GROSSI, Tommaso

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GROSSI, Tommaso

Giuseppe Zaccaria

Nacque a Bellano, sul lago di Como, il 23 genn. 1790 secondogenito di Francesco e di Elisabetta Tarelli. Di famiglia modesta, apprese le prime nozioni scolastiche a Treviglio, e a nove anni fu mandato da uno zio canonico a studiare presso il seminario di Castello, nel territorio di Lecco. Di qui passò a Rezzonico e poi a Milano, alla scuola di Brera. Terminati gli studi superiori, si iscrisse all'Università di Pavia e nel 1810 si laureò in giurisprudenza. Fece quindi pratica legale presso lo studio dell'avvocato L. Capretti a Milano, dove continuò a lavorare, per non allontanarsi dalla città, anche dopo che nel 1815 fu abilitato all'esercizio dell'avvocatura. Nel frattempo una forte attrazione per gli ambienti culturali e l'interesse per gli studi letterari lo indussero a inserirsi attivamente nella polemica fra classicisti e romantici.

Nel 1816 il G. pubblicava anonima a Milano la Prineide, poemetto satirico in dialetto milanese costituito da 40 sestine di endecasillabi con rime ABABCC. Sotto forma di una visione (la lontana origine del modello è dantesca) vi era rievocata la figura del novarese G. Prina, ministro delle Finanze del Regno Italico, defenestrato e massacrato a Milano il 20 apr. 1814 per l'accusa, ingiustificata, di malversazioni e di arricchimento indebito. Di qui, in versi di efficace stringatezza (l'orrore spettrale dell'inizio ha la cadenza di una danza macabra), l'autore traeva lo spunto (come in seguito avrebbe fatto anche A. Manzoni) per stigmatizzare il comportamento bestiale della folla e per polemizzare con le prevaricazioni del potere, senza risparmiare le accuse nei confronti della politica austriaca. Scoperta la paternità dell'opera (che alcuni avevano attribuito a C. Porta), il G. fu fermato dalla polizia, trattenuto in camera di sicurezza e rilasciato dopo due interrogatori.

Fondamentale, per la scelta iniziale del dialetto e per il delinearsi di una vena satirica, risultò nell'ambito dei cosiddetti amici della "Cameretta" il sodalizio con il Porta, insieme col quale il G. comporrà la comitragedia Giovanni Maria Visconti e la satira anticlassicistica Sestinn per el matrimoni del sur cont don Gabriel Verr con la sura contessina donna Giustina Borromea (Milano 1818 e 1819). Come risulta dal carteggio, la prima lettera che attesta questo rapporto è quella inviata al Porta il 5 ag. 1816 dal G. che - alla morte del maestro e amico - ne scriverà la biografia e ne celebrerà la memoria con un commosso saluto in versi milanesi, In morte di Carlo Porta. Sestine. Entrambi gli scritti compaiono nell'edizione delle Poesie del Porta curata dal G. nel 1821 e illustrata da F. Gonin.

Nel 1816 il G. aveva anche pubblicato a Milano La fuggitiva, novella sentimentale in ottave, scritta anch'essa in dialetto milanese; l'anno dopo egli stesso ne curava una versione in italiano che consente di stabilire, sul piano delle possibilità e della resa espressive, un significativo confronto in virtù del quale la critica ha concordemente individuato, nel passaggio dal dialetto alla lingua, uno scadimento della qualità rappresentativa.

Il dialetto, in effetti, presenta soluzioni di una più immediata colloquialità; la versione italiana comporta, come avviene per tanta poesia romantica che non riesce a liberarsi del tutto dalle forme desuete e dalle convenzioni classicheggianti, un'elevazione del tono, dovuta, oltre che all'uso più insistito delle figure retoriche, alla presenza di termini aulici e arcaici, tipici della tradizione poetica. Per esempio: se prima l'innamorato "l'aveva nom Luis", in seguito "nomavasi Terigi"; e "Quand riva on sara sara a l'improvvis / che han d'andà in Russia tucc i corp d'armada" diventa "Allorché giunse subito comando / che in ver la Scizia cacciò nostre schiere".

Nelle due versioni La fuggitiva constava, rispettivamente, di 59 e 61 ottave. Vi era raccontata la vicenda di una giovane, che di nascosto, nottetempo, abbandona la casa dei genitori, per seguire l'innamorato nella campagna di Russia. Riconosciuta dal fratello, che partecipa anch'egli alla spedizione napoleonica, affronta le fatiche e i pericoli della guerra, fino a quando, dopo una battaglia, ritrova fra i cadaveri il fratello e l'amato, che solo in punto di morte la riconosce, illuminandosi di una felicità estrema e fugace. Il racconto è condotto, in prima persona, dalla protagonista stessa, che è ormai tornata a casa e, anch'essa morente, chiede il perdono e la benedizione della madre, dopo essere stata maledetta dal padre. La struttura del monologo è particolarmente adatta a esaltare l'elemento patetico-sentimentale legato alla tematica di amore e morte, in cui la forza della passione infrange la sacralità dei doveri e degli affetti familiari, determinando, prima del finale ravvedimento, i sensi di una colpa che trova espressione negli incubi notturni e negli orrori della guerra (motivi che tuttavia, pur presenti, non danno luogo a soluzioni estremistiche e irrazionali). Sono tutti elementi, questi, esemplarmente rappresentativi della nuova sensibilità romantico-borghese; e se il passaggio dal dialetto alla lingua significava l'irrigidirsi in forme più convenzionali, al tempo stesso diventava lo strumento necessario per una più ampia diffusione della novella, che ottenne uno straordinario successo, tanto da imporsi subito come uno dei frutti più significativi della nuova scuola letteraria.

Il G. scrisse la sua seconda novella in versi, Ildegonda (Milano 1820), direttamente in italiano, dandole una struttura assai più ampia della precedente (è suddivisa in quattro parti, di 75, 69, 79 e 73 ottave). Notizie della sua composizione si hanno dalla corrispondenza fra gli amici della Cameretta a partire dal 1818; e il Manzoni, scrivendo al G. da Parigi il 6 apr. 1820, si augurava di trovarla compiuta. La pubblicazione, avvenuta nel settembre a spese dell'autore presso l'editore Ferrario, fu salutata da un pranzo degli amici, che si impegnarono, soprattutto il Porta, a promuoverne la diffusione. Anche l'Ildegonda conseguì immediatamente il favore del pubblico, consolidando la posizione raggiunta dal G. fra gli elementi di spicco del cenacolo romantico.

La vicenda della protagonista ruota attorno all'amore contrastato per il cavaliere Rizzardo Mezzafiore; a opporsi sono il padre, marchese Rolando Gualderano, e il fratello di Ildegonda, Rogiero, che, non riuscendo a darla in sposa al nobile e ricco Ermenegardo Falsabiglia, la chiudono in un monastero. Dopo essersi battuti in duello, Rogiero accusa di eresia Rizzardo, che, accompagnato da Ildegonda, si allontana per recarsi alla crociata con Federico II. Raggiunti però da Rogiero, i due amanti verranno separati per sempre: Rizzardo è processato come eretico e condannato a morte; Ildegonda, nuovamente condotta in convento, morirà alla fine serena, tra le braccia della fedele Idelbene, dopo aver saputo che Rizzardo, assistito da un sacerdote, è morto nella grazia di Dio.

Intrisa di un facile pathos sentimentale, così gradito ai gusti del pubblico, l'opera abbandonava la realtà contemporanea per risalire a quel Medioevo di maniera caro ai romantici. Elementare nelle sue linee, la vicenda ha un'esecuzione prolissa e farraginosa, tanto da indurre F. De Sanctis a notare che "in una tela sì ampia la situazione è sempre la stessa, in mezzo a brevi variazioni".

L'Ildegonda segnò anche l'abbandono del dialetto nella pratica dell'esercizio letterario, e rappresentò una risposta a quella questione della lingua allora particolarmente avvertita nel circolo dei romantici milanesi, alla ricerca di uno strumento in grado di comunicare i contenuti e i valori della nuova letteratura. Fondamentale dovette risultare, in questo senso, l'influenza del Manzoni, che - insieme col Porta, e più in successione di tempo - costituisce il termine di riferimento e di confronto cui commisurare l'attività del Grossi. Anche sul piano biografico e delle consuetudini di vita i rapporti furono particolarmente stretti. Dal 1822 al 1836 il G. abitò presso il Manzoni, al quale fece da segretario, occupando i locali al piano terreno della casa di via del Morone, dove si incontravano gli amici superstiti di un tempo.

Nel frattempo aveva iniziato a lavorare a una nuova opera, che sarà poi I Lombardi alla prima crociata, della quale il primo germe può essere individuato nella lettera con cui da Treviglio, il 14 sett. 1820, il G. chiedeva al Porta di fargli avere la storia delle crociate di J.-F. Michaud tradotta l'anno prima in italiano (l'aveva recensita Ermes Visconti sul Conciliatore). Ma già pochi mesi dopo il Manzoni, scrivendo a C. Fauriel il 29 genn. 1821, gli comunicava che il G. aveva "commencé des études pour un poème d'un genre nouveau en Italie", aggiungendo, il 3 novembre, che l'amico era già al "deuxième chant du roman poétique sur les croisades". L'opera, suddivisa in 15 canti per ben 1205 ottave (la forma metrica è la stessa delle novelle precedenti), uscì a Milano, sempre presso il Ferrario, nel 1826. Immediato fu anche in questo caso il consenso dei lettori e il Manzoni scriveva al Fauriel che, fra il 10 gennaio e il 3 marzo 1826, il numero dei sottoscrittori era sorprendentemente salito da 1600 a 2400. Più contrastata la fortuna critica, a proposito della quale si scatenò un acceso dibattito; e i giudizi negativi non provennero solo dalla parte dei classicisti.

Riferendosi all'Idelgonda, di cui I Lombardi riprendevano la struttura portante (la fanciulla che segue l'innamorato alla crociata), G. Scalvini colse subito l'equivoco di fondo, affermando che "in quella novella non era nulla che potesse dare indizio d'un ingegno nato all'epopea", sicché il G. "non ha adempito le speranze che altri aveva fallacemente concetto". In conclusione il G. "non pare atto al grande, a ritrarre una natura potente, una volontà che sa sostenere la guerra della fortuna e della perversità, una volontà che sa andare impetuosa così nelle vie del bene come in quelle del male".

Dunque lo Scalvini individuava le aspirazioni e i limiti di un tentativo particolarmente ambizioso: quello di scrivere il poema epico dell'età moderna, capace di emulare la grandezza della Gerusalemme tassiana (amato anche dai romantici, T. Tasso rimaneva comunque il più tipico narratore del classicismo). Le intenzioni erano così destinate a subire un rovesciamento quasi parodico: "Non avendo religione" il G. "non ha ricevuto ispirazione alcuna dal suo soggetto ed è venuto tranquillamente scegliendo nella storia quei fatti che, essendo sempre in contraddizione coll'intendimento dei Crociati, fanno la satira di quell'impresa più di quanto non ne mettano in mostra l'altezza e la poesia".

L'ambientazione del poema, particolarmente ampia, corre lungo le strade che portano i cristiani a Gerusalemme, per liberare il Santo Sepolcro. Sui dirupi del monte Tauro un eremita sconosciuto salva Gulfiero (figlio di Alvino, che guida i crociati), precipitato in un burrone per aiutare la sorella, Giselda. Questa, catturata dai Saraceni, si innamora di Saladino, figlio del signore di Antiochia, Acciano, al quale racconta la sua vita: il padre Alvino e il fratello di lui, Pagano, erano innamorati della stessa donna, Viclinda; determinato a uccidere Alvino, Pagano aveva invece ucciso per errore il loro padre, Folco, ed era fuggito. Lo sconosciuto eremita non è altri che Pagano, il quale raggiunge anch'egli il campo cristiano: qui sarà perdonato da Alvino e morirà combattendo, assistito dalla moglie di Alvino, Viclinda, per cui era divenuto parricida. I crociati avevano intanto liberato Antiochia, ma Giselda fugge per tornare con Saladino; verrà ritrovata accanto all'innamorato morente, che seguirà di lì a poco nella tomba. Dopo aver superato ostacoli e traversie, i cristiani raggiungono finalmente il loro obiettivo ed eleggono Goffredo re di Gerusalemme.

