Tra immaginario e descrizione anatomica

Universo del Corpo (1998)

Tra immaginarioe descrizione anatomica

Riccardo de Sanctis

Su una parete di roccia della grotta di Gargas, in Francia, è tracciato il profilo di una mano, e il disegno in ocra rossa si ripete centinaia di volte; più avanti nella caverna altre immagini stilizzate rappresentano gli organi sessuali di uomini e donne. Questi disegni, datati dagli archeologi a circa trentamila anni fa, sono tra le più antiche rappresentazioni finora scoperte del corpo umano. In altri siti preistorici sono state ritrovate statuette di pietra che modellano figure di donna dai fianchi e dai seni larghi, le cosiddette 'Veneri steatopigie del Paleolitico'. Fin dall'inizio della sua storia l'uomo ha sentito il bisogno di rappresentarsi, di fissare un'immagine del proprio corpo: e questa è una caratteristica della sola specie umana. In tal senso il corpo è una rappresentazione: è l'immagine che si ha degli altri e che ci permette di percepirli, ma è anche il primo strumento che possediamo per autorappresentarci. Si tratta di una raffigurazione tutt'altro che neutra, in quanto ogni immagine del corpo, ogni tentativo di riprodurre la nostra fisicità, la nostra apparenza, ha sempre espresso le concezioni, i valori e i conflitti tipici di un'epoca. In questa pratica figurativa l'immaginario e la mitologia hanno avuto un ruolo decisivo, per cui appaiono fondamentali i legami con l'arte, con la magia e con la religione. Il corpo non è mai stato visto come un oggetto dato, direttamente accessibile e fruibile, ma sempre come una realtà composta di elaborati sistemi simbolici (Le corps, 1992). Fin dalla preistoria, le raffigurazioni dell'uomo hanno obbedito "a un sistema estremamente complesso e ricco, molto più ricco e molto più complesso di quanto non si fosse immaginato" (Leroi-Gourhan 1976, trad. it., p. 175). Il corpo, infatti, non è solo strumento di espressione tramite le parole o i gesti, ma è esso stesso espressione diretta e suggestione. Il racconto di questa suggestione, di come l'uomo si è immaginato e di come si è rappresentato, di come ha raffigurato il proprio corpo, è un po' come tentare di definire l'essere umano, il suo essere nel mondo, la sua identità. L'uomo è tutt'uno con la natura, oppure è un'entità da questa nettamente separata? E, in principio, di quale corpo parliamo? Di un corpo interno, di cui sentiamo la presenza, ma che non riusciamo a figurarci, o di un corpo esterno che vediamo solo in parte e per il resto immaginiamo, o infine di un terzo corpo, che è quello percepito dagli altri? Uno specchio del mondo In ciascun periodo della storia, la rappresentazione del corpo umano è inevitabilmente lo specchio di una concezione del mondo: dalle figure ieratiche degli egizi ai canoni ideali della bellezza dei greci, ai tratti deformati, grotteschi, di un certo espressionismo medievale, e avanti nel tempo, fino alla rivoluzione degli impressionisti o alla scomposizione prospettica del cubismo. Un'immagine del corpo non può quindi prescindere da un'idea dell'uomo come entità fisica e vivente. Questa affermazione ci porta alle origini della medicina, che è al tempo stesso arte e scienza, nata per aiutare l'uomo e costretta in tutta la sua storia a confrontarsi con una realtà materiale da comprendere, definire, interpretare. Sembra interessante, allora, tentare di indagare sui rapporti esistenti tra la rappresentazione, cioè l'arte, e il rappresentato, cioè la scienza. In altre parole, è opportuno chiedersi se le rappresentazioni del corpo, sano o malato (e, con esso, l'immaginario che lo precede e ne consegue), oltre che servire come strumento di indagine storica del passato, abbiano avuto qualche influenza sulle stesse concezioni scientifiche e mediche. L'interdipendenza tra immagini e scienza è un dato acquisito nel mondo contemporaneo e non c'è settore scientifico in cui negli ultimi anni, in conseguenza del progresso tecnologico, le immagini non occupino un posto di primo piano, dalle scienze biomediche a quelle della terra, dell'universo, fino a quelle sociali o cognitive. La medicina, in particolare, si è avvantaggiata, per prima e in maniera più diretta di altre discipline, delle potenzialità offerte oggi dalle immagini che le moderne strumentazioni consentono di realizzare: basti pensare, a titolo esemplificativo, all'anatomia 'in vivo', che si ottiene grazie allo scanner a raggi X, o alle immagini fornite dalla risonanza magnetica nucleare, vera e propria visione indiretta, matematizzata, della morfologia interna del corpo umano. Meno scontato appare invece il rapporto tra immagini e scienza nel passato. "Lo scienziato non è un demiurgo. Artigiano della conoscenza, costruisce modelli, strumenti mentali che proietta sul mondo esterno e sull'uomo stesso. Egli si ispira, spesso inconsapevolmente, a miti e credenze nei quali è immerso. Non sfugge alle pressioni sociali, alle forze economiche, alle ideologie". Così scrive il biologo J.-P. Changeux (1993, p. 15) nel catalogo della mostra L'âme au corps, realizzata nel 1993 a Parigi e dedicata ai rapporti fra scienza e arte. Il cammino della scienza, afferma l'autore, è quello di un dibattito collettivo, aperto e critico: "essa procede per prove ed errori, 'improvvisazioni sconcertanti', atteggiamenti fermi seguiti da esitazioni, incomprensioni poi illuminazioni, razionalizzazioni in un continuum [...]. Non vi è alcuna pretesa al sapere assoluto o a una qualche verità senza imperfezioni" (p. 15). Il lavoro dello scienziato ha analogie in molti punti con quello dell'artista: "Il percorso artistico si sviluppa in contrappunto, e non in parallelo, all'evoluzione della conoscenza scientifica [...]. Artisti e scienziati di tutti i tempi mirano a produrre rappresentazioni che rinnovano la nostra inquietudine sul mondo e l'umanità" (pp. 16-17). È un discorso complesso e pieno di insidie, oltre che di una vastità sconfinata, ma è anche un cammino affascinante da percorrere. Possiamo tentare di coglierne alcuni aspetti, riducendo le nostre osservazioni a un approccio definito attraverso l'angolazione che ci è fornita dalla storia della medicina, e servendoci in particolare di una storia che presti attenzione alle concezioni del vivente, con le rappresentazioni del corpo, più o meno dirette, più o meno coscienti, che ne sono derivate. È ovvio che molte componenti di un discorso sul corpo, in particolare quella filosofica o quella politica, ne sono escluse, come pure rimangono fuori le suggestive letture della psicoanalisi. L'idea del corpo La storia della medicina, che costituisce il nostro osservatorio e strumento di indagine, non è facilmente definibile. Di cosa si tratta? Può essere una storia delle idee scientifiche della medicina, o delle sue istituzioni, una storia dei medici, delle malattie, del rapporto medico-paziente, una storia delle cure pratiche, dei medicinali... Quella cui ci riferiremo sarà una storia della rappresentazione del corpo umano il più possibile aperta, che tenga conto delle varie componenti e influenze, per es. di carattere sociale ed economico, perché è impossibile ipotizzare un'immagine del corpo che non sia al contempo una rappresentazione sociale. Dovremo inoltre tener presenti le malattie e la loro storia. "La malattia in generale e tutte le singole malattie sono dei concetti che non derivano come tali immediatamente dalla nostra esperienza. Sono modelli esplicativi della realtà e non elementi costitutivi di questa. In breve, le malattie non esistono veramente che nel mondo delle idee" (Grmek 1983, p. 12). E dal mondo delle idee all'immaginario il passo è esiguo. Come dimostra lo studio della medicina occidentale e di quella di altre aree culturali, la stessa concettualizzazione delle malattie non avviene necessariamente secondo i modi e gli schemi propri del nostro tempo: il concetto di malattia varia secondo le aree geografiche, secondo la realtà patologica di un determinato momento storico, secondo il livello della conoscenza scientifica raggiunto da una data società. Una storia della medicina che assumesse come fulcro il corpo e la sua cura ‒ si sarebbe tentati di dire la sua manutenzione ‒ rischierebbe inevitabilmente di divenire eterogenea, dispersiva, tante sono le pratiche che dovrebbe considerare. Nel corso dei secoli, i metodi per curare sono stati infatti molteplici, spesso molto sensibili ai più piccoli dettagli, a comportamenti e situazioni che sembrano assai lontani gli uni dagli altri: il clima, con particolare riguardo agli effetti del caldo e del freddo o delle stagioni, la qualità dell'aria, l'alimentazione, l'attenzione alle posizioni in cui si dorme, alle secrezioni, dalla saliva all'urina, agli starnuti, agli sbadigli, l'equilibrio o lo squilibrio degli umori... C'è, obiettivamente, il rischio di perdersi, di smarrirsi nella infinita gamma delle variabili. La rappresentazione del corpo offre la possibilità di trovare un tema di riferimento unitario, una "occasione per unificare il senso di questi atti nettamente separati" (Vigarello 1993, p. 8). Basti pensare alle differenti concezioni che si sono succedute nel tempo. Quella dominante fino al Seicento è di un corpo legato e controllato dalle forze del cosmo, in perfetta corrispondenza con gli astri e in loro balìa, un corpo disegnato dallo zodiaco, immerso nei cicli stagionali; un corpo inteso come un microcosmo, in sintonia ed equivalenza con il resto dell'universo, il macrocosmo, ove è difficile segnare una chiara linea di demarcazione tra l'uomo e la natura o il mondo che lo circonda. Con la rivoluzione scientifica comincia a imporsi la visione di un corpo-macchina che risponde a leggi fisiche ben precise, un corpo misurabile, quantificabile; più oggetto che soggetto. Nella seconda metà dell'Ottocento prevale, invece, l'idea di corpo come di un'unità organica che dispone di proprie risorse energetiche e di propri centri nervosi di controllo. La rappresentazione del corpo continua a variare, ma rimane comunque un punto di riferimento. Una storia delle rappresentazioni del corpo può essere dunque una storia della medicina che metta in scena al tempo stesso immaginario e reale, soggettivo e oggettivo, credenze religiose e condizioni sociali, concetti estetici e morali; una storia che aiuti a comprendere perché in alcuni momenti si è fatto ricorso a un certo tipo di cure piuttosto che ad altre, perché si è organizzato un certo tipo di medicina, qual è stato il ruolo dei medici e dei curatori più in generale. Immaginario del corpo e conseguenze che ne derivano nel mettere a punto dispositivi collettivi di cura fanno emergere ancora una volta la difficoltà di definizione di concetti come quelli di sano e di malato, e portano a valutare con estrema attenzione critica ogni tipo di certezza, perché questa ha dei limiti nella sua stessa storia. Riferendoci al corpo malato, che nel nostro discorso ha un suo posto particolare e una semiologia che gli è propria, si può affermare che nel corso di molti secoli esso appare come una combinazione di parti, di organi che lo costruiscono come totalità, ma che costituiscono anche una minaccia permanente di disgregazione. A ogni epoca sembra corrispondere una malattia specifica: la peste nel Medioevo e poi nel Seicento, la sifilide nel Cinquecento e, in tempi più recenti, la tubercolosi nell'Ottocento, il cancro e l'AIDS oggi. In genere, la descrizione del corpo malato tende a rendere visibili i segni della malattia e a organizzarli in sistema, e la pratica medica viene vista come un modo di interpretare il corpo, che