Tolleranza

Dizionario di filosofia (2009)

tolleranza


L’uso del concetto si diffuse, nel corso del 16° e del 17° sec., all’interno della discussione sul dissenso religioso nell’Europa della Riforma protestante. Il problema della t., cioè, si pose inizialmente come t. religiosa e solo successivamente divenne il tema della t. o libertà politica.

La frattura dell’universalismo cristiano

Il mondo antico non conosceva l’idea di t.; tutti i culti erano infatti permessi, si riconosceva però alla religione un ruolo fondamentale nella vita sociale e di conseguenza era condannata l’empietà (l’esempio più celebre è quello di Socrate, condannato per «ateismo»). L’idea di t. nasce quindi in seno al cristianesimo, dopo la Riforma, come risposta alla divisione tra le diverse credenze cristiane e trova il proprio sostegno teorico nella dottrina del primato e della incoercibilità della fede. Il principio della t. si afferma pertanto sullo sfondo della frattura dell’unità religiosa europea determinata dalla Riforma, quando il modello della Respublica christiana si avvia a un definitivo tramonto parallelamente al sorgere degli Stati nazionali. Fino alla Riforma, la rivendicazione del principio della t. religiosa era stata espressa in modo diverso, come ideale irenico e prettamente filosofico: pensatori del Rinascimento, quali G. Pico e Ficino, avevano nutrito l’ideale di una ‘religione filosofica’ capace di risolvere i conflitti tra le diverse religioni. La Riforma pone il problema della t. in termini nuovi: in primo luogo, la dimensione di massa del conflitto è tale da impedire alla Chiesa di Roma una rapida amputazione dei dissidenti, come nei secoli precedenti; in secondo luogo, si tratta di uno scontro intraconfessionale, di una lotta accanita nel contesto di una condivisione di una comune verità cristiana. In tale contesto anche Erasmo lancia un appassionato appello per una riconciliazione religiosa (De amabili Ecclesiae concordia, 1533) da edificare su una base comune, antidogmatica e morale. Molti scontri, infine, avvengono all’interno dello stesso mondo protestante, dove i conflitti non possono essere risolti mediante il ricorso a un’autorità inappellabile e a un magistero superiore, come quello pontificio nella Chiesa cattolica.

Le basi teoriche

Di grande rilevanza è il contributo di Lutero (De libertate christiana, 1520), il quale mette al centro del concetto di libertà cristiana l’idea di Agostino che la fede, opera della grazia, non può essere imposta dagli uomini: questa interpretazione diventò l’argomento centrale a favore della necessità della t. religiosa. Altro testo fondamentale fu quello che Sebastiano Castellione scrisse in reazione alla condanna di Michele Serveto (arso vivo nel 1553 per le sue dottrine antitrinitarie), ordinata ed eseguita nella Ginevra di Calvino. Nel De haereticis an sint persequendi (1554, pubbl. con lo pseud. di Martinus Bellius) Castellione sostiene che l’eretico può essere allontanato dalla comunità solo dopo molti tentativi di persuasione, perché la fede è una credenza, da correggere quindi con interventi puramente spirituali, mentre la persecuzione, in quanto violenza, si oppone nettamente al principio della carità e fraternità cristiane. Alla fine del Cinquecento, nella Francia sconvolta dalle lotte tra cattolici e ugonotti, Montaigne dedica uno degli Essais (usciti tra il 1580 e il 1588) alla libertà di coscienza con argomentazioni a sfondo scettico: compito del sapere non è elaborare certezze, bensì indicare un percorso di vita ragionevole; il saggio sospende quindi il giudizio di fronte alle differenze religiose e mantiene libera la mente, adattandosi però esteriormente ai modi e alle forme imposte dalla società, in un conformismo che è garanzia di stabilità sociale. La religione non viene scelta, ma è un fatto casuale: si è circoncisi o battezzati ancor prima di nascere, così come si è perigordini o tedeschi (II, 12). Nel medesimo contesto, Bodin nel Colloquium heptaplomeres (scritto nel 1593, ma non pubblicato) sostiene la necessità di una pace religiosa da ottenere tramite il ritorno a una religione naturale che eliminerebbe tutte le controversie dogmatiche; ma soprattutto nei Six livres de la République (1576) pone l’autorità dello Stato al di sopra delle dispute religiose. Per Bodin e per tutto il partito dei politiques, la t. rappresenta il modo migliore per impedire la dissoluzione politica dello Stato a opera delle fazioni religiose in conflitto. Il tema della t. è anche ben presente nei testi dei sociniani (antitrinitari, fautori di una religione razionale e perseguitati in tutta Europa) e degli arminiani (negatori del dogma calvinista della predestinazione). Tra questi, Grozio (De imperio summarum potestatum circa sacra, 1614, ma pubbl. postumo nel 1647) sostiene che credere è possibile solo con l’aiuto «misterioso» di Dio, pertanto imporre la fede con le armi non è in potere dello Stato. Riguardo allo ius circa sacra Grozio afferma la suprema autorità dello Stato in materia religiosa: spetta allo Stato di esercitare un’azione coercitiva, ma non per imporre una fede, bensì per affermare la pacifica coesistenza di dottrine diverse; suo compito è regolare solo il culto ufficiale e pubblico, e non le credenze private. Anche Pufendorf (De habitu religionis christianae ad vitam civilem, 1686, §§ 49-50) propugna una riunificazione delle varie Chiese cristiane protestanti (escludendo i cattolici), improntata a un principio di t., adducendo motivazioni essenzialmente giuridiche e politiche. La Riforma, infatti, dando luogo a una proliferazione di confessioni religiose, aveva creato una situazione in cui il problema della t. si poneva essenzialmente come un problema politico: ogni sovrano si trovava a governare nel suo Stato più comunità religiose che gli erano sottoposte politicamente, ma dissentivano da lui in materia di religione. Pufendorf distingue nettamente la sfera del potere spirituale da quella del potere temporale (ogni Chiesa è un «collegium», cioè una libera associazione finalizzata all’educazione morale) e propugna la t. come misura di pace sociale: lo Stato deve garantire la pluralità dei punti di vista in materia religiosa, in quanto in questo campo i cittadini non hanno sottomesso la loro volontà a quella del sovrano, ma deve anche esercitare un controllo sulle dottrine potenzialmente eversive; tale strategia è l’unica che preserva la Civitas dalla dissoluzione politica o dalla «degenerazione in un corpo irregolare e bicipite». Mentre le argomentazioni di Grozio e di Pufendorf sono essenzialmente giuridico-politiche, un’argomentazione più ampia viene da Spinoza (Tractatus theologico-politicus, 1670, cap. 20°), che ribadisce la piena autorità dello Stato sulla Chiesa ma difende la più assoluta libertà di coscienza: il soggetto delle scelte religiose è la coscienza individuale, sulla quale la violenza e l’imposizione sono inutili e illegittime; non si può reprimere la coscienza, mentre si può regolare il culto esterno. Con Locke il problema della libertà religiosa è definitivamente sottratto alle controversie teologiche e affrontato sul piano filosofico-politico. Nell’Epistola sulla tolleranza (1689) egli sostiene che la via della salvezza non è un’azione esteriore obbligata, bensì una scelta spirituale personale e segreta. Gli articoli di fede non possono essere imposti dalla legge perché credere non dipende dalla volontà ma da un moto interiore; le credenze religiose, inoltre, non hanno alcuna relazione con i diritti civili. Egli esamina indipendentemente l’uno dall’altro il concetto di Stato e quello di Chiesa e fa vedere come il principio di t. risulti dal confronto tra i loro rispettivi compiti e interessi. Lo Stato è una società di uomini costituita per conservare e difendere i beni civili (vita, libertà, averi, integrità e benessere del corpo, ecc.); tra i suoi compiti non rientra la cura delle anime e la salvezza eterna perché rispetto a questi compiti il magistrato civile non ha strumenti efficaci, dal momento che l’unico suo strumento è la costrizione che nulla può per la coscienza. D’altro lato, la Chiesa è una società privata, libera e volontaria, costituitasi per onorare Dio nel modo giudicato a Lui più accetto, nella quale – come per tutte le associazioni private – non si può essere obbligati a entrare e dalla quale si deve poter uscire liberamente senza conseguenze di carattere civile. Per Locke, le scelte dottrinali e liturgiche non possono che competere al singolo individuo, oppure appartenere a un ambito di cose indifferenti che lo Stato ha il dovere di riconoscere e rispettare dal momento che il suo principale compito è solo reprimere ogni comportamento che violi le leggi pubbliche e metta in pericolo la convivenza civile. La t. di Locke non è tuttavia completa perché esclude papisti e atei: i primi (i cattolici) riconoscono un’autorità (quella del pontefice romano) superiore a quella dello Stato, i secondi, non avendo religione, non hanno neppure vincoli morali e non riconoscono le leggi naturali che sono a fondamento delle leggi politiche; entrambi non possono quindi essere ammessi in una comunità politica. Nella cultura francese, il principio della t. si afferma soprattutto con Bayle, che si schiera contro il dogmatismo e la pretesa di imporre con la forza convincimenti religiosi rispetto ai quali è impossibile una dimostrazione definitiva e che rimangono impenetrabili alla mente umana. Asserendo la completa indipendenza di religione e virtù, egli allarga per la prima volta la t. anche agli atei (Pensieri sulla cometa, 1682). Nella seconda metà del Settecento la Francia ebbe una grande fioritura di scritti sulla t., tra cui il Trattato sulla tolleranza (1763) di Voltaire, il quale mette in luce come le divergenze religiose che sono causa di persecuzioni riguardano punti oscuri e controversi della dottrina cristiana, mentre il nocciolo essenziale del cristianesimo è condiviso da tutti; di conseguenza ogni repressione è insensata. In una prospettiva deistica le verità religiose fondamentali sono da lui identificate con il nucleo razionale della religione cristiana, facendo riferimento al quale è possibile vivere una propria esperienza religiosa personale, al di fuori delle Chiese e delle loro divisioni. Con il giusnaturalismo si era venuta affermando l’idea che religione e diritto costituiscono due sfere diverse e autonome per fonte, oggetto e finalità; di conseguenza lo Stato, nel proprio ambito, non può che tollerare una molteplicità di confessioni diverse. A conclusione di un lungo percorso, alla fine del 18° sec., questo principio verrà recepito e solennemente proclamato nelle costituzioni e dichiarazioni di diritti americana e francese.