Tolemeo [pseudo]

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Tolemeo (pseudo)

Sebastiano Gentile

Allo scienziato alessandrino Claudio Tolemeo (2° sec. d.C.), autore di trattati quali l’Almagestum, il Tetrabiblos (o Quadripartitum) e la Geographia, viene tradizionalmente attribuito il detto: «Vir sapiens dominabitur astris» (con varianti che omettono vir o hanno il presente dominatur), la cui diffusione è vastissima. Lo ritroviamo, per es., in Alberto Magno, in Tommaso d’Aquino, nei commentari danteschi e, per venire a tempi e luoghi più vicini a M., nelle Prediche di san Bernardino da Siena (Prediche senesi del 1427, II 7), allusivamente nella risposta del Burchiello a ser Domenico da Prato (vv. 12-13, in Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, Le poesie autentiche, a cura di A. Lanza, 2010, p. 422), nel Morgante di Luigi Pulci (XXVIII 150), nel commento alla Commedia di Cristoforo Landino (allude al detto ad Purgatorio XVI 64-84, lo cita ad Paradiso IV 55-63: cfr. C. Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, 2001, 3° vol., p. 1294, 4° vol., p. 1619) e nella Rappresentazione di san Giovanni e Paolo di Lorenzo de’ Medici (v. 145). Nelle fonti la citazione è anonima, oppure prevale nettamente l’attribuzione a T., e, malgrado in un paio di occasioni lo si attribuisca all’Almagestum, il riferimento è quasi costantemente a un’opera pseudotolemaica, vale a dire al Centiloquium (o Fructus, Καρπός in greco). Quest’opera, un florilegio di cento sententiae, ebbe una vastissima circolazione in Occidente, in particolare grazie alla versione latina dall’arabo di Giovanni da Siviglia, con un commento che le stampe antiche assegnano ad ‛Ali ibn Riḍwān (m. 1068); la stessa opera venne poi tradotta nel Quattrocento da Giorgio Trapezunzio (prima del 1458) e da Giovanni Pontano, che le dedicò un nuovo commento.

In realtà, nel Centiloquium il detto in questione non si trova, o almeno non alla lettera. Nella sentenza VIII (si cita dalla traduzione latina medievale stampata a Venezia nel 1493 da Boneto Locatello per Ottaviano Scoto, c. 107v), intitolata De dignitate prescientie anime, leggiamo infatti: Anima sapiens ita adiuvabit opus stellarum quemadmodum seminator fortitudines naturales («L’anima sapiente asseconderà l’opera delle stelle nello stesso modo in cui il seminatore coopererà con le forze della natura») che viene così commentato da ‛Ali:

Sapiens est illa anima que scit illud quod diximus de fortitudinibus celi; et eius adiutorium est, quando aliquod boni alicui eventurum cognoverit; ei res sic aptare precipiat, ut illud bonum venturum maius ac melius eveniat quam eveniret nisi sic eum praemuniret, ut iam locuti sumus de hoc sufficienter in quinto capitulo Sapiente è quell’anima che conosce ciò che abbiamo detto sulle forze del cielo; e potrà cooperare con questa quando si accorgerà che un qualche bene sta per capitare a qualcuno; allora potrà consigliare costui di adattare le cose in maniera tale che quel bene in arrivo sia maggiore e migliore di quanto non sarebbe stato se lui non si fosse premunito nella maniera di cui abbiamo detto nel quinto capitolo;

e nella sentenza V, a cui l’VIII rinvia, leggiamo:

Optimus astrologus multum malum prohibere poterit quod secundum stellas venturum est, cum earum naturam presciverit: sic enim premuniet eum, cui malum futurum est, ut possit illud pati

L’ottimo astrologo potrà impedire molti mali preannunziati dalla stelle, se conoscerà la natura di queste: così infatti potrà premunire colui al quale il male è destinato, di modo che possa sopportarlo.

Le analogie con il detto sono significative e ne giustificherebbero l’attribuzione a T., anche se la precisa fonte della formulazione che si diffonderà a partire dal Duecento non è stata ancora individuata. Nell’epistolario di M., il detto ritorna due volte.

La prima in una lettera, datata Padova 4 giugno 1504, di Bartolomeo Vespucci, figlio di un notaio nella cancelleria fiorentina, Antonio Vespucci, a cui M. era legato da rapporti di lavoro e di amicizia. Bartolomeo, allora ventitreenne, era dottore in Arti e in astrologia, titolo da lui conseguito allo Studio fiorentino dove aveva studiato tra il 1498 e il 1503; si era poi trasferito nel 1504 a Padova dove frequentava lo Studio e dove nel 1506, non nelle vesti di studente padovano, ma in virtù del titolo fiorentino, pronunziò un’orazione inaugurale in lode delle Arti del quadrivio e in particolare dall’astrologia – pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1508 con la Sphaera di Giovanni di Sacrobosco e altri opuscoli («Impressio Veneta per Ioannem Rubeum et Bernardinum fratres Vercellenses») –, da cui, tra l’altro, si ricava che almeno nel 1506 egli insegnava pubblicamente «in celeberrimo Gymnasio Patavino» (c. a2r). Tramite il padre Antonio, Bartolomeo aveva ricevuto una lettera di M. colma di lodi nei suoi confronti, in cui si trattava di astrologia e in cui gli si chiedeva un parere in merito:

Cum enim ab huiusmodi viro me laudari cognovero, omnibus viribus in talem virum evadere intendam, ut opinioni sue aliqua ex parte respondere valeam. Laudes astronomie quamque humano generi utilitatem tribuat melius est sicco pede transire quam imo gurgite mergi. Sat est quod sententia tua verissima dicenda est: cum omnes antiqui uno ore clament sapientem ipsum astrorum influxus immutare posse, non illorum, cum in eternis nulla possit cadere mutatio, sed hoc respectu sui intelligitur, aliter et aliter passum ipsum immutando atque alterando.

Quando mi renderò conto di essere lodato da un sì grande uomo, mi sforzerò con tutte le mie forze di divenire tale da corrispondere almeno in parte all’opinione che ha di me. È meglio passar sopra leggeri, senza bagnarsi, sulle lodi dell’astronomia e su quanta utilità essa rechi al genere umano, piuttosto che lasciarsi sommergere nel loro profondo gorgo. È sufficiente che si dichiari verissima la tua opinione: quantunque tutti gli antichi all’unisono dichiarino che il sapiente è in grado di mutare gli influssi degli astri, questo mutamento non va inteso come riferito agli astri (dacché mutamento non può essere in ciò che è eterno), ma al sapiente stesso, il quale può subire le influenze astrali in maniera sempre diversa mutando e modificando se stesso (punteggiatura e traduzione leggermente diverse rispetto a Sasso 1988, pp. 43-46, e a Lettere, p. 101).

Riservandosi di riprendere il tema delle lodi dell’astrologia al termine delle lezioni universitarie, Vespucci per il momento si limitava dunque a dichiarare «verissima» la «sententia» di M., che costituiva una sorta di corollario al detto tolemaico, divenuto perla di saggezza antica: M. avrebbe scritto nella lettera perduta che, sebbene gli antichi concordemente affermino la possibilità che il sapiente muti gli influssi degli astri, questo mutamento si dovrà intendere non come riferito propriamente agli astri, che in quanto eterni sono necessariamente immutabili, ma al sapiente, che subisce i loro influssi in maniera sempre diversa, e mutando e alterando di volta in volta se stesso in qualche modo riesce a temperarne e a governarne gli effetti.

La seconda occorrenza machiavelliana del detto pseudotolemaico è nei Ghiribizzi al Soderino, indirizzati al giovane Giovan Battista Soderini, nipote del gonfaloniere Piero, datati Perugia, 13-21 settembre 1506:

E veramente chi fussi tanto savio, che conoscessi e’ tempi e l’ordine delle cose e accomodassisi a quelle, arebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista, e verrebbe ad essere vero [quel proverbio che dice] che ’l savio comandassi alle stelle et a’ fati. Ma perché di questi savi non si truova, havendo li uomini prima la vista corta e non potendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la fortuna varia et comanda a li huomini, et tiegli sotto el giogo suo (Lettere, pp. 137-38; il passo tra parentesi quadre è cancellato nell’autografo: cfr. Ridolfi, Ghiglieri 1970-1971, p. 73 nota 54; G. Inglese, introduzione a N. Machiavelli, Capitoli, 1981, p. 71).

Si noterà innanzi tutto come il riferimento nell’autografo («quel proverbio») – confermando l’anonimato che il detto ha nella sententia [...] verissima di M., quale viene riportata nella lettera di Vespucci – potrebbe costituire un indizio a favore della provenienza machiavelliana della sententia stessa. Al di là di quella che sembrerebbe una reminiscenza albertiana («Tiene gioco la fortuna solo a chi se gli sottomette», Libri della famiglia, prologo 131-32, a cura di

R. Romano, A. Tenenti, F. Furlan, 1994, p. 7), come già è stato rilevato M. sembrerebbe qui citare il detto pseudotolemaico, per poi vanificarne la validità, in contrasto con quanto si legge nella lettera di Vespucci (cfr. Sasso 1988, pp. 46-48). Avremmo quindi una iniziale adesione al detto antico e, due anni più tardi, la negazione della sua validità. Ma forse il contrasto va sfumato. In un passo del commento dantesco di Benvenuto Rambaldi da Imola leggiamo:

et verum dicit, quia secundum Ptholomaeum sapiens dominabitur astris; sed cum sapientes sint paucissimi et insipientes infiniti, ideo pauci sunt qui possint contra coelum et contra fortunam

e dice il vero poiché secondo Tolomeo ‘il sapiente dominerà le stelle’; ma poiché i sapienti sono pochissimi e gli stolti infiniti, perciò sono anche pochi quelli che hanno potere contro il cielo e contro la fortuna (commento a Inferno XV 79-99, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, a cura di J.P. Lacaita, 1° vol., 1887, p. 520).

L’osservazione del commentatore dantesco (già chiamato in causa per altri paralleli con M.: cfr. Sasso 1997, ad indicem) in merito all’estrema rarità dei ‘sapienti’ è analoga a quella di M. e forse offre una chiave per intendere la divergenza tra le due lettere riguardo alla relazione tra il sapiente e la Fortuna. Se prese da sole, queste sembrano indicare un repentino cambiamento di opinione in Machiavelli. Tuttavia, l’immagine del vir sapiens e le considerazioni che M. solleva al riguardo, non sono lontane da quelle dello stesso M. a proposito del «principe savio». Si pensi, per es., a Principe xiii 24: «Pertanto colui che in uno principato non conosce e’ mali quando nascono, non è veramente savio; e questo è dato a pochi» (ed. Inglese 2013, p. 102); oppure a xiv 16: «Questi simili modi debbe osservare uno principe savio, e mai ne’ tempi pacifici stare ozioso, ma con industria farne capitale, per potersene valere nelle avversità, acciò che, quando si muta la fortuna, lo truovi parato a resisterle» (ed. Inglese 2013, p. 108). Se nel 1504 M. pare ammettere la possibilità che il sapiente ‘domini’ le stelle, forse non la nega del tutto neppure nel 1506, visto che poi la riammetteva, sia pure limitata a «pochi», nel 1513. L’espressione contenuta nei Ghiribizzi («di questi savi non si truova») potrebbe essere quindi intesa in maniera meno radicale, come a significare la difficoltà, ma non l’impossibilità, di trovare dei «savi»: ne sarebbero esistiti «pochi», come è «dato a pochi» l’essere «veramente savio», e come paucissimi li riteneva Rambaldi.

Bibliografia: Fonti: Benvenuti de Rambaldis de Imola, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, nunc primum integre in lucem editum, sumptibus G.W. Vernon curante J.P. Lacaita, Florentiae 1887; N. Machiavelli, Capitoli, introduzione, testo critico e commentario di G. Inglese, Roma 1981; Leon Battista Alberti, Libri della famiglia, a cura di R. Romano, A. Tenenti, nuova ed. a cura di F. Furlan, Torino 1994; Cristoforo Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, 4 voll., Roma 2001; Domenico di Giovanni detto il Burchiello, Le poesie autentiche, a cura di A. Lanza, Roma 2010.

Per gli studi critici si vedano: R. Ridolfi, P. Ghiglieri, I Ghiribizzi al Soderini, «La bibliofilia», 1970-1971, 72-73, pp. 53-74; G. Sasso, Qualche osservazione sui Ghiribizzi al Soderino, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 3-56; E. Garin, Aspetti del pensiero di Machiavelli, in Id., Dal Rinascimento all’Illuminismo, Firenze 19932, pp. 33-72; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol., Milano-Napoli 1997.

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