si può leggere come un libro, con la sola difficoltà nella relatività dei segni (Gervais-Zaninger 1992, pp. 37-38). Nonostante gli sforzi per scoprirne i segreti, il corpo malato rimane un enigma, un mistero, e dunque un oggetto privilegiato, nella sua ambiguità, dell'immaginario artistico e letterario. Una definizione del vivente È difficile avviare un'indagine, anche sommaria, sulle rappresentazioni del corpo se non facciamo riferimento, come si è detto, a una concezione, in ultima analisi, del vivente stesso. Le difficoltà cominciano sin dalla definizione di vivente e, dicendo ciò, ci si rende conto di quanto sia arduo anche intendersi sul concetto di definizione, probabilmente uno dei problemi sottesi alla filosofia fin dalle sue origini. A. Pichot (1993, p. 5), parafrasando sant'Agostino, afferma che quanto egli diceva del tempo si può dire del vivente: "Che cos'è dunque la vita? Se nessuno me lo chiede, lo so; ma se me lo si chiede e lo voglio spiegare, non lo so più". Una nozione difficile da definire, e da capire, di cui è arduo ricostruire la storia, anche perché il vivente non si limita all'uomo, all'io pensante, ma è comprensivo anche del mondo animale e vegetale. Si può però affermare che esistono sostanzialmente due grandi concezioni della vita che, un po' semplificando e riferendosi alla storia del pensiero occidentale, sono riconducibili una ad Aristotele, l'altra a Cartesio. Le restanti (e ve ne sono molte altre, evidentemente), anche precedenti, possono essere comprese attraverso queste due. Per Aristotele, gli esseri viventi e il mondo degli oggetti inanimati sono composti degli stessi elementi naturali, della stessa materia (che è poi quanto emerge anche dalla scienza moderna). La qualità che è intrinseca alla vita non va quindi cercata nella materia, ma nella sua forma. Tutti gli esseri viventi sono il risultato dell'unione di una materia con una forma, cioè del corpo con l'anima. Scrive Aristotele nella Metafisica (7, 11, 1037): "È evidente che l'anima è sostanza prima, che il corpo è materia, e che l'uomo o l'essere vivente è l'insieme di entrambi considerati universalmente". L'anima è la forma, la causa formale e finale, del corpo, l'atto (ἐντελέχεια) primo di un corpo che ha la vita in potenza. L'organismo vivente non è dunque solo materia, né l'anima è una sostanza a sé, che preesiste al corpo ed è destinata all'immortalità. Il corpo e l'anima sono per Aristotele un'unità indissolubile, e quando muore l'uno muore anche l'altra. Aristotele distingue poi tre tipi di anime, come tre diverse maniere di realizzazione di organismi viventi: l'anima vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva. Quest'ultima è propria dell'uomo e lo rende capace di conoscenza e di azioni morali. Per il filosofo greco non esiste alcuna frattura tra l'uomo e la natura: il corpo umano non viene definito in maniera astratta, per quello che costituisce un corpo, non importa quale; piuttosto, egli definisce un corpo per la sua determinata specificità. Il corpo è l'essere umano nella sua fisicità: una certa mano, un cervello, una voce, un determinato tipo di comportamento, di azione, di sofferenza. La mano è una e non appartiene che a quel corpo. Cartesio, invece, nel Traité de l'homme (1664), muovendo dalla considerazione che l'uomo che egli immagina ha un'anima e un corpo, afferma di voler procedere allo studio separato prima dell'uno e poi dell'altra, per mostrare alla fine come le due componenti si colleghino. "Suppongo ‒ scrive ‒ che il corpo non sia altro che una statua o una macchina di terra, che Dio ha modellato di proposito per renderla il più possibile simile a noi: in maniera che non soltanto le fornisce all'esterno il colore e la forma di tutte le nostre membra, ma le mette anche all'interno tutti i pezzi necessari per far in modo che cammini, che mangi, che respiri, e infine che imiti tutte quelle nostre funzioni che si può immaginare provengano dalla materia, e non dipendono che dalla disposizione degli organi" (Principia philosophiae, 1644; ed. 1953, p. 807). Per Cartesio l'uomo non è altro che una macchina, regolata dalle leggi della fisica, che ha come motore un calore, un 'fuoco senza luce' situato nel cuore. L'anima, l'io che pensa, collocata nel cervello, è completamente separata dal corpo, non serve a farlo funzionare; la materia e il pensiero costituiscono due sostanze ben distinte. Cartesio immagina un corpo composto di parti aventi ciascuna una propria funzione e utilità, secondo una concezione che era già di Galeno. Ma il filosofo francese non fa ricorso ad alcuna facoltà misteriosa della natura per far funzionare le parti del corpo umano, che per lui seguono semplicemente le leggi della meccanica. Si tratta di una visione, quindi, chiaramente dualistica e meccanica, che dominerà dal Seicento in poi gran parte della scienza. La concezione aristotelica, arricchita dall'esperienza delle scuole mediche di Ippocrate e di Galeno, si ritrova, anche se in forma spesso semplificata, in quello che resterà il paradigma medico dominante per circa duemila anni, fino alla rivoluzione scientifica e spesso ancora oltre. Essa è, se ci riflettiamo, abbastanza vicina alla nostra esperienza, ma prevede, per spiegare il vivente, l'esistenza dell'anima, posizione che la scienza contemporanea, a parte qualche rara eccezione, rifiuta. Quella cartesiana è più vicina alla scienza moderna, ma non coincide con la conoscenza che si ha oggi degli esseri viventi. Questi due modelli paradigmatici giungono curiosamente ‒ come fa notare Pichot (1993, p. 8) ‒ a negare una specificità alla vita in sé: infatti, per Cartesio, tutto si riduce a una fisica meccanica, e tra il corpo, o sostanza estesa, e l'anima, o sostanza pensante, non c'è uno spazio per il vivente in sé; per Aristotele, invece, la natura è quasi 'animata', ed è difficile separare nettamente il vivente da quello che vivente non è. Bisognerà attendere la seconda metà dell'Ottocento perché la concezione del vivente cambi radicalmente, quando, cioè, la teoria dell'evoluzione di Darwin e d'altra parte gli sviluppi della teoria cellulare, dell'istologia e dell'embriologia, e l'applicazione del metodo sperimentale anche alla medicina, apriranno nuove prospettive. Va notato, inoltre, che nella rappresentazione del corpo l'umanità ha compiuto un cammino che ricorda molto da vicino il processo di percezione del proprio corpo da parte di ogni singolo individuo: dall'autorappresentazione all'autocoscienza. La visione di un corpo non separato dal cosmo richiama infatti, per analogia, la fase orale dello sviluppo della percezione, quando il lattante sente il seno della madre come parte integrante del proprio corpo. Soltanto in fasi successive il bambino si rende conto che il proprio corpo è fatto di parti e le riconosce prima su di sé e poi su chi gli sta vicino, ponendosi in una situazione di confronto e anche di contrapposizione con il mondo esterno, fino a raggiungere la consapevolezza dell' 'io'. Le origini In assenza di testi scritti, e con reperti studiati nel passato spesso in modo approssimativo, la nostra conoscenza del periodo preistorico è limitata, e basata piuttosto su congetture che su fatti, anche per quanto riguarda la storia della medicina. Si può tuttavia partire dal presupposto, peraltro giustificato da quanto le moderne ricerche di paleopatologia sono andate evidenziando, che le malattie fossero molto simili a quelle di oggi. È probabile infatti che la fisiologia dell'Homo sapiens sia poco cambiata nel corso dei forse centomila anni dalla sua comparsa sulla terra. In altre parole, dati i tempi lunghi del processo evolutivo, il funzionamento dei diversi organi non dovrebbe aver subito sostanziali cambiamenti. Per contro, a causa di un ambiente e di condizioni di vita sensibilmente differenti rispetto a quelli attuali (basti pensare allo scenario esterno, al clima, all'attività fisica, o all'alimentazione e all'igiene), sono mutate certamente la morfologia del corpo e forse anche la composizione biochimica dei suoi tessuti. Le prime rappresentazioni del corpo sono molto stilizzate; sono enfatizzate soltanto le parti mobili (la testa e gli arti), mentre il tronco è disegnato in modo semplice, con tratti che lo definiscono per lo più come un cilindro. La conoscenza del corpo si limitava, possiamo supporre, soprattutto allo scheletro: fin dal Neolitico, e forse già dal Paleolitico superiore, si sapeva come curare le fratture, e infatti molti reperti testimoniano di interventi terapeutici sulle ossa. Particolarmente interessante è il fenomeno dei crani trapanati rinvenuti numerosi in diverse località, per lo più in Europa. Lo stato delle cicatrizzazioni rivela spesso un lungo periodo di sopravvivenza postoperatorio; probabilmente si trattava di interventi a metà strada tra il terapeutico e il rituale magico, e non c'è da stupirsi, se si pensa che le malattie venivano attribuite a influssi negativi del mondo esterno. Con i primi testi scritti provenienti dalla Mesopotamia e risalenti all'incirca al 3000 a.C., ci troviamo di fronte alle più antiche documentazioni della malattia: dalle tavolette di argilla in caratteri cuneiformi rinvenute nelle terre tra l'Eufrate e il Tigri risulta chiara una concezione delle malattie come peccato da scontare, come punizione divina o possessione diabolica, conseguenza di una qualche inadempienza religiosa o morale. La rappresentazione del corpo presso gli assiro-babilonesi era dominata da una concezione astrologica e cosmica di tutti i fenomeni vitali. Nella pratica, tuttavia, accanto agli interventi di tipo magico e religioso (il primo atto che compie il curatore è sempre quello di dare un nome al male) venivano adoperati medicamenti di origine vegetale e animale, più raramente anche di natura minerale, e utilizzati strumenti chirurgici abbastanza funzionali. Nel sigillo di un ostetrico del 2200 a.C. alcune figure umane risultano fortemente stilizzate; in altri casi i caratteri umani e animali si confondono, come nei due sacerdoti travestiti da demoni-pesci che invocano gli spiriti al capezzale di un malato, incisi su un amuleto che si conserva al Louvre. Il Codice di Hammurabi, redatto tra il 1792 e il 1750 a.C., definisce una serie di norme da seguire nei vari casi di infortunio e fissa i giusti compensi per i medici e le pene per i chirurghi che sbagliano un intervento. Ancora agli assiro-babilonesi risalgono modellini di terracotta, di legno e di bronzo riproducenti il fegato, analoghi a quelli che si ritrovano presso gli etruschi. Il fegato veniva considerato la sede e l'origine dei pensieri e dei sentimenti, ed era ampiamente diffusa la pratica divinatoria dell'epatoscopia, cosicché da un'attenta analisi del fegato di un animale, per es. un montone, come pure dalla sua grandezza, dal suo colore, dalle forme delle sue strutture, si prediceva il futuro. Gli egizi Il corpo umano era chiamato dagli antichi egizi Iuf "carne", e anche Zet, quale corpo fisico in contrapposizione alla parte spirituale. Fin dalla prima giovinezza, esso era oggetto di particolari cure volte a mantenerlo in buona salute, seguendo i dettami dei 'saggi' dell'epoca e dando ampio spazio alle attività agonistiche. Tuttavia, quale oggetto di malattie e di infortuni a volte traumatici, veniva curato in base a tecniche e regole che mescolavano la fisiologia alla magia: una serie ininterrotta di formule esorcistiche e di incantesimi accompagnava, infatti, l'applicazione dei vari farmaci e gli interventi chirurgici. Le cure, comunque, dovettero sortire un alto numero di esiti