È evidente la ripresa da parte del G. di spunti delle novelle precedenti, dilatati e inseriti in un contesto in cui gli ideali epico-religiosi appaiono diluiti nelle convenzioni di un gusto avventuroso e romanzesco, attraverso scontate peripezie e combinazioni di eventi, che convergono nel patetico della tematica di amore e morte (ma assai diversi sono i significati della vicenda di Tancredi e Clorinda rispetto a quella che unisce il pagano Saladino e la cristiana Giselda). Severo, come al solito, il giudizio di F. De Sanctis, secondo cui nel poema manca l'eroico, mentre il fantastico diventa qualcosa di grottesco, di ridicolo. Più adatta a suscitare emozioni e sentimenti, legati anche al manifestarsi del crescente spirito nazionale, si rivelò l'omonima opera di G. Verdi, su libretto di T. Solera, che nel 1843 portò sulla scena della Scala di Milano la teatralità del poema ripresa in quattro atti (La vendetta, L'uomo della caverna, La conversione e Il Santo Sepolcro).

Nella già ricordata lettera del 29 genn. 1821, il Manzoni aveva scritto anche che l'intento del G. era quello di "peindre une époque par le moyen d'une fable de son invention, à-peu-près comme dans Ivanhoe"; dello stesso Manzoni uscirà, nel 1827, la prima edizione dei Promessi sposi. Sempre più difficile e inattuale doveva rivelarsi il ricorso alle vecchie forme dell'epos, mentre il romanzo in prosa si imponeva, anche in Italia, come il genere letterario più adatto per interpretare le esigenze e le aspirazioni del nuovo pubblico borghese. Dalla congiunzione fra il modello manzoniano e quello scottiano nasce il romanzo Marco Visconti, che il G. iniziò nel 1831 e pubblicò a Milano nel 1834.

Situata nel 1329, la vicenda si svolge tra Limonta, sul lago di Como, Milano e il castello di Rosate. Marco Visconti, signore di Milano, ama Bice, la figlia del conte Oldrado del Balzo, che è invece innamorata del cugino di Marco, Ottorino Visconti. Questi è sfidato in un torneo da un cavaliere misterioso, lo stesso Marco, che lo vince e sta per ucciderlo, ma viene trattenuto dal grido di fedeltà al suo signore di Ottorino. Marco decide comunque di impedire il matrimonio e di far separare i due giovani: affida l'incarico al malvagio Pelagrua, il quale, servendosi della complicità di Lodrisio Visconti, spinge a tal punto la crudeltà della sua persecuzione da provocare la morte di Bice, che, sfinita per le sofferenze, riesce solo a rivedere l'amato Ottorino. A Marco non resta che il rimorso per una macchinazione diabolica che è andata ben oltre le sue stesse intenzioni.

La trama delle vicissitudini private si innesta sulle vicende storiche del tempo (la lotta tra Niccolò V e Giovanni XXII, la calata di Ludovico il Bavaro, l'assedio di Milano ecc.), ricostruite dall'autore sulla scorta delle cronache coeve. L'opera rientrava così in quel genere di "componimenti" definiti dal Manzoni "misti di storia e di invenzione", anche se la nozione di storia che se ne ricava resta ben lontana dalla problematicità di quella manzoniana. A un secolo di profonde crisi e contraddizioni come il Seicento subentra un Medioevo artificiosamente ricostruito nei suoi elementi più decorativi e folclorici, secondo i dettami dell'insegnamento scottiano (in particolare sono state sottolineate le analogie con il romanzo di W. Scott L'antiquario). In questa atmosfera, che veniva incontro ai più facili gusti romantici, vive anche la tipizzazione delle figure minori: dal fedele scudiero di Ottorino, Lupo, alla figura comica del prete-giullare Tremacoldo, cui viene riferita la celebre lirica Rondinella pellegrina, destinata ad avere in seguito anche una fortuna autonoma (questa e altre poesie, che intercalano la prosa narrativa, concorrono a ribadire gli ideali cavallereschi e sentimentali dell'opera). A tutte queste componenti avventurose e patetiche, nel contrasto fra il potere e l'amore, non sono estranei elementi del genere gotico o nero (si pensi alla folle cavalcata di Marco su un cavallo imbizzarrito, che simboleggia l'irrazionalità della passione e il carattere demoniaco del protagonista). Queste caratteristiche hanno assicurato la fortuna dell'opera, che resta il più significativo esempio di romanzo storico e popolare postmanzoniano.

Nel 1836 il G. lasciò, in occasione del matrimonio del Manzoni con Teresa Borri vedova Stampa, la casa che lo aveva fino allora ospitato; e il 17 dic. 1838 si sposò anch'egli, prendendo in moglie Giovannina Alfieri. L'anno prima aveva intanto dato alle stampe l'ultima sua novella in versi, Ulrico e Lida, una prova decisamente minore. Nel 1838, dopo un periodo di pratica notarile, sostenne gli esami per il notariato, iniziando a svolgere la professione a Milano. In questa veste, oltre a curare gli interessi del Manzoni, redasse nel 1848 l'atto che sanciva l'annessione della Lombardia al Piemonte. Al rientro degli Austriaci nel capoluogo lombardo, il G. riparò a Lugano, spostandosi spesso a Belgirate per incontravi il Manzoni, che dimorava allora a Lesna.

Nell'ottobre del 1849, calmatesi le acque, fece ritorno a Milano dove morì il 10 dic. 1853.

Fonti e Bibl.: Il Fondo Grossi è conservato presso l'Archivio storico civico di Milano. Tre inediti sono stati pubblicati da A. Bozzoli con il titolo L'Arcadia all'incanto, Milano-Varese 1971. Sui rapporti col Porta si veda anche C.C. Secchi, Carlo Porta e T. Grossi. Inedito, Milano 1966. Lettere del G. sono state edite da: A. Lavagna Sangiuliani, Un autografo inedito di T. G., in Nel centenario di T. Grossi. Memorie di famiglia pubblicate nell'occasione delle onoranze bellanesi, Como 1890; C. Salvioni, Lettere di T. G. e di altri amici a Carlo Porta e del Porta a vari amici, in Giorn. stor. della letteratura ital., XXXVII (1901), pp. 278-339; Id., Lettere di Carlo Porta a T. G., a Luigi Rosari, a Gaetano Cattaneo e ad altri; e di vari amici al Porta, in Arch. stor. lombardo, XXX (1908), pp. 70-128; T. Grossi, Lettere, a cura di P. Tocchetti, Modena 1939; Le lettere di Carlo Porta e degli amici della "Cameretta", a cura di D. Isella, Milano-Napoli 1967.

Per notizie, testimonianze e inquadramenti critici si vedano: C. Trussardo, Sopra Marco Visconti, Milano 1835; I. Cantù, Salvator Rosa e T. G., Milano 1845; C. Tenca, T. G. (1846), in Saggi critici, a cura di G. Berardi, Firenze 1969, pp. 161-180; G. Scalvini, Foscolo, Manzoni, Goethe. Scritti editi e inediti, a cura di M. Marcazzan, Torino 1948, pp. 234, 349 s., 445 s.; I. Cantù, Vita e opere di T. G., Milano 1853; C. Cantù, T. G., Torino 1862; F. De Sanctis, La scuola cattolico-liberale e il Romanticismo a Napoli (1872-73), a cura di C. Muscetta - G. Candeloro, Torino 1953, pp. 15-56; G.M. Gamna, T. G. e I lombardi alla prima crociata, Torino 1885; G. Brognoligo, Ivanhoe e I lombardi alla prima crociata, Padova 1891; C. Cantù, Il giorno d'oggi. Visione e processo di T. G. ed altri poeti vernacoli, in Nuova Antologia, 1° maggio 1894, pp. 189-211; B. Brugnoli, Degli imitatori del Manzoni nel romanzo storico: T. G. e il Marco Visconti, Perugia 1895; G. Busolli, T. G. e le sue novelle, Treviso 1895; C. Salvioni, L'episodio della Prineide e il poeta milanese C.A. Pellizzoni, in Arch. stor. lombardo, XXXV (1908), pp. 217-230; Id., Carlo Porta e il processo per la Prineide, ibid., XLI (1914), pp. 561-565; M. Barbi, Sulla genesi dei Lombardi alla prima crociata, in Nozze Soldati-Manis, Firenze 1912, pp. 147-161; G. Brognoligo, Il G. e la Biblioteca italiana, in Fanfulla della domenica, 25 apr. 1915; Id., T. G.: la vita e le opere, Messina 1916; M. Chini, Le teorie dei romantici intorno al poema epico e i Lombardi di T. G., Lanciano 1920; C. Linati, Il Marco Visconti, in Rivista d'Italia, XXVIII (1925), pp. 211-218; Id., introduzione a T. Grossi, Marco Visconti, Milano 1926; I. Bonamore, La Prineide di T. G. e la polizia austriaca, Milano 1926; B. Croce, Per Francesco De Sanctis, in Id., Una famiglia di patrioti e altri saggi storici e critici, Bari 1927, pp. 218-221; M. De Rubris, introduzione a T. Grossi, Novelle romantiche, Torino 1928; G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1934, ad ind.; G. Bertacchi, prefaz. a T. Grossi, Marco Visconti, Milano 1935; G. Rotondi, I versi del G. in morte del Porta, in Convivium, IX (1939), pp. 142-147; E. Janni, introduz. a T. Grossi, Marco Visconti, Milano 1953; G.I. Lopriore, L'"Ildegonda" di T. G., in Rass. di cultura e vita scolastica, VII (1953), 12, p. 5; A.M. Rinaldi, T. G. nell'ambiente trevigliese del suo tempo, Treviglio 1953; Studi su T. G. pubblicati in occasione del centenario della morte, Milano 1953; M. Marcazzan, T. G., in Nostro Ottocento, Brescia 1955, pp. 147-187; Id., T. G., in Letteratura italiana. I minori (Marzorati), III, Milano 1961, pp. 2413-2437; Guida alla lettura di T. G., Roma 1959; S. Pagani, T. G. e il suo tempo, introduz. a T. Grossi, Poesie milanesi, Milano 1961; E. Sioli Legnani, Il pranzo dell'Ildegonda offerto da T. G. agli amici della "Cameretta", in Arch. stor. lombardo, LXXXVIII (1961), pp. 302-309; A. Balduino, T. G. tra lingua e dialetto, in Atti dell'Ist. Veneto di scienze lettere ed arti, CXX (1961-62), pp. 275-326; R. Sirri, introduz. a T. Grossi, Opere poetiche, Napoli 1972; S. Romagnoli, Manzoni e i suoi colleghi, Firenze 1984; P. Mauri, La Lombardia, in Letteratura italiana (Einaudi), Storia e geografia, II, 2, L'età moderna, Torino 1988, pp. 918-920; Teorie del romanzo nel primo Ottocento, a cura di R. Bruscagli - R. Turchi, Roma 1991, pp. 215-218 e passim; Prineide. La tragica fine di un ministro delle Finanze, testi diT. G., G. Rovani, G. Biffi, a cura di U. Guardoni, con prefaz. di E. Paccagnini e un saggio di L. Sciascia, Novara 1996; Q. Marini, La diffusione del romanzo storico, in Storia della letteratura italiana (Salerno), VII, Il primo Ottocento, Roma 1998, pp. 839-853.

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