.3 L’adibizione a mansioni superiori

Resta da dire, per completare l’esposizione del contenuto precettivo della norma, che viene solo marginalmente modificata la disposizione che prevedeva la promozione automatica, stabilendosi al co. 7 che, nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

L’ipotesi di una opposizione del lavoratore alla promozione automatica già si era affacciata nella giurisprudenza, soprattutto in relazione al conferimento della qualifica dirigenziale, di modo che la soluzione ora legificata non appare illogica, per quanto destinata a limitatissime ipotesi, mentre l’incremento del periodo necessario alla promozione (da novanta giorni a sei mesi) non scioglie le incertezze del passato in ordine ai criteri di computo da applicare in tale ipotesi (per es. in ordine al periodo passato in ferie dal lavoratore).

Né peraltro la norma si fa carico della sorte delle previsioni collettive (e non sono poche) che ripetono l’abrogata formula dell’art. 13 st. lav., che de plano non possono che rimanere in vigore, a mente del principio della derogabilità in melius della norma di tutela, a mente dell’art. 2077 c.c. (e dell’art. 40 st. lav.).

Resta infine coerentemente esclusa la promozione automatica, quando l’adibizione a mansioni superiori «non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio».

3.4 L’obbligo formativo

Un ultima notazione riguarda il co. 3 nel quale il legislatore dopo aver affermato che il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, precisa che il mancato adempimento dell’obbligo anzidetto «non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni».

L’affermazione merita una qualche precisazione: seppure il punto non fosse esente da contrasti, doveva ritenersi che gli ordini datoriali non costituissero in senso proprio atti negoziali, ma piuttosto fossero espressione di prerogative creditorie, qualificandosi quindi nei termini di condotte esecutive, dirette all’attuazione del contratto: condotte materiali, quindi, in relazione alle quali non aveva senso richiamare la qualificazione in termini di nullità, dovendosi semmai parlare di un inadempimento ad un obbligo di protezione del lavoratore.

Tanto ha consentito alla giurisprudenza di poter fare applicazione del principio di buona fede in executivis (art. 1375 c.c.) dando così, seppur indirettamente rilievo alla condotta individuale del prestatore (all’evidente fine di evitare situazioni di latente abuso di tutela, in relazione alle quali la dottrina tante volte si è soffermata).

Deve essere chiaro, invece, come il richiamo alla nullità, ove correttamente inteso, finisce per sospingere la ricostruzione concettuale del rapporto di lavoro verso l’area del provvedimento, ben nota alla dottrina amministrativa, più che del contratto di scambio, impedendo così il richiamo alla buona fede, posto che, a tutta evidenza (salvo a non fare delle categorie generali del diritto civile un uso puramente soggettivo), non può applicarsi una valutazione di buona fede a chi invoca l’eccezione di nullità (non essendo ammessa, in via generale, l’ipotesi della convalida, a mente del disposto dell’art. 1423 c.c.). Di qui un ampliamento della tutela del lavoratore, secondo tuttavia criteri che non tengono in alcun conto della gravità dell’inadempimento (posto che l’atto, o è nullo o non lo è, mentre la gravità dell’inadempimento si presta a valutazioni di buona fede, secondo i canoni di cui all’art. 1460 c.c.).

In ogni caso, al di là delle considerazioni di sistema di cui sopra, si deve notare come la norma nell’intervenire sull’ordinario meccanismo di garanzia dell’equilibrio sinallagmatico delle contrapposte obbligazioni finisca per assolvere (seppur solo implicitamente) il lavoratore da eventuali carenze sul piano della diligenza “professionale”, che pure caratterizza il contratto di lavoro subordinato a mente dell’art. 2104 c.c., evidente essendo come non possa a lui imputarsi una prestazione non conforme allo standard, almeno fin tanto che il processo formativo non sia giunto a compimento. E solo può aggiungersi che il legislatore nell’ammettere sine die l’adibizione del prestatore ad una attività lavorativa per la quale egli è privo di una specifica preparazione sembra voler riportare in auge una visione arcaica del lavoro subordinato, quasi che nel contratto di cui all’art. 2094 c.c., il lavoratore sia pagato solo per mettersi a disposizione dell’imprenditore e non per offrire la sua professionalità8.

1 V. Gargiulo, U., La revisione della disciplina delle mansioni nel Jobs Act, in Rusciano, M. Zoppoli, L., a cura di, Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 3/2014, 99 ss.

2 Così Suppiej, G., Mansioni del lavoratore, in Prosperetti (cur.), Commentario dello Statuto dei lavoratori, Milano, 1975, I., 334 ss., qui 354, seppure nell’ambito di una ricostruzione rimasta sostanzialmente isolata.

3 V. fra le primissime che lo adottano, v. Cass., 23.12.1988, n. 7050.

4 V. Barassi, L., Un problema insolubile: la differenza fra le qualifiche di impiegato e operaio, in Foro it., 1931, I, c. 377 ss., il cui incipit merita di essere citato per intero: «Ancora una volta (e fino a quando?) ritorna a galla la questione circa il criterio discriminativo tra “impiegato” e “operaio”. Tutte le qualifiche dei lavoratori addetti ad una azienda sono state raccolte in due grandi suddivisioni: impiegati ed operai. Bisogna convenire che questo binomio, che avrebbe la pretesa di esaurire il mondo dei lavoratori subordinati risponde ad una oscura tendenza della nostra coscienza …».

5 L’adibizione a mansioni operaie dell’impiegato è ammessa, ad es., già da Cass., 16.10.1985, n. 5098, nonché, più di recente, da Cass., 7.9.2000, n. 11806; Cass., 5.12.2007.

6 In questo senso, v. ad es. Cass., 23.3.2005, n. 6326. V. altresì la cit. Cass., S.U., 24.11.2006, n. 25033.

7 Per i termini entro i quali viene riconosciuto un danno da “demansionamento”, v. la notissima Cass., S.U., 24.3.2006,

n. 6572.

8 A riguardo, v. in particolare Napoli, M., Contratto e rapporto di lavoro oggi, in Id., Questioni di diritto del lavoro (1992-1996), Torino, 1996, 3 ss.

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