favorevoli, vista la fama che gli archiatri egizi raggiunsero e mantennero nel tempo, sino a tarda epoca. Nell'Odissea è detto che i medici dell'Egitto superavano in abilità tutti gli altri, ed Erodoto (5° secolo a.C.) menziona più volte, nelle sue Storie, gli specialisti egizi che eccellevano in tutte le branche della scienza medica. La medicina egiziana si sviluppò nell'arco di circa tremila anni, tramandata di generazione in generazione, forse di padre in figlio. Le fonti delle nostre conoscenze in materia, eccettuati i reperti archeologici relativi a strumenti chirurgici e a qualche contenitore con resti delle sostanze impiegate, si basano sulla letteratura medica conservata in alcuni papiri. Il più antico fra questi è il papiro Kahûn, così chiamato dalla località del rinvenimento e risalente al Medio Regno (XII dinastia, ca. 1991-1778 a.C.), che tratta esclusivamente di ginecologia. Gli altri papiri appartengono al Nuovo Regno. Così il papiro Ebers (inizio XVIII dinastia, ca. 1567 a.C.), conservato nell'Università di Lipsia e derivato da un prototipo più antico, che illustra una miscellanea di malattie e il loro trattamento; il papiro Hearst (XVIII dinastia, ca. 1567-1320 a.C.), contenente a sua volta 250 prescrizioni; il papiro Smith, che si trova nella Historical Society di New York e presenta la casistica di ferite e fratture in 48 lunghe sezioni intercalate da formule magiche; infine, il papiro Chester-Beatty della XIX dinastia (1320-1200 a.C.), forse il più antico trattato di proctologia. Lo studio diretto sulle mummie, iniziato con criteri scientifici già all'inizio di questo secolo e proseguito sino ai nostri giorni con le tecniche più sofisticate, unito alle nozioni derivate dagli scritti medici, ha messo in evidenza che gli antichi egizi soffrivano in particolare di malattie parassitarie, di calcoli al rene e alla vescica, di artrosi, di malformazioni congenite dello scheletro, di vari disturbi ginecologici, di cancro delle ossa, di pneumoconiosi da sabbia, e, ancora, di affezioni dentarie e malattie cardiache quali la pericardite. Gli egizi conoscevano bene, nei dettagli, l'anatomia degli animali, ma meno bene, contrariamente a quanto spesso si pensi, l'anatomia umana. Per imbalsamare i corpi, essi svuotavano la scatola cranica attraverso il naso, e asportavano le viscere dall'addome effettuando una piccola incisione. Scrive Erodoto (Storie, 2, 85-86): "Nei laboratori [gli imbalsamatori] procedono in tal modo alla mummificazione: in primo luogo con un ferro ricurvo estraggono il cervello attraverso le narici; parte lo estraggono così, parte versandovi farmaci. Quindi, tagliando lungo l'addome con una pietra etiopica appuntita, ne tirano fuori tutti i visceri". In entrambi i casi, le vie di accesso erano troppo esigue per consentire un'appropriata osservazione e conoscenza interna del corpo. Sono pratiche che fanno ipotizzare una grande considerazione per l'aspetto esterno dell'uomo, che si voleva conservare integro per l'eternità mediante l'imbalsamazione. La pratica della mummificazione è già attestata all'epoca delle prime dinastie, anche se in forma rudimentale. Inizialmente, il corpo è ripiegato nella 'posizione fetale' ma, a partire dall'epoca delle piramidi (IV-VI dinastia, 2680-2280 a.C.), esso appare in posizione distesa. In questo periodo si manifestano le particolari abilità degli imbalsamatori, che tendono a rendere la mummia quanto più simile a una statua, mediante vari accorgimenti, come per es. un abile impiego di resine e tamponi di lino. Con la morte il corpo umano diviene un cadavere, termine che in egiziano è reso con Khat, il cui determinativo è una pustola, segno che entra in altri vocaboli con lo specifico senso di "putrefazione". Il Khat quindi è il corpo destinato alla corruzione (il σῶμα σαρκός dei greci) che, attraverso la tecnica e il rituale dell'imbalsamazione, viene reso incorruttibile. Questo nuovo stato porta con sé un notevole grado di elevatezza e il suo nome è Sahu "nobile", derivante da una radice sah connessa al significato di dignità, riferito specificamente alla mummia. Scopo dell'imbalsamazione era quello di assicurare la sopravvivenza del Ka del defunto, termine che ricorre assai di frequente nei testi funerari e in quelli magici. Discordi sono i pareri sulla esatta definizione di tale entità: si è parlato di 'doppio', 'corpo astrale', 'corpo spirituale', 'fantasma' ecc., termini tutti inadeguati e approssimativi. Figurativamente, esso è l'esatta controparte invisibile dell'individuo: nasce con questi e ha il suo stesso aspetto somatico. Il suo simbolo ideografico, attestato dall'epoca più antica, è dato dalle braccia alzate, e ciò potrebbe avvalorare il concetto di 'doppio'. Il Ka è comunque il portatore della memoria 'terrena', cioè della individualità del defunto. Nella civiltà egiziana, tutte le rappresentazioni del corpo sono simboliche. Come ha sottolineato E. Gombrich (1950, trad. it., pp. 50-52), gli egizi elaborarono un metodo per la raffigurazione dei corpi molto rigoroso e schematico, che si trasmetteva dinastia dopo dinastia, senza cesure e sperimentalismi innovativi: gli artisti seguivano un modello preciso e delle regole che consentivano di mostrare in un corpo quello che sembrava loro più importante, e secondo l'angolazione visiva più chiara. Così vediamo il busto disegnato frontalmente, il volto di profilo mentre l'occhio è piano, gli arti raffigurati di lato ma i piedi dall'interno, con esiti di evidente innaturalismo. È una visione governata da 'geometrica euritmia', astrazione e simbolismo, che trova corrispondenza nell'immagine anatomica. Nel papiro Ebers che, insieme al papiro Smith, si rivela di particolare interesse, l'aorta è paragonata al Nilo, e come il fiume porta le acque attraverso i suoi canali alle terre per renderle fertili, così l'aorta immette il sangue nei diversi organi e li rende vitali. Nel linguaggio geroglifico, sono oltre cento i termini anatomici e, tra i vari organi, emerge per importanza il cuore, definito la 'sede del Dio nell'uomo' in quanto luogo della conoscenza e di tutte le emozioni. Vi fa esplicito riferimento il papiro Ebers, che presenta in modo dettagliato l'organo, i suoi movimenti e i vasi a esso connessi. Data la sua importanza, nel corso della mummificazione il cuore veniva lasciato 'in situ', unitamente ai grandi vasi sanguigni, mentre le altre viscere venivano rimosse e conservate in quattro vasi detti canopi, ciascuno dei quali era posto sotto la protezione di uno dei figli del dio Oro. Gli egizi furono i primi, tra le civiltà storiche, ad attribuire al cuore una funzione centrale nel corpo, e a parlare di un soffio vitale che percorre le membra: entrambe le concezioni rimarranno, con una serie di varianti, una costante di tutta la medicina antica. Ancora nel papiro Ebers si legge, a proposito della vescica, che i condotti che trasportano l'urina sono due, mentre oggi sappiamo che i vasi sono quattro. Non basta infatti guardare, per vedere giusto: gli anatomisti, i dissettori di cadaveri continueranno per millenni a vedere non quello che è, ma quello che credono di vedere. L'osservazione del corpo umano è inficiata non soltanto dalle credenze religiose, ma anche dalla dottrina medica, che, almeno per la sua parte ufficiale e teorica, diventerà con il passare dei secoli sempre più dogmatica e inattaccabile, irrigidendosi e risultando a volte, a causa di interpretazioni semplicistiche oppure di inesatte traduzioni da una lingua a un'altra, anche peggiore di quanto non fosse in principio. I greci Con i greci dell'età classica, la visione del mondo muta profondamente, essendo incentrata sull'uomo. L'uomo è 'la misura di tutte le cose', gli dei sono concepiti antropomorficamente, il corpo dell'uomo è paradigma di ogni perfezione, esso non è solamente vita ma è soprattutto bellezza. Da elemento della natura, l'uomo, con il suo corpo, diventa, dunque, dominatore della natura. "La rottura con l'animale diviene visibile nell'arte greca. L'arte arcaica esprimeva ancora una fascinazione per le forme non umane di vita, ma dopo le guerre con i persiani l'arte classica prende per oggetto esclusivamente il corpo umano. Si instaura così la prima, e forse la sola, civiltà completamente umanistica della storia" (Rommeru 1992, p. 9). È stato fatto notare che Omero non usa mai, neppure una volta, un'unica parola, al singolare, per indicare il corpo di un uomo vivo. Il termine σω᾿μα, che più tardi sarà utilizzato in questo senso, viene adoperato da Omero soltanto per indicare un corpo morto. Per quello vivo, usa espressioni corrispondenti a 'le membra articolate', 'le membra con i muscoli che danno forza'. Evidentemente, la gamma delle attitudini cognitive, emotive e pratiche che presupponiamo dalle descrizioni omeriche è molto differente dalla nostra. Il poeta usa una varietà di termini come la forma (δέμας), le membra (γυ~ια), la pelle (χρω᾿ς) per indicare quello che per noi, e per i greci di epoca posteriore, è il corpo. Per designare la sede del pensiero, delle emozioni, dei desideri, si avvale ancora di una serie di termini. Ci si può chiedere allora se per i greci del tempo di Omero esistesse una visione del corpo come unità organica, o se al contrario mancasse la nozione di persona in quanto tale. Farebbero propendere per questa seconda ipotesi le rappresentazioni di stile geometrico sui vasi dell'8° secolo a.C., che raffigurano gli uomini come semplici agglomerati di membra. Una nozione così elementare e apparentemente universale quale quella di corpo sarebbe dunque, così come tante altre che sembrano essere dati di fatto della coscienza, una costruzione dello spirito, un puro prodotto della cultura. Una visione più organica e integra del corpo emerge nel 6° secolo con l'introduzione del termine σῶμα, opposto a quello di ψυχή, che Omero aveva adoperato per definire lo spirito che sopravvive all'individuo. La concezione e l'uso del termine ψυχή, inteso come veicolo di immortalità, si possono far risalire a diversi rituali mistici, e agli scritti di Pitagora e di Eraclito. Più tardi Platone riprende il discorso sul corpo e sull'anima e in diversi passi allude al corpo (σῶμα) come alla prigione, la tomba (σ~ημα) dell'anima. Il corpo è dove l'anima è sepolta, ma poiché è attraverso il corpo che l'anima si esprime, è giusto che sia chiamato segno (σ~ημα); questo termine in greco antico significa "tomba", in quanto segno con il quale si riconosce una sepoltura, ma vuol dire anche "segno" in senso più lato, "carattere distintivo". Platone si rifà alla tradizione dei miti orfici, secondo i quali il corpo è la prigione dove l'anima punita è costretta a scontare i peccati precedentemente commessi. All'inizio è proprio una particolare idea del corpo, probabilmente mutuata dalla medicina, che influenza il pensiero di filosofi del 5° secolo a.C., come Empedocle, per il quale la nascita e la morte derivano dall'associazione e dalla dissociazione di particelle comprese nei quattro elementi, o radici di tutte le cose (il fuoco, l'acqua, la terra e l'aria), o Anassagora, il quale parla di corpi composti di elementi eterogenei che, sebbene divisi fra loro, formano particelle omogenee, similari (ὁμοιομερείαι, come le chiamerà Aristotele). Dalla concezione naturalistica di Anassagora si passa a quella di Democrito, per il quale la materia è costituita dagli atomi in movimento perpetuo all'interno della non-materia (il vuoto), fino alle teorie dei filosofi postsocratici, che elaborano una visione del corpo come entità unitaria. Tra il 5° e il 4° secolo, con Ippocrate e la sua scuola, la medicina greca compie un notevole passo avanti, allontanandosi da concezioni magiche ed elaborando un'originale immagine del corpo. Sotto il nome di Ippocrate ci è rimasto un gran numero di scritti, un po' eterogenei e probabilmente di autori diversi, ma rappresentativi dello stato della medicina in quel periodo: sicuramente primo tentativo esplicito di una scienza empirica. In essi è chiaramente sottolineato che la malattia è un fenomeno naturale, non ha un'origine divina né è una punizione, e che la medicina è un sapere positivo che deve essere separato dalla mitologia e dalla filosofia, come l'opera e la figura del medico devono essere distinte da quelle del sacerdote. I trattati del Corpus hippocraticum, una sessantina, sono molto vari per forma e contenuto. Scritti la maggior parte nel dialetto ionico di Cos, alcuni sviluppano in maniera compiuta un determinato argomento, altri presentano la frammentarietà di appunti, altri ancora sono chiaramente destinati a pubblicazioni per specialisti, mentre vi sono testi che potrebbero essere stati compilati per conferenze divulgative. Due gruppi importanti di scritti sono dedicati alla chirurgia e alla ginecologia. In tutte le opere attribuite a Ippocrate c'è comunque, come è stato fatto notare, uno sforzo senza precedenti "per pensare l'uomo, come individuo o come popolo, nella prospettiva dei fattori razionali applicabili a tutti senza distinzioni" (Jouanna 1993, p. 32). Una delle caratteristiche di fondo degli autori degli scritti del Corpus è l'eccezionale capacità di osservazione. Si cercano tutti i possibili segni della malattia, che vengono poi annotati con cura. Nel trattato sulle Epidemie si specifica con chiarezza che il corpo del malato deve essere assunto come oggetto da esaminare, e che vanno controllati la vista, l'udito, l'odorato, il tatto, il gusto e la ragione. La conoscenza del corpo è sicuramente notevole, ma è prevalentemente limitata all'esterno, o quanto meno alle parti del corpo raggiungibili con facilità. La dissezione non era praticata, e la struttura interna veniva ricostruita da ciò che veniva osservato o esperito al tatto. Il corpo umano è visto, nella credenza comune del tempo, come una sorta di vaso, all'interno del quale si trovano vasi più piccoli, i vari organi interni; è dunque un grande recipiente che ne contiene altri minori, come quelli del cuore, del fegato, della milza, dei polmoni. Le vene trasportano in tutto il corpo il sangue, ma anche l'aria, lo sperma, il latte e ogni tipo di umori. Questa concezione popolare, molto diffusa, viene ripresa nella letteratura medica, e in particolare nel trattato ippocratico sulle Malattie, in cui il corpo è descritto come composto di cinque recipienti intercomunicanti: stomaco, cuore, testa, milza e fegato. I vari organi si riempiono e si svuotano con il fluire degli umori: l'acqua, la bile, la flemma e il sangue. Il concetto popolare degli umori e del loro mescolamento, la κρ~ασις, ripreso, elaborato e teorizzato dalla scuola ippocratica, dominerà per molti secoli la medicina greca e quella occidentale in genere. Già Alcmeone di Crotone, intorno al 500 a.C., scriveva che la salute si mantiene con l'equilibrio (ἰσονομία) delle forze opposte, cioè dell'umido, del secco, del freddo, del caldo, dell'amaro, del dolce ecc., mentre il dominio, l'eccesso di uno di questi sostrati, o qualità primordiali, produce la malattia. Proprio dal concetto popolare di κρ~ασις, attraverso le idee di Alcmeone, si delinea la teoria degli umori: in ogni corpo vi sono quattro umori (sangue, flemma, bile gialla e bile nera), e lo stato di salute del corpo è dato quando essi sono ben mescolati ed equilibrati. Il loro squilibrio, la disarmonia, il prevalere di un umore su un altro, causa la malattia, o la morte, qualora subentri la totale mancanza di uno di essi. C'è poi da aggiungere che, nella credenza del tempo, umori e qualità primordiali costituivano il punto di contatto e di corrispondenza dell'uomo con il cosmo. In un testo ippocratico, Della dieta, viene offerta un'immagine del corpo quale microcosmo in cui si compendia il macrocosmo: lo stomaco, per es., equivale al mare, che comunica con tre circuiti composti di acqua e fuoco e che richiamano i rispettivi cerchi formati dai corpi celesti. La prima definizione dell'uomo come microcosmo sembra debba attribuirsi a Democrito, e da essa risulta un'immagine precisa che ricorrerà molte volte nel Medioevo: ogni parte del corpo ha una corrispondenza nel cosmo, ne è come lo specchio. Il corpo è influenzato direttamente dagli astri, ogni variazione della sfera celeste ha effetti sull'uomo, sul suo stato di salute, sulle malattie: da qui l'importanza dell'astrologia per gli studi medici. Non a caso le facoltà di medicina furono le maggiori fonti di produzione di oroscopi per molti secoli, almeno fino al Seicento. I concetti fondamentali di tutta la teoria e la pratica medica greca rimarranno infatti validi fino alla rivoluzione scientifica, giocando un ruolo importante durante tutto il Medioevo e il Rinascimento. In antitesi alla malattia vi è lo stato di equilibrio. Per i greci, la diagnosi di una malattia e la terapia che ne conseguiva non potevano prescindere da un atteggiamento che oggi definiremmo di tipo estetico. La salute era infatti considerata come uno stato di equilibrio degli umori, ma anche di armonia spirituale e di bellezza: armonia degli umori interni con quelli esterni, tra il corpo e il cosmo, tra l'individuo e l'ambiente. È lo stesso concetto di armonia che ritroviamo a fondamento dell'arte greca nella fase del suo pieno sviluppo. All'idea di armonia si affianca la dottrina dello pneuma, del soffio vitale, che equivale a una forza di espressione dinamica. Nelle statue che rappresentano gli atleti, il punto di incontro tra arte e scienza è evidente, e la dinamica muscolare del tronco e degli arti traspare dal marmo levigato: l'artista ha avuto bisogno dello scienziato, e questo si è ispirato, nella sua dottrina, a una concezione idealizzata del corpo. Abbiamo precedentemente affermato che non è possibile concepire un'immagine del corpo indipendentemente da una concezione del vivente che sia più o meno consapevole, magica o scientifica, vitalistica o meccanicistica. È opportuno allora tornare ad Aristotele ricordando qualche altro aspetto della sua concezione del vivente. Più di un terzo delle opere del filosofo, vissuto nel 4° secolo a.C., è dedicato a questioni che oggi definiremmo di tipo biologico. I problemi che concernono la vita sono presenti anche nella fisica, e persino nell'etica e nella logica. Le idee aristoteliche sul vivente si trasmetteranno, integrate e ampliate, talvolta distorte, attraverso gli scritti di Galeno e segneranno profondamente la cultura occidentale. L'immaginario del mondo romano e poi del Medioevo, compreso quello arabo, avranno sempre come sottofondo la dottrina aristotelica. Ogni indagine che cerchi di stabilire nessi e contatti tra la scienza che si occupa dell'uomo e le sue rappresentazioni, tra le immagini del corpo umano prodotte dagli artisti e il corpo curato dai medici, tra l'idea che una data società ha dell'uomo, del suo aspetto, delle sue pulsioni più o meno evidenti o più o meno segrete, come la sessualità, non può dimenticare che alla base della costruzione dell'uomo occidentale e della sua cultura c'è una concezione della natura, dell'uomo stesso e, in ultima analisi, della vita, che trova in Aristotele il maggior paradigma di riferimento. Gli oggetti inanimati e gli esseri viventi sono composti degli stessi elementi, la natura è un tutto, e la qualità del vivente non va quindi cercata nella materia, quanto piuttosto nella forma. L'anima di un essere vivente non è però la forma geometrica del suo corpo, la sua morfologia. È la forma in generale, che comprende le diverse qualità applicate alla materia prima indeterminata. Gli esseri viventi raggiungono una forma di livello più alto degli esseri inanimati, e quindi in biologia la morfologia ha un'importanza ben maggiore che nella fisica degli oggetti inanimati. Gli esseri animati sono per Aristotele dotati di un'anima, ma per lui, come per Platone, esistono diversi tipi di anima. "L'anima nutritiva appartiene a tutti i viventi, compreso l'uomo, essa è la prima e la più comune delle facoltà dell'anima, è attraverso essa che la vita è data a tutti gli esseri animati. Sue funzioni sono la generazione e la nutrizione" (Dell'anima, 2, 4, 415 a). La fisica e la biologia di Aristotele sono molto vicine. La sola particolarità di un essere vivente è di possedere un suo principio motore, l'anima, mentre un oggetto inanimato dipende da un motore esterno (che si rapporta al primo motore immobile). L'essere vivente con la sua anima è una sorta di microcosmo, che si colloca all'interno di un macrocosmo animato dal primo motore, Dio, che è la vita stessa. A conclusione dell'excursus sul tema del corpo presso i greci, va ricordata la scuola medica di Erofilo ed Erasistrato ad Alessandria, città che intorno al 3° secolo a.C. era divenuta un importante centro culturale. Questa scuola aveva assunto come base di ricerca le osservazioni anatomiche: pare che si compissero anche dissezioni su corpi umani, e di fatto gli studi rimastici sono accurati e non trascurano l'analisi delle funzioni degli organi. Ma fu un'eccezione. Il mondo romano Il modello greco ‒ filosofico, artistico, scientifico ‒ si deteriorò nel mondo romano, ancor prima dell'affermarsi del cristianesimo. Quando l'impero venne riorganizzato da Augusto, molto si era affievolito della cultura classica. Gli ideali di equilibrio e di armonia, il culto e l'ideale di bellezza dei greci avevano perso valore. Il corpo, in particolare, non costituiva più un canone di riferimento, ma era divenuto mero strumento di piacere. "L'erotismo gioioso, antropomorfo ed esatto dei greci si trasforma in melanconia spaventata" (Quignard 1994, p. 12). Il cittadino romano non aveva più rispetto per il proprio corpo e le terme, che erano mercato d'ogni cosa, avevano preso il posto degli stadi e dei ginnasi. Visse in età imperiale Claudio Galeno, nato a Pergamo nel 129 d.C., e attivo soprattutto a Roma, dove fu medico di gladiatori e poi di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo. Galeno ci ha lasciato più di trecento scritti di medicina. Riprendendo e ampliando la teoria degli umori, teorizza per primo la cura dei contrari: al caldo è necessario opporre il freddo, al secco l'umido. Così le febbri, per secoli, furono curate con immersioni in acqua fredda, con risultati facilmente immaginabili. La teoria di Galeno sul corpo poggia su alcuni punti essenziali. Egli sostiene che la funzione degli organi dipende dalla loro forma e dalla loro struttura; individua il cervello come organo motore e sede dei sentimenti; descrive con accuratezza i nervi, i muscoli, i tendini, le differenti ossa, e distingue le arterie dalle vene. Scrive nel De usu partium corporis humani che, se le vene nascono dal fegato, le arterie escono dal cuore. Nonostante fosse un buon anatomista e in genere un ottimo medico, attribuì al fegato (forse influenzato dalla medicina babilonese) il ruolo di organo creatore e distributore del sangue. Secondo Galeno, il fegato trasforma in sangue gli alimenti che provengono 'cotti' dall'apparato digerente, e poi lo distribuisce a tutto il corpo; il cuore ha la funzione di fuoco, i polmoni invece quella di raffreddamento generale. Nella sua ricostruzione anatomica, la parte destra del cuore comunica con quella sinistra attraverso alcuni piccoli fori, e tale passaggio risolve tutta una serie di problemi fisiologici. Questa concezione, che non ha alcun riscontro nella realtà anatomica, verrà considerata una verità incontestabile per molti secoli. Ancora nel Seicento, nonostante fosse ormai evidente che nel cuore non esisteva un passaggio dal ventricolo destro al sinistro, la dottrina galenica e quella di Aristotele resteranno, su questo e molti altri punti, inattaccabili. Il corpo è immaginato da Galeno come monosessuale: un'unica carne e un unico sesso. Il corpo femminile è come un corpo d'uomo rovesciato. "Tutte le parti che hanno gli uomini le hanno anche le donne [...] se rivolti all'esterno quelle femminili e volti e pieghi, per così dire, all'interno le parti maschili, le troverai tutte uguali tra loro" (da Laqueur 1990, trad. it., p. 33). I sessi sono uniti da un'anatomia comune, di poca importanza sono le differenze riproduttive. Anche questa concezione deriva in gran parte da Aristotele, il quale, sebbene ammettesse una distinzione tra i due sessi, affermava che la caratteristica della virilità è immateriale: "La femmina offre sempre la materia, il maschio l'agente del processo di trasformazione: queste noi diciamo che sono le rispettive facoltà, e in questo consiste l'essere l'una femmina, l'altro maschio" (da Laqueur, 1990, trad. it., p. 39). Il modello del corpo monosessuale fu dominante dall'antichità classica fino al Seicento, e "rimase fissato a un campo d'immagini ch'era vetusto già all'epoca di Galeno, mentre l'io portatore del genere viveva una storia mutevole attraverso tutte le immense trasformazioni sociali, culturali e religiose che separano il mondo di Ippocrate dal mondo di Newton" (Laqueur 1990, trad. it., p. 80). Fino a Cartesio mente e corpo appaiono legati così intimamente che perfino il concepimento può essere inteso come l'avere un'idea, e il corpo è "come un attore sul palcoscenico, pronto a recitare i ruoli assegnatigli dalla cultura" (p. 33). Il modello monosessuale rimase predominante non tanto perché legato a uno specifico modello scientifico del corpo, ma perché si poneva, al contrario, come un modello ambiguo, da cui scaturivano, da un'unica carne, coppie di opposti: paternità-maternità, caldo-freddo, maschio-femmina, legittimo-illegittimo ecc. In più, la longevità del modello monosessuale del corpo è spiegata in termini di potere. Scrive ancora T. Laqueur: "In un mondo pubblico massicciamente maschile, il modello monosessuale dava specifico risalto a ciò ch'era già abbondantemente chiaro nel più generale orizzonte culturale: l'uomo era la misura di tutte le cose, e la donna non esisteva in quanto categoria ontologicamente distinta [...]. Ma lo standard del corpo umano e delle sue rappresentazioni era il corpo maschile" (p. 81). Saranno necessari una vera e propria frattura epistemologica, un mutamento profondo nella mentalità e di conseguenza un modo del tutto nuovo di osservare, perché si giunga a una diversa teoria medico-anatomica, perché cambi l'immagine che l'uomo occidentale ha del suo corpo con tutto l'ambiguo immaginario che lo accompagna. Il Medioevo Dopo Galeno, la medicina antica si limitò a tradurre, riassumere e compilare, affiancando il sapere scientifico a quello popolare. La città di Bisanzio, ove si era trasferito l'imperatore Costantino, ereditò la tradizione grecoromana, mantenendo il ruolo di depositaria del patrimonio culturale dell'Occidente per circa mille anni, ossia per tutta la durata del Medioevo. La rappresentazione del corpo aveva subito nel frattempo una forte semplificazione. Con l'avvento del cristianesimo, infatti, non interessavano più l'armonia e il canone di bellezza idealizzato, né i tratti espressionistici, di accentuato realismo, che connotavano tanta arte romana. L'umanità sembrava proiettarsi verso cose al di là della dimensione terrena, come rileva E.H. Gombrich riferendosi a una pittura delle Catacombe di Priscilla a Roma che raffigura tre ebrei in una fornace ardente (v. fig. 1.113). Non vi è più alcuna attenzione alle forme, né alla scena drammatica in sé stessa; il pittore vuole presentare un esempio edificante e ispiratore di forza d'animo e di salvezza, indipendentemente da parametri estetici o dalla finalità di illustrare una vicenda reale, nel suo fenomenico apparire: "bastava che i tre in costume persiano, le fiamme e la colomba ‒ simbolo del divino aiuto ‒ fossero riconoscibili" (Gombrich 1950, trad. it., p. 164). L'arte tendeva a esaltare la spiritualità delle immagini e gli artisti non si preoccupavano tanto di riprodurre le forme naturali, quanto "di combinare tutti i simboli tradizionali del mistero", come scrive ancora Gombrich alludendo a una miniatura dell' Annunciazione in un Vangelo svevo: "affrancati dall'imitazione del mondo naturale, si preparano a esprimere l'idea del soprannaturale" (p. 167). A Bisanzio, l'arte e la Chiesa erano sfere di esclusiva competenza dello Stato, e, di conseguenza, le raffigurazioni dei corpi divennero astratte, ieratiche, funzionali al messaggio religioso e politico. In questo contesto, i medici bizantini, eredi del sapere precedente, raccolsero e ordinarono quanto elaborato da Ippocrate, da Galeno e, in parte, dalla medicina orientale; gli scritti di Oribasio (4° secolo) e di Paolo d'Egina (7° secolo) saranno, per es., testi obbligatori per gli studenti di medicina fino al Seicento. Di particolare interesse appare il contributo della medicina araba, al suo massimo splendore tra il 10° e il 12° secolo, che trasmise, attraverso la pratica della copiatura e della traduzione, i principali testi scientifici e medici dei greci e dei romani, ma anche quelli dei cinesi, degli indiani, dei persiani. Lo stesso Corano ebbe un'influenza non trascurabile, non solo perché forniva consigli di igiene e di cura, ma perché nelle sue pagine si trovavano informazioni importanti di fisiologia e di embriologia, davvero stupefacenti per l'epoca. Inoltre, furono gli arabi a creare, per primi, una rete di ospedali dove si curavano i malati e si insegnava la medicina, mentre in Occidente, in quel periodo, gli ospedali servivano soltanto come asilo per i poveri. Tra i grandi della medicina araba ricordiamo ar-Rhazi, autore di un trattato in settanta libri in cui si mostra grande clinico con i suoi studi sul temperamento degli uomini e sulla fisiognomia, e Avicenna, il cui Canone della medicina sarà un cardine della scienza medica occidentale fino all'epoca moderna. Secondo quest'ultimo, la malattia è una sorta di ostacolo al soffio vitale che anima i corpi viventi, mentre la salute deriva da un equilibrio tra il corpo e lo spirito, tra la componente fisiologica e quella mentale. Comunemente si è sempre sostenuto che i medici arabi ignorassero l'anatomia e la fisiologia, perché era loro proibito fare dissezioni di cadaveri oppure compiere vivisezioni su animali. Eppure, nonostante il divieto legale, si deve proprio a un medico di Damasco, Ibn an-Nafis, vissuto nel 13° secolo, l'avere scoperto e descritto, con termini estremamente precisi, la circolazione polmonare. Una scoperta che sarà confermata soltanto secoli dopo, mentre gli scritti di Ibn an-Nafis verranno ripubblicati solo nel 1924. La circolazione polmonare contraddiceva uno dei capisaldi della dottrina galenica, cioè l'esistenza di fori di comunicazione dalla parte destra a quella sinistra del cuore. È noto come nel primo Medioevo certe forme di ascesi cristiana tendessero a mortificare il corpo; la corporeità era intesa come fonte di tentazioni, il corpo come cattivo consigliere dell'anima. L'atteggiamento è ambiguo, se si pensa che la stessa Chiesa cristiana, fino a tutto il Concilio di Trento, sostiene che il corpo nella sua integrità e nel suo massimo splendore si ricomporrà per salire al Cielo dopo il Giudizio universale. I Padri della Chiesa attribuivano infatti grande importanza al corpo quale involucro o voce dell'anima, come nel dogma della resurrezione della carne in Paradiso. A parte mutilati, decapitati e corpi sformati dalle malattie, a quale modello estetico la Chiesa fa riferimento? Assume come parametro un corpo giovane o un corpo nella pienezza della sua maturità? Il Paradiso viene immaginato come "rifondazione totale della condizione umana" (Camporesi 1994, p. 29), luogo mitico, perfetto, in cui non vi sono più fame e malattie, e la corruzione della carne è semplicemente abolita. "Era il sogno dell'imbalsamazione permanente, della durata indefinita, della 'impassibilità' dei beati, della incorruttibilità della carne, già mortale e deperibile". In Paradiso si celebrano "le 'doti dei corpi glorificati', risorti dal sepolcro nella beatitudine; i 'cadaveri dei giusti', ricomposti e consegnati all'eternità felice, divengono corpi di mirabile perfezione, completamente 'impassibili', incorruttibili, non transeunti, mai resi vizzi e appassiti dalla vecchiezza" (p. 30). Nell'arte cosiddetta maggiore la rappresentazione del corpo è condizionata fortemente dalla religione. Tra le varie manifestazioni artistiche, risulta particolarmente interessante l'iconografia che illustra, sotto forma di miniature, i racconti del Vangelo e molti testi di medicina occidentale e araba. Soprattutto le guarigioni miracolose di Gesù sono ampiamente documentate, come quelle del cieco e del lebbroso. Per la prima volta entra in scena, quale soggetto, il corpo dell'uomo malato; protagonista non è più l'atleta, l'uomo armonioso fatto a immagine degli dei, ma l'uomo infermo, lo storpio, il torturato, e gli artisti medievali immaginavano a modo loro i segni patologici delle malattie. L'avvento del cristianesimo segna anche un cambiamento nell'etica medica. Il malato non viene considerato più, secondo una concezione diffusa nell'antichità, un essere inferiore, colpito dalla punizione, ma come il 'prossimo', perché anche il più umile, il più povero, l'ultimo degli uomini, è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, e ha quindi diritto alla misericordia e alla carità. Si è ormai consolidata pure la credenza, propria di tutta la medicina antica, che il cuore sia sede di un calore endogeno. La teoria, arricchita dal misticismo cristiano, diventa la base di una raffigurazione del cuore che esercita una notevole influenza sull'immaginario popolare. Esso sarà sempre rappresentato come un'entità che emana raggi, in due versioni egualmente ricorrenti: un disegno a tratti dritti, che simboleggiano la luce, e uno a tratti ondulati che significano il calore. Il cuore è assunto a emblema dell'amore divino e paragonato al sole, secondo una similitudine presente già in Plutarco, che aveva descritto il sole come un astro che ha la forza di un cuore e dispensa luce e calore. Inoltre è passione, sede dei sentimenti, luogo dell'amore, sia divino sia profano, in conformità a un simbolismo costante nei secoli e ancora attuale, che va dagli ex voto in oro o in argento offerti alla Madonna o a Gesù, fino all'uso di ciondoli e ai disegni di cuori trafitti. È curioso notare come la forma del cuore in queste immagini (due curve in alto, una punta in basso) abbia poco a che fare con la vera morfologia dell'organo. Questa rappresentazione grafica del cuore si ritrova soltanto in Occidente. Studiosi del simbolismo e del pensiero tradizionale come R. Guénon sostengono, però, che essa derivi da un emblema indiano che rappresenta l'elemento femminile dell'essere e le acque primordiali. Partendo da questa lettura, c'è chi collega la forma del cuore a quella di un vaso o di una coppa, e quindi al mito cristiano del calice dell'Ultima cena, che avrebbe raccolto il sangue di Cristo e sarebbe poi divenuto il calice del santo Graal. Alcune illustrazioni nei trattati medici consentono di seguire il percorso graduale che ha portato dalla magia alla scienza. Le miniature dell'opera di Ruggero di Salerno, per es., tratte da manoscritti del 13° secolo, mostrano con chiarezza di particolari le cure medico-chirurgiche dell'epoca. Sono immagini che potremmo definire funzionali e che sicuramente dovevano servire anche all'insegnamento, dal momento che illustrano le cure di una ferita alla testa, inalazioni di erbe calmanti, un'operazione di emorroidi, un intervento di cataratta, l'ablazione dei polipi del naso, e altre terapie. Gli esempi sono numerosi; ci limitiamo a ricordare le miniature che illustrano il Canone di Avicenna, o quelle di un trattato di chirurgia della Scuola di Salerno dell'11° secolo, o anche le sculture delle chiese gotiche, con scene di malati e di cure, come nella cattedrale di Strasburgo, dove è riprodotta con notevole realismo una paresi facciale. Molto spesso è rappresentato un medico nell'atto di esaminare le urine, una pratica che era divenuta essenziale nella diagnosi, tanto che alcuni medici arrivavano a formularla senza neppur aver visitato il malato, limitandosi alla semplice osservazione delle urine; i più scrupolosi giungevano ad assaggiarle: un sapore dolce, di zucchero, per es., avrebbe indicato la possibilità di diabete. Il colore e la densità delle urine, una sorta di filtro delle quattro qualità cardinali (caldo, freddo, secco e umido), servivano al medico per giudicare l'equilibrio degli umori nel corpo. Secondo la teoria galenica, in questo modo si poteva anche localizzare l'organo malato, perché le trasformazioni dell'aspetto del liquido corrispondevano all'alterazione di alcuni organi specifici. Gli studi anatomici furono alquanto trascurati in questo periodo anche presso il maggior centro di ricerca medica dell'epoca, la Scuola di Salerno. Fondata intorno al 900, questa ebbe per più di due secoli un ruolo fondamentale, divenendo un punto di incontro e di scambio scientifico tra differenti civiltà, come si deduce anche dal fatto che l'insegnamento avveniva in quattro lingue: latino, greco, arabo ed ebraico. La trattazione delle diverse discipline era basata su una concezione molto pragmatica. L'anatomia veniva studiata per lo più come anatomia comparata, e un buon esempio è la Anatomia porci di Cofone. I Salernitani si rifacevano a una rappresentazione piuttosto schematica e semplificata dello scheletro, della muscolatura, del cervello con il midollo spinale. Il corpo era attraversato dalle arterie e il cuore era al centro, collocato di traverso in mezzo ai polmoni. Il sistema delle vene si collegava al fegato, diviso in cinque lobi, alla milza, immaginata di forma molto schiacciata, e al tubo digerente. Indagini anatomiche molto più accurate furono avviate dopo il 1240, sia a Salerno sia nelle prime università, come quelle di Bologna, Montpellier, Napoli, Parigi, Padova. L'imperatore Federico II di Svevia aveva infatti stabilito che, per esercitare la chirurgia, si dovesse studiare l'anatomia almeno per un anno su spoglie umane. Il Medioevo è stato descritto per lungo tempo come un periodo di oscurantismo, secondo un'interpretazione storiografica negativa che nasce probabilmente con il primo apparire nelle discipline storiche della parola progresso, e una visione della storia intesa come evoluzione, processo continuo di miglioramento. Si contrappongono allora i 'secoli bui' del Medioevo all'era moderna che ha inizio con il Rinascimento. I recenti studi di medievalistica, non più improntati a concezioni positivistiche, forniscono un quadro inedito di civiltà molto più ricche di quanto si ritenesse, per la spiritualità e profondità del pensiero e per le intuizioni sorprendenti anche per quanto attiene alla storia della medicina. La stessa cesura tra il mondo magico del Quattrocento-Cinquecento e quello scientifico di Copernico, Galilei, Harvey, non è poi così netta: il passaggio fu tutt'altro che brusco, anzi sfumato e spesso contraddittorio. Nessuno 'si addormentò nel Medioevo', come è stato detto, e si svegliò nell'era moderna. La pratica della dissezione La pratica di aprire i corpi è stata descritta per anni come qualcosa di cui vigeva il divieto assoluto durante il Medioevo; le dissezioni sarebbero avvenute sempre e soltanto di nascosto, circondate da un'atmosfera di proibizione, di mistero e di peccato. La stessa bolla papale De sepolturis [...] detestandae feritatis abusum, emessa da Bonifacio VIII nel 1300 e riferita all'usanza diffusa presso i Crociati di far bollire i corpi dei nobili morti in battaglia per poi scarnificarli e riportarne le ossa in patria, era stata interpretata come una scomunica per chi compisse dissezioni sui cadaveri. In realtà, la Chiesa non vietò mai esplicitamente le dissezioni del corpo umano, e una serie di azioni giudiziarie tra la fine del Duecento e il Trecento, di cui siamo a conoscenza, si riferiscono piuttosto a violazioni di tombe e a trafugamenti di cadaveri. In questo caso non fu la Chiesa a porre divieti. La riluttanza a tagliare e ad aprire un cadavere fu probabilmente determinata da più fattori concomitanti, quali la complessa rimozione di un tabu radicato, la pericolosità dell'atto stesso (in quanto i corpi si decompongono rapidamente, ed è facile quindi contrarre un'infezione) e, soprattutto, la difficoltà di procurarsi corpi umani e di conservarli. L'indagine medica poteva anche avvalersi degli ossari presenti in tutti i cimiteri, e studiare in tal modo l'anatomia degli scheletri. Altre osservazioni dirette del corpo avvenivano attraverso le perizie medico-legali, ordinate talvolta in caso di morti sospette o di decessi di personaggi d'alto lignaggio, anche se non sempre gli esami post mortem implicavano l'esecuzione di un'autopsia. Il primo trattato in cui viene descritta la dissezione di un corpo umano è Anathomia di Mondino de' Liuzzi, del 1316. Al di là dei miti della storiografia, rimane comunque il fatto che dal Quattrocento in poi la pratica della dissezione divenne molto più frequente, forse, come è stato ipotizzato, per l'influenza di ambienti di giuristi come quello bolognese. La riscoperta dei classici, inoltre, portò sicuramente a una maggiore quantità di informazioni sul corpo, e le divergenze tra autori costituirono una spinta all'esplorazione, alla verifica diretta. Fino al 15° secolo, tuttavia, il corpo fu 'letto', prima che visto. La dissezione, infatti, veniva tradizionalmente eseguita da più persone: un barbiere, figura che per secoli ha spesso sostituito il medico nella pratica chirurgica, con il compito di aprire materialmente il cadavere; un assistente del medico, l'ostensore, che indicava con una bacchetta i vari organi; e in alto, su una pedana, finalmente il medico, che leggeva e commentava i testi classici di anatomia, per lo più di Galeno. Dunque, la dissezione veniva ormai praticata, ma si continuava a vedere soltanto ciò che si voleva vedere. È noto, per es., come in queste esperienze non venissero trovati i fori tra il ventricolo destro e quello sinistro del cuore, appunto perché non esistono, ma nessuno mise seriamente in dubbio il fatto che dovessero esistere, ben nascosti, in quanto così aveva affermato Galeno. Altre volte si arrivava addirittura a 'vedere' qualcosa che non c'era, perché un'autorità ne aveva dichiarato l'esistenza. Cade in questo errore perfino l'antitradizionalista Vesalio, uno dei fondatori dell'anatomia moderna, quando sostiene la presenza, alla base del cervello, di una rete di vasi sanguigni (la 'rete mirabile'), mentre negli uomini non esiste in realtà alcuna struttura del genere. Lo stesso Vesalio raffigura gli organi femminili come varianti degli organi maschili, rifacendosi a una tradizione che risaliva nel tempo fino ad Aristotele. Ma le sue immagini, sia della Fabrica che delle Tabulae sex, "non sono né il puro e semplice risultato di determinate convenzioni rappresentative, né il frutto di un errore. È tutta una concezione del mondo che fa apparire la vagina come un pene agli osservatori rinascimentali" (Laqueur 1990, trad. it., p. 107). Il problema non consiste soltanto nel vedere o non vedere qualcosa, ma nel 'voler' vedere, nel come si guarda. "Era l'ideologia, e non la precisione delle osservazioni, a determinare in qual modo venivano visti, e quali differenze contavano e quali no" (p. 117). Il Rinascimento È importante sottolineare che la maniera di intendere il corpo nel Rinascimento è strettamente intrecciata alle complesse teorie mediche e fisiologiche proprie dell'epoca, sia nelle versioni dotte sia in quelle diffuse in ambito popolare. Si tratta di una concezione legata a un certo tipo di ordine politico e culturale, che esclude di fatto ogni possibilità di contatto logico con l'esperienza e qualsiasi verifica. I primi disegni anatomici sono un chiaro esempio di una medicina che non si interessa alla topografia degli organi, ma che guarda al corpo umano come a una parte del complesso sistema dell'universo. Come già accennato, non c'è da meravigliarsi del fatto che il maggior numero di testi di astrologia fosse all'epoca pubblicato dalle facoltà di medicina; gli studi astrologici costituivano, infatti, parte integrante e importante del curriculum dei medici. Se per il barbiere si trattava soltanto di una tecnica per sapere, dopo aver consultato un almanacco, in che giorno e in che ora fosse più opportuno effettuare un salasso, il medico seguiva ragionamenti molto più complessi ed elaborava spesso egli stesso gli oroscopi dei pazienti, avvalendosi di tavole astronomiche e di strumenti come l'astrolabio. Così, proprio da una pratica, che oggi ci appare del tutto estranea all'ambito scientifico, viene il primo approccio all'osservazione, al calcolo, alla misurazione e all'uso di mezzi tecnici. Il mutamento di mentalità tra l'universo magico del Rinascimento e l'orientamento quantitativo della rivoluzione scientifica, ovvero il passaggio dal mondo dell'indefinito a un mondo in cui tutto deve essere misurato, è in verità molto più graduale rispetto a quanto si sia pensato per molto tempo. La riscoperta di Platone e dell'importanza dei numeri, e il sapere magico-esoterico e cabalistico giocano un ruolo, a lungo sottovalutato, nel grande cambiamento che si verifica nella realtà e nel modo della conoscenza. Per tornare alle prime rappresentazioni propriamente anatomiche, bisogna ricordare che la prospettiva nei disegni del corpo è, fino al secondo decennio del Cinquecento, completamente inesistente. Le rappresentazioni del corpo umano sono abbastanza rare, e spesso le si trova in collezioni dove prevalgono le immagini di animali e di piante, come nel Fasciculus medicinae del medico tedesco Giovanni di Ketham, pubblicato a Venezia nel 1491. Nel Philosophiae naturalis compendium, edito a Lipsia nel 1499, il filosofo Johannes Peyligk rappresenta il corpo completo di cuore, stomaco, fegato, vescica e organi genitali. Magnus Hundt, professore a Lipsia, vi aggiunge due anni dopo le immagini del cervello, con i ventricoli collegati agli organi della vista, dell'udito, del gusto e dell'olfatto. La raffigurazione ricorrente dell'uomo è ancora, sempre, quella dell'uomo-zodiaco, con le membra che simboleggiano le costellazioni, come si può notare, per es., nelle illustrazioni della Anathomia di Mondino de' Liuzzi (1316). Il primo disegno anatomico che faccia ricorso alla prospettiva è del 1517, e appare nel libro di medicina popolare, Spiegel der Artzny, di Lorenz Fries pubblicato a Strasburgo l'anno successivo (Binet 1980, p. 34). È l'inizio di un cambiamento importante dello sguardo sul corpo; ne sono principali protagonisti gli artisti del Rinascimento, primo tra tutti Leonardo da Vinci. Le sue 228 tavole anatomiche sono frutto di più di trenta dissezioni compiute personalmente su "mascoli e femmine d'ogni età", in ospedali di Firenze, Milano e Roma: 50 di queste tavole sono dedicate al cuore, 27 al torace o all'addome, 31 agli organi genitali, 42 ai nervi e ai vasi sanguigni, 32 a varie positure del corpo, 13 alla fisionomia (la maggior parte di questi disegni appartiene oggi alla collezione della Royal Library di Windsor). L'apporto scientifico del lavoro di Leonardo è innegabile: l'artista disegna le vene polmonari, rappresenta in maniera esatta i ventricoli cerebrali e le strutture cardiache, scopre e descrive le sinergie e il tono dei muscoli, ripensati in termini meccanici. Leonardo fu un vero precursore. Egli non si limita semplicemente a illustrare le forme del corpo, si interroga anche sulle funzioni degli organi. La forma gli interessa solo marginalmente, il suo non è lo sguardo del pittore ma dello scienziato che vuole comprendere il funzionamento del corpo, che immagina simile a quello di una macchina, regolato da leggi meccaniche. Una concezione che più tardi Cartesio svilupperà e teorizzerà, portandola alle estreme conseguenze, fino al principio dell'uomo-macchina. Se lo sguardo di Leonardo per i suoi disegni anatomici non è quello del pittore, è proprio il suo essere pittore e grande artista che gli consente di esprimersi facendo del disegno il linguaggio di una conoscenza precisa. Dopo di lui, Michelangelo, Raffaello, Dürer e numerosi altri artisti rinascimentali studieranno il corpo umano, spesso compiendo personalmente dissezioni di cadaveri. Il dato anatomico è spesso iperbolizzato dagli artisti, che ormai osservano l'uomo e la sua posizione nel mondo dal punto di vista della sua fisicità. Contemporaneamente i medici, come per es. Alessandro Benedetti, autore di Anatomiae sive historiae corporis humani libri quinque (l493) e fondatore della scuola di anatomia a Padova, riscoprivano le fonti greche anche per questa disciplina, nella consapevolezza che, risalendo alle definizioni originarie, si potessero risolvere molti quesiti, come quelli legati alla terminologia anatomica latina e araba. In molte università, come a Bologna, si era intanto arrivati a ottenere dalle autorità il monopolio delle dissezioni. La medicina come scienza cominciava a basarsi sempre di più sull'anatomia, e le dissezioni pubbliche servivano appunto a sottolineare l'utilità di questa pratica, rendendo espliciti, al contempo, tanto il sapere quanto il potere politico dei medici universitari. Fu Andrea Vesalio, giovane medico belga formatosi nell'università patavina, il primo che, sulla strada aperta dagli artisti, osò contestare in modo vigoroso e palese l'autorità di Galeno, affermando che il maestro probabilmente non aveva mai esplorato un corpo umano, e che gran parte della sua anatomia derivava da quella delle scimmie. L'affermazione, portata alle estreme conseguenze, significava che tutte le descrizioni anatomiche di Galeno erano potenzialmente sbagliate e che l'anatomia doveva essere rifondata. Si ripartiva da zero. L'attacco di Vesalio fu spesso troppo acceso, troppo radicale, e nella foga della polemica egli svisò alcune osservazioni di Galeno; non c'è dubbio, tuttavia, che la pubblicazione del suo De humani corporis fabrica libri septem, nel 1543, rappresentò un punto di svolta per l'anatomia, che mai come in questo momento espresse una perfetta sovrapposizione di arte e di scienza. Vesalio dissezionava personalmente, come si può vedere dal frontespizio della Fabrica, firmato da Jan Stephan van Calkar, allievo di Tiziano. Tale frontespizio rappresenta verosimilmente la dissezione del cadavere di una donna, avvenuta a Lovanio sul finire del 1536: mano a mano che procede con i tagli, il giovane medico mostra agli studenti e al pubblico ciò che viene evidenziando. Con Vesalio quasi ogni parte del corpo ha una sua iconografia, che non è più rappresentazione di maniera "ma espressione obiettiva, intelligente e critica del dato morfologico" (Premuda 1957, p. 40). È dunque una vera e propria concezione dell'uomo quella che egli illustra. Scrive G. Canguilhem: "Gli scheletri e gli scorticati della Fabrica si disegnano come in filigrana nell'immagine nostalgica e al tempo stesso profetica che l'uomo continua a formare di sé stesso, anche quando non gli è più possibile credere quello che pensava Vesalio, ch'egli è l'opera più perfetta del Summus rerum opifex, anche quando deve seguire la sua ragione negli spazi di un universo senza ormeggi" (da Binet 1980, p. 29). Poiché il corpo sul tavolo della dissezione ormai non corrispondeva più a quello descritto da Galeno e dagli antichi, si sostenne paradossalmente che la volontà divina dovesse aver cambiato l'anatomia. Lo affermò, tra gli altri, perfino William Harvey, la cui scoperta della circolazione del sangue segnò, come vedremo, una vera e propria rivoluzione della biologia. L'atteggiamento dello studioso inglese conferma ancora una volta che la deferenza per gli antichi non si metteva facilmente in dubbio, né si incrinavano agevolmente i dogmi. Con le tavole di Vesalio si chiude l'epoca della composizione xilografica e si passa a un procedimento tecnico più complesso, ma di maggiore efficacia: l'incisione su metallo o calcografia. Il primo a servirsene è il ferrarese Giambattista Canano, amico di Vesalio, scopritore del muscolo corto palmare e delle valvole delle vene, nel suo Musculorum humani corporis picturata dissectio (1543?). Alla fine del secolo, Girolamo Fabrici d'Acquapendente, professore a Padova, si rese conto che Vesalio, con il suo rifiuto troppo radicale di Galeno, si era limitato alla morfologia, alla storia delle parti del corpo. Egli sosteneva che la conoscenza vera di un organo si ha soltanto quando si chiarisce la funzione di quell'organo e di quell'apparato, e per ottenere una resa migliore, più realistica, fece colorare i suoi disegni anatomici, le famose Tabulae anatomicae dipinctae: trecento pitture a olio che costituiscono un vero e proprio atlante del corpo. Un solo trattato di anatomia si distacca nettamente dall'influenza vesaliana nel 16° secolo, quello di Bartolomeo Eustachio. Nelle Tabulae anatomicae (che, rimaste inedite per un secolo e mezzo, furono pubblicate da G.M. Lancisi nel 1714) Eustachio presenta gli organi non più separatamente, ma come un insieme; ciascuna tavola si lega alla successiva, lo studio è passato dalla morfologia alle funzioni. Le ossa, per es., non sono più rappresentate come strutture autonome, ma come elementi dell'intero corpo, parte integrante della sua struttura. Il loro meccanismo si comprende meglio se esaminato insieme a quello di tutti gli altri organi. Nelle Tabulae anatomicae di Eustachio appaiono per la prima volta delle scale numeriche graduate che indicano la misura delle ossa. Siamo lontani da quella tradizione arcaica, di cui si trovano tracce anche nella Bibbia, che vedeva nelle ossa ‒ simbolicamente, ma poi anche in senso più materiale ‒ la sede dell'anima immortale. Se l'osservazione si trasferisce dal tavolo anatomico ai libri, nelle parole e nei disegni, la rappresentazione pittorica ha la meglio. Grazie alla prospettiva, "l'immagine permette una formulazione più chiara e più completa delle conquiste della mano e dell'occhio [...] ella deve al suo valore artistico buona parte della sua efficacia didattica" (Binet 1980, p. 30). Le figure anatomiche vengono copiate e riprodotte per più di due secoli. Quelle di Vesalio e di Eustachio saranno pubblicate nella Encyclopédie di Diderot e D'Alembert. Un'altra frattura epistemologica rispetto al sistema galenico-ippocratico si ha, all'inizio del Cinquecento, con l'opera di uno svizzero tedesco, Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, meglio conosciuto con il soprannome che egli stesso si diede, Paracelso. Medico di minatori (si deve a lui il primo trattato di medicina sociale), Paracelso insegnò e praticò in tutta Europa. Spirito anticonformista e costantemente in opposizione verso le istituzioni ufficiali della medicina, bruciò in pubblico i testi di Galeno e contestò 'in toto' l'impostazione classica, anche se poi nel suo insegnamento ne recuperò molti tratti. A lui si deve l'introduzione di prodotti minerali e derivati per curare le malattie. Da buon alchimista, aveva messo a punto diversi procedimenti per distillare e raffinare; si può dire che con lui abbia inizio la chimica farmaceutica. Sosteneva inoltre che il simile si dovesse curare con il simile e, per questo, qualcuno ha voluto vedere in lui il fondatore dell'omeopatia. La sua concezione del corpo è ancora fortemente legata a quella del 'microcosmo', nell'idea della universale affinità: considera gli esseri viventi come una parte del Tutto che è presente in essi con energie e sostanze. Il corpo contiene in piccola misura 'i metalli, le terre, gli spiriti' e ogni altro elemento che si trova nel 'macrocosmo'. Questi elementi sono in equilibrio e bene integrati fra loro; quando si verifica uno squilibrio subentra la malattia. I vari organi sono immaginati da Paracelso come degli alambicchi per distillazione e hanno la funzione di separare i fluidi positivi da quelli negativi. Paracelso riteneva poi che il corpo umano, e i suoi prodotti e derivati (escrementi, sudore, cerume, sperma, urina ecc.), possedessero proprietà medicamentose. Non si tratta, per quanto oggi possa sorprendere, di una credenza inusuale a quel tempo, né di una novità, se si considera che già gli egizi avevano riconosciuto queste qualità e che durante il Medioevo si raccoglievano i liquidi trasudanti dai cadaveri. L'idea che la carne umana possedesse proprietà terapeutiche è stata profondamente radicata nel sapere popolare per molti secoli. È una di quelle credenze approdate dal campo della magia o del folclore alla medicina colta. Non dimentichiamo che fino al secolo scorso la medicina scientifica era soltanto una piccola parte dell'arte di curare. Il 'mercato' cui ci si poteva rivolgere era popolato da guaritori d'ogni genere, da maghi, da ciarlatani, da imbonitori e raccoglitori d'erbe, e spesso le prime cure venivano somministrate in famiglia. Soltanto nell'Ottocento, e peraltro molto gradualmente, sparirà dal sapere medico l'idea dei poteri terapeutici della carne umana, in conseguenza della scoperta dei batteri quali vettori di malattie, della nascita della chimica moderna che produce farmacie, e infine, del diffondersi di una nuova concezione della morbilità. Il Seicento Uomo ancora completamente permeato dello spirito rinascimentale, Paracelso riassume nella sua speculazione molte delle contraddizioni dei secoli precedenti, ma è uno dei primi a operare una rottura con il sapere costituito e indiscutibile, e mostra anche intuizioni geniali, come quella dell'uso dei minerali, che entreranno a far parte del bagaglio della medicina moderna. Ma bisognerà aspettare il 1628, anno in cui viene pubblicato a Francoforte, da un medico inglese che aveva studiato in Italia, un libriccino di una settantina di pagine e poche immagini, per vedere completamente rivoluzionata l'idea del corpo e del suo funzionamento. Si tratta della Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus di William Harvey, in cui si dimostra, con un ragionamento quantitativo abbastanza semplice, la circolazione del sangue. Fino a quel momento si pensava che il sangue fosse prodotto in continuazione dal fegato e venisse espulso dal corpo con l'evaporazione, le urine e le feci. Harvey, facendo un calcolo con cifre volutamente in difetto, dimostra che la quantità di sangue che il cuore spinge nell'aorta in mezz'ora è superiore di molto alla quantità complessiva di sangue presente nel corpo dell'uomo, superiore persino al suo peso corporeo. Di conseguenza, non può che essere sempre lo stesso sangue che circola in un sistema chiuso: una scoperta di enorme importanza per la storia della medicina, per le scienze della vita in generale, e per la concezione stessa del corpo umano. Il risultato cui Harvey giunse, dopo migliaia di dissezioni e vivisezioni compiute a verifica di una sua ipotesi, ne fa uno dei protagonisti indiscussi di quella rivoluzione scientifica che pone le fondamenta di tutto il nostro sapere attuale, in definitiva del nostro stesso modo di pensare e, nel caso specifico, di immaginare il corpo dell'uomo. Sulle pratiche terapeutiche della medicina, tuttavia, la scoperta della circolazione del sangue non ebbe una ripercussione immediata, e ciò non deve stupire, perché il cambiamento dei metodi di cura è molto più lento della conoscenza scientifica. Prima di Harvey era nota l'esistenza dei sistemi arterioso e venoso e si conoscevano le valvole delle vene, ma se ne ignorava il ruolo. L'arabo Ibn an-Nafis e lo spagnolo Miguel Serveto avevano individuato la circolazione polmonare, ma le loro scoperte erano troppo lontane da un'immagine del corpo ancora profondamente legata alla tradizione, né il loro ragionamento si avvaleva di termini quantitativi, di misure, o si basava sulla ripetibilità e misurabilità di un esperimento. Sarà il nuovo modo di affrontare un problema, saranno le nuove domande che si pongono alla natura, a provocare il vero cambiamento. Il bolognese Marcello Malpighi, nel 1661, aggiunse un tassello importante alla teoria della circolazione con la identificazione dei capillari, che permettono il passaggio del sangue tra le arterie e le vene, mentre, pochi anni prima, il cremonese Gaspare Aselli aveva dimostrato l'esistenza dei vasi della circolazione linfatica, uno studio poi ampliato dal francese Jean Pecquet. La scoperta di Malpighi fu possibile grazie alla messa a punto di uno strumento, il microscopio, che modificava radicalmente la prospettiva e la conoscenza del corpo: dal corpo esterno si passava a quello interno. Per la prima volta si potevano vedere le immagini dell'estremamente piccolo di cui è composto il vivente, il nostro vivente. Galileo aveva già osservato degli insetti invertendo alcune lenti del suo cannocchiale astronomico; in seguito, tra il 17° e il 18° secolo, la messa a punto di veri e propri microscopi e la loro abile utilizzazione da parte di Antony van Leeuwenhoek in Olanda e di Robert Hooke in Inghilterra, fra gli altri, permisero l'individuazione di minuscoli 'animali' presenti nei liquidi organici e fecero scorgere negli organismi viventi delle strutture a forma di alveoli che vennero chiamati 'cellule'. Più o meno nello stesso periodo, Giovanni Alfonso Borelli proseguiva gli studi di un medico istriano, Santorio Santorio, che aveva analizzato il comportamento della macchina del corpo, compiendo continue misure del proprio peso in diversi momenti della giornata. La rappresentazione del corpo, per Borelli e per tutta la scuola chiamata in seguito 'iatrofisica', è assolutamente meccanica. Il corpo e i suoi muscoli sono immaginati come una serie di leve, di snodi, di pulegge; è tutto perfettamente calcolabile e prevedibile. I trattati anatomici del Seicento contengono moltissime immagini del sistema circolatorio, e vi sono rappresentati, con dovizia di particolari, le vie del sangue e della linfa e il sistema nervoso. La tendenza ‒ e le immagini ne sono una conferma diretta ‒ è quella di concepire il corpo, e i fenomeni biologici più in generale, come modelli di tipo meccanico. Le leggi della fisica regolano tutte le funzioni vitali. Forti analogie tra il vivente e la meccanica erano già apparse nell'opera di Vesalio, come suggerisce lo stesso titolo De humani corporis fabrica; con François Rabelais, che era medico, l'anatomia si era colorata di metafore di tipo meccanico, con l'uso di termini come filtri, presse, corde, pulegge (Grmek 1990, p. 119); ma soltanto una radicale trasformazione della mentalità e una rivoluzione della fisica produrranno una teoria meccanicistica dell'uomo fondata su basi scientifiche. La scoperta delle leggi della meccanica, gli esperimenti quantitativi, l'uso del microscopio e la ideazione di nuove macchine indussero a credere che tutti i fenomeni materiali, il funzionamento del corpo dell'uomo incluso, potessero essere descritti e spiegati in termini di proprietà fisiche, di strutture e di movimenti (Grmek 1990, p. 122). Nel Seicento vennero costruite macchine la cui caratteristica principale era che la parte che comandava il movimento era separata da quella che forniva la forza, e vennero realizzati anche automi dall'aspetto umano o animale, come quelli dei Giardini Reali di Saint-Germain-en-Laye in Francia. Forse ‒ suggerisce M. Grmek ‒ fu proprio osservando queste figure che al giovane Cartesio venne l'idea dell'animale-macchina, e fu certamente Cartesio che elaborò una dottrina completa degli esseri viventi, tra cui l'uomo, come macchine. Egli cercò infatti di spiegare tutte le funzioni del corpo umano attraverso semplici leggi meccaniche: se, come si è detto, la fisica di Aristotele si può ridurre a una biologia, analogamente la concezione della vita di Cartesio equivale a una fisica che non contiene più la nozione stessa di vivente. La fisica cartesiana si fonda sul principio di inerzia, in base al quale ciascuna cosa rimane nello stato in cui è, fintanto che qualcosa non la cambi (Principia philosophiae, 1644; ed. 1953, p. 676). Ne deriva una concezione meccanica dell'uomo, che però instaura, come abbiamo già accennato, anche un dualismo tra le due sostanze esistenti: la materia e il pensiero (che è proprietà dell'anima e risiede nel cervello). "Due sostanze, ma anche due mondi che ci si sforza di far comunicare o di mantenere in un certo parallelismo. Molto più tardi ci si sforzerà di ricondurre questo dualismo a un monismo, riportando il mondo del pensiero a un funzionamento di tipo meccanico o a un prodotto di un tale funzionamento" (Pichot 1993, p. 388). Questa concezione, condivisa da Jean-Baptiste de Lamarck all'inizio dell'Ottocento, diventerà successivamente un luogo comune per i neurofisiologi contemporanei. Tra le conseguenze dell'idea cartesiana dell'uomo-macchina, vi è anche l'applicazione di alcune tecniche artigianali al corpo umano, come quelle dei sarti o dei pellicciai, che suggeriscono ai chirurghi come ricucire, per es., pelle e intestini. Le rappresentazioni del corpo risentono evidentemente della nuove teorie e conoscenze. Ne è un esempio l'opera di Charles Le Brun, massimo rappresentante del classicismo accademico francese del 17° secolo, favorito da Jean-Baptiste Colbert e primo tra i pittori della corte di Luigi XIV, il quale tenta di individuare le relazioni tra i visi dei personaggi che dipinge e il loro spirito, cercando sul volto, per analogia con maschere di animali, i segni evidenti di vizi o virtù. Non basta più rappresentare le ramificazioni interne dei vasi del corpo, è necessario rendere percepibile la dinamica di questa struttura. Le Brun ‒ come è stato scritto ‒ trasferisce sul piano estetico le idee di Harvey (Binet 1980, p. 85). La nuova concezione del corpo sottolinea anche l'originalità della struttura di ciascun organo. Vengono individuate le cellule, ma la nozione di cellula come componente base dell'organismo si affermerà soltanto nell'Ottocento. L'individualità degli organi viene evidenziata, tra il 17° e il 18° secolo, dal medico olandese Fredrik Ruysch, con le sue preparazioni anatomiche ottenute iniettando un liquido caldo e colorato nelle vene dei cadaveri, e da van Leeuwenhoek, che, osservando i vari tipi di liquido corporeo, scopre e disegna i globuli rossi del sangue e gli spermatozoi. L'interesse per il tessuto di cui sono composti gli organi appare evidente nelle tavole del libro Anatomia humani corporis (1685) dell'olandese Govert Bidloo. Sparite le pose e i gesti, viene messa in risalto soltanto la struttura degli organi, presentati nel modo più efficace all'osservazione. Non c'è più ambientazione del disegno, sono scomparsi i paesaggi e gli sfondi, vediamo soltanto una linea per definire lo spazio, una corda, degli spilli che sostengono la preparazione anatomica. Il chirurgo inglese William Cheselden, studioso di anatomia ed esperto di dissezione, nel suo Osteographia, or the anatomy of the bones (1733) offre una vera e propria analisi per immagini della struttura del tessuto osseo. Anche il disegno dei muscoli cambia: mentre prima ci si limitava a illustrare la loro topografia e le inserzioni con le ossa, ora si rappresenta una vera meccanica muscolare. Ne è un esempio emblematico l'Anatomia per uso e intelligenzia del designo di Bernardino Genga, pubblicato a Roma nel 1697. "Ai muscoli inerti visti su uno scorticato, Genga sostituisce i muscoli considerati nella loro funzione; dalla chirurgia è passato alla fisiologia" (Binet 1980, p. 89). Nel 16° e 17° secolo, i migliori artisti collaborarono con gli scienziati, talvolta addirittura anticipando l'osservazione del corpo, e producendo splendide rappresentazioni anatomiche a uso dei trattati scientifici. Il nuovo sguardo sull'uomo influì anche sull'arte. Nel Seicento, la sensibilità verso il corpo si tinge del senso del peccato e della colpa, proprio del cattolicesimo controriformista, e si traduce in figure dalla forte sensualità, in cui ricompare tutta l'ambiguità della carne, della morte, del sesso: la rappresentazione artistica è conoscenza scientifica del corpo e tensione religiosa. Si ricercano effetti pittorici che parlino all'immaginazione, e si mira a destare reazioni di stupore e meraviglia. L'ossessione per la morte, nell'arte barocca, si sviluppa e si alimenta delle successive rivelazioni del corpo che vengono dalla scienza anatomica in pieno sviluppo. "Le immagini del nostro corpo analizzato dalla dissezione sono un modo sicuro per penetrare nel cuore del fantastico" (Binet 1980, p. 92): l'anatomia artistica e quella medica si ispirano mutualmente. Il Settecento La moda dell'anatomia e la relativa carenza di corpi umani disponibili per la dissezione, provocarono la ricerca di nuovi metodi per conservare i cadaveri e i singoli organi, e per mettere in evidenza le varie strutture del corpo, come l'apparato delle vene e dei nervi. Tra i diversi metodi tentati per non far deperire la carne, ci fu quello di immergere i corpi nel brandy, che però venne presto abbandonato. Una certa diffusione ottenne invece il metodo che consisteva nell'iniettare particolari liquidi nelle vene. Verso la fine del Seicento comparve in Italia un'arte, quella delle cere anatomiche, probabilmente derivata dall'esperienza degli artigiani nel realizzare ex voto e che per molti anni sarà al centro della rappresentazione del corpo: un esempio a volte conturbante dei rapporti e della mutua ispirazione fra arte e scienza. Uno dei maestri di quest'arte fu, a metà Seicento, l'abate siciliano Gaetano GiulioZumbo, enigmatica, misteriosa figura, vero e proprio inventore di una tecnica raffinata per produrre cere colorate. Invitato da Cosimo III dei Medici, visse per alcuni anni a Firenze dedicandosi alla realizzazione di piