CRUDELI, Tommaso

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 31 (1985)

CRUDELI, Tommaso

Magda Vigilante

Nacque a Poppi nel Casentino (prov. Arezzo) nel 1703, da Atto e Antonia Ducci.

Dopo aver compiuto i primi studi nel paese natale sotto la guida di Torello Vangelisti, il C. si trasferì a Firenze dove ascoltò le lezioni di Antonio Maria Salvini e Pier Francesco Tocci, erudito canonico di S. Lorenzo; successivamente si recò a Pisa per seguire i corsi di diritto e, nel 1722, conseguì il dottorato in utroque iure, ma non esercitò la professione forense. Partì invece per l'Italia settentrionale e si trattenne per nove mesi a Venezia, ospite della famiglia Contarini, che l'aveva assunto come precettore dei figli. In seguito, colpito da una grave malattia e forse insoddisfatto di un incarico poco adatto al suo carattere indipendente, preferì ritornare in Toscana e, stabilitosi definitivamente a Firenze, visse impartendo lezioni d'italiano agli stranieri, per lo più inglesi, i quali apprezzavano particolarmente nel C., oltre alle qualità d'insegnante, lo spirito arguto e beffardo.

Nemico di ogni impostura ed ipocrisia, il C. infatti criticava apertamente i pregiudizi della società in cui viveva ed il comportamento di un clero spesso non esente dai vizi che severamente condannava. Ma oltre che per i motti sarcastici e le battute anticlericali il C. era conosciuto anche come autore di raffinati componimenti poetici e prose ricche di verve. Il suo linguaggio disinvolto e la fama di libero pensatore insospettirono, tuttavia, le autorità religiose e procurarono numerosi nemici al Crudeli. In compenso il poeta casentinese godeva il favore del ministro inglese a Firenze, lord Charles Fane, e del suo assistente Horace Mann, dei quali frequentava le conversazioni; era stimato, inoltre, dal ministro di Carlo di Borbone re di Napoli, B. Tanucci, anche lui casentinese e suo professore a Pisa, che lo aveva invitato a recarsi a Napoli come poeta di corte; ma il C. rifiutò, preferendo condurre un'esistenza tranquilla a Firenze in compagnia degli amici, lontano dal mondo turbolento delle corti.

Negli ultimi anni della signoria medicea si era avviato in Toscana un processo di rinnovamento culturale al quale non era estraneo il nuovo clima politico instaurato dal granduca Gian Gastone, meno propenso del diffidente e bigotto Cosimo III a subire le ingerenze della Chiesa nella vita pubblica e ad esercitare una spietata pressione poliziesca. Firenze, inoltre, era divenuta un centro ricettivo e aperto alle nuove esperienze importate dai numerosi intellettuali inglesi residenti nella città; frequenti contatti si stabilirono, infatti, fra l'ambiente intellettuale inglese ed un certo ceto di intellettuali fiorentini, più anticonformisti. Di conseguenza quando un gruppo di inglesi fondò fra il 1731 e il 1732 una loggia massonica nella città, un numero considerevole di intellettuali e nobili fiorentini, in parte per effetto dell'anglomania dilagante sul continente, in parte per curiosità, aderì alla loggia.

Appresa dai suoi amici inglesi l'esistenza della libera muratoria, il C. s'iscrisse nel 1735 alla loggia dove svolse per un certo periodo la funzione di segretario. I liberi muratori fiorentini continuarono indisturbati le loro riunioni, anche dopo la morte di Gian Gastone (luglio 1737) e l'insediamento del Consiglio di reggenza, presieduto dal lorenese principe Marc de Craon. La mutata situazione politica era favorevole alla loggia dal momento che il nuovo granduca, Francesco Stefano di Lorena, ed il Craon erano ambedue "fratelli". D'altra parte le periodiche adunanze della loggia avevano provocato la critica degli ambienti conservatori e clericali della città, limitata però ad accuse generiche contro un'associazione i cui fini erano mantenuti rigorosamente segreti. Ma il 28 apr. 1738 venne pubblicata la bolla In eminenti Apostolatus specula con la quale il pontefice Clemente XII scomunicava la massoneria. A Firenze, dove il partito curiale era guidato dall'influente card. Neri Corsini, nipote del papa, l'emissione della bolla offrì un valido pretesto al clero per colpire la libera muratoria, sebbene i massoni fiorentini avessero deciso di sciogliere la loggia. Fu dunque deciso di arrestare e processare alcuni esponenti della setta, scelti fra quelli che avessero fama di libertini e atei.

A tale scopo si adoperarono attivamente il padre inquisitore Ambrogi ed il cardinale Corsini: l'uno nel ricercare i capi d'accusa contro i massoni, l'altro nell'ottenere dal granduca il permesso di procedere nei confronti dei presunti colpevoli. Estorte abilmente le false confessioni di un medico, Bernardino Pupiliani e del nobile Andrea d'Orazio Minerbetti, sugli atti osceni commessi nelle riunioni massoniche e sulle frasi blasfeme pronunciate dai soci, in particolare dal C., il padre inquisitore si procurò, ai primi di aprile del 1739, le prove di empietà e di sodomia per incriminare il poeta e gli altri "fratelli". Nello stesso tempo il cardinale Corsini spedì al granduca una lettera, datata 16 aprile, in cui lo invitò a prendere solleciti provvedimenti contro la massoneria, pericolosa non solo per la Chiesa cattolica ma anche per lo Stato. Il risultato di queste operazioni fu l'arresto del C., avvenuto nella notte del 9 maggio.

Dopo essere stato consegnato al tribunale dell'Inquisizione, il C. fu rinchiuso in una segreta angusta e malsana, nonostante fosse tubercolotico e afflitto da una grave forma di asma. Solamente quando le sue condizioni di salute si furono seriamente aggravate, il prigioniero fu trasportato in un'altra cella dove attese tre mesi prima di essere interrogato. Il 10 agosto il C. fu sottoposto al primo interrogatorio, durante il quale gli fu intimato di dire tutto quello che sapeva sui liberi muratori, la data di fondazione della loggia, il nome dei suoi fondatori, i capi e i soci della loggia, la reale natura delle adunanze. Il C. però non rivelò nulla salvo i nomi degli aggregati già noti all'inquisitore. Ricondotto in carcere, fu nuovamente interrogato, il 10 settembre, sull'attività della loggia e sulle infamanti accuse del Minerbetti e del Pupiliani. Questa volta il C. sostenne che nelle loro riunioni i soci non commettevano nulla di scorretto e respinse con sdegno le stoltezze riferite dai due testimoni.

Gli atti processuali vennero trasmessi al S. Uffizio di Roma, il quale stabilì di ampliare il processo con la presentazione di nuove prove a carico dell'imputato; la sentenza prolungava quindi la prigionia del C., il cui male era peggiorato a causa dei disagi imposti dalla detenzione. Intanto la colonia inglese protestò per l'ingiusto trattamento riservato al poeta, ed il Mann - succeduto come ambasciatore al Fane - perorò la causa del C. presso il conte di Richecourt, che a Firenze ricopriva la carica di capo del governo ed era affiliato alla massoneria. Finalmente il 28 marzo 1740 fu concesso al C. di scegliere un avvocato per la difesa tra quelli proposti dal S. Uffizio e di richiedere una nuova convocazione dei principali testimoni dell'accusa. Il Minerbetti tentò di scagionare l'inquisito negando la validità delle sue accuse ma, intimorito dal padre Ambrogi, confermò la deposizione dell'anno precedente. La situazione diveniva sempre più critica per il C., convinto orinai dell'impossibilità di dimostrare la propria innocenza.

Tuttavia il "fratello" Richecourt riferiva lo svolgimento del processo, difendendo il C., al "fratello" Francesco Stefano di Lorena, allora assente da Firenze. Il granduca però non desiderava inimicarsi la Curia romana e rimandava ogni decisione nei riguardi dell'infèlice poeta casentinese. Si ottenne solamente che il C. fosse trasportato, l'8 giugno, nella Fortezza da Basso, sotto la custodia del governo, dopo che il mese precedente era stato colto da un attacco del suo male, più violento del solito. Ma il 4 luglio il Minerbetti dichiarò pubblicamente di avere testimoniato il falso ed il Pupiliani, l'11 luglio, sottoscrisse un'analoga ritrattazione. Inoltre l'avvento del più indulgente cardinale Lambertini al soglio pontificio, dopo la morte di Clemente XII (6 febbr. 1740), alimentò la speranza di una conclusione prossima del processo.

Non si giunse comunque ad una piena assoluzione. Caduta la possibilità di processare con il C. anche la libera muratoria, il poeta casentinese venne condannato il 20 agosto, per la lettura di libri proibiti e per avere usato un linguaggio irriverente su argomenti sacri. Il C. fu confinato dapprima nel suo paese natio, a Poppi, e successivamente a Pontedera. Nell'aprile del 1741 ottenne finalmente la grazia di una completa liberazione e raggiunse Firenze dove trascorse gli ultimi anni della sua vita amorevolmente assistito dagli amici, ai quali dettò le proprie composizioni, che non aveva mai trascritto.

Morì a Poppi il 27 marzo 1745

La prima Raccolta di poesie del C. fu pubblicata postuma nel 1746 a Firenze (ma con la falsa indicazione editoriale di Napoli, per sfuggire alla censura); nel 1762 usci a Lucca (ma con l'indicazione di Parigi) l'opuscolo l'Arte di piacere alle donne, e nel 1805 l'abate frammassone Francesco Fontani curò una nuova e più completa edizione di Rime e prose, stampata a Pisa (ma con la data topica di Parigi).

L'opera del C. suggerisce anzitutto l'immagine di un letterato moderno e anticonformista che, pur partendo da moduli e istanze della cultura arcadica, elabora un discorso originale nel quale confluiscono tendenze preilluministiche e nuovi elementi di realismo e di ironia fin allora ignoti. Gli scritti prosastici noti, la Cicalata accademica e l'Arte di piacere alle donne, presentano un valido esempio della istintiva vena satirica e della notevole libertà di spirito possedute dal Crudeli. La Cicalataaccademica illustracon due piccanti novellette erotiche in versi, l'arguta distinzione, esposta nella prosa iniziale, tra la breve età in cui le donne amano solo per amore, e l'altra in cui, superati i vent'anni, "esse non ci rimiran più come amanti, ma come sposi", calcolando "con somma economia le nostre entrate", e persino "quanti maschi e quante femmine e numero ci vogliono partorire". L'Arte dipiacere alle donne, considerato erroneamente un opuscolo licenzioso. documenta invece le convinzioni ideologiche dell'autore, persuaso che l'infelicità umana derivi in massima parte dal "dono di pensare", e quindi fautore di un edonismo sensistico ("Pensiamo che siamo nati per il piacere e non per gli affanni") fondato sull'amicizia e sull'amore, goduto fino agli "estremi contenti".

Concezioni di tale genere, tanto più libere e spregiudicate rispetto al generico platonismo del primo Settecento, consentono al C. la ripresa in sede poetica del descrittivismo sensuale del Marino, acquisito però con critica consapevolezza e filtrato in forme agili e vivaci come nel bellissimo polimetro La notatrice, tutto centrato sulla sensuosa figura della donna, offerta all'ammirazione dei poeta-pescatore: "Or in mar nascondea / Fresche rose del volto, / or veder mi facea / vivace avorio in molle spuma avvolto... / Nuotava ella ridente / con occhio nero, e verso il ciel sereno / volgea soavemente / i candori del seno". Questo gusto per il figurativo, predominante a volte sull'elemento melodico, è espresso in modi di prezioso miniaturismo rococò nella celebre anacreontica La Ricamatrice: "Nelle tue rosee dita, / bella virtù gradita, / è di tesser lavoro i con fil d'argento e d'oro; / il quale or rappresenti / fiori vaghi e ridenti, / or formi in aria augelli / al volo agili e snelli...". Il C. si collega anche alla tradizione toscana (quella come hanno notato Carducci e Croce dei galileiani Piero Salvetti, Redi e Bellini, ma pure delle canzonette del Menzini) che in lui tempera il barocchismo, notevole e pesante, di alcuni componimenti d'occasione o commemorativi dove non mancano, tuttavia, immagini mitiche di squisita fattura.

Ma la vera natura del C. era più incline al ritmo facile e scorrevole delle canzonette e dei madrigali, orientati nel senso di un rococò ironico e sensuale. Esemplare a tale riguardo il delizioso madrigale V in cui il poeta narra di avere ricevuto in dono da una bella donna, come premio "di sua fede", due colombine "intatte", ma: "servo crudele me l'ammazzò ad un tratto. / Or voi indovinate / Che cosa n'abbi fatto? / Io me le son mangiate". Nella canzone Il sogno ritorna invece la sensuale descrizione di una figura femminile, apparsa ora in sogno al poeta, che è disposto a seguirla ovunque, pur nell'abisso di un vulcano o in quello dell'inferno; sentendo le sue appassionate parole, l'amata sorride e con amabile malizia replica: "Nel fuoco / vo' condurti, o mio core, / ma nel fuoco d'amore".

Il C. manifestò anche un certo interesse per il teatro, traducendo Le glorieux del Destouches e munendolo di una prefazione in versi (Prologo fatto per la commedia del sig. Destouches intitolata il Superbo, in Rime e prose, pp. 89-108), dove egli auspica ima riforma del teatro comico che regoli e renda più verosimili le improvvisazioni della commedia dell'arte, affidate solo all'estro degli attori. In particolare il C. disapprova il personaggio del buffone, il quale negli ultimi due secoli si era introdotto non solo nelle commedie ma pure nei drammi e nelle tragedie, con evidente mancanza di organicità e coerenza di stile. La critica si trasforma tuttavia in un vivace dialogo cui partecipano i personaggi del Censore, della Servetta, e del Buffone, costretto, suo malgrado, ad abbandonare le scene.

La tipica arguzia toscana del C. trovò inoltre un'efficace espressione nella produzione favolistica che riprende liberamente, ed in qualche passo traduce alla lettera, le Fables del La Fontaine. Le cinque favole scritte dal C. (ibid., pp. 48-62), pur imitando, salvo una, gli analoghi componimenti del favolista francese, offrono una gustosa serie di bozzetti comici nei quali spirito di sottile osservazione e capacità di rappresentazione satirica si fondono con felice risultato. Il carattere più notevole di questi brevi racconti in versi consiste nella definizione immediata dei singoli personaggi, descritti con rapidi ed incisivi tratti, di straordinaria vivezza. Indimenticabile, ad esempio, la figura sornionadiMordigraffiante, il gatto giudice della favola Ilconiglio e la donnola, presentato come: "un buon uomo trà gatti e di coscienza, / di sguardo malinconicoe coperto, / nero di pelo, agile, membruto, / giudice al fondo, e nel mestiere esperto"; e, nella favola La protezione del più forte, quella del signore, vero tipo del feudatario d'altri tempi che, invitato a stanare una lepre nell'orto di un pover'uomo, approfitta dell'occasione per imbandire con i suoi polli "ben teneri" un lauto banchetto e corteggiare con sfacciata intraprendenza la sua giovane figliola.

Gli ammaestramenti che provengono dagli apologhi del C. si riferiscono non tanto alla natura umana genericamente considerata, quanto alle tipiche figure dell'astuto e dell'ingenuo, del potente e del debole. In questo modo infatti il C. commenta, nella favoletta omonima., la triste vicenda della donnola ed il coniglio, litiganti, e del gatto, eletto giudice, che divora entrambi i contendenti: "Lettor, tienti la favola a memoria, / ché se praticherai pè tribunali, / ti passerà la favola in istoria"; mentre la massima estratta dall'altro apologo, La protezione del più forte, acquista un significato più generale nel raccomandare: "Principi se tra voi sorge una lite / Non chiamate in aiuto un re possente: / State all'erta, avvertite / ch'ei non s'impegni nelle vostre terre...".

Il Natali (p. 29) afferma che il Diderot pubblicò nel 1777, come opera dei poeta casentinese, un vivacissimo dialogo irreligioso, del quale tuttavia è dubbia l'attribuzione al Crudeli.

Fonti e Bibl.: F. Sbigoli, T. C. e i primi frammassoni in Firenze, Milano 1884 (e vedi anche rec. di G. E. Saltini, in Archivio storico italiano, s. 4,XVII [1886], pp. 111-123);E. Viviani Della Robbia, B. Tanucci ed il suo importante carteggio, Firenze 1942, ad Indicem; B. Croce, Un docum. relativo al C., in Quaderni della critica. dicembre 1945, pp. 29 s.; E. De Tipaldo, Biogr. degli Ital. ill., VI, Venezia 1838, pp. 40-47; F. Tribolati, Le conversazioni di G. Rosini, Pisa 1889, pp. 35-41; G. A. Venturi, Le controspersie dei granduca Leopoldo I di Toscana e dei vescovo Scipione de' Ricci con la corte romana, in Arch. stor. ital., VIII (1891). p. 74; P. Toldo, Fonti e propaggini ital. delle favole del La Fontaine, II. in Giornale stor. della lett. ital., LIX (1912), pp. 252-254; E. Castellani, T. C., in La influenza del La Fontaine su i favolisti ital. del secolo XVIII, Napoli 1914, pp. 11-29; G. Carducci, Dello svolgimento dell'ode in Italia, in Opere, ed. naz., XV, pp. 67-68; Id., Della poesia melica italiana.ibid., XV, pp. 92-94; B. Croce, Le poesie di T. C., in La letteratura ital. del Settecento, Bari 1949, pp. 13, 106-118; C. Filosa, La favola, Milano 1952, pp. 171-173; P. Berselli Ambri, L'opera di Montesquieu nel Settecento ital., Firenze 1960, p. 92; F. Venturi, Settecento riform., Torino 1969, ad Ind.; E. Cecchi-N. Sapegno, Storia della lett. italiana. VI, Milano 1970, ad Indicem; Il Settecento. VI, 1, Roma-Bari 1973, ad Indicem; G. Natali, Il Settecento, I, Milano 1973, ad Indicem; C. Francovich, Storia della massoneria in Italia, Firenze 1974, ad Indicem.

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