TORINO

Enciclopedia Italiana (1937)

TORINO (A. T., 24-25-26)

Piero LANDINI
Goffredo BENDINELLI
Giulio Carlo ARGAN
Francesco LEMMI
Gino TAMBURINI
Luigi MICHELOTTI
Andrea DELLA CORTE
Piero BAROCELLI
Francesco COGNASSO
Piero PIERI

Capoluogo del Piemonte, già capitale del regno di Sardegna e dal 1861 al 1865 del regno d'Italia, capoluogo della omonima provincia, è la quarta città dello stato per numero assoluto di abitanti (638.146 individui viventi nel comune il 21 aprile 1936), dopo Roma, Milano e Napoli.

Sommario. - Geografia: Situazione, clima e sviluppo territoriale e demografico (p. 28); Agricoltura, industria e commercio (p. 31). - Monumenti e arte (p. 34). - Istituti di cultura e musei; Istituti d'istruzione e cultura (p. 37); Gallerie e musei d'arte (p. 37); Biblioteche e archivî (p. 37). - Vita teatrale e musicale: Teatri (p. 38); Musica (p. 38). - Storia (p. 39). - Assedio e battaglia di Torino (p. 43). - Paci e trattati di Torino (p. 44). - La marca di Torino (p. 44). - La provincia di Torino (p. 45). Tavole V-VIII.

Geografia. - Situazione, clima e sviluppo territoriale e demografico. - La città si trova a 45° 4′ 8″ di lat. N. e a 7° 40′ 9n di long. O. nel pieno dominio della pianura, sulle alluvioni terrazzate, tra il Sangone a S. e la Stura di Lanzo a N.; è attraversata dalla Dora Riparia e si affaccia per diversi chilometri sulla sponda sinistra del Po, che lambisce il piede occidentale delle omonime colline, sulle cui pendici si arrampica oggi la città. Il piano è dolcemente inclinato da ovest a est, tanto che il limite occidentale della città è a 281 m. s. m.; Piazza Castello (il cuore storico della città) è a m. 239; Piazza Vittorio Veneto a m. 222, mentre il livello medio delle acque del Po è a m. 212, intercorrendo quindi un dislivello di 69 m. Ragioni geografiche, insieme con evidenti cause di ordine storico e militare, spiegano il perché dell'ubicazione e dello sviluppo del grande centro. La città sorge in posizione centrale rispetto ai confini del Piemonte, distando circa 80 km. dal confine francese, 75 da quello lombardo, 110 dal ligure e un centinaio dallo svizzero; è situata in una zona pianeggiante là dove essa si restringe in un'ampiezza minima di 12-13 km., chiusa a ovest dalle estreme propaggini alpine e dall'anfiteatro morenico di Rivoli, ad est dalle colline di Torino o del Po, vero corridoio naturale, attraverso il quale fatalmente dovevano svilupparsi tutte le comunicazioni unenti la pianura cuneese con quella canavesana e vercellese. Si deve aggiungere che Torino sorge presso il punto nel quale si versa nel Po la Dora Riparia, la cui valle, detta anche Valle di Susa, ha un'importanza grandissima, per le comunicazioni stradali e ferroviarie tra l'Italia padana e ligure-tirrena da una parte e il medio bacino del Rodano e la Francia nord-occidentale dall'altra, attraverso i valichi del Monginevro (m. 1854), del Moncenisio (m. 2084) e la famosa galleria del Fréjus. Si avverta inoltre la topografia centripeta di tutti i corsi d'acqua della sezione occidentale alpina, dalla Maira alla Stura, che con i loro alvei in pianura e con le loro vallate alpine hanno influito sull'irraggiamento dei mezzi di comunicazione, che, a ventaglio, dalla metropoli portano ai valichi di confine, mentre le vallate del Borbore e del Tanaro, con direzione prevalente dei paralleli, attraverso le colline dell'Astigiano e del Monferrato, facilitano le comunicazioni con la pianura alessandrina.

A tutte queste favorevoli condizioni, si aggiunga anche il fattore climatico: data la sua posizione nel cuore del Piemonte, chiusa tutt'intorno dalla cerchia alpina e dalle colline del Po, la città presenta un clima continentale di transizione: temperatura media annua 11°,7; inverni moderatamente freddi (1°,8); estati calde (21°,7); grande escursione fra minimi e massimi assoluti (−15°; +35°,5). L'umidità massima si riscontra nei mesi di gennaio (84,0%) e febbraio (75,6); la minima in luglio (59,2), con un valore medio annuo di 69, che pone Torino anche a tale riguardo in una posizione intermedia. La quantità complessiva di precipitazioni (pioggia, grandine, neve) è di 884,2 mm. annui, che cadono in media in 107 giorni. Per la piovosità prevale la primavera con 294,7 mm. e 33 giorni di pioggia; seguono l'estate (235,2 mm. e 28 giorni piovosi) e l'autunno (225,8 mm. e 27 giorni di pioggia), la stagione più asciutta è l'inverno (128,8 mm. e 19 giorni con precipitazioni). La neve cade in quantità moderata, soprattutto nei mesi di dicembre e di gennaio; i temporali incominciano in primavera, toccando il massimo in giugno (media 8,7); il vento, di solito molto debole, soffia, data la configurazione dell'orizzonte regionale della citià, quasi sempre con direzione NO. o SE.

In questo ambiente di pianura e di colline, ricco di coltivazioni, di industrie, di comunicazioni, si è sviluppato il centro di Torino, che nel 1931 contava 583.000 abitanti; gli fanno corona tutta una serie di agglomerati umani, alcuni dei quali di cospicue dimensioni, tra cui, a sud, Moncalieri (9241 ab. nel 1931), annidato sulle prime pendici collinari, guardato dal castello reale; ad ovest Rivoli (8224 ab.) sull'anfiteatro morenico omonimo, ricca di industrie, di palazzi, d'opere d'arte; a nord-ovest Venaria Reale (8098 ab.) con il suo castello e gli stabilimenti della Snia Viscosa (rayon); a nord-est, Settimo (7645 ab.) in fertile plaga, ricca di industrie varie; a oriente, al di là della collina, culminante nel Colle della Maddalena (m. 715), ove nel Parco della Rimembranza giganteggia la statua della Vittoria, sorge Chieri che nel 1931 contava 9945 ab. con industrie tessili; centri tutti quasi interamente attratti nell'orbita della grande città. E il quadro si completa pensando che in un raggio di 15 km. dal centro, vivono ben 33 comuni, con una popolazione complessiva presente al 1931 di 156.500 individui, che aggiunti a quelli di Torino dànno un totale di 754.000 persone. Su tanto fervore umano ed economico vigila dalla collina boscosa la Basilica di Superga (m. 670).

Torino presenta il caratteristico piano topografico a reticolato romano, avendolo derivato dalla pianta dell'antico castrum, del tempo di Augusto, città fortificata con mura e torri, avente un perimetro di circa 3 km. e una superficie di 45 ettari, sorta non a contatto con il Po o con la Dora, ma sulle alluvioni terrazzate retrostanti più adatte alla difesa. Alle estremità delle strade principali (cardo maximus, ora vie Porta Palatina e San Tommaso e decumanus maximus, ora Via Garibaldi) sorgevano porte munite.

Fino al sec. XVI la città vive entro tale perimetro. Soltanto con l'entrata definitiva dei principi sabaudi, s'inizia per Torino un periodo di rinnovamento: si hanno nel corso dei secoli successivi tre ampliamenti topografici fondamentali. Preceduto dalla costruzione della cittadella all'angolo sud-ovest della cinta romana, voluta da Emanuele Filiberto, s'inizia, sotto Carlo Emanuele I, il primo ingrandimento della città, con la costruzione di dieci isolati al difuori delle mura, dal lato di mezzodì (città nova), tra l'attuale Piazza Solferino e la chiesa della Madonna degli Angeli, che verranno ultimati e circondati con opere fortificate da Vittorio Amedeo I (si sistema la Via Nuova, poi Via Roma, arteria fondamentale della futura metropoli) e da madama Reale Cristina di Francia, cui si deve, tra l'altro, la costruzione di Piazza San Carlo, considerata come una delle più belle d'Europa.

Con il regno di Carlo Emanuele II si inizia, verso levante, cioè verso il Po, il secondo ingrandimento della città, di cui la prima pietra veniva solennemente benedetta il 23 ottobre 1673. L'opera iniziata in mezzo a grandi difficoltà viene continuata dalla Reggente, e così nascono Via Po, Via della Zecca, Piazza Carlina e le vie a sud di questa fino agli antichi ripari. Il terzo ingrandimento è dovuto a Vittorio Amedeo II, il primo re sabaudo, che oltre a importanti opere di fortificazione, volle dotare la capitale di nuovi quartieri (18 isolati) nella sezione occidentale, dal lato della nuova Porta Susina, con ampie vie rettilinee, tagliantisi ad angolo retto e una grande piazza quadrata (ora Piazza Savoia). Durante i successivi regni di Carlo Emanuele III e Vittorio Amedeo III si continuano gli ampliamenti della città; si sistemano vie e piazze, tra cui è da ricordare Via Dora Grossa ora Via Garibaldi; si abbatte una parte notevole delle mura romane, che ancora rimanevano dalla parte del Po; si costruiscono magnifici palazzi e numerose chiese. Sopraggiunge la bufera rivoluzionaria; per ordine di Napoleone si distruggono le mura, i bastioni della cinta fortificata, si abbattono tutte le porte, comprese quelle di alto valore architettonico; si pensa anche di distruggere il Palazzo Madama. L'unica opera costruita è il ponte sul Po tra l'attuale Piazza Vittorio Veneto e la Piazza della Gran Madre di Dio. Durante i regni di Vittorio Emanuele I, Carlo Felice e Carlo Alberto, Torino s'ingrandisce specialmente verso il Po, con la costruzione della grandiosa piazza (300 × 100 m.) chiamata Vittorio Emanuele I, ora Vittorio Veneto; si costruiscono gli isolati tra questa piazza e il Corso San Maurizio, si forma il cosiddetto Borgo Nuovo ai lati dell'attuale Via Mazzini; s'ingrandisce verso Porta Nuova con la costruzione della bella Piazza del Re, ora Carlo Felice, e la sistemazione di parte del Viale del Re (corso Vittorio Emanuele II); si sviluppano le costruzioni verso Porta Palazzo e la Dora, sulla quale nel 1830 si aprirà il primo ponte.

Dopo il breve ristagno del 1848-50 le costruzioni riprendono alacremente: manca purtroppo un piano regolatore generale, che armonizzi le varie parti della nascente metropoli: così sorgono, specialmente fuori della cinta daziaria del 1853, intere borgate attualmente tutte fuse nel grande organismo cittadino, ma il cui piano topografico risulta profondamente diverso tra zona e zona. Questo avviene specialmente nelle regioni Regio Parco, Monte Bianco, Monte Rosa, Vittoria, ex-Barriera di Lanzo Madonna di Campagna, Ceronda, ex-Barriera di Nizza, Molinette. Nei decennî successivi della seconda metà del sec. XIX si approvano e si eseguono numerosi piani di ingrandimenti, tanto nella sezione meridionale, quanto in quella occidentale e settentrionale della città. L'inizio del grandioso sviluppo industriale porta di conseguenza un cospicuo aumento della popolazione e l'intensificarsi delle costruzioni. Appartengono all'ultimo ventennio del sec. XIX i piani regolatori della vasta regione prevalentemente industriale fra il Corso Regina Margherita e la Dora sino alle barriere di Lanzo, Milano, Vanchiglia, dell'oltre Po fra il Corso Regina Margherita e la Barriera di Casale e a sud del Viale della Regina; rapidissimo è lo sviluppo della città alla Crocetta e verso la Barriera di S. Paolo. È assai recente la costruzione nel cuore della vecchia Torino d'importanti vie diagonali, per rompere l'uniformità del reticolato romano, tra le quali principale la elegantissima Via Pietro Micca tra Piazza Solferino e Piazza Castello, mentre gli ultimi resti della Cittadella, ad eccezione del mastio, sono demoliti. L'incessante sviluppo della città, anche e soprattutto nel primo scorcio del secolo XX, ha reso necessaria la compilazione di un piano organico regolatore per la parte piana (legge 5 aprile 1908) e per quella collinare (legge 10 marzo 1918); nel 1920 si approvano le varianti generali a detti piani; altre hanno fatto seguito, dettate da particolari esigenze affiorate nel corso delle costruzioni e delle sistemazioni. Nel suo complesso, il piano regolatore ha seguito la struttura a reticolato della vecchia Torino, ma nelle zone periferiche ha adottato il sistema di ampie piazze circolari con strade e viali irraggianti, cosicché in qualche tratto si sono abbandonate le direttrici N.-S. e O.-E. che predominano nel resto della città. Dalla piccola Torino romana si è così passati alla grande città moderna: dai 3 km. di perimetro si sale a 16 nel 1912, si superano i 32 km. nel successivo ventennio; da 45 ettari di superficie la parte urbana sale a 5848 ettari, cui sono da aggiungere i 7165 della zona suburbana. La città dilaga a sud, a ovest, a nord, nei comuni di Moncalieri, Nichelino, Grugliasco, Rivoli, Venaria. Importantissime opere sono state attuate a partire dal 1922: dalla costruzione del Parco della Rimembranza al Colle della Maddalena in onore dei 10.000 Torinesi caduti nella guerra mondiale (420.000 mq. di superficie e 19 km. di viali), a quello dello Stadio civico Mussolini, capace di oltre 70.000 spettatori, dalla sistemazione dell'alveo della Dora all'abbassamento del piano del ferro tra il bivio per Alessandria-Genova e la stazione di Porta Susa e alla costruzione del magnifico sottopassaggio del Corso Regina Margherita (ferrovia di Milano) e di quello di Via Nizza, atti a rendere più facili le comunicazioni tra la vecchia città e i nuovi quartieri al di là delle linee ferroviarie; dalla completa riorganizzazione e sistemazione degl'impianti tramviarî urbani alla costruzione delle centrali elettriche (tra cui grandiosa quella di Rosone in Valle dell'Orco, capace di 54.000 kW); dalla razionale sistemazione dei servizî idrici e di fognatura, all'abbellimento di piazze, viali, strade, al risanamento e alla ricostruzione di Via Roma, divenuta una delle più eleganti d'Italia; dalla costruzione di grandiosi mercati ortofrutticoli all'autostrada per Milano e all'ospedale S. Giovanni alle Molinette: è tutto un fervore di opere e di uomini che fanno di Torino uno dei centri vitali per la storia e l'economia della nazione, così caratteristica per i suoi magnifici viali (87 km. di filari di alberi), i suoi giardini e parchi, tra cui quello del Valentino (550.000 mq.), dove si allogarono le Esposizioni del 1884, 1898, 1902, 1911 e 1928, dominato dalla mole dell'omonimo castello, mentre nelle chiare acque del Po si rispecchiano il Borgo e il Castello Medievale, i suoi portici con una lunghezza di 11 km., le sue piazze (59) e i suoi monumenti, dominati dalla Mole Antonelliana, la più alta opera muraria d'Europa (m. 167,5).

La popolazione della città è andata crescendo attraverso i secoli con un ritmo non sempre costante, in relazione diretta con gli avvenimenti politico-militari ed economici, di cui fu teatro o partecipe. Prima che Emanuele Filiberto la scegliesse come capitale, non per capriccio di principe ma per ferree necessità strategico-politiche, dettate da ragioni geografiche, la città non emergeva tra le consorelle del Piemonte. Le fortune politiche e militari si riflettono immediatamente sulla compagine demografica tanto che nel 1612 la città conta 24.410 ab., più che ogni altra città piemontese. Torino progredisce rapidamente, ma si avverte una notevole diminuzione di popolazione nel 1630 causata dalla pestilenza, nel 1707 in seguito al grave assedio sostenuto contro i Francesi. Con alterne vicende si giunge alla seconda metà del sec. XVIII, quando si superano gli 80.000 ab. (83.175 nel 1772); la fine del secolo trova la città con oltre 90.000 ab. Ma la dominazione francese è esiziale anche alla compagine demografica, che scende a 65.000 abitanti nel 1808. Il ritorno di Casa Savoia, le vicende politiche del Risorgimento nazionale, che fanno di Torino un centro di riscossa e di libertà, portano a un aumento costante: 89.194 ab. nel 1821, 127.555 nel 1840, 136.849 nel 1848. La proclamazione del regno d'Italia vede la capitale con 204.234 ab. (1861). Di grave danno fu, momentaneamente, il trasporto del governo a Firenze, tanto che la popolazione scende da 218.234 nel 1864, a 191.500 nel 1868. Ma la trasformazione di Torino in un grande centro industriale colma i vuoti causati da ragioni politiche e l'ascesa si fa impressionante: 212.644 ab. nel 1871, 252.852 nel 1881, 335.656 nel 1901, 427.106 nel 1911, 502.274 nel 1921, 597.260 nel 1931, 638.146 nel 1936.

Anche per Torino si nota, come del resto per tutte le grandi città, un decentramento della popolazione a tutto favore delle zone periferiche. Prendendo in esame i censimenti del 1881 e del 1931, si nota per il cinquantennio un aumento assoluto per tutto il comune di 344.408 unità, pari al 136%.

Mentre il centro urbano sale da 226.307 ab. a 345.189 con una variazione percentuale di solo il 53%, le borgate periferiche prese nel loro insieme vanno da 26.545 ab. nel 1881 a 252.071 nel 1931 con un aumento relativo del 944%. Si notano per altro differenze cospicue: mentre le frazioni di collina (Superga, Mongreno, Reagie, Santa Margherita, Cavoretto, S. Vito) avvertono variazioni positive non molto sensibili (da 4191 ab. a 13.844, pari al 230%) per il mancato accentramento industriale, mentre alcune frazioni del piano, in posizione periferica, a carattere eminentemente agricolo si presentano stazionarie (Villaretto da 901 a 970 ab.; Drosso Tre Tetti da 184 a 221), le altre frazioni accennano variazioni straordinarie: sono i sobborghi sorti per la grande industria, che si scendono sul feriile piano, lungo le direttrici delle grandi arterie di comunicazione, tanto a nord quanto a ovest e a sud: Barriera di Lanzo e Borgo Vittoria aumentano da 585 abitanti nel 1881 a 9291 nel 1931 (+1450%); Barriera di Milano da 1901 a 39.967 (+2000%); Regio Parco da 1970 a 18.851 (+845%); Pozzo Strada-Barriera S. Paolo da 2484 a 50.204 (+ 1908%); Barriera Crocetta da 635 a 14.234 (+2141%); Lingotto da 965 a 5184 (+438%), ecc. Anche le frazioni di collina, a contatto col Po, hanno aumenti cospicui (Madonna del Pilone da 1542 ab. nel 1881 a 8753 nel 1931).

A tale rilevantissimo aumento concorrono, in maniera molto differente, e l'eccedenza dei nati sui morti e l'eccedenza dell'immigrazione sull'emigrazione. La prima ha valore tuttavia molto modesto: presenta un andamento tutt'altro che soddisfacente, accusando un formidabile regresso nel numero dei nati vivi (da 31,2 per mille ab. nel periodo 1871-1875 si scende a 20,2 nel 1901-1905, a 11,6 nel 1915-20, per risalire a 13 nel 1931-1935). Tale regresso è in parte compensato da quello parallelo delle morti per le migliorate condizioni igieniche (da 30,4‰ nel 1871-75 a 13,5‰ nel 1931-35), ma resta un indice di eccedenza limitatissimo, che per molti anni, anzi, è stato addirittura negativo (+1,2 per mille nel 1871-75; 4,3‰ nel 1886-90; −7,2‰ nel 1916-20; −20‰ nel 1921-25). Attualmente, per l'energica politica demografica del regime fascista, si avverte un leggiero miglioramento, passandosi a −0,3‰ nel periodo 1931-35. Tale stato di cose è bene messo in evidenza anche dal numero dei componenti delle famiglie naturali (183.399 nel 1931); infatti Torino è la città tipica per le famiglie poco numerose, con 1-2-3 membri, con un totale di 129.109 pari al 70% dell'insieme, mentre, al contrario, il numero delle famiglie con più di 10 membri è assai piccolo (145 pari al 0,08%). L'aumento della città è dunque causato in assoluta prevalenza dal fenomeno immigratorio, come bene si può comprendere considerando il luogo di nascita della popolazione presente. Il numero dei nati in Torino è quasi sempre inferiore della metà del totale (44,5% nel 1871, 34% nel 1931) mentre in continuo aumento è quello dei nati in altri comuni del regno (53,6%, nel 1871, 63% nel 1931), degli stranieri e nati nelle colonie (in totale 3933 individui nel 1871, 14.362 nel 1931). Tutte le regioni d'Italia sono rappresentate: in primo luogo il Piemonte (120.500 nel 1901, 247.500 nel 1931), seguito dalla Lombardia (24.508 nel 1931, 10.098 nel 1901), dal Veneto (26.117 nel 1931, 4055 nel 1901), dall'Emilia (14.354 nel 1931, 4264 nel 1901), dalla Toscana (11.324 nel I931, 3515 nel 1901), dalle Puglie (11.182 nel 1931, 668 nel 1901), dalla Sicilia (6958 nel I931, 1539 nel 1901), dalla Campania (5546 nel 1931, 1381 nel 1901), ecc. S'avverte quindi, attraverso i decennî, uno spostamento sempre più cospicuo nella città dell'elemento meridionale, attratto dalle maggiori possibilità di lavoro, da ragioni di studio, industriali, commerciali.

Contrasti profondi si avvertono anche nei riguardi della densità. La presenza del grande centro spiega il perché dell'altissima cifra riferita al comune (4588 ab. per kmq.), una delle più alte del regno. Ma entro i limiti amministrativi le differenze sono veramente significative, notandosi un rarefarsi progressivo della compagine demo. grafica a mano a mano che dal cuore della città si va alla periferia. Mentre il nucleo della città antica ha ben 30.388 abitanti per kmq. (con un minimo di 20.915 per la sezione Monviso e un massimo di 37.869 per la sezione Dora), presentando uno sfruttamento intensissimo dell'area fabbricabile, la parte moderna scende a 19.673 (minimo della sezione Monte dei Cappuccini con 9470; massimo del Borgo S. Salvario con 32.129).

I quartieri periferici scendono a valori molto più bassi: le aree non fabbricate si fanno sempre più vaste; sempre piu numerosi i parchi e i giardini, le zone occupate dalle fabbriche, dagl'impianti ferroviarî, ecc.: ed ecco la zona limite scendere a 5364 ab. per kmq., attraverso il valore medio dei sobborghi (13.540), con un massimo della borgata Aurora e un minimo delle borgate Ceronda-Lucento. La zona periferica presenta una rarefazione sempre maggiore: i campi si diffondono e fra le aree abitate vi è soluzione di continuità. La campagna presenta soli 524 ab. per kmq. Così anche poco popolata è la collina (698), ma si avverte un aumento progressivo della densità a mano che dall'alta collina si scende verso il Po: Superga ha 226 ab. per kmq.; la sezione Pilonetto-Cavoretto 1081; quella di San Vito-Santa Margherita 1100.

Agricoltura, industria e commercio. - La città presenta caratteristiche economiche salienti: su 100 individui di età superiore ai 10 anni nel 1931, 38 erano attendenti alle cure domestiche, studenti, pensionati, ecc.; 34 erano addetti alla grande industria e all'artigianato; 13 al commercio e ai mezzi di comunicazione; 4 ai servizî domestici; 2,6 alle professioni liberali; 2,2 all'amministrazione pubblica; 2 all'agricoltura.

Nonostante l'esiguo numero di agricoltori, il comune di Torino ha notevole importanza anche in questo campo. Un anello di aree coltivate chiude a nord, a ovest, a sud la città, mentre a oriente si stende la collina boscosissima. Su 100 ettari di superficie agraria-forestale, 40,1 sono dati da prati permanenti, 38,7 da seminativi, 13,6 da boschi, 5,1 da colture specializzate; 1,7 da pascoli permanenti e 0, 1 dall'incolto produttivo. Una fitta rete di canali, derivanti l'acqua della Dora Riparia, permette un'intensa irrigazione (63,6).

I seminativi riguardano principalmente grano, mais, segale, riso, prati artificiali, con una produzione di 30.000 quintali annui di frumento (18 quintali per ha.), di 18.000 q. di mais. Notevolissima è anche la produzione orticola (patate, fagioli, legumi, cardi, finocchi, sedani, cavoli con una quantità media annua di 13-14.000 quintali, cipolle, agli, pomodori). Ingente è anche la produzione di foraggi (344.000 q.), che permette un forte allevamento di bovini (5584), equini (4431), ovini (5364), suini (1106). Le colture legnose specializzate riguardano soprattutto vigneti (17.000 quintali annui di uva), meli (3000 q.), ciliegi (3320).

Prevale la piccola proprietà agraria: su 5552 aziende agricole nel 1930, 3710 avevano una superficie inferiore a ettari 0,25.

Ma Torino ha saputo eccellere specialmente nella grande industria nei confronti della quale è divenuta uno dei massimi centri mondiali: in essa infatti erano occupati, nel 1927, 159.000 operai, dando a Torino così il 2° posto in Italia dopo Milano (267.000), e costituendo il 68% di tutti gli operai occupati nella provincia e il 4% del totale generale del regno.

Sorta sul cono di deiezione della Dora Riparia, in posizione elevata rispetto a questo fiume e al Po, Torino sin da epoca remota poté derivare dal medio corso della Dora canali che con i loro salti fornirono alla città la forza motrice per le sue industrie.

Tra le diverse attività della città romana è da ricordare quella sviluppatissima delle terrecotte, favorita dall'abbondanza di ottima argilla negl'immediati dintorni del centro, come attestano i ritrovamenti, avvenuti presso la Porta Principalis Dextera (Porta Palatina), di cocci di anfore, di stoviglie e di argilla pura. Accanto fioriva anche l'industria dolciaria, decantata da Plinio, che è divenuta una delle industrie più importanti della Torino moderna. Con la caduta dell'impero s'inizia a Torino un lungo periodo di decadenza e di oscurità: centro eminentemente agricolo, non vide svilupparsi entro le sue mura industrie importanti, come a Biella, Chieri, Pinerolo, e tale stato di cose si protrae sino al sec. XIV. A poco a poco le sorti politiche si fanno per Torino più favorevoli. Il dominio della Casa di Savoia al di qua delle Alpi si afferma sempre più e Torino acquista importanza: modeste industrie (come quella della carta, della seta, della lana) incominciano a prendere piede. Ma come nel campo politico-militare così anche in quello economico la rinascita di Torino si profila sotto il governo di Emanuele Filiberto. Cresce il numero delle tipografie, s'intensifica la bachicoltura, che fornirà la materia prima per la più fiorente delle industrie piemontesi di allora, quella della seta. Fuori Porta Palazzo, alimentata dalle acque derivate dalla Dora, si sviluppa una piccola zona industriale. Si fondano nel corso dei secoli XVII e XVIII l'arsenale con annessa scuola e laboratorio di chimica metallurgica, la scuola di artiglieria; di pari passo si sviluppa l'industria della seta, per cui la capitale sabauda viene a occupare il primo posto in Piemonte, a tutto svantaggio del lanificio, bandito dalla città nel maggio 1732.

Ma soltanto nel corso del sec. XIX si attua il grandioso sviluppo industriale di Torino, favorito in origine dalla presenza di numerosi canali derivati dalla Dora, fra cui principalmente il canale del Martinetto, che aveva una portata massima di 6 mc. e una minima di 1,5 e che, con il suo salto utile di m. 39,50, dal Martinetto al Po, poteva fornire anche 2600 cavalli di forza. Sussidiarî del Martinetto erano il Canale Nuovo e il Canale del Regio Parco. A questo complesso di vie d'acqua si aggiunge nella seconda metà del secolo XIX il Canale della Ceronda, derivato dall'omonimo torrente presso Venaria Reale, con un salto utile di m. 31, una portata media di 4000 litri al minuto secondo e uno sviluppo di forza di 1550 cav. In tale maniera tutta la regione della Dora va accentuando il suo carattere decisamente industriale e Torino può sviluppare la sua attività, facilitata dalla costruzione delle ferrovie che permettono l'arrivo a buon prezzo del carbone, integrando con i motori a vapore l'energia idraulica, che si fa insufficiente ai nuovi bisogni. Torino, nel 1861 capitale del regno d'Italia, contava 78.000 addetti alle varie industrie su di una popolazione totale di 204.715 individui. In genere sono già presenti tutte quelle industrie, che si svilupperanno grandemente nei decennî successivi: l'industria del vestiario con 24.000 operai, le industrie alimentari con 6337 addetti, l'industria meccanica con circa 6000 operai (produzione di armi, motori idraulici, macchine); quella del legno e del mobilio (5205 addetti), della seta (2200 operai) con l'antica manifattura privilegiata di Borgo Dora; l'industria delle pelli concentrate nella regione Dora, le industrie chimiche, ecc. Il trasporto della capitale da Torino a Firenze porta un grave colpo a tutta l'economia torinese; ma il risveglio è rapido e grandioso, anche mercé la scoperta della trasmissione a distanza dell'energia elettrica, che ha permesso alla città di servirsi dei grandiosi impianti idroelettrici della Dora Riparia e dell'Orco (centrali di Chiomonte con 16.000 kW e di Rosone con 54.000 kW), produttori di grandi quantità di energia a basso prezzo. Alla fine del sec. XIX (1899) sorge la Fabbrica Italiana Automobili Torino (Fiat), con stabilimenti nella sezione meridionale della città, sul Corso Dante, con una maestranza di 50 operai, nucleo primitivo di quel grandioso complesso industriale, che diverrà il primo d'Italia nella produzione degli autoveicoli.

Il cammino si fa rapido: nel 1911 si contano nella città 5151 aziende con 93.319 operai: emergono le industrie meccaniche e metallurgiche, quella dei veicoli, dell'abbigliamento, le tessili. La guerra mondiale chiama a Torino un'enorme quantità di maestranze per l'industria bellica; il richiamo continua per le diverse attività economiche anche negli anni successivi, tanto che il ricordato censimento del 1927 dà presenti nella città 11.993 aziende. Sono ai primi posti le industrie siderurgiche e meccaniche con 55.000 operai (gli operai meccanici nel 1890 erano soltanto 9000) occupati soprattutto nell'industria dell'automobile (la produzione torinese rappresenta l'85% del totale nazionale), nei grandiosi stabilimenti del Lingotto, seguite a distanza dall'industria del vestiario (17.851), da quella tessile (12.521), edilizia (11.184), metallurgica (10.261), alimentare (10.219) con le ben note fabbriche di dolci (cioccolato e caramelle) per cui la città occupa anche in questo campo il primo posto in Italia; dall'industria chimica (7752), cartaria (1600), delle pelli e del cuoio (3342), tipografica (4570), ecc. Il governo nazionale, a riconoscimento dei meriti della città, la decretava sede dell'Ente nazionale della moda italiana.

Completa il quadro tutto un sistema di mezzi di comunicazione tanto urbani, quanto extraurbani e ferroviarî. Le tramvie urbane sono state recentemente sistemate e ampliate secondo i più moderni criterî. Numerosissime linee tramviarie quasi interamente elettrificate portano ai centri sorti alla periferia della metropoli (Gassino-Brusasco, km. 36; Settimo, km. 11; Venaria, km. 9; Druent, km. 12; Pianezza, km. 12; Rivoli, km. 12; Orbassano-Pinerolo, km. 38; Orbassano-Giaveno, km. 32; Orbassano-Cumiana, km. 31; Stupinigi, km. 10; Poirino, km. 24); una linea lunga 85 km. porta a Saluzzo e a Cuneo, con numerose diramazioni.

Torino è uno dei nodi ferroviarî più importanti d' Italia e d'Europa, ed è servita da numerose linee a semplice e doppio binario, a vapore ed elettriche, statali e private, comandando transiti internazionali di grande valore antropico ed economico. Convergono a Torino Porta Nuova le linee di grande comunicazione provenienti da Milano (km. 153; doppio binario, a vapore), da Genova (km. 166; doppio binario, elettrica) e da Bologna (km. 188; s'innesta alla precedente ad Alessandria; doppio binario; elettrica da Torino a Voghera), sezioni delle grandi arterie italiane dei meridiani e dei paralleli: da Torino parte la linea, a doppio binario, elettrica, per Modane (km. 106), attraverso la Galleria del Fréjus (km. 12,8) e per Parigi. Verso sud-ovest si stacca un'altra linea internazionale (a semplice binario, totalmente elettrica) che porta a Cuneo (km. 88), a Ventimiglia (km. 188) e a Nizza, aperta al traffico il 28 ottobre 1928. Tutte le altre linee hanno carattere più locale, ma sono sempre importanti: così le arterie per Lanzo-Ceres (km. 44); Castellamonte (km. 43); Pont (km.53); Aosta (km. 129) e prolungamento a Pré-Saint Didier (km. 161); Arona (km. 125; che permette il collegamento più rapido con la ferrovia del Sempione); Casale Monferrato (km. 78); Chieri (km. 22); Genova, via Acqui-Ovada (km. 107); Savona, via Bastia (km. 146); Savona, via Fossano-Mondovì (km. 149); Cuneo, via Saluzzo (km. 94); Torre Pellice (km. 55).

Completa il quadro tutta una rete di strade di grande e media comunicazione, tra le quali sono particolarmente importanti quelle internazionali del Moncenisio e del Monginevro, risalenti le vallate della Dora Riparia (Val di Susa) e del Chisone, e l'autostrada partente dal Corso Giulio Cesare, aperta al traffico nel 1932, che unisce Torino con Milano, sezione della grande arteria già progettata la quale dovrà portare fino a Trieste; infine sono da menzionare la linea aerea Torino-Milano (km. 144) e quelle recentissime che portano a Roma (1936) e a Parigi (1937).

Bibl.: Città di Torino, Provvedimenti edilizi 1566-1892, Torino 1893; C. Boggio, Lo sviluppo edilizio di Torino dall'assedio del 1706 alla rivoluzione francese, ivi 1909; P. Gribaudi, La posizione geografica e lo sviluppo di Torino, ivi 1909; F. Sacco, Geologia applicata alla città di Torino, in Rivista tecnica "Il Valentino", V (1915); F. A. Répaci, La città di Torino attraverso i censimenti, in La riforma sociale, 1926, pp. 276-305; M. Chiaudano, Le condizioni economiche di Torino ai tempi di Emanuele Filiberto, in Rivista mensile municipale "Torino", numero speciale luglio-agosto 1928, pp. 467-77; C. De Antonio, Le fortificazioni di Torino e le condizioni militari della città ai tempi di Emanuele Filiberto, ibid., 1928, pp. 491-503; F. A. Répaci, Sviluppo demografico, economico, finanziario di una grande città italiana: Torino, 1928; G. Bendinelli, Torino romana, ivi 1929; G. Scanagatta, Cenni sui piani regolatori della città di Torino, in Rassegna mensile municipale "Torino", 1930; P. Betta, Problemi storico-urbanistici della città di Torino, ibid., 1930, pp. 467-91; M. Chiaudano, Torino ai tempi di Carlo Emanuele I, ibid., 1930, pp. 823-57; C. Bornati, Gli impianti idroelettrici del municipio di Torino nell'alta valle dell'Orco, ibid., 1930, pp. 353-78, 499-555, 671-96, 712-52, 1189-1218; A. Viriglio, Torino e i Torinesi, 2a ed., Torino 1931; P. Sereno Regis, Il censimento 1931 e la popolazione di Torino, in Rassegna mensile municipale "Torino", settembre 1932, pp. 29-40; Torino fascista nel decennio 1922-1932, suppl. alla Rassegna "Torino", ottobre 1932, p. 74; P. Gribaudi, Sui fattori geografici dello sviluppo industriale di Torino, in Rassegna mensile municipale "Torino", aprile 1933, pp. 23-39; P. Gribaudi, Lo sviluppo edilizio di Torino dall'epoca romana ai giorni nostri, ibid., agosto 1933, pp. 5-32; B. Saladini, L'autostrada Torino-Milano, in Realtà, 1933, pp. 321-333; G. D. Serra, Sulle origini della forma del nome di Torino, in Atti della Soc. piem. di arch. e belle arti, 1933, pp. 245-49.

Monumenti e arte. - Antichità. - In grazia dei resti monumentali, non numerosi ma tutt'altro che trascurabili, si è in grado tuttora di controllare, esattamente, l'estensione della città romana, nonché di seguire l'andamento delle mura di cinta. Il giro delle mura viene calcolato nella cifra di metri 2960 circa (equivalenti a piedi romani 10.000), quale somma dei lati di un rettangolo di m. 770 × 710 (con una smussatura, per dislivello del suolo, in corrispondenza dell'odierno giardino reale). L'orientamente del rettangolo è NE-SO.

Su ciascuno dei quattro lati si apriva una delle porte della città, fronteggiando la porta dal lato opposto: a NE., e più brevemente a N., la Porta Palatina, originariamente detta forse Porta Romana (di lì partendosi la via di comunicazione con Roma, per Milano e Pavia); a S. la porta detta ancora nel Cinquecento Porta Marmorea; a E. la cosiddetta Porta Praetoria (di cui restano avanzi sotto l'atrio di Palazzo Madama); a O. Porta Segusina (Porta Susa), all'angolo di Via Garibaldi con Via della Consolata. Delle due vie prinipali (cardo maximus e decumanus naximus), la prima correva da Porta Palatina a Porta Marmorea, la seconda da Porta Pretoria a Porta Susa. Le altre vie (cardines e decumani minori) costituivano, con le due principali, la scacchiera su cui si venne modellando la Torino moderna.

Delle numerose fabbriche antiche non rimane più in piedi che la turrita Porta Palatina: imponente costruzione laterizia dei tempi augustei, senza riscontro oggi in tutto il mondo romano, che ha avuto di recente una decorosa sistemazione. Rimangono anche tracce del teatro romano, in vista nell'area antistante al Palazzo reale dalla parte di Via XX Settembre: con una metà della gradinata e delle sostruzioni della scena a cielo scoperto, l'altra metà incuneata nei sotterranei del palazzo. Subito fuori delle mura a mezzogiorno sorgeva l'anfiteatro, non lontano, come si ritiene, dall'odierna Piazza S. Carlo. Trovamenti avutisi in tempi diversi permettono poi di situare il Forum, cioè il centro della città antica, nelle adiacenze del Palazzo municipale, o Palazzo di Città, corrispondente forse all'antico Praetorium. Di un arco monumentale d'età flavia, in Torino, ci fanno testimonianza alcuni frammenti architettonici. Si è creduto inoltre d'identificare il sito dell'attuale duomo (S. Giovanni, nella piazza omonima) col sito dell'antico tempio di Giove Capitolino.

Un ricco materiale epigrafico attesta nella colonia romana la presenza di numerose magistrature, culti e sacerdozî. Tra i magistrati troviamo ricordati: Curatores Reipublicae, Duoviri, Duoviri quinquennales, Aediles, Quattuorviri, Quaestores. I culti sono quelli contemplati dalla religione romana. Oltre ai Pontifices sono poi ricordati sacerdoti addetti al culto d'imperatori divinizzati.

Bibl.: Corp. Inscr. Lat., V, 6949-7208; E. Ferrero, in E. De Ruggiero, Dizionario epigr. di antichità romane, s. v. Augusta Taurinorum; C. Hülsen, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, col. 2343 seg.; C. Promis, Storia dell'antica Torino, Torino 1869 (fondamentale); F. Rondolino, Storia di Torino antica, in Atti Soc. piem. di arch. e belle arti, ivi 1930; G. Bendinelli, Torino romana, ibidem, 1929; J. A. Richmond, Augustan Gates at Torino and Spello, in Papers of Brit. School at Rome, XII (1932), p. 52 segg.; G. Bendinelli, Un arco imperiale eretto in Augusta Taur., in Torino, novembre 1933; id., La Porta Palatina, ibid., gennai o1935; P. Barocelli, Il Piemonte dalla capanna neolitica ai monumenti di Augusto, in Studi su Torino e il Piemonte, Torino 1933 (n. 139 della Biblioteca stor. subalp.). Trovamenti archeologici varî pubblicati in Not. degli scavi, citati in Indici gener. delle Not. scavi, 1876-1930 (Roma 1935).

Medioevo ed età moderna. - Durante tutto il Medioevo Torino mantenne pressoché inalterati i limiti e la configurazione della città romana, e alla regolare struttura di questa sembrano essere ispirati gli sviluppi e gli ampliamenti che la città ebbe a subire anche nel corso dei secoli XVII e XVIII: onde quella geometrica uniformità nel tracciato delle vie e nella distribuzione a scacchiera degli edifici, che è la principale sua caratteristica urbanistica.

Poche tracce rimangono della città medievale. Al sec. IV pare risalga la costruzione della basilica di S. Salvatore, che sorgeva sull'area poi occupata dal duomo, e che fu sostituita nel sec. IX dalla chiesa di S. Giovanni Battista; alla chiesa primitiva apparteneva verosimilmente un frammento di pavimento figurato a musaico del sec. XII, rinvenuto nel corso dei restauri del duomo e ora conservato nel Museo civico. Né altre tracce rimangono a Torino dell'arte romanica, ove si eccettui il campanile di S. Andrea, ora della Consolata, che documenta la presenza a Torino di quei caratteri architettonici lombardi, che si riscontrano generalmente negli edifici romanici del Piemonte.

Neppure l'arte gotica, presto migrata in Piemonte dalla Francia lasciò a Torino grandi tracce di sé; unico monumento dell'architettura gotica a Torino è la chiesa di S. Domenico, ornata, nella cappella di S. Tommaso, di affreschi che testimoniano dell'affinità della pittura trecentesca piemontese con quella d'oltralpe.

L'arte del Rinascimento giunse tardi a Torino; solo negli ultimi anni del sec. XV Torino ebbe, nel duomo costruito da Meo del Caprino per ordine del cardinale Domenico della Rovere, un edificio che rifletteva, sia pure in modo mediato, le forme della rinnovata architettura toscana; nelle sculture che ornano l'interno del duomo è invece predominante l'influenza di modelli lombardi (lastre tombali di Amedeo e di Antonio da Romagnano).

L'influenza dell'arte lombarda, e più precisamente della pittura foppesca, predomina nella corrente pittorica che si sostituì, nella seconda metà del sec. XV, al gusto gotico internazionale, largamente diffuso in Piemonte durante la prima metà del secolo. A Torino lavorarono sicuramente Gian Martino Spanzotti, cui si attribuiscono affreschi in S. Domenico, e Defendente Ferrari, che eseguì per il duomo la pala dei Ss. Crispino e Crispiniano. Ma se Torino non fu il centro della pittura piemontese, sull'arte dello Spanzotti e di Defendente Ferrari ebbe notevole influenza l'esperienza ch'essi poterono compiere a Torino dell'arte straniera attraverso le numerose opere eseguite dai miniatori d'oltralpe per la corte sabauda; senza seguito rimase invece l'arte di un grande miniatore parmense, ora identificato con il Marmitta, che ornò il messale di Domenico della Rovere.

Nella prima metà del sec. XVI le deplorevoli condizioni economiche e politiche paralizzarono ogni attività artistica e ogni impresa urbanistica; ma nella politica di pace e di ricostruzione economica adottata da Emanuele Filiberto ebbe parte non piccola l'incoraggiamento della cultura umanistica, dell'arte, delle iniziative edilizie. Né Emanuele Filiberto si preoccupò soltanto di dare nuova efficienza alle fortificazioni cittadine, ordinando a Francesco Paciotto urbinate la costruzione della nuova cittadella (1563), esempio perfetto dell'architettura militare del Rinascimento, ma emanò decreti intesi a promuovere e a disciplinare la costruzione in Torino di nuovi edifici civili.

Anche maggiori furono le iniziative urbanistiche di Carlo Emanuele I, il quale chiamò a Torino l'architetto orvietano Ascanio Vittozzi: questi iniziò il sistematico ampliamento della città verso mezzogiorno, progettando la Piazza Castello, tutta circondata di portici, e tracciando al di là delle mura romane, che vennero tagliate per l'occasione, la Via Nuova (Via Roma); il Vittozzi fornì anche il modello per le facciate degli edifici, i quali risultarono così uniformi sull'allineamento prospettico della via rettilinea.

L'architetto Carlo di Castellamonte continuò l'opera del Vittozzi, prolungando la Via Nuova, al di là della Piazza San Carlo, ch'egli stesso progettò in forme composte e severe, fino alla Porta Nuova.

Sotto Carlo Emanuele II, Amedeo di Castellamonte progettò un nuovo ingrandimento di Torino verso levante e la lunga, ampia, rettilinea Via Po. Nella costruzione del palazzo reale (1658), Amedeo di Castellamonte rivelò le sue qualità di artista: ampia, sobria nella decorazione, la facciata non è tocca da motivi barocchi, ma si compone in cinquecentesco rigore di contorni, in appena accennati movimenti di masse e trae pieno valore dalla lieve decorazione, che rende le superficie sensibili alla luce; il gusto architettonico del Cinquecento francese, che aveva avuto, vent'anni prima, una precisa affermazione nel castello del Valentino (già ritenuto di Carlo di Castellamonte), è così superato in un valore di più immediata pittoricità architetionica.

Meno importante è il contributo portato al rinnovamento edilizio di Torino da F. Lanfranchi (palazzo del municipio) e da altri minori. Ma poiché ogni problema urbanistico bene impostato conduce di necessità a un'esigenza artistica, sorsero ben presto anche a Torino, a complemento delle rigorose prospettive delle vie e delle piazze, imponenti edifici, che riflettevano più precisi valori architettonici. Furono il Guarini (v.) e lo Juvara (v.) a portare a Torino l'esperienza dell'arte romana; e se Torino, in gran parte rinnovata con sistematica regolarità urbanistica, fu a quegli artisti un ottimo campo d'azione, con il Guarini e lo Juvara s'iniziò per il gusto piemontese un nuovo periodo di sviluppo.

Nominato nel 1668 architetto ducale da Carlo Emanuele II, il Guarini, nella cappella della SS. Sindone e nella chiesa di S. Lorenzo, esercitò il proprio virtuosismo tecnico in complesse e fantasiose strutture formali, non sempre artisticamente riuscite; ma nel palazzo Carignano e nel collegio dei Nobili (ora Accademia delle scienze) una più schietta ricerca di effetto pittorico è nelle superficie modulate, ammorbidite e fatte permeabili alla luce e all'atmosfera dalla decorazione.

La pittura non ebbe indirizzo proprio nella Torino del Seicento; il Caccia e altri minori seguirono le tracce di Gaudenzio Ferrari, aggiungendovi accenti lombardi, che si diffusero poi sempre più con l'opera che svolsero a Torino i lombardi Figino, Morazzone, Novolone, Del Cairo; sotto Carlo Emanuele I lavorò a Torino Federico Zuccari; dalle Fiandre vennero il Carracha e il Miel; da Vienna, nel 1688, Daniele Seyter, che ebbe da Vittorio Amedeo II l'incarico di decorare il Palazzo reale e il titolo di pittore di corte.

Alle grandiose iniziative edilizie di Vittorio Amedeo II, assunto al titolo di re, rispose pienamente il messinese Filippo Juvara. Artista più completo che non fosse il Guarini, lo Juvara non disgiunse l'attività architettonica da quella urbanistica: le condizioni della città, gravemente danneggiata dall'assedio del 1706, erano quanto mai favorevoli a grandi piani di ricostruzione. Nominato architetto reale nel 1714, lo Juvara studiò l'ampliamento dei bastioni romani dalla Consolata a Porta Susa e la sistemazione della zona nord-ovest della città. Molte furono le sue opere nella zona nuovamente ordinata; i quartieri militari (1728), dalle linee semplici e solenni nelle altissime arcate, aprono la Via del Carmine, che si conclude nella Piazza Savoia, ampia, regolare, circondata d'insigni palazzi: nella chiesa del Carmine l'arte dello Juvara rivela le sue migliori qualità di pittoricità leggiera, ampia, fatta di arabeschi e di suggeriti accenti costruttivi ai limiti dello spazio prospettico. Nei palazzi Martini di Cigala, del seminario, dei tribunali, Ferrero di Ormea, Birago di Borgaro, nella facciata ovest di Palazzo Madama, nelle chiese di S. Cristina, di S. Croce, di S. Filippo, e in altre opere, lo Juvara supera la faticosa complessità dei problemi spaziali del barocco in una suprema libertà decorativa; e sul piano della decorazione i motivi barocchi e quelli neoclassici hanno lo stesso valore, come uno stesso valore decorativo è nel rigoroso colonnato neoclassico della basilica di Superga, che lo Juvara costruì sulla collina a dominare la città, e a ricordare la vittoria sui Francesi, e nella villa di Stupinigi, tutta aperta a respirare nella luce e nello spazio con i suoi bracci a raggiera.

L'arte dello Juvara ebbe largo seguito a Torino, specialmente per opera del Vittone e di Benedetto Alfieri, che successe allo Juvara come architetto reale e che costruì il Teatro Regio e il Teatro Carignano e progettò l'allineamento di Via Dora Grossa (ora Via Garibaldi); minore importanza ebbero altri architetti quali il Rica (palazzo dell'università), il Robilant, il Ferroggio, il Barberis, il Borra, il Planteri; i quali tutti contribuirono a dare a Torino quello sviluppo organico e coerente, che Vittorio Amedeo III provvide a tutelare sottoponendo ogni iniziativa edilizia a un "Congresso degli architetti" presieduto dal Birago di Borgaro.

All'architettura fastosa, pittorica e tutta decorazione che si sviluppò a Torino con e dopo lo Juvara, si accordarono, rifiorendo, tutte le altre manifestazioni artistiche, con un'unità d'indirizzo che si suole comunemente e arbitrariamente indicare col nome di "Barocco piemontese".

Il torinese Carlo F. Beaumont fu decoratore pieno di foga, ma privo di ogni originalità stilistica, tutto chiuso nella ripetizione delle formule decorative apprese a Roma sul principio del Settecento. Al Beaumont spetta tuttavia il merito di avere dato grande incremento all'industria torinese dell'arazzo fornendo i cartoni alla manifattura torinese dell'arazzo, una delle più fiorenti in Italia nel sec. XVIII. Maggiore importanza ebbero altre correnti pittoriche: l'una proveniente da Venezia con il Ricci e il Crosato, l'altra da Napoli con Francesco de Mura e Corrado Giaquinto, la terza dalla Francia, con il Van Loo e poi con il lionese Pecheux, notevole ritrattista; alla corrente veneta e più precisamente a larghezze pittoriche tiepolesche s'ispira il maggiore dei decoratori piemontesi del Settecento: Bernardino Galliari.

Minore importanza ha la scultura del Settecento a Torino; povere le opere del Cametti (basilica di Superga); composte in artificiosi slanci quelle dei fratelli Ignazio e Filippo Collini (Palazzo reale); dalla Francia vennero il Ladatte e il Legros, che ornò di statue la facciata della chiesa di S. Cristina. Eleganti nelle forme quasi rustiche e più nei colori preziosamente accostati sono le ceramiche delle manifatture di Vinovo, alle quali Carlo Emanuele III diede il massimo incremento.

Vittorio Emanuele I, riprendendo possesso dei suoi stati dopo la dominazione francese, non distrusse, come i più accaniti reazionarî lo esortavano a fare, quanto era stato compiuto dai Francesi (il ponte sul Po, al termine della via omonima, e lo stradale di Francia), ma anzi ne continuò l'opera, compiendo l'iniziata demolizione dei bastioni e cingendo la città di grandi viali (Corso Lungo Po, Corso Vittorio Emanuele II, eorso Regina Margherita); al di là del ponte sul Po, poco prima costruito, sorse il tempio della Gran Madre di Dio, a ricordare l'esodo dei Francesi: opera fredda e neoclassica, ma bene inquadrata nel complesso paesistico. Sotto Carlo Felice la città s'ingrandì ancora verso il Po e verso la Porta Nuova (ora stazione ferroviaria); e fu definitivamente tracciata la grande piazza, ora Vittorio Veneto, che inquadra nella prospettiva delle sue ampie e luminose superficie lo sfondo della collina. Lo sviluppo urbanistico di Torino continuò sempre più intenso nella seconda metà del sec. XIX, specialmente per opera del sindaco Carlo di Sambuy, che fece aprire, nel centro di Torino, la grande Via Pietro Micca, una delle principali arterie della città.

Nella seconda metà del secolo XIX, quasi tutte le piazze e i giardini della città furono ornati di monumenti, non tutti all'altezza della statua di Emanuele Filiberto, del Marocchetti (1838).

Nei primi decennî del'900 il crescente sviluppo industriale della città ha imposto sempre maggiori ampliamenti; e iniziative urbanistiche di grande respiro, come ad es., l'allargamento della Via Roma sono state recentemente realizzate o sono tuttora in corso.

Bibl.: C. Boggio, Gli architetti Carlo e Amedeo di Castellamonte e lo sviluppo edilizio di Torino nel sec. XVII, Torino 1896; P. Toesca, Torino, Bergamo 1911; C. Boggio, Lo sviluppo edilizio di Torino dalla rivol. franc. alla metà del sec. XIX, Torino 1918; A. E. Brinckmann, Novum Theatrum Pedemontii, Düsseldorf 1931; L. Rosso, La pittura in Piem. nel sec. XV, Torino 1931.

Istituti di cultura e musei. - Istituti d'istruzione e cultura. - La R. Università, fondata nel 1404 da Ludovico di Acaia (nel 1506 vi si laureò Erasmo), riformata da Emanuele Filiberto e specialmente da Vittorio Amedeo II (1729), comprende oggi nove facoltà con numerosi gabinetti, cliniche, istituti scientifici e musei: giurisprudenza, che dà anche la laurea in scienze politiche; lettere e filosofia; medicina e chirurgia, da cui dipendono le scuole di ostetricia di Torino, Novara e Vercelli e i laboratorî scientifici Angelo Mosso sul M. Rosa; scienze matematiche, fisiche e naturali; agraria (1935); farmacia; commercio (1935), già R. Istituto superiore di scienze economiche e commerciali (1906); medicina veterinaria (1934), già R. Istituto superiore di medicina veterinaria, aperto a Torino nel 1851, ma esistente alla Venaria sin dai tempi di Carlo Emanuele II; magistero (1935), già Istituto superiore pareggiato di magistero (1923). Presso il seminario metropolitano esistono poi una facoltà teologica (1874) e una facoltà legale pontificia (1883), che una volta facevano parte dell'ateneo. Così funziona nell'archivio di stato una scuola di paleografia, diplomatica e dottrina archivistica (1872), che trae origine dalla cattedra omonima fondata nel 1820 da Prospero Balbo a Giuseppe Vernazza. Continuano la tradizione militare della città sabauda la R. Accademia militare di artiglieria e genio (1669) con l'annessa scuola di applicazione di artiglieria e genio (1851), e il R. Istituto superiore di guerra (1867), per la preparazione degli ufficiali di truppa e di stato maggiore (v. scuola: Ordinamento scolastico dell'esercito). Il R. Istituto superiore d'ingegneria, che riassume (1936) l'antico nome di Politecnico, sta accanto all'università per importanza di studî e per numero di allievi. Nacque (1906) dalla fusione della scuola di applicazione per gl'ingegneri (1859) con la scuola superiore del R. Museo industriale (1866). Comprende una facoltà di architettura (1935), già R. Scuola di architettura (1924) e l'Istituto elettrotecnico nazionale Galileo Ferraris, ed ha inoltre tre scuole di perfezionamento in aeronautica, balistica e costruzioni di armi e artiglierie, costruzioni automobilistiche. Integrano l'attività umanistica e scientifica di queste scuole altri istituti. Primo fra tutti la R. Accademia delle scienze (1783), sorta da una società privata ch'era stata costituita nel 1757 da Angelo Saluzzo, L. Lagrangia e G. Cigna, e aveva avuto titolo regio nel 1762. Nel 1801 fu trasformata in nazionale con l'aggiunta della classe di scienze morali e politiche che conservò anche quando, ricostituita nel 1815, riprese la vecchia denominazione e i primitivi ordinamenti. Seguono, per ordine di tempo, la R. Accademia d'agricoltura istituita nel 1785 da Vittorio Amedeo III come Reale Società Agraria e riordinata col nuovo titolo nel 1842; la R. Deputazione subalpina di storia patria, che dal I935 riunisce l'antica R. Deputazione sugli studî di storia patria (I833), e la Società storica subalpina (1895), fondata da Ferdinando Gabotto; la R. Accademia di medicina (1846), anch'essa, come l'Accademia delle scienze, d'iniziativa privata (1833); la Società piemontese di archeologia e belle arti (1874); l'Istituto fascista di cultura (1928); l'istituto di cultura polacca Attilio Begey (1930); la Pro cultura femminile (1914), ecc.

Tra i numerosi istituti d'istruzione secondaria e tecnica, meritano speciale menzione il R. Istituto nazionale per le industrie del cuoio (1902), unico in Italia, la R. Scuola di tirocinio per le arti grafiche Giuseppe Vigliardi-Paravia (1901), la R. Scuola per l'arte bianca e per le industrie dolciarie (1917).

Prima ancora che Ferrante Aporti istituisse la prima scuola infantile in Italia (1827), in Torino era sorto, per opera dei marchesi Falletti Barolo, nel loro stesso palazzo, un asilo per l'infanzia; ma l'opera animatrice dell'Aporti valse anche qui a dare incremento e forma vera di scuola a tali istituti, avendo trovato appoggio in uomini di grande valore intellettuale e morale, come C. Cavour, C. Boncompagni, Roberto D'Azeglio e altri. Oggi gli asili o scuole materne, dirette da enti largamente sussidiati dal municipio, sono quasi un centinaio. Giova infine ricordare i seguenti educatorî e convitti che hanno carattere di enti pubblici: il R. Albergo di Virtù, che risale a Emanuele Filiberto ed educa e istruisce i giovani poveri di famiglie operaie; l'Istituto Bonafous, per le professioni agrarie; il convitto nazionale Umberto I; l'istituto nazionale Umberto I per i figli dei militari (1918); l'istituto nazionale per le figlie dei militari; il R. Educatorio femminile della Provvidenza (eretto in ente morale nel 1735).

Gallerie e musei d'arte. - Durante il regno di Carlo Alberto fu fondata la R. Accademia di belle arti, cui è annessa una piccola, ma notevole collezione d'arte; la raccolta di pitture antiche di casa Savoia, iniziata da Carlo Emanuele I e poi accresciuta, specialmente con le opere della galleria del principe Eugenio, venne riordinata e resa di pubblico godimento. La Pinacoteca di Torino, che ha ora ripreso il nome di Galleria Sabauda, è fra le più importanti raccolte artistiche del regno, specialmente per la copiosa raccolta di pitture di scuola fiamminga ch'essa contiene.

A Carlo Alberto spetta anche il merito di avere raccolto e composto in palazzo reale una collezione di armi antiche di grande valore (Armeria Reale), ricca di pezzi rari e di preziosa fattura; presso la biblioteca reale, Carlo Alberto raccolse un'importante collezione di disegni di antichi maestri (Leonardo; Pollaiuolo; Pontormo; Rosso; Tintoretto; Carracci; maestri fiamminghi e francesi, ecc.).

Il museo di antichità, che si venne formando sotto Carlo Felice, raccoglie, insieme con opere che documentano la diffusione dell'arte romana nelle valli piemontesi, un'importantissima raccolta, tra le più ricche del mondo, di antichità egiziane. Fondamentale per lo studio dell'arte piemontese nei varî periodi storici è il Museo Civico recentemente trasferito in Palazzo Madama; il Museo Civico contiene vaste collezioni di legni scolpiti del sec. XIV e del XV, di vetri, di ceramiche, di stoffe del secolo XVII e del XVIII e alcune tra le più importanti opere della pittura piemontese dei secoli XV e XVl.

Biblioteche e archivi. - Il più notevole fra , l'istituti di cultura torinesi è la Biblioteca nazionale e universitaria. Costituita nel 1720 per volontà di Vittorio Amedeo II con un primo nucleo di opere possedute dall'università e con la libreria ducale, ricca di oltre diecimila volumi, d'importanti manoscritti e incisioni, sotto la guida di dotti bibliotecarî (G. L. Pasini, G. Vernazza, C. Gazzera), ebbe rapido incremento e larga notorietà fra gli studiosi. Durante il sec. XIX fortunati acquisti (fra cui quello dei codici Bobbiesi procurato da B. Peyron) cospicui doni e lasciti (p. es., l'insigne collezione aldina offerta da Carlto Alfieri di Sostegno), la dottrina di bibliotecarî illustri, quali Amedeo e Bernardino Peyron e Gaspare Gorresio, concorsero ad aumentare sempre più la ricchezza e la fama della biblioteca. Purtroppo l'incendio del gennaio 1904 bruciò intere sezioni di libri a stampa, fra cui tutti gl'incunabuli piemontesi, e fu particolarmente disastroso per i manoscritti, dei quali distrusse o danneggiò più o meno gravemente circa duemila, in particolare del fondo orientale (ridotto quasi a nulla), dell'italiano e del francese. Ma l'immane disastro richiamò sulla biblioteca la commossa attenzione e il vivo interessamento dei dotti di tutto il mondo e fu occasione al costituirsi di un laboratorio di restauro che tuttora funziona. Da ogni parte atfluirono doni, più insigne di tutti quello del barone Alberto Lumbroso che cedette tutta la propria libreria, cospicua specialmente come raccolta napoleonica (circa 30 mila volumi e opuscoli). Preziose in questi ultimi tempi le donazioni Foà e Giordano di fondi manoscritti musicali, contenenti fra l'altro opere del Vivaldi, dello Stradella, ecc., finora ignorate; di grande valore la collezione geografica Cora, quella Chiantore di libri sul Risorgimento e sulla moda. Recentissima è l'accessione dell'ex-biblioteca militare di Presidio, formata nel 1854 con fondi di altre biblioteche dell'esercito.

Attualmente la biblioteca consta di circa 560 mila volumi e opuscoli a stampa, 2500 manoscritti (di cui, oltre il fondo bobbiese già ricordato, sono notevoli quello del monastero di Staffarda e quello del card. Domenico della Rovere), di 1600 incunabuli, molti dei quali antichi e sommamente preziosi, d'una raccolta di circa 10 mila stampe antiche, e delle collezioni già citate fra i lasciti e i doni; infine di un'amplissima sezione di riviste, di cui 500 italiane e 250 straniere aggiornate. E in corso di preparazione una nuova sede per la biblioteca nell'ex-palazzo del debito pubblico.

Alla Biblioteca nazionale segue per importanza la Biblioteca civica (aperta al pubblico nel 1869), che consta di circa 170 mila volumi, 19 incunabuli, 400 manoscritti e un'assai ricca raccolta di autografi. Ha carattere di cultura generale, con speciale riguardo per le scienze applicate alle arti e alle industrie, cura la bibliografia storica locale, quella giobertiana e del Risorgimento, ha una sezione teatrale e di viaggi ed esplorazioni. Fra i manoscritti, notevoli gli autografi e i carteggi del Gioberti.

Donata, come si è detto, da Vittorio Amedeo II all'università l'antica biblioteca di corte, e disperse in gran parte nel 1798 le raccolte formatesi dopo, l'attuale Biblioteca reale è dovuta a Carlo Alberto e ai suoi successori. Ha carattere di cultura storica e artistica e raduna circa 150 mila volumi, 4000 manoscritti, fra cui preziosi codici miniati, rari incunabuli, disegni e manoscritti di Leonardo da Vinci e il suo celebre autoritratto. Sono anche notevoli la biblioteca del duca di Genova, iniziata nel 1853 con la donazione di Cesare Saluzzo e fornita di circa 30 mila volumi specialmente di cultura militare; e quella del Principe di Piemonte, ricca di 20 mila volumi di storia, arte, genealogia, araldica, prevalentemente relativi alla Casa Savoia.

Fra le biblioteche ecclesiastiche merita un cenno la biblioteca del seminario, fondata nel 1752, che possiede 60 mila volumi, specialmente di materie religiose; codici in parte provenienti dall'Abbazia di Altacomba, alcuni incunabuli e molti opuscoli e periodici relativi alla storia di Casa Savoia e alla diocesi di Torino.

Deposito prezioso delle fonti per la storia della dinastia e del Piemonte è l'Archivio di stato, già archivio dei principi sabaudi e poi archivio di corte, istituito nel nome e ordinamento attuale con decreto 31 dicembre 1850. Esso si è poi accresciuto con gli archivî della Camera dei conti, del Controllo, della Finanza, della Guerra e della Marina. Vi è annessa una biblioteca pregevole per manoscritti e incunabuli.

Bibl.: Per l'università: F. Ruffini, L'università di Torino, profilo storico, in Annuario delle università, 1899-1900, ripubbl. con aggiunte in Monografie dell'università e istituti superiori, Roma 1911-13, I, pp. 525-62. - Per gli altri istituti scientifici: Il I secolo della R. Accademia delle scienze in Torino. Notizie storiche e bibliografiche (1783-1883), Torino 1883; Ricordi del I centenario della R. Accademia d'agricoltura in Torino (1785-1886), ivi 1886; A. Manno, L'opera cinquantenaria della R. Deputaz. di st. patria di Torino, ivi 1884; E. Dervieux, L'opera cinquantenaria della R. Dep. di st. pat. di Torino, ivi 1935.

Per le gallerie e musei: A. Baudi di Vesme, La R. Pinacoteca di Torino, in Gallerie nazionali italiane, III (1897); M. Soldati, Catalogo delle gallerie d'arte moderna del museo civico di Torino, Torino 1927.

Per le biblioteche: Le biblioteche governative italiane nel 1858, Roma 1900, pp. 99-111; B. Peyron, Codices italici manu exornati qui in Bibl. Taurinensis Athenaei ante diem XXVI jan. MCMIV asservabantur, Torino 1904; C. Cipolla, G. De Sanctis e C. Frati, Inventario dei codici superstiti greci e latini antichi della Bibl. Naz. di Torino, in Riv. di fil. e istr. classica, XXXII (1904), pp. 385-588; id., Codici bobbiesi della Bibl. Naz. Univ. di Torino, Milano 1906; F. Cosentini, Inventario dei manoscritti della Biblioteca Nazionale di Torino, Firenze 1922 (Coll. Mazzatinti-Sorbelli, vol. 28); L. Màdaro, La biblioteca civica di Torino, in Augusta Taurinorum, febbraio 1936; (E. Dervieux), La biblioteca del sem. metrop. di Torino, in Acc. e bibl. d'Italia, V, pp. 390-93; C. De Antonio, La biblioteca del re, in Torino, gennaio-febbraio 1928; Ripa di Meana, La biblioteca del duca di Genova, Torino 1868; Apolloni-Arcamone, Le biblioteche d'Italia, I, Roma 1934, parte. 1a, pp. 68-87.

Per l'archivio di stato e gli altri archivî, N. Bianchi, Le carte degli archivi piemontesi, Torino 1881; Manuale storico archivistico, Roma 1911.

Vita teatrale e musicale. - Teatri. - I teatri hanno sempre avuto parte importante nella vita di Torino perché i Torinesi amano coltivare le relazioni di società, assai più che nell'intimo della casa, nei ridotti e nella penombra discreta dei palchi di teatro. E nei teatri, per le opere rappresentate e per i facili contatti tra la gente del luogo e la gente venuta a Torino da ogni parte d'Italia, divamparono gli ardenti entusiasmi patriottici del Risorgimento. Che il teatro sia sempre stato considerato dai Torinesi come il salone per le feste e il salotto di tutti, lo dimostrano le stesse forme, disposizioni, e architetture dei teatri maggiori, quelli che ci riportano più indietro negli anni, il Regio, il Carignano, il Torino (già Scribe) e il Gianduja (già D'Angennes). Diverse le capacità, l'ambientazione, le possibilità e le risorse dei palcoscenici, ma tra gli uni e gli altri, un'aria di famiglia se non una parentela stretta: quattro o cinque ordini di palchi; platea, gallerie e piccionaia limitate; abbondanza di spazio per i posti distinti. Palchi molto aperti, con molte dorature, in modo da formare appropriate cornici all'eleganza degli spettatori. Leggermente diverso da questi quattro il Rossini, piuttosto piccolo, ma molto grazioso e tutto a gallerie. Totalmente diversi il Gerbino, che oggi non esiste più, l'Alfieri più volte rinnovato, e quelli di costruzione più recente, il Balbo, il Chiarella, il Torinese, e l'abbastanza anziano Vittorio Emanuele che fu costruito per ospitare durante l'inverno i circhi equestri, ma che doveva diventare poi ottima sede, data la sua acusticità, per spettacoli d'opera e per concerti sinfonici popolari. Tutti i teatri torinesi, per avvenute devastazioni e distruzioni dovute al fuoco e ad altre cause, sono stati ricostruiti, rifatti, rimodernati; anche quelli che conservano ancora lo stile e la decorazione originale. Il Regio, costruito da Benedetto Alfieri, zio del grande poeta tragico, nel 1738, inaugurato solennemente nel 1741, è stato a più riprese restaurato come sala e rifatto a nuovo come palcoscenico per la rappresentazione del Nerone di Boito. Distrutta dal fuoco (1936) la bella sala con le ricche tappezzerie, le decorazioni, il monumentale palco reale, viene ricostruito nella stessa località con altra architettura. Il Carignano, opera anche questa di Benedetto Alfieri, costruito nel 1752, ricostruito nel 1787, rinnovato nel 1885, rifatto nel 1934 per le necessità determinate dalla costruzione della nuova Via Roma, è ancora oggi fra i teatri torinesi quello che meglio ricorda il passato e il più adatto per fare da cornice a un buono spettacolo di prosa o a un'esecuzione di opera comica. Il Teatro di Torino, che fu per molti anni aperto quasi esclusivamente alle compagnie francesi, dopo essere stato per qualche tempo il rifugio di tutte le baraonde studentesche, venne trasformato da un intelligente mecenate in un ambiente di lusso per spettacoli d'arte d'eccezione. Acquistato in seguito dall'Ente italiano audizioni radiofoniche è stato trasformato in auditorio, ma senza snaturarlo; ché continua ad essere aperto al pubblico per le stagioni sinfoniche dell'ente suddetto. L'Alfieri, costruito nel 1857 dall'architetto Panizza, è stato tre volte devastato dalle fiamme, ma le successive ricostruzioni non ne hanno alterato la forma e l'architettura primitiva. È il teatro più popolare, uno tra i preferiti dal pubblico torinese. Il Teatro Vittorio risale al 1856, ma è stato anch'esso ripetutamente rinnovato per migliorarne il palcoscenico e consentire al pubblico una più diretta visuale. ll Gerbino, che fu per molti anni compreso tra i maggiori teatri di prosa nazionale e fu sede di un "teatro d'arte" che ebbe vita gloriosa, trovò la sua fine nella rinnovazione. Gli abbellimenti ne intaccarono la solidità e fu abbandonato, anche per la sua ubicazione che era diventata eccentrica. Il Balbo, costruito nel 1857, venne ricostruito nel 1863, rinnovato nel 1889, rifatto nel 1931. E fra i più comodi. Il Teatro Gianduja, il Rossini, ebbero anch'essi le loro ripuliture, ma nessuna trasformazione: sale molto dorate, ma limitati i ridotti e i passaggi che sono angusti e quasi pericolosi. ll Politeama Chiarella e il Teatro Torinese non subirono vicissitudini e hanno vita incolore. ll Regio, considerato il terzo e per molto tempo il secondo tra i maggiori teatri italiani, vanta una lunga tradizione di stagioni liriche importanti e ha anche la gloria di aver tenuto a battesimo musicisti e opere diventate popolarissime e cantanti diventati famosi. Al Gerbino, al Carignano, all'Alfieri, attori e commediografi italiani ebbero a volta a volta trionfi ardenti e sconfitte clamorose. Con la raccolta dei manifesti di questi teatri si potrebbe costruire una costellazione dei maggiori nomi dell'arte teatrale italiana: dalla Pezzana alla Duse, da Rossi a Emanuel, da Novelli a Leigheb, dalla Mariani alla Reiter, da Andò a Zacconi, dalle Gramatica alla Galli. Al Gerbino si ebbe il canto del cigno di Adelaide Ristori e vi raccolse gli ultimi trionfi Giacinto Pezzana. La storia del Balbo registra tra gli avvenimenti memorabili la commovente serata in cui si ebbe il ritorno alle scene di Eleonora Duse. Il Rossini, quattro volte ribattezzato, teatro popolarissimo, può scrivere sul suo frontone i nomi gloriosi dei creatori del teatro piemontese: Toselli, Gemelli, Vaser, Milone, Zoppis, Garelli, Bersezio, Pietracqua, Mario Leoni. Nei teatri torinesi Vittorio Alfieri riportò le sue più significative vittorie, e Carlo Goldoni accese discussioni e fervidi consensi.

Musica. - Nel fervore dell'arte musicale che fa ricco il quadro storico del Quattrocento italiano, una regione ci si presenta scarsa di musica, o almeno tale appare nell'attuale stato di studî: il Piemonte. Alla decadenza dello stato sabaudo, da Ludovico e Amedeo IX a Carlo I, duchi di Savoia, corrisponde il silenzio della musica.

La "Schola de cantorum et de pueris" (sic) a servizio del Santo Salvatore (una delle tre chiese dalle quali ebbe poi origine il duomo torinese, di cui i primi documenti risalgono al sec. X, e che probabilmente fu istituita parallelamente alla "Schola cantorum" di S. Giovanni in Laterano, e con il medesimo scopo di promuovere insieme con lo studio delle arti del Trivio e del Quadrivio la diffusione del canto gregoriano) dopo varie vicende che la condussero a misero stato, risorgeva grazie a Ludovico di Romagnano, arcidiacono del capitolo, nel 1439, sotto la direzione d'un fiammingo, Gioannetto de Rombies di Condé, diocesi di Cambrai, un conterraneo dunque di G. Dufay. Per rinvigorire la cappella, il Romagnano istituiva il "Collegium puerorum innocentium", il collegio nuovo dei sei fanciulli innocenti. Così, la cappella del duomo di Torino iniziava dalla metà del'400 una prospera vita. Zelanti, i canonici non dimenticavano i monumenti della polifonia; orgogliosi, i cittadini soccorrevano l'istituzione, spesso impinguata da lasciti e donazioni. La cappella dei principi sabaudi spronava quella ecclesiastica a nobile gara di attività artistica.

Qualche segno dell'interessamento dei conti e dei duchi è documentato. Amedeo V acquistava, nel 1298, trattati di musica. Filippo d'Acaia chiamava presso di sé nel 1301, giullari, menestrelli e suonatori. Nei primi del'400 un Enrico tedesco è nominato menestrello di corde e di organi. Amedeo VIII ordina a Corrado Felini la costruzione di organi portatili. Numerosi i cantori e gli strumentisti. Ed ecco il grande G. Dufay soggiornare un anno alla corte di Savoia, dal 1434 al '35, affettuosamente ricordato e desiderato, dopo il suo ritorno alla cappella pontificia, dal duca Lodovico, amico della musica e dei musici. Il Dufay passava poi per Torino alla fine del maggio 1450, recandosi a Roma per il giubileo, e vi s'indugiava alcuni giorni.

Negli ultimi del Quattrocento i menestrelli venivano dimessi dal servizio dello stato e sostituiti da tamburini, detti anche timpanisti, e da suonatori di ribeca. Infine cedettero il posto ai trombettieri. Strumentisti italiani o stranieri davano intanto trattenimenti a corte, raggruppati in bande o compagnie. Vennero fra gli altri Martino Arneros, liutista del re di Spagna, e Bonanino Dassolin, citarizzatore.

La cappella musicale, della quale si ignora la costituzione e il valore, ascendeva a miglior fortuna, nel 1515, sotto Carlo II il Buono. Questi s'era proposto di riformare l'istituzione, sciogliendo, con l'approvazione di Leone X, il corpo dei cantori, costituito di ecclesiastici e di laici. Egli avrebbe voluto formare una collegiata di ventiquattro canonici, valenti nel canto e compensati per lo speciale servizio. Ma non realizzò il suo disegno, e le sorti dell'ordinaria cappella oscillarono con la varia fortuna delle finanze statali, né migliorarono quando, invaso il Piemonte, la corte si rifugiò a Vercelli.

Nella prima metà del Cinquecento, mentre lo stato di Savoia era ancora occupato dai Francesi, si diffusero, abbastanza numerose, le bande dei violini, e, probabilmente, anche di altri strumenti, com'era avvenuto nelle vicine nazioni. Certo è che il Piemonte diede agio ai musicisti non solo di vivere ma anche di prosperare. Ecco gl'inizî di quella speciale cultura che due secoli più tardi doveva culminare nella grande scuola piemontese.

Emanuele Filiberto, che nei suoi viaggi aveva conosciuto e apprezzato parecchi musicisti, si proponeva forse di riorganizzare la cappella su nuove e migliori basi artistiche. Egli s'interessava anche agli strumemi musicali, e ne è prova l'acquisto di un organo del 1550 a Milano, destinato al castello di Vercelli. Probabilmente fra il'50 e il'60 la cappella di Vercelli si disgregava mentre il duca di Savoia ne riuniva un'altra a Bruxelles. E anche questa si dissolveva nel'59.

Rioccupando i suoi stati, Emanuele Filiberto ricostituì la cappella, con un ordinamento che non doveva essere peraltro definitivo. Aboliti i cantores, i magistri d'un tempo, si ebbero a un tempo musici, cioè cantori di cappella, di camera o di gabinetto, e suonatori, i quali costituivano due bande, dei violini e dei tromboni (Le donne non vi erano ammesse). Accanto alla banda dei violini Emanuele Filiberto coltivò anche quella detta dei tromboni, indicandosi in quel tempo col nome di trombone una tromba un poco analoga a quella d'ordinanza, presentemente usata nell'arma di cavalleria. A tale banda furono poi aggiunti suonatori di fagotto e di cornetto, costituendosi così una specie di fanfara. Infine questo corpo, trasformato, passò a costituire il gruppo dei fiati dell'orchestra di corte.

Il regno di Carlo Emanuele I, svoltosi fra il Cinque e il Seicento, coincideva con un grande rivolgimento musicale: l'arte polifonica cedeva il passo al melodramma, al nuovo "stile rappresentativo".

Della cappella si hanno poche notizie. Certo è che i musici, considerati officiers (fra essi si noveravano persone di elevata condizione) ricevevano compensi e sitpendî come gli altri impiegati della corte. Attratto forse dal crescente splendore della casa di Savoia, venne qui un compositore tedesco che del suo passaggio lasciò, documento interessante, un mottetto dedicato al principe, esaltante le virtù di lui. Esso conclude: "O Carole benevole, sit tecum coelestis Emanuel". Langner Todescho è la firma dello straniero venuto a inchinare Carlo Emanuele. Un altro omaggio, anche più importante, ricevette il sovrano nel 1583. T. L. da Victoria, il polifonista spagnolo, gli inviò, per consiglio del buon filippino Giovenale Ancina fossanese, una raccolta di Inni sacri, preceduta da devota lettera dedicatoria.

Il numero dei musici da camera, in gran parte violinisti, andò costantemente crescendo. Nel 1648 appare il nome di Innocenzo Somis, il primo della stirpe famosa. Nel'63, distinti i musici, cantori e maestro, dai violinisti, crebbero le paghe ai migliori strumentisti. Nell'80 il veneziano Giovanni Sebenico, allievo di A. Legrenzi, assumeva la direzione della cappella. Accanto a lui, un "cappellano foriere della musica" collaborava alla direzione dei quattordici cantori e dei ventitré suonatori. Successivamente furono aggiunti un maestro di cappella in seconda e un organaro. Alla fine del secolo, a imitazione dell'uso francese, gli strumenti erano denominati "banda dei violini", e suddivisi in soprani, contralti, tenori e bassi; fra i primi, Lorenzo Somis. Alla cappella venivano poi aggregati anche il giovanetto G. B. Somis, e il violoncellista A. M. Fioré, compositore.

La corte di Savoia, che con Carlo Emanuele I aveva conquistato un notevole posto nella storia delle lettere italiane, procedette nel culto del melodramma contemporaneo dalla novatrice Firenze e dalle altre città. Il nome di Ludovico Sanmartino d'Agliè spicca, agl'inizî della storia del teatro, come quello del librettista della Zalizura, il primo melodramma rappresentato a Torino; più tardi egli scrisse una Caccia. Nel 1611 o nel 1612 Sigismondo d'India, di nobile famiglia palermitana, vissuto a Firenze nel 1608-9, veniva nominato capo della musica da camera di Carlo Emanuele I; ed egli compose la musica per la citata Zalizura. Con l'esecuzione di quel melodramma, Torino entrava nel novero non grande delle città che per prime avevano conosciuto e promosso la nuova forma teatrale, schiettamente italiana, poiché il d'India, stimato compositore di musica polifonica religiosa e profana, fu tra i seguaci di Iacopo Peri e di Giulio Caccini, anzi apostolo del nuovo stile musicale. Anche da lui fu musicata la Caccia, del d'Agliè, rappresentata a Torino nel 1620. Sedi delle rappresentazioni teatrali, che nel Cinquecento erano avvenute nel salone del Palazzo Madama (allora Castello), furono, dal 1610, il Teatro dei commedianti, nel palazzo ducale di San Giovanni, dal 1638 il Teatro delle feste, situato nelle vicinanze dell'odierno Regio.

Durante il regno di Carlo Emanuele III la scuola violinistica, iniziata sotto Vittorio Amedeo II da G. B. Somis, si sviluppò, grazie alla personale iniziativa e al contributo finanziario del sovrano. Nella costituzione della cappella avvennero parecchi cambiamenti. Alla quintupla distribuzione dei violoni successe quella dei violini, violini secondi e viole. S'aggiungono strumentisti di fagotto e corno da caccia. Nel 1738 G. B. Somis riceve il titolo di "Primo dei dieci violini" e il suo stipendio sale a lire 1600. Nel'49 G. Pugnani appare come dodicesimo violino. Nel'63, morto il Somis, gli succede Paolo Canavasso; il Pugnani passa come capo dei secondi. Come maestri di cappella si succedono due Giay. Vittorio Amedeo III, re dal 1773, chiama nella cappella cantanti di valore, fra i quali i famosi soprani Marchesi e Crescentini. Presta servizio dal 1775 all'86 G. B. Viotti, che, educato a cura del principe della Cisterna, ancora giovanetto fu riconosciuto dal primo violino Celoniat come una grande speranza dell'arte; il Viotti partì poi per Parigi e Londra. Nel'75 il titolo di primo virtuoso di camera e direttore generale della musica strumentale viene assegnato al Pugnani. Alla fine del secolo, la cappella risulta costituita da 17 violini, oltre il Pugnani, 2 viole, 3 violoncelli, 2 bassi, 3 contrabbassi, 3 oboi, 2 fagotti, 3 corni da caccia. Succedendo al padre, nel 1796, Carlo Emanuele IV lasciava immutata la costituzione della cappella. Due anni dopo, rassegnando il potere e abbandonando Torino, egli dissolveva di fatto il corpo musicale.

Gli spettacoli del teatro, che dal 1740 fu denominato Regio, furono certamente notevoli nel sec. XVIII. Essi constavano, secondo la tradizione, di un melodramma, spesso con intermezzi, quasi sempre seguito da balli. I maggiori compositori del secolo vennero rappresentati. Accanto ai nomi dei torinesi Fioré, Giay, Celoniat, Pugnani, troviamo quelli dei più insigni compositori italiani, A. Pollaroli, Domenico Scarlatti, G.M. Orlandini, D. Sarri, F. Feo, N. Porpora, L. Leo, B. Galuppi, N. Jommelli, G. Latilla, Giuseppe Scarlatti, T. Traetta, N. Piccinni, F. de Maio, F. G. Bertoni, A. Sacchini, P. Anfossi, P. A. Guglielmi, G. M. Rutini, G. Insanguine, Bianchi, Tarchi; e anche d'insigni stranieri come J. A. Hasse, C. W. v. Gluck, D. Terradellas, J. Christian Bach. Gran numero di opere fu scritto per Torino, per es., da Hasse, L. Leo, Gluck, Traetta, Bertoni, Di Majo, Sacchini, G. B. Paisiello, F. Alessandri, G. Sarti, D. Cimarosa, L. Cherubini, G. Giordani, N. Zingarelli.

Il maggior teatro, chiuso durante la guerra dal'93 al'97, non appariva florido all'alba dell'Ottocento. Intitolato Teatro Nazionale nel 1799, nuovamente chiuso per la guerra del 1800, ribattezzato in Teatro delle Arti nel 1802, in Teatro Imperiale nel 1806, difettava nell'orchestra, poiché parecchi buoni strumentisti se n'erano allontanati. Fu allora che il musicofilo storiografo Carlo Botta, francofilo convinto, propose alle autorità francesi l'istituzione in Torino di una scuola pratica di musica. Consultato B. Sarrette, direttore del conservatorio di Parigi, il governo diede favorevole parere. Ma gl'incartamenti giunsero a Torino con un ritardo di ben diciannove mesi. Nel 1802 il generale Jourdan disponeva per l'inizio della scuola torinese e nominò perfino i professori. Ma l'ora di eominciare le lezioni non venne mai. Più tardi, un decreto napoleonico trasformava la scuola proposta dal Botta in istituto teorico-scientifico, cioè in una facoltà musicale aggregata all'università di Torino. Ma neppure questa vide mai la luce.

L'Accademia Filarmonica sorse nel 1814, a imitazione di quella bolognese, per l'iniziativa di una cinquantina di dilettanti di musica e con lo scopo di coltivare l'arte strumentale e vocale.

La Cappella Regia, che vedemmo disciolta con la rinunzia di Carlo Emanuele IV, risorse nell'anno stesso in cui la regale famiglia dei Savoia tornava a Torino. Undici giorni dopo il rimpatrio, Vittorio Emanuele I richiamava gli elementi migliori dell'antica cappella, nominava altri suonatori, stanziava più di trentamila lire per il ruolo del personale. Nel'70 la Cappella Regia di Torino veniva soppressa per sempre.

Durante l'Ottocento il Teatro Regio fu dapprima dato in appalto a varie imprese, con la facoltà di prelevare un quinto sugl'introiti degli spettacoli negli altri teatri. La concessione fu ridotta a un decimo, poi soppressa nel'70. Il municipio concorse allora alle spese con una dotazione, che alla fine dell'Ottocento era di 70.000 lire e attualmente è di circa 700.000. Nel 1872 sorsero i concerti popolari, dei quali fu primo direttore C. Pedrotti. Essi resero grandi servigi alla cultura cittadina, chiamando a Torino direttori insigni e costituendo un'orchestra che acquistò fama in Italia e fuori. L'istituzione di un istituto musicale municipale, vagheggiata nel 1827, fu decisa nel'66; assai più tardi il Liceo poté noverare cattedre per tutti gl'insegnamenti tecnici e teorici. Parificato nel 1925, il Liceo è stato regificato nel'36 e denominato Conservatorio Giuseppe Verdi: primo direttore Franco Alfano.

Bibl.: E. van der Straeten, Turin musical, 1880; G. Roberti, La Cappella Regia di Torino, 1515-1870, Torino 1880; G. Depanis, I concerti popolari e il Teatro Regio di Torino: appunti e ricordi, voll. 2, ivi 1915; L. Torri, Il primo melodramma a Torino, in Riv. mus. ital., XXVI, i; B. Alfieri, Il nuovo Teatro Regio di Torino apertosi nell'anno 1740, ivi 1761; P. Breggi, Serie degli spettacoli rappresentati al Teatro Regio di Torino dal 1688 al presente, ivi 1872; E. Ferrettini, Uno sguardo al passato del Teatro Regio, ivi 1906; G. Sacerdote, Il Teatro Regio di Torino, 1662-1890, ivi 1892; C. De Rossi, Il Teatro Regio di Torino, 1891-1924, ivi 1925; S. Cordero, Vicende della Facoltà mus. erigenda nell'università di Torino, in Riv. mus. ital., XXVIII, p. 241; id., Le relazioni del musico Dassouci colla corte di Torino, ibid., XXI, p. 3; id., Em. Filiberto di Savoia, protettore dei musici, ibid., 1927; id., Le orig. della cappella musicale dei principi di Savoia in S. Cecilia, 1927; id., Il teatro Carignano, in Riv. municipale, Torino 1928; id., Il Teatro Regio dal 1678 al 1814, ivi 1930; id., I musici della corte di Carlo Eman. I, ivi 1930; A. Della Corte, Catal. dell'Arch. dell'Accademia fil., ivi 1926; id., Il Liceo mus. di Torino, in Mus. d'oggi, 1930; G. Borghezio, La fond. del Collegio nuovo del duomo di Torino, in Note d'archivio, 1924; Assoc. Music. Ital. (A. Cimbro e A. Gentili), Cat. Bibl. Naz. Torino.

Storia. - Antichità. - Augusta Taurinorum fu città romana della regione XI augustea (Transpadana), presso la confluenza della Duria Minor (Dora Riparia) e del Po, nel territorio dei Taurini (v.). Si discusse se sia sorta nella località dove già esisteva la preromana Taurasia, capitale dei Taurini stessi. Come oggidì, anche in età romana era la più importante città subalpina occidentale. Da essa partivano, da una parte la grande via alle Gallie per la valle della Duria e le Alpes Cottiae (Mons Matrona, oggi Monginevro), dall'altra quella che sulla sinistra del Po conduceva a Ticinum (Pavia), Placentia e quindi per le vie Emilia e Flaminia a Roma (vasi di Vicarello, Tavola Peutingeriana, ecc.). Un'altra via si staccava per Pollentia, Alba Pompeia, Aquae Statiellae (Acqui). Il nome Augusta Taurinorum appare in Plinio e in altre fonti: troviamo anche quello di Iulia Augusta Taurinorum, semplicemente Iulia Augusta, Taurini sui vasi di Vicarello, ecc.

Fu colonia fondata indubbiamente con carattere militare, in territorio su cui, con ogni verosimiglianza, già precedentemente era stata estesa la cittadinanza romana (tribù Stellatina). È incerto se i due appellativi Iulia Augusta accennino a una doppia deduzione, la prima per opera di Ottaviano triumviro, la seconda per opera dello stesso già Augusto, o ad una sola, per opera di Augusto. Il suo territorio confinava con quello di Forum Vibi (Caburrum), la provincia Alpium Cottiarum, Eporedia (Ivrea), Karreum (Chieri).

Augusta Taurinorum fu parzialmente incendiata l'anno 69 d. C. per una rissa sorta fra soldati di Vitellio e quelli che avevano combattuto per Ottone ed erano rimandati in Britannia. Al declinare dell'impero - intorno al sec. III - vi fu di presidio il numerus Dalmatarum Divitensium, per quanto si deduce da alcune iscrizioni funerarie di militi appartenenti a questo corpo. Presso questa città l'anno 312 Costantino sconfisse i seguaci di Massenzio. Posteriormente vi ebbe sede un praefectus Sarmatarum Gentilium.

Poco si sa dell'introduzione del cristianesimo in Torino; il primo vescovo ricordato è San Massimo (v.), c. a. 415.

Bibl.: C. Promis, Iulia Augusta Taurinorum, Torino 1869; A. D'Andrade (C. Bertea ed A. Taramelli), Relazione dell'Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti del Piemonte e della Liguria, ivi 1899; G. Bendinelli, Torino romana, in Biblioteca magistrale, ivi 1929; P. Barocelli, Appunti sulle mura romane di cinta di Torino, in Atti della Società piemontese di archeologia, XV (1933); id., Il Piemonte dalla capanna neolitica ai monumenti di Augusto, III, in Biblioteca della Società storica subalpina, CXXXIX (1933); id., Nuove notizie sulla cinta romana di Torino, in Atti cit., XVI (1936); id., Monumenti augustei del Piemonte, in Atti del III Congresso Nazionale di studi romani, XII (1933); Corpus Inscriptionum Latinarum, V, p. 779.

L'età barbarica e dell'organizzazione feudale. - Nell'epoca postteodosiana non abbiamo notizie delle vicende di Torino. Mentre fra il sec. V e il sec. VI tutte le città subalpine scompaiono, come Industria, Pollentia, o decadono, come Karreum, Segusio, Eporedia, la città di Torino pare avere conservato una notevole importanza grazie alla sua posizione geografica centrale della regione subalpina. Diventò anzi centro religioso importante: la diocesi di Torino abbracciava tutto il territorio compreso fra le diocesi d'Ivrea, Asti, Alba, Acqui, Albenga, Embrun, cioè le valli della Dora Riparia, del Po, del Tanaro e della Stura di Cuneo. La lista dei vescovi non è completa: per il sec. VI abbiamo soltanto i nomi di Tigridio, Rufo, Ursicino, che cadde prigioniero dei Longobardi nella loro conquista della città. E possibile che Torino sia già caduta nelle mani dei Longobardi nel 569, dopo la caduta di Milano. Poiché era sede di un duca bizantino, questo venne sostituito da un duca longobardo. Torino formò quindi un vasto ducato corrispondente in gran parte alla diocesi ecclesiastica; perdette però la valle di Susa e la Moriana che vennero occupate dai Franchi per costituire una difesa contro una minaccia d'invasione longobarda. Il ducato longobardo di Torino acquistò allora ímportanza come baluardo del regno contro i Franchi; il confine franco-italico fu presso Avigliana ad appena 25 km. da Torino. Il re Autari diede il ducato di Torino al turingio Agilulfo che nel 590, morto misteriosamente Autari, s'impadronì del regno e sposò la regina vedova Teodolinda; qualche anno dopo compare come duca di Torino il longobardo Ariovaldo, fedele all'arianesimo, che sposò Gundeberga figlia di Agilulfo e di Teodolinda; morto Agilulfo, Ariovaldo s'impadronì a sua volta del regno, cacciandone il cognato Adaloaldo. Per l'epoca seguente conosciamo soltanto il nome di due duchi di Torino: Garibaldo che fu in lotta con il re di Pavia, Godeberto, di cui determinò la caduta e la morte, sicché a sua volta venne ucciso in Torino, nella chiesa di San Giovanni, da un fedele di re Godeberto (650 circa); poi Ragimberto, figlio di re Godeberto, che nei primi anni del sec. VIII riuscì ad impadronirsi del regno per breve tempo. Se durante il sec. VIII Torino abbia ancora avuto dei duchi, o no, è dubbio. Carlomagno non trovò resistenza, come neppure l'aveva trovata il padre suo Pipino. In Torino il governo carolingo stabilì dei conti franchi, dei quali però conosciamo solo Ratberto (827) e Suppone (879-80). Se Torino sia stato centro di un ducato carolingio giungente sino al mare, è ancora incerto. L'importanza data a Torino dai Carolingi appare anche dall'esservi stato inviato come vescovo il dotto Claudio (818-830 circa).

Svanita l'unità imperiale carolingia e riformatosi il regno d'Italia, nelle lotte della fine del sec. IX fra i due pretendenti alla corona, Guido di Spoleto e Berengario del Friuli, la situazione geografica di Torino rese desiderato il possesso della città. Poiché le contee di Torino e di Asti erano nelle mani dei discendenti del conte Suppone, parteggianti per Berengario, il re Guido, dopoché trionfò, le tolse loro e le diede ad Anscario, figlio di Amedeo già conte di Ouche. Il figlio e successore di Anscario, il marchese Adalberto, riuscì a mantenervisi, sposando Gisela figlia di Berengario, quando questi prevalse sul rivale. Verso il 940, il re Ugo, essendo in contrasto con il cugino di Ivrea, Berengario II, collocò a Torino un nuovo conte a lui devoto, Arduino il Glabro. Con Arduino si stabilì a Torino una dinastia che vi dominò per un secolo e mezzo con grande onore e fortuna (v. arduinici) e si costituì la marca di Torino (v. appresso).

Il periodo marchionale, e specialmente quello di Olderico Manfredi, fu per Torino un periodo di prosperità: abbazia, chiese, torri, castelli sorsero per cura di marchesi o dei vescovi torinesi, così in città come nel territorio, sintomi di una vita più intensa dopo le devastazioni degli Ungheri e dei Saraceni. Alla fine del periodo marchionale, in Torino si affermò l'autorità del vescovo e dei visconti della città.

Umberto II di Savoia, erede dei diritti sabaudi sulla Marca, verso il 1097 assunse il titolo di conte e di marchese, ma pur aspirando ad occupare Torino, non riuscì nel suo intento, non sappiamo per quali motivi.

L'età comunale. - La principale opposizione alle aspirazioni dei Savoia fu fatta, pare, dall'imperatore. Le disposizioni di Enrico V infatti si ricollegavano a non conosciute decisioni del padre Enrico IV, quando nel 1111 emanò un decreto riconoscente ai Torinesi il possesso della strada romea conducente da Torino a Sant'Ambrogio con la giustizia dei pellegrini e dei mercanti; nel 1116 con un nuovo decreto imperiale confermava ai Torinesi tutti i buoni usi goduti sotto il regno del padre suo, sì che rimanessero nella stessa libertà fino allora goduta, salva la giustizia del vescovo. L'impero aveva probabilmente desiderio d'impedire che i valichi alpini fossero dominati da territorî sabaudi sui due versanti. Della situazione politica della regione nei primi tre decennî del sec. XII non abbiamo notizie precise. Un vescovo di Torino, Bosone, fra il 1112-25 promulgò la tregua di Dio per difendere le popolazioni dall'anarchia in cui il paese si trovava per mancanza di un potere forte e riconosciuto. Il conte di Savoia Amedeo III, nel 1114 assunse come il padre il titolo di conte e marchese, chiara allusione ai suoi diritti su Torino. Nel 1131 un documento lo rivela padrone di Torino, di cui si dice conte. Probabilmente in quel momento aveva l'appoggio del vescovo di Torino Uberto. Negli anni seguenti Amedeo III è in lotta per il possesso di Torino con l'imperatore Lotario III: il papa Innocenzo II depone nel 1135 il vescovo di Torino, Uberto, come partigiano di Corrado di Hohenstaufen e dell'antipapa Anacleto II; nel 1136 Lotario III s'impadronisce di Torino, cacciandone il conte e costringendolo a ritirarsi oltre le Alpi, e da Borgo San Donnino concede un nuovo diploma ai Torinesi riconoscendo loro la stessa libertà che godevano le altre città italiane, con riserva dei diritti dell'impero e del conte che egli intendesse installare nelle città. Adunque l'imperatore riconosceva così l'esistenza di un'autonomia comunale sotto la protezione dell'impero. Di questa autonomia cittadina era certo grande parte l'autorità del vescovo. Nel 1137, appena Lotario III fu lontano, Amedeo III rapidamente ricuperò terre, castelli, vassalli attorno a Torino preparando la rioccupazione della città. Il vescovo Ariberto fece violenta opposizione atteggiandosi a padrone della città: fra il conte e il vescovo d'interpose come paciere Pietro arcivescovo di Lione, ma il contrasto era troppo grave perché si potesse giungere a un accordo. La lotta dei due poteri e poi la partenza per la 2a crociata del conte di Savoia permisero alla città di Torino di organizzarsi liberamente in comune.

Nel 1149 abbiamo il primo documento consolare: fanno parte del comune famiglie di vassalli e altri economicamente dipendenti dal vescovo, dal capitolo e dalle abbazie torinesi; già sono stati stretti legami con Asti e Vercelli; la guerra di Torino episcopale contro le rivendicazioni del conte sabaudo è considerata come un impegno per questo gruppo di vassalli episcopali. L'imperatore Federico Barbarossa, dopo avere nella prima discesa preso conoscenza della situazione torinese, decise di appoggiare vigorosamente la resistenza episcopale contro i Savoia; nel 1159 concesse al vescovo Carlo I un diploma che riconosceva al vescovo la completa signoria comitale su Torino e tutto il suo territorio. In questo modo venivano eliminate le aspirazioni dei conti sabaudi a ricostituire la marca torinese e il comune locale era rigidamente subordinato al potere episcopale. La stessa politica imperialista antisabauda fu seguita dal successore del vescovo Carlo, il milanese Milone di Cardano dopo il 1169; però in questi anni Federico Barbarossa, in conseguenza dello scacco subito a Roma, sentì il bisogno di riconciliarsi con Umberto III di Savoia, per averne il consenso ad attraversare i suoi stati; pare quindi che abbia promesso al conte di restituirgli quanto gli era stato tolto. Non sappiamo se Umberto III abbia ora potuto occupare Torino; certo nel 1173 in trattative matrimoniali di una figlia sua con un figlio di Enrico II d'Inghilterra, il conte di Savoia prometteva di dare come dote Torino, Cavorello, Collegno. In un accordo del 1176 con i marchesi di Romagnano discendenti della vecchia casa margraviale degli Arduinidi, il comune di Torino faceva esplicita riserva per i diritti del conte di Savoia. Dopo la pace di Costanza, l'imperatore Federico I non avendo più bisogno dell'appoggio sabaudo, ritornò bruscamente alla politica di favore al vescovo, deciso a riorganizzare saldamente il principato episcopale di Torino. La lotta contro i Savoia si svolse dal 1185 al 1188, prima con processi giudiziari svoltisi in Torino, poi con una spedizione militare a cura di Enrico VI. Il conte di Savoia fu messo al bando dell'impero e i suoi territorî avocati al fisco.

Dopo il 1190, l'imperatore Enrico VI volle assicurare una più diretta autorità imperiale sui comuni. Il suo rappresentante nella regione pedemontana, Tommaso di Annone, si stabilì a Torino con il titolo di podestà imperiale: il comune torinese visse per qualche tempo alla dipendenza del vicario imperiale, con grave danno dell'autorità episcopale. Tra comune ed episcopato v'è in Torino la situazione di tanti altri comuni italiani: un contrasto evidente per quanto riguardava la vita e l'amministrazione cittadina, un accordo stretto per quanto riguardava i vassalli e i comuni rurali formatisi nel contado. Nella lotta contro i conti sabaudi il vescovo aveva ricorso alle forze dei varî centri dell'episcopato, che ora, organizzatisi in comune, intendevano vivere a sé: così Chieri, Testona, Rivoli, Pinerolo. Il vescovo contro di essi deve appoggiarsi al comune di Torino che mira a sfaldare la potenza del vescovo e a dominare i comuni limitrofi. La pace di Mairano (1200) mostra appunto vescovo e podestà di Torino concordi contro Chieri e Testona. Nel 1204 i tre comuni Torino, Chieri, Testona stringono un patto di unione indissolubile; negli anni seguenti però Torino si ricovera sotto la protezione di Vercelli. Infatti cominciava a farsi sentire di nuovo la minaccia della riconquista sabauda. Tommaso I di Savoia nel 1210 venne a Torino alla corte dell'imperatore Ottone IV di Brunswick a cui rimase fedele quando Innocenzo III gli contrappose Federico II di Svevia; invece il comune di Torino per impulso del suo vescovo Giacomo di Carisio si affrettò a riconoscere l'imperatore svevo. Nel 1218 il vescovo di Torino essendo stato fatto da Federico II suo vicario imperiale, si servì della sua autorità per proteggere il comune di Torino contro le aspirazioni sabaude e attirare al comune stesso tutte le forze della piccola feudalità piemontese restia a passare dalla vaga signoria episcopale all'organizzazione sabauda. Il conte di Savoia Tommaso I rimaneva intanto nel campo ostile all'imperatore, insieme con i principali comuni lombardi. Nel 1226 Tommaso I di Savoia passò improvvisamente al campo imperiale; Federico II lo nominò suo vicario imperiale in Italia. Il comune di Torino si affrettò a passare alla parte opposta, aderendo alla 2a Lega Lombarda.

In quello stesso anno morì il grande difensore dell'autonomia cittadina, il vescovo Giacomo di Carisio, e da quel momento il comune parve libero dal predominio episcopale. Nel 1235 la lunga lotta fra Torino e il conte di Savoia parve finire con un trattato perpetuo di pace e di amicizia. Le speranze sabaude erano però premature, ché dopo la battaglia di Cortenuova, Federico II impose a Torino il governo di un suo capitano imperiale; i capitani imperiali governarono Torino fino almeno al 1247. Il dominio imperiale fu però dannoso per Torino: nel 1244 Pinerolo passò alla dipendenza del conte Amedeo IV di Savoia, il quale intanto con i fratelli si allontanava da Federico II e accennava a passare al papato. Nel 1245 Federico II si fermò a lungo a Torino, in procinto di recarsi a Lione al concilio; in quello stesso anno il papa Innocenzo IV scomunicò i Torinesi che rifiutarono di riconoscere come vescovo il prescelto dalla curia romana. I Savoia però non intendevano rompere del tutto con l'imperatore e questi nel 1248, spinto dalla terribile situazione in cui si trovava fra il papa e i comuni lombardi, si decise ad acquistarsi il favore definitivo dei Savoia concedendo a Tommaso di Savoia, fratello di Amedeo IV, la città di Torino in feudo; in cambio Beatrice di Savoia, figlia di Amedeo IV e vedova del marchese di Saluzzo, avrebbe sposato Manfredi, figlio naturale dell'imperatore. La caduta e la morte di Federico II non impedirono che Tommaso di Savoia occupasse nel 1251 Torino; il papa Innocenzo IV accennò a un'opposizione aspra, ma poi acconsentì a un accordo: Tommaso di Savoia sposò una nipote del papa e questi procurò al principe sabaudo alcuni diplomi di Guglielmo d'Olanda, l'antirè, da sostituire a quelli del 1249 di Federico II, e lo stesso Innocenzo IV nel 1253 confermò la cessione di Torino ai Savoia.

Tommaso di Savoia, per difendere il suo possesso di Torino, dovette sostenere una lunga lotta con Asti, Chieri, Moncalieri. Nel 1255 le milizie sabaudo-torinesi furono sconfitte a Montebruno presso Moncalieri; del rovescio approfittarono gli avversi alla dominazione sabauda per ricostituire il libero comune. Tommaso di Savoia fu arrestato, consegnato agli Astigiani che lo rimisero in libertà solo dopo che ebbe rinunciato ai diritti su Torino. Il comune di Torino visse allora sotto il predominio del comune d'Asti per tre lustri, riparandosi così dai tentativi di Pietro II di Savoia. Però nel 1270, crollata la potenza astigiana di fronte alla maggiore potenza di Carlo d'Angiò conte di Provenza e re di Sicilia, anche Torino fu costretta a riconoscere la signoria angioina, dalla quale nel 1276 passò a quella di Guglielmo VII marchese di Monferrato. Nel 1280 Tommaso III di Savoia costrinse il marchese di Monferrato ad abbandonargli Torino. Così cessò di esistere dopo un secolo e mezzo il comune torinese.

L'età della dominazione dei Savoia-Acaia. - Tommaso III di Savoia entrò in Torino non da conquistatore, ma da liberatore. Torino era possesso patrimoniale sabaudo per eredità di Adelaide e di Ottone I: i diplomi di Federico I e di Federico II erano stati il riconoscimento puro e semplice dei vecchi diritti, prima di essere a loro volta una nuova base giuridica indiscutibile. La nuova signoria sabauda di Torino si trovava però di fronte a una tradizione comunale secolare: le istituzioni comunali erano gl'interessi, la vita stessa della popolazione cittadina. Tommaso di Savoia rispettò l'autonomia cittadina, nei limiti però richiesti dal rispetto della sua sovranità; modificò gli statuti, mise a capo del comune un vicario; costrinse i partiti della vecchia classe comunale a conservare la pace.

La conservazione di una certa autonomia da parte di Torino fu favorita dalle vicende dello stato sabaudo. Il conte di Savoia Amedeo V, successo nel 1285 allo zio Filippo I, acconsentì a lasciare al nipote Filippo figlio di Tommaso IV, morto nel 1282 dopo l'occupazione di Torino, i territorî italiani da Rivoli in giù, con obbligo di tenere il paese come feudo della contea. Torino venne a far parte di questo feudo di Filippo di Savoia, il quale prese possesso della città nel 1295. Tuttavia egli stabilì la sua residenza a Pinerolo e lasciò la possibilità di una vita autonoma al comune torinese. Le lotte tra le fazioni della vecchia aristocrazia consolare furono di nuovo notevoli; si ebbero contrasti fra partigiani del governo sabaudo e oppositori, i quali avevano simpatia per il marchesato di Monferrato. Nel 1334 la fazione monferrina tentò una congiura per aprire le porte al marchese Teodoro Paleologo; ma il tentativo fallì e la fuga dei congiurati tolse ogni futuro pericolo per la dominazione sabauda. Filippo di Savoia, deluso nelle sue speranze di diventare veramente padrone dell'Acaia con il matrimonio con Isabella di Villehardouin, cercò di creare con i suoi territorî subalpini uno staterello indipendente dalla contea di Savoia. Il tentativo fu continuato dal figlio Giacomo, ma fallì definitivamente di fronte alla tenacia del conte Amedeo VI che occupò Torino e gli altri centri del Piemonte sabaudo. I Torinesi ora giurarono fedeltà al Conte Verde che riconfermò gli statuti cittadini, eliminando le maggiori tracce dell'autonomia comunale (6 giugno 1360), poi restituì la città e tutto il territorio subalpino a Giacomo di Savoia-Acaia con rigidi legami di vassallaggio e di dipendenza. Morto Giacomo di Savoia, il Conte Verde tenne la reggenza per i due figli minorenni, collocando suoi ufficiali in Torino e in Pinerolo, sì da preparare l'unificazione definitiva dello stato sabaudo che avvenne nel 1418 allo spegnersi della stirpe Savoia-Acaia. I conti di Savoia considerarono però dopo il 1360 Torino e Pinerolo come loro possessi governativi, per interposta persona, e nel 1381 Amedeo VI convocò appunto a Torino i rappresentanti di Venezia, di Genova e degli altri stati che avevano preso parte nella guerra del Mare Egeo e sotto la sua direzione e con la sua mediazione fu firmata l'8 agosto 1381 nel salone del castello degli Acaia la pace (vedi appresso). L'ultimo della stirpe Savoia-Acaia, il principe Ludovico, nel 1404 fondò l'università di Torino con una bolla del papa avignonese Benedetto XIII, e con un decreto dell'imperatore Sigismondo del 1412.

L'età dell'unificazione piemontese. - Il duca di Savoia Amedeo VIII venne nel 1418 a Torino per raccogliere personalmente i giuramenti dei sudditi di Piemonte e provvide a una prima unificazione amministrativa delle vecchie e delle nuove provincie, stabilendone il centro in Torino. Nel 1424 diede al figlio primogenito Amedeo il governo di tutti i territorî subalpini con il titolo di principe di Piemonte. La residenza del principe fu Torino, dove fu organizzato un consiglio ducale speciale, detto "di qua dei Monti", per l'amministrazione locale e il disbrigo degli affari più importanti riguardanti le relazioni coi principi italiani. A Torino si deve ora ricorrere per ordini e per consigli da tutte le città dei territorî sabaudi subalpini, per i quali s'incomincia ad usare il termine complessivo di Piemonte, e anche Torino venne ad essere compresa nell'ambito del Piemonte.

Sotto i duchi Amedeo VIII e Ludovico, fu Torino il centro dell'attività diplomatica e politica sabauda. Da Torino si organizzano le varie spedizioni militari di Saluzzo, di Monferrato, di Lombardia, per l'occupazione della stessa Milano alla morte di Filippo Maria Visconti. Il progetto di Amedeo VIII, di costituire un grande stato dal Rodano all'Adda, baluardo egemonico d'Italia, fallì per le resistenze sia delle forze italiane sia della Francia rinnovatasi e rafforzatasi dopo la crisi della guerra dei Cento anni. A sua volta lo stato sabaudo pericolò fra la monarchia francese e il ducato sforzesco. In questa crisi della seconda metà del sec. XV, Torino fu il centro di tutto un movimento d'interessi desiderosi di salvare l'indipendenza del Piemonte, separandosi anche dalle tendenze dell'aristocrazia savoiarda parteggiante per la monarchia francese o per la Borgogna. Già nel 1452 i Torinesi rifiutarono di garantire al re di Francia i patti da lui imposti a Cleppié al duca di Savoia Ludovico. Torino aspirava a diventare il centro dello stato, togliendo il primato all'elemento savoiardo. La dinastia esitava fra le due concezioni, ma i soggiorni dei principi sabaudi a Torino diventano sempre più lunghi e fattivi al principio del sec. XVI.

L'invasione francese del 1536 trovò appunto il duca Carlo II a Torino. Il duca, non potendo sostenersi nella sua capitale difesa solo dalle vecchie mura romane, dovette ritirarsi a Vercelli dopo aver esortato i Torinesi a serbarglisi fedeli. Il 3 aprile 1536 incominciò per Torino il periodo della dominazione francese che doveva durare venticinque anni. I Francesi, volendo fare di Torino il caposaldo delle loro posizioni italiane, organizzarono attorno alla città un considerevole sistema di fortificazioni. I governatori francesi di Torino dovettero dirigere la loro azione da un lato a convincere la popolazione della loro definitiva annessione alla Francia, cercando di fondere il paese con l'Oltremonti, dall'altro ad ottenere che considerassero benevolmente il governo del re. I loro tentativi però fallirono: le popolazioni si considerarono fedeli al loro legittimo signore. Il trattato di Cateau-Cambrésis (3 aprile 1559) decise che gli stati sabaudi dovessero ritornare al duca Emanuele Filiberto.

L'età della monarchia sabaudo-piemontese. - Nonostante l'assicurazione della restituzione completa dei suoi stati, il duca di Savoia ricuperò nel 1559 solo parte del ducato. Torino con altre piazzeforti del Piemonte doveva rimanere presidiata dai Francesi per tempo indeterminato. Emanuele Filiberto si stabilì quindi a Vercelli e rifiutò di entrare in Torino fino a che non fosse stata veramente sua. In seguito al trattato di Blois, i Francesi abbandonarono Torino il 12 dicembre 1562; il duca vi entrò solennemente il 7 febbraio 1563. Con il criterio che chi è padrone di Torino è padrone del Piemonte, Emanuele Filiberto stabilì definitivamente la capitale dello stato in Torino: fatto di enorme importanza perché significava l'allontanamento della vecchia terra di Savoia dall'orizzonte politico del governo sabaudo. Lo stato fu ora sostanzialmente formato dai territorî piemontesi; il duca dimostrava di voler appartenere all'Italia di ragione e di volontà. Per questo motivo si affrettò a costruire sul fianco occidentale della capitale una grande cittadella che si opponesse ad ogni nuova minaccia francese; poi raccolse in Torino tutti gli alti uffici del governo e fece ristabilire l'università vissuta raminga durante il periodo precedente; l'amministrazione ducale adottò per ordine di Emanuele Filiberto l'italiano come lingua ufficiale. Pochi anni furono sufficienti perché Torino funzionasse come centro dello stato: la popolazione, che nell'età comunale e signorile non aveva oltrepassato i 5000-6000 abitanti, giunse nel 1570 già a circa 30.000, sì che la vecchia cinta romana parve insufficiente. S'incominciò a costruire nuovi edifici secondo le norme date dal duca, preoccupato vivamente perché la sua capitale non sfigurasse di fronte alle altre città italiane ricche di edifici monumentali e di opere d'arte. Seguendo l'indirizzo dato da Emanuele Filiberto, i principi sabaudi attesero durante il sec. XVII ad abbellire la capitale con edifici dello stile dell'epoca, sicché Torino ebbe l'impronta caratteristica dello stile barocco.

La capitale sabauda continuava ad avere importanza grandissima, sotto l'aspetto militare e politico. Carlo Emanuele I, presentandosi come difensore dell'indipendenza d'Italia contro gli stranieri, fece sì che a Torino si svolgessero meditando e sospirando tutti gl'Italiani. Durante la guerra dei Trent'anni, da Torino fu organizzata la guerra contro la Francia per riunire, allo stato piemontese, il marchesato di Monferrato, come alla fine del sec. XVI era stato unito il marchesato di Saluzzo, frammenti dell'antica Marca di Torino staccatisi da secoli e vissuti autonomi; dopo il 1635, in seguito alla Lega di Rivoli, il duca Vittorio Amedeo I partì da Torino per la conquista della Lombardia. Morto improvvisamente il giovane duca, attorno a Torino si concentrò la lotta tra Francesi e Spagnoli, poiché a questi aderivano i due fratelli di Vittorio Amedeo I, Tommaso di Carignano e il cardinale Maurizio, a quelli la duchessa vedova Cristina reggente per il nuovo duca Carlo Emanuele II. Torino fu difesa dai "madamisti" (Madame Cristina) contro i " principisti", questi entrarono in città e costrinsero la reggente a rifugiarsi nella cittadella; allora un esercito francese assediò Torino per soccorrere la cittadella, ma fu a sua volta assediato da un esercito spagnolo venuto in soccorso dei principi. La terribile contesa finì nel 1642 con la conciliazione della famiglia sabauda; Torino rimase però durante tutto il regno di Carlo Emanuele II sotto il controllo della Francia padrona di Pinerolo per il trattato di Cherasco del 1631.

Salito al governo dello stato il duca Vittorio Amedeo II (1675), Torino ritornò ad essere l'antesignana della vita nazionale italiana. Il duca, sostenuto dalla popolazione intera, difese la città contro i tentativi ripetuti di Luigi XIV d'impadronirsene per dominare l'Italia; mentre le sue arti diplomatiche facevano di Torino uno dei maggiori centri politici europei. L'importanza di Torino fece sì che nel 1706 un esercito francese vi mettesse l'assedio, risoluto a impadronirsene: l'assedio durato 117 giorni (13 maggio-8 settembre) finì con la grande battaglia combattuta sotto le mura della città, in cui il duca Vittorio Amedeo II e il cugino Eugenio di Savoia sconfissero e distrussero totalmente le forze francesi (v. appresso). La battaglia di Torino significò a un tempo e l'ampliamento considerevole dello stato e la liberazione dell'Italia dal pericolo di un'egemonia francese. La capitale sabauda diventò il centro di attrazione di molte regioni che prima avevano avuto Milano o Genova come punto di riferimento. I conflitti europei del sec. XVIII a cui il Piemonte prende parte sotto il re Carlo Emanuele III procurano nuovi ingrandimenti dello stato; ora Torino si veste di un aspetto più signorile e più compassato e appare come una città non solo simmetrica e uniforme nell'esteriorità ma disciplinata e piena di attività economiche e culturali per le quali il Piemonte è veramente inserito nella vita non solo politica ma anche culturale della nazione italiana. Tutta questa attività di principi e di popolo fa sì che la popolazione verso la fine del secolo XVIII sale a quasi 90.000 ab.; fuori delle vecchie cerchie di bastioni la città si allarga sempre, conservando la vecchia regolarità euritmica della colonia romana.

La rivoluzione francese desta in Torino, pur così vicina al confine, pochi echi. I nobili emigrati che vi arrivano sono accolti dal re Vittorio Amedeo III con diffidenza; le agitazioni rivoluzionarie di pochi spostati della classe borghese e intellettuale sono in realtà determinate dall'aizzamento degli agenti francesi. Iniziata la guerra con l'Austria, la Francia rivoluzionaria decise di portar la guerra in Italia. Soltanto nel 1796 il genio militare del Bonaparte riuscì a rompere le linee dell'esercito piemontese nelle valli del Tanaro, e Torino fu in pericolo di essere occupata. L'armistizio di Cherasco (28 aprile 1796) mise il Piemonte alla mercé dei rappresentanti del direttorio che intendeva abbattere il governo sabaudo di Torino per dominare sicuramente tutta l'Italia. La cittadella di Torino venne occupata nel luglio del 1798; poi, non essendo riusciti a nulla i tentativi dei mestatori rivoluzionarî, fu necessario che il generale Joubert imponesse al re Carlo Emanuele IV l'abdicazione e l'abbandono di Torino. Fu organizzato allora un governo provvisorio, che servì ai Francesi per imporre gravi taglie di guerra e preparare l'annessione alla Francia, mentre gl'ingenui si erano illusi di potersi unire alla repubblica di Milano in uno stato solo. Il plebiscito imposto dal direttorio fu fatto in modo che l'esito fosse favorevole alla fusione con la Francia. Il Piemonte fu diviso in dipartimenti; Torino diventò il capoluogo del dipartimento dell'Eridano.

La vita di Torino francese fu però presto turbata dall'invasione austro-russa: il 25 maggio 1799 il maresciallo Suvorov occupò Torino fra l'entusiasmo della popolazione, che si affrettò ad abbattere gli alberi della libertà giacobini; fu ristabilito nominalmente il governo sabaudo, però la città fu occupata dagli Austriaci. Nel giugno del 1800, il Primo Console, prima ancora della battaglia di Marengo, occupò Torino che ebbe un nuovo governo provvisorio. Il 12 aprile 1801 Torino fu nuovamente annessa alla Francia e fece parte della 27a divisione militare. Napoleone Bonaparte tenne a Torino un amministratore generale, prima il Jourdan, poi Luigi Bonaparte, il Menon, il Berthier, poi Camillo Borghese; a questo e alla sorella Paolina diede incarico di attirare la popolazione torinese al regime imperiale, con una parvenza di corte. Napoleone fu a Torino tre volte; nel 1805 durante il viaggio a Milano per l'incoronazione, nel 1807 e nel 1809. Le popolazioni rimasero fredde; pochi nobili accondiscesero alle lusinghe napoleoniche, ma dopo aver ottenuto il consenso del re, nel suo rifugio di Sardegna. La città non trasse del resto nessun vantaggio dal governo napoleonico: furono abbattute le fortificazioni per scopo di più sicuro dominio e fu costruito il ponte in pietra sul Po pure a scopo militare, ma a spese della città. La popolazione diminuì sino a 65.000 abitanti.

L'età del Risorgimento. - Appena un mese dopo l'abdicazione di Napoleone, il 9 maggio 1814 Torino fu occupata da una colonna austriaca. Però lo stesso giorno il San Marzano, governatore civile, prese possesso della città a nome del re Vittorio Emanuele I di Savoia. Questi fece l'ingresso in Torino il 20 maggio successivo: la Restaurazione fu ricordata con la costruzione del tempio della Gran Madre di Dio. Torino accolse con entusiasmo il ritorno della monarchia secolare: la popolazione risalì subito a 88.000 ab., toccò nel 1830 i 100.000 ab. Grazie all'unione con la Liguria, ora lo stato sabaudo, se non per superficie, certo per organizzazione e per forze economiche, era il più importante stato italiano. L'attività degli arsenali per riattrezzare l'esercito ricomposto, e quella delle nuove industrie, attirarono in Torino numerosi elementi dalle provincie. Nella capitale però si sentiva più vivamente la compressione dell'opera governativa rivolta all'epurazione di quanto sapesse di francese: l'elemento borghese, dopo l'esperienza dei tre lustri di dominazione straniera, sentiva più fortemente l'aspirazione all'indipendenza. L'egemonia che prentedeva esercitare l'Austria era odiosa a tutta la popolazione e nel 1821 l'agitazione delle società segrete non solo mirava ad una riorganizzazione dello stato mercé l'esperimento costituzionale, ma anche alla guerra contro l'Austria e all'appoggio ai Lombardi e Veneti oppressi dalla dominazione straniera. Di fronte all'agitazione del presidio della cittadella nel marzo 1821, il re Vittorio Emanuele I preferì abdicare: il reggente, Carlo Alberto di Carignano, cedette alle pressioni del gruppo borghese e militare costituzionalista e concedette la costituzione, ma il re Carlo Felice ripristinò il governo assoluto e il 6 maggio 1821 il governatore Thaon di Revel già passava in Torino la rassegna della fedele brigata Savoia.

Il nuovo regno di Carlo Alberto, salito al trono il 27 aprile 1831, trovò una Torino di molto ampliata, fervida di attività economiche, bisognosa di un attrezzamento dello stato secondo le esigenze della nuova vita. L'elemento colto di Torino fu utilizzato dal nuovo re per il suo piano di riforme che venne sviluppando lentamente. Come il carbonarismo e il generico costituzionalismo non avevano trovato terreno adatto per svilupparsi in Torino, cosi neppure il repubblicanesimo mazziniano poté svilupparsi in Torino. Il pensiero politico torinese ebbe sotto il regno di Carlo Alberto tipiche manifestazioni nel Gioberti, nel Balbo, nel D'Azeglio, desiderosi di creare uno stato piemontese-sabaudo, pieno di vita, capace di riprendere nell'Italia contemporanea la politica espansionista e unificatrice dei Savoia dei secoli XVII e XVIII. Nel 1847, nell'entusiasmo generale della popolazione per le sue riforme civili e politiche, Carlo Alberto proibì che in Torino si esponessero altre bandiere se non la sabauda. Il 1848 vide una grande trasformazione nella vita torinese: la concessione regia dello statuto (8 febbraio) e la sua proclamazione (4 marzo), poi le elezioni dei deputati alla camera rappresentativa, la riunione della camera e del senato attirarono mediocremente l'attenzione della popolazione che seguiva invece con ansia le vicende della guerra contro l'Austria.

Dopo gli avvenimenti del 1848-49, anziché risentirne, Torino ebbe un periodo di slancio. La popolazione sale a 160.000 ab.; sorgono nuovi quartieri dalle linee architettoniche eleganti se pur sobrie e fedeli alla tradizione locale; l'emigrazione politica da tutte le parti d'Italia fa sì che la città acquisti un carattere veramente italiano, che diventi la vera capitale morale di tutta l'Italia. Gli avvenimenti politici del primo decennio del regno di Vittorio Emanuele II, l'attività del conte di Cavour e dei suoi numerosi coadiutori, non si svolgono in un ambiente freddo; tutta la città partecipa di giorno in giorno, trepidando, gioendo, addolorandosi di quanto giornali numerosi, interpreti delle varie correnti politiche, ogni g'iorno annunziano, di quanto si discute nel parlamento, nei caffè, nei teatri. La guerra del 1859 è seguita a Torino con orgoglio fiero, ché si ricorda quanto si è sofferto nel 1848-49. Nel 1861 la proclamazione del regno d'Italia, la dichiarazione di Roma futura capitale dell'Italia riunita formano l'onore della città pronta a rinunciare al suo primato di fronte alla gloria di Roma. Fu grave dolore certo per Torino l'apprendere nel 1864 che per un accordo diplomatico con la Francia (Convenzione di settembre) la capitale doveva essere portata a Firenze; il dolore fu lenito solo il 20 settembre 1870.

La partenza da Torino della corte, del governo e degli organi centrali della burocrazia statale costituì un danno grave, una diminuzione della popolazione da 220.000 a 190.000 abitanti. Però assai presto la crisi cittadina scomparve, essendosi Torino trasformata rapidamente in un centro industriale di prim'ordine, come fecero testimonianza le grandi esposizioni industriali del 1884, del 1898, del 1911, che mostrarono come Torino pulsasse sempre all'unisono con il grande cuore della nazione risorta.

Bibl.: In generale: E. Tesauro, Istoria della Augusta città di Torino, Torino 1673; L. Cibrario, Storia di Torino, ivi 1836; F. Cognasso, Storia di Torino, ivi 1934.

Su Torino medievale: T. Rossi e F. Gabotto, Storia di Torino, Torino 1924; F. Cognasso, Comes Sabaudiae et Italiae Marchio, in Torino, 1935; su Torino moderna: id., Torino ai tempi di Emanuele Filiberto, ibid., 1928; id., Torino ai tempi di Carlo Emanuele I, ibid., 1930; G. Clarette, La Corte e la società torinese dalla metà del sec. XVII al principio del sec. XVIII, Firenze 1874; F. Rondolino, Vita torinese durante l'assedio (1703-1707), Torino 1906; P. Vayra, Torino ed i Torinesi sotto la repubblica, in Curiosità e ricerche di storia subalpina, I; E. Ricotti, Storia della monarchia piemontese, Torino 1869. Per la bibl. completa, vedi F. Cognasso, Storia di Torino, cit. Un profilo garbato della città, in P. Toesca, Torino, Bergamo 1911.

Assedio e battaglia di Torino (1706). - Uno degli assedi più famosi che la storia ricordi e il più decisivo successo ottenuto dalla coalizione antifrancese in tutta la lunga guerra di successione spagnola. Dopo l'insuccesso degl'imperiali a Cassano (16 agosto 1705), lo stato sabaudo parve ormai alla mercé dei Francesi. E Luigi XIV sperò con la conquista della capitale, Torino, di consolidare definitivamente la sua supremazia in Italia. Già nel settembre 1705 l'esercito francese iniziò le prime operazioni contro la città, ma le sospese il 13 ottobre per riprenderle l'anno dopo con mezzi del tutto adeguati. Nella primavera successiva, infatti, l'esercito d'operazione in Piemonte fu portato da 23.000 a 45.000 uomini, con un parco d'assedio di 110 cannoni e 59 mortai e immenso materiale; mentre un altro esercito di 48.000 uomini presidiava e copriva il ducato di Milano. Torino non contava allora che 45.000 ab.; era difesa da 10.000 uomini o poco più, di cui un quarto imperiali, più otto battaglioni di milizia civica: aveva buone fortificazioni e ottime artiglierie, ma difettava assai di polvere. Le operazioni d'assedio cominciarono il 13 maggio, ma solo a giugno inoltrato la città veniva completamente circondata. E siccome il 18 giugno Vittorio Amedeo II, ceduta la direzione suprema della difesa al generale imperiale conte Wierich Daun, aveva lasciato la sua capitale con un corpo di tre o quattromila cavalieri, il generale francese L. de La Feuillade perdeva tre settimane nel vano tentativo di ricacciarlo entro le valli valdesi. Solo a metà luglio dunque l'assedio si faceva veramente energico. I Francesi miravano a romper la cinta dal lato della cittadella: con grande fatica e a prezzo di gravissime perdite essi poterono conquistarne le difese avanzate; ma il grande attacco del 26-27 agosto contro il vero antemurale della cittadella, la Mezzaluna del Soccorso, si risolse in un sanguinoso scacco. Intanto il principe Eugenio veniva in aiuto con un esercito imperiale, attuando una famosa marcia tutto attorno al ducato di Milano: il 6 luglio forzava l'Adige, il 16 passava il Po e il 6 agosto era a Carpi. Dopo essersi assicurato le vie di comunicazione col Trentino, il 15 prendeva ad avanzare a marce forzate verso il Piemonte: il 29-30 si congiungeva a Carmagnola col cugino Vittoro Amedeo. I Francesi, fallito nella notte sul 30 agosto, grazie all'eroico sacrificio di Pietro Micca, il colpo di mano contro la galleria della Mezzaluna del Soccorso, sferravano il 31 agosto un nuovo disperato assalto, risoltosi in nuove sanguinose perdite. E ora dovevano fare i conti con le forze riunite del duca e degl'imperiali: la loro linea di controvallazione attorno alla città era protetta, contro ogni tentativo di sblocco, da una linea di circonvallazione; essa mancava però, perché ritenuta superflua, nel tratto, lungo quattro chilometri, fra Dora e Stura. Qui appunto Eugenio e Vittorio Amedeo II decisero d'attaccar battaglia, pur con fronte rovesciata e senza linea di ritirata: soluzione estremamente audace. Solo il grosso dei Piemontesi, in gran parte milizie, restò sulla destra del Po, minacciando gli assedianti da quel lato. D'altro canto l'esercito francese d'assedio era ridotto ormai a 23-24.000 uomini; quello di copertura, dopo tutti i distaccamenti lasciati in Lombardia, a 21-22.000 uomini. Le forze dalle due parti ormai si equivalevano; ma nel punto d'attacco, 10.000 Francesi si trovavano, lungo una trincea scavata in fretta e in furia, contro i 30.000 imperiali (e circa mille cavalieri piemontesi), mentre di fronte alla città, contro un'eventuale sortita della guarnigione, non c'erano che duemila uomini. La mattina del 7 settembre l'esercito imperiale attaccava frontalmente ed era per tre volte respinto. Una riuscita infiltrazione lungo la Stura, di un migliaio d'uomini, cavalieri e fanti guidati dal duca di Savoia in persona, alle spalle della destra dei Francesi, permetteva però a un quarto attacco di sfondare da questo lato. Pure la linea francese si ricostituiva per due volte di seguito, sostenuta da alcuni rinforzi sopraggiunti, finché una felice sortita della guarnigione non determinava il completo sfacelo di tutte le forze tra Dora e Stura. A questa rotta parziale seguiva un vero collasso morale da parte di tutte le restanti truppe francesi: nel pomeriggio, dei due eserciti d'assedio e di copertura non restava che una confusa massa di quasi 30.000 uomini, pressoché priva di cavalli, di cannoni, di viveri, in ritirata confusa su Pinerolo, continuamente diminuita dalle diserzioni. Il nuovo tentativo di predominio francese in Italia era definitivamente stroncato.

Bibl.: Della numerosa bibliografia, vedi specialmente: Journal hystorique du siège de la ville et de la citadelle de Turin en 1706... par le comte Solar de la Marguerite, Torino 1838; A. M. Metelli, Torino assediato e soccorso l'anno 1706, Parma 1711; F. A. Tarizzo, Ragguaglio historico dell'assedio, difesa e liberazione della città di Torino, Torino 1707; F. Mengin, Relation du siège de Turin en 1706, Parigi 1838; De Vault Pelet, Mémoires militaires relatifs à la succession d'Espagne, VI, ivi 1852; Die Feldzüge des Prinzen Eugen von Savoyen, ecc., (editi a cura dell'Ufficio storico dello Stato maggiore austriaco), VIII, traduzione italiana, Torino 1895; Campagne di guerra in Piemonte, 1703-08, a cura della R. Deputazione di storia patria, ivi 1906; C. A. De Gerbaix de Sonnaz, Milizie urbane, cittadini e borghesi all'assedio di Torino, ivi 1906; P. Fea, Tre anni di guerra e l'assedio di Torino nel 1706, ivi 1906; G. Schmoller, Der Feldzug von 1706 in Italien, Berlino 1909; C. Assum, L'assedio e la battaglia di Torino (1706), Torino 1926; Principe Eugenio di Savoia, La campagna d'Italia del 1706, a cura di P. Pieri, Roma 1935.

Paci e trattati di Torino. - Pace del 1381. - Per sottoporre all'arbitrato di Amedeo VI, dopo i tre duri anni della guerra di Chioggia (v. chioggia, X, p. 133) le loro intricate controversie, si riunirono a Torino, il 19 maggio 1381, i rappresentanti di Venezia, di Genova, del re d'Ungheria, del signore di Padova e del patriarca di Aquileia. Mancavano quelli del re di Cipro, che non fu quindi compreso nella pace. Questa venne firmata l'8 agosto di quel medesimo anno nel castello di Porta Fibellona, poi palazzo Madama. Veneziani e Genovesi rinunziavano a navigare per due anni alla Tana, cedevano l'isola di Tenedo, quasi all'entrata dei Dardanelli, al conte di Savoia affinché ne demolisse il castello e ne deportasse gli abitanti, e s'impegnavano poi ad aiutarlo (obbligo dal quale Venezia fu liberata quasi subito) contro l'imperatore bizantino se non si convertisse di buona voglia al cattolicesimo romano. Rispetto al re d'Ungheria i Veneziani, riconfermata la loro rinunzia alla Dalmazia e restituita Cattaro ch'essi avevano occupata durante la guerra, si obbligavano a pagargli settemila ducati annui purché rinunziasse al diritto di libera navigazione dalla punta dell'Istria (Capo Promontore) a Rimini. Nella pace col patriarca di Aquileia, cedevano Trieste con le sue dipendenze e, quanto all'Istria, si rimettevano alla decisione del papa. Infine coi Carraresi si stabilì che i confini tornassero quali erano nel 1373. Treviso era stata ceduta da Venezia stessa, il 9 maggio 1381, a Leopoldo d'Austria che la tenne per tre anni e poi la vendette a Francesco da Carrara. Così Venezia era ricacciata nelle lagune. Ma il trattato di Torino non ebbe lunga vita. Esso è memorabile come testimonianza del prestigio ch'era venuto acquistando il Conte Verde, e del suo spirito ambizioso, intraprendente e accorto. Tenedo avrebbe dovuto servirgli di base di operazione non tanto contro i Turchi quanto contro i Paleologhi, e i segreti negoziati ch'egli iniziò appunto allora con Venezia e con Genova e che approdarono, il 7 settembre 1381, a un'alleanza di dieci anni erano diretti contro i Visconti.

Bibl.: L. A. Casati, La guerra di Chioggia e la pace di Torino, Firenze 1866; F. Gabotto, L'età del Conte Verde in Piemonte, in Misc. di st. ital., XXXIII (1895), p. 261; F. Cognasso, Il Conte Verde, Torino 1930.

Trattato del 1696. - Subito dopo la battaglia di Staffarda (18 agosto 1690), Vittorio Amedeo II incominciò con la Francia segreti negoziati che si protrassero, a Pinerolo e a Torino, per circa sei anni. L'accordo avvenne a Loreto, con la mediazione dei Veneziani e del papa, e fu firmato in due distinti atti, il 29 giugno 1696, a Pinerolo, dal conte René de Tessé per Luigi XIV e da G.B. Groppello per il duca. Questi riaveva Pinerolo, perduta nel 1631, e s'impegnava ad unire le sue armi con quelle francesi ove non riuscisse a far accettare dall'imperatore la neutralità dell'Italia. Si stabiliva inoltre sin da allora che, morendo senza prole durante la guerra Carlo II di Spagna, la Francia dovesse aiutare con tutte le sue forze il duca ad impadronirsi di Milano e rinunziare quindi anche a quasiasi suo diritto di conquista o altro che le competesse: vivendo invece tuttavia Carlo II, rimanesse ugualmente il duca in possesso di Milano, ma fosse obbligato a cedere in cambio la Savoia a Luigi XIV. Di queste ultime intese non rimase traccia nel trattato che, respinta dall'imperatore la neutralità italiana, firmarono, a Torino, il 29 agosto 1696, lo stesso Tessé e il marchese di S. Tommaso. Confermata la cessione di Pinerolo, purché non vi si facessero fortezze e non vi si tollerassero i Valdesi, fu allora anche concesso agli ambasciatori sabaudi il trattamento regio. Vittorio Amedeo II acconsentiva al matrimonio della sua primogenita Maria Adelaide col duca di Borgogna, figlio del Delfino, e passava senz'altro nel campo francese. Questo trattato determinò la fine della guerra in Italia e fuori.

Bibl.: D. Carutti, Storia di Vitt. Amed. II, Torino 1897, 3a ed., p. 179 segg.; id., Storia della diplomazia della Corte di Savoia, ivi 1879, III, p. 210.

Trattato del 1703. - Vittorio Amedeo II aveva subito, il 6 aprile 1701, l'alleanza impostagli da Luigi XIV, ma già alla fine di quell'anno incominciò con gli alleati segrete trattative che condussero, dopo l'arresto delle truppe sabaude a S. Benedetto Po, al trattato dell'8 novembre 1703, conchiuso a Torino dal conte Auesperg per l'imperatore e dal conte di Priero e dal marchese di S. Tommaso per il duca. Questi si riservava il comando supremo delle armi alleate in Italia e otteneva dall'arciduca Carlo, già proclamato re di Spagna, la Lomellina, la Valsesia, Valenza e Alessandria, purché rimanesse libero il passo alle truppe spagnole da Finale a Milano; dall'imperatore il Monferrato, i feudi delle Langhe e il riconoscimento degli eventuali diritti alla successione di Spagna. Articoli segreti gli promettevano inoltre il Vigevanasco, cinque terre del Novarese, o, come si corresse poi a Vienna, un territorio equivalente nella Lombardia, e gli acquisti che si fossero fatti nel Delfinato e nella Provenza, mentre quelli nella Franca Contea e nella Borgogna sarebbero spettati all'Austria. L'Inghilterra garantì la parte ostensibile di questi accordi il 4 agosto 1704 con un trattato conchiuso a Torino da Riccardo Hill e dal conte di Vernone. Essa dava poi i sussidî per la guerra e prometteva di adoperarsi affinché i possessi francesi di qua delle Alpi (le valli di Oulx e di Fenestrelle) venissero in possesso del duca, al quale assicurava anche, per articoli segreti, gli eventuali acquisti nel Delfinato e nella Provenza. Vittorio Amedeo II confermava, a favore dei Valdesi, l'editto di tolleranza del 1694. Simile trattato fu conchiuso quindi con l'Olanda, il 21 gennaio 1705, a L'Aia.

Bibl.: D. Carutti, Storia della diplomazia della Corte di Savoia, Torino 1879, III, p. 341; id., Storia di Vitt. Amed. II, ivi 1897, 3a ed., p. 285; C. Contessa, L'alleanza di Vitt. Amed. II di Savoia colla Casa d'Austria e colle potenze marittime, in Le campagne di guerra in Piemonte e l'assedio di Torino (1706), Torino 1908-32, voll. 2; A. Tallone, La "defezione" di Vitt. Am. II nel 1703, in Fert, dicembre 1932.

Trattato del 26 settembre 1733. - Carlo Emanuele III, dopo essere rimasto alquanto dubbioso tra il desiderio di far suo il Milanese e la paura di contribuire al rafforzamento della potenza borbonica, conchiuse con Luigi XV, il 26 settembre 1733, un trattato di alleanza che venne firmato a Torino dal marchese di Ormea e dal conte di Vaugrenant. Egli si riservava il supremo comando delle truppe alleate in Italia, ed era autorizzato ad annettersi, appena riuscisse ad occuparla, Milano, di cui però avrebbe preso l'investitura, nelle consuete forme, dall'impero. In tal modo si intendeva non recare offesa al corpo germanico che si desiderava neutrale nella prossima lotta contro la Casa d'Austria. Similmente, per non dar ombra alle potenze marittime, si stipulò di non campeggiare nei Paesi Bassi. Nessun cenno fu fatto di Mantova, ma, a voce, si convenne che potesse, a suo tempo, essere materia di compenso per la cessione di parte della Savoia alla Francia. Il trattato portava tre articoli segreti. I primi due escludevano l'Austria non solo dalla Lombardia, ma anche dai Presidî e dalle Due Sicilie, paesi destinati sin da allora a Don Carlos di Parma; il terzo dava facoltà a Carlo Emanuele III di non partecipare direttamente alla conquista di Napoli, e stabiliva che il re di Spagna, di cui erano ben note le ambizioni sulla Lombardia, fosse invitato ad aderire, nel termine di un mese, al trattato e alla guerra. Quest'ultimo articolo incontrò diffimltà gravi a Parigi e fu sostituito con una lettera autografa di Luigi XV a Carlo Emanuele III in cui erano date le medesime assicurazioni. In realtà Filippo V non accedette mai agli accordi di Torino. Viceversa il trattato franco-spagnolo dell'Escoriale (25 ottobre 1733), detto anche primo Patto di famiglia, non privo di punte antinglesi, garantì ai due contraenti "tutti gli stati e tutti i diritti che avevano o dovevano avere". E in tale stato di cose Carlo Emanuele III, che si ritenne tradito dal card. Fleury, provvide senz'altro a riavvicinarsi all'Inghilterra.

Bibl.: D. Carutti, Storia della diplomazia della Corte di Savoia, Torino 1879, III; id., Storia del regno di Carlo Em. III, ivi 1859, I, p. 43 segg.

Trattato del 24 marzo 1860. - Avvenuti i plebisciti nell'Italia centrale, Napoleone III volle che il trattato segreto con cui, il 12 marzo 1860, Vittorio Emanuele II gli aveva ceduto la Savoia e Nizza fosse subito sostituito con altro ostensibile che non lasciasse più campo, nel Piemonte e fuori, agli avversarî della duplice cessione. Questo secondo trattato, in otto articoli, fu sottoscritto a Torino, il 24 marzo 1860, da C. Cavour e da L.C. Garini per Vittorio Emanuele II, dal barone Talleyrand-Périgord e da V. Benedetti per Napoleone III: il cambio delle ratifiche avvenne, sempre a Torino, il giorno 30. La Francia, venendo in possesso della Savoia, accettava i trattati del 1815-16 che avevano fissato i confini politici e doganali con Ginevra e introdotto il Chiablese e il Faucigny nella neutralità svizzera. Quanto a Nizza, era stabilito che una commissione mista tracciasse il confine tenendo conto della configurazione delle montagne e dei reciproci bisogni della difesa. Gli altri articoli concernevano il debito pubblico, con le garanzie per i funzionarî civili e militari che diventassero sudditi francesi, e i plebisciti che dovevano esprimere la volontà delle popolazioni. Il trattato fu poi promulgato a Torino l'11 giugno 1860, dopo l'approvazione del Parlamento.

Bibl.: Traités publics de la R. Maison de Savoie, Torino 1861, VIII, p. 750; L. G. Bollea, Una "Silloge" di lettere del Risorgimento, ivi 1919, p. 217 segg.; Il carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, Bologna 1928, III.

La marca di Torino.

Fu voluta da Berengario II che incaricò il conte Arduino Glabrione di organizzare una vasta marca per la difesa alpina contro il pericolo minacciante dalla Provenza: la marca occidentale d'Italia (poi detta di Torino, dal suo centro) fu formata con le contee di Torino, Auriate (Cuneo), Asti, Alba, Bredulo (Mondovì), Ventimiglia, Albenga; andava cioè dal Po al mare. Anche Ottone I conservò la sua fiducia nel marchese di Torino che forse lo appoggiò nettamente nella lotta con Berengario II; verso il 1970 la lotta contro le bande saracene facenti scorrerie attraverso le Alpi dal loro covo di Garde Frainet sulle coste di Provenza, permise d'incorporare di nuovo nel territorio torinese, dopo quattro secoli dalla conquista franca, la valle della Dora Riparia (Susa). Nel governo della marca torinese, continuatosi nella famiglia arduinica (v. arduinici) prima, e poi, dal 1048, in quella sabauda, ad Arduino Glabrione successe il figlio Manfredi I imparentato per mezzo della moglie Prangarda con la casa margraviale canossiana, mentre i matrimonî di tre figlie gli procuravano l'appoggio di altre illustri famiglie feudali dell'Italia superiore. Nel 1001 a Manfredi I successe già il figlio Olderico Manfredi, che sposò Berta figlia di Oberto III Margravio di Liguria. Olderico Manfredi ebbe la conferma della marca il 31 luglio 1001 da Ottone IV; nella lotta fra Arduino d'Ivrea ed Enrico II assunse un atteggiamento di prudente riserbo. Morto Arduino, Olderico Manfredi ne appoggiò i figli, ma poi ottenne dall'imperatore o la marca eporediense o almeno parte di essa. Parimenti si comportò con molto riserbo quando un gruppo di dignitarî italiani progettò di opporre all'imperatore tedesco un principe francese, il duca d'Aquitania; il marchese di Torino fu in corrispondenza con il duca d'Aquitania, ma tenne un contegno così dignitoso e onesto che Guglielmo I, pur accorgendosi di non poter contare sopra di lui, lo elogiò altamente. Nel 1026, Olderico Manfredi assistette all'incoronazione regia di Corrado II in Milano e lo accompagnò nella spedizione del Canavese; morì nel 1034.

Il figlio ed erede di Olderico Manfredi, conosciuto solo come conte di Monbaldone, morì, pare, già nel 1035. Corrado II assegnò la marca di Torino al proprio figliastro Ermanno duca di Svevia che sposò Adelaide, la maggiore delle figlie di Olderico Manfredi e di Berta, la quale tenne praticamente nelle sue mani il governo della marca sino alla morte, verso il 1040. Però il margravio Ermanno morì nel 1038 e la giovane vedova Adelaide sposò un Enrico della casa aleramica che scompare verso il 1044-45. Quando l'imperatore Enrico III discese in Italia nel 1048, diede la marca di Torino a Oddone di Savoia, figlio di Umberto I conte di Savoia, il quale, come già i suoi predecessori Enrico ed Ermanno, si legò alla famiglia degli Arduinici sposando Adelaide di Torino. Così si stabilì nella marca di Torino la nuova dinastia dei Savoia che, appartenendo già alla storia d'Italia come conti di Aosta, entrarono ora definitivamente nella storia di Torino. Al marchese Oddone di Savoia morto già verso il 1058 successero i figli Pietro I e poi Amedeo I: la famiglia sabauda nella marca di Torino sostenne la causa di Enrico IV nella lotta contro il papato, non compromettendosi però a favore della simonia e degli antipapi. La vecchia contessa Adelaide governò lo stato avito per i figli e poi per la nipote Agnese, figlia di Pietro I, che sposò Federico di Montbéliard fatto da Enrico IV marchese di Torino. Nel 1091 però morirono a breve distanza e il marchese Federico e la contessa Adelaide. L' imperatore volle allora rioccupare la marca di Torino e incaricò della occupazione il figlio Corrado; ma questi subito dopo si ribellò al padre e morì nella lotta famigliare. Così la marca di Torino fu abbandonata a sé ed ai varî eredi della contessa Adelaide; i conti di Savoia che occuparono la Val di Susa, i marchesi di Monferrato che si allargarono nel sud, i Delfini di Grenoble che entrarono pure in Val di Susa.

La provincia di Torino.

Provincia del Piemonte, con capoluogo Torino, ridotta da kmq. 10.240,3 a 5480,8 il 2 gennaio 1927, quando furono distaccati gli ex-circondarî d'Ivrea e d'Aosta, passati a costituire la nuova provincia di Aosta. Confina a O. con la Francia lungo la catena-asse delle Alpi Cozie e Graie, dal M. Granero (m. 3171) alla Levanna (m. 3555), che si abbassa in soli due punti, rispettivamente al Monginevro (m. 1854) e al Moncenisio (m. 2084), attraversati da due rotabili internazionali; a nord, a est e a sud confina con le provincie di Aosta, Vercelli, Asti, Cuneo. La provincia di Torino comprende 181 comuni.

La grande varietà morfogeologica si rispecchia nella vita demografica ed economica. Il 47% del territorio appartiene alla regione di montagna, il 21% a quella di collina e il 32% alla pianura. Le Alpi, costituite in prevalenza da gneiss, micascisti, calcescisti e rocce verdi, incombono sulla pianura, formata da grandi conoidi di deiezione, diluvium ferrettizzato, alluvioni terrazzate e recenti: non mancano apparati morenici, di cui gigantesco quello della Dora Riparia o di Rivoli, che si estende a breve distanza dal Po, costretto dalle alluvioni a lambire il piede della sezione occidentale delle colline di Torino, che appartengono a questa provincia da Trofarello a Verrua Savoia. Il clima è temperato continentale, potentemente influenzato dalla tormentata morfologia. Numerosi sono i fiumi che solcano il territorio della provincia, tutti affluenti del Po, con direzione centripeta. La popolazione complessiva è salita da 725.253 ab. nel 1871 a 1.147.149 nel 1931: questo fortissimo aumento è dovuto in assoluta prevalenza alla metropoli, la cui popolazione rappresentava nel 1931 il 52% del totale. Infatti, di contro ai grandi aumenti della zona industriale di Torino, che incessantemente richiama una grande quantità di mano d'opera forestiera dagli altri comuni del Piemonte e dalle varie regioni d'Italia, stanno le diminuzioni di quasi tutta la zona alpina, sprovvista d'industrie e con scarsa agricoltura. Caratteristica della provincia è la denatalità progressiva (43.628 nati in più dei morti nel periodo 1901-11; 16.092 nel decennio successivo; 12.206 nel 1921-31), che colpisce non soltanto la Torino industriale, ma anche tutti i comuni, soprattutto quelli di collina e di montagna. La densità media è di 209 ab. per kmq. (1931), cifra cospicua dovuta anch'essa in prevalenza al capoluogo (4588); il rimanente scende a soli 103. Grandissimo è il contrasto tra la montagna (31) e la pianura (515).

L'unico grande centro è Torino, con numerosi satelliti, quali Settimo, Chieri, Moncalieri, Pianezza, Collegno, Rivoli, Venaria, ecc. Degna di nota la presenza dei numerosi nuclei abitati sorti o allo sbocco delle valli in pianura (tra cui Pinerolo con 16.089 abitanti nel 1931; Rivoli con 8224; Lanzo Torinese con 2829 ab.) oppure nel cuore del sistema alpino alla confluenza di vallate laterali (Susa con 3712 ab. nel 1931). La provincia ha una grandissima importanza economica: sviluppatissima è l'agricoltura (solo il 10,3% della supeificie è improduttivo), soprattutto per i seminativi (26,8% del terreno agrario-forestale), i prati permanenti (20,20%); estesi i pascoli (21,7%), i boschi (20,9%), mentre le colture legnose specializzate sono il 3,4%; i castagneti da frutto l'1,4%. Ingente è la produzione dei cereali (grano con 800-900.000 q. annui; mais con 600-700.000; segale con 200-250.000), delle patate (700-800.000 quintali), dell'orticoltura, soprattutto cavoli, pomodori, agli e cipolle, cavolfiori, asparagi, cardi e finocchi, tutti prodotti speciali e rinomati del Piemonte agricolo. Le colture legnose specializzate sono costituite principalmeme da vigneti con una produzione di 800-900.000 q. di uva (freisa del Chierese; bonarda di Chieri; barbera; avarengo nel Pinerolese; avanà nelle valli di Susa e del Chisone); alberi da frutto quali meli, peri, ciliegi, ma soprattutto peschi, con cultura industriale nella regione di Sántena. La larghissima produzione di foraggi (7 milioni di q.) permette un rilevante allevamento (229.737 bovini nel 1930; 27.075 equini; 37.886 suini; 44.720 ovini e 12.517 caprini). Attiva è in tutta la zona alpina la monticazione estiva a una o più stazioni. L'attività agricola e di allevamento è resa ancor più intensa dall'irrigazione (72.000 ha.), praticata in pianura mediante le acque soprattutto dell'Orco, della Stura, della Dora Riparia, del Pellice, di numerosi coli e fontanili. Nel complesso sono 89 i comuni beneficati dal sistema irriguo (32% della loro superficie geografica).

Anche industrialmente la provincia occupa un posto di primissimo ordine: nel 1927 si contavano 21.815 esercizî e 247.127 operai, per il 68% concentrati nel capoluogo. Emergono le industrie siderurgiche e meccaniche con oltre 66.000 operai, di cui 55.000 nella sola Torino (soprattutto automobili e veicoli in genere, armi): altri centri importanti sono Bussoleno; Condove, Pinerolo, Villar Perosa. Seguono le industrie tessili (soprattutto cotonifici, lanifici, setifici, fabbriche di rayon) che presentano una distribuzione spiccatamente prealpina e di sbocco: in tutto 53.000 operai con i grandi centri industriali di Luserna S. Giovanni, Perosa Argentina nel Pinerolese, Giaveno nella Valle del Sangone, Chianoc, S. Antonino di Susa nella Valle della Dora Riparia; Cirié, Nole, Mathi, Lanzo, allo sbocco della Stura di Lanzo; Rivarolo e San Maurizio Canavese e finalmente Torino e i suoi immediati dintorni, con le grosse borgate industriali di Caselle Torinese, Venaria Reale (grandi impianti della Snia Viscosa), Collegno, Grugliasco, Rivoli, Chieri, ecc. Seguono le industrie del vestiario e dell'arredamento (24.671 operai, di cui 17.851 nella sola Torino), le industrie delle costruzioni (15.419 operai), le alimentari (15.000, di cui oltre 10.000 nel capoluogo), le chimiche (10.625 operai, di cui 7752 nella sola Torino), le industrie del cuoio e delle pelli (5000 operai) quasi interamente concentrate in Torino; le poligrafiche con 4832 operai (4570 in Torino), l'industria della carta (2935 operai) con i centri di Torino, Coazze, Cirié, Germagnano, Mathi. Importante è anche lo sfruttamento delle acque correnti per la produzione di energia elettrica, soprattutto nelle valli della Dora Riparia e della Stura di Lanzo; fiorente l'industria del forestiero e del turismo estivo e invernale, con i centri rinomatissimi di Sestriere, Claviere, Bardonecchia, per citare soltanto i più importanti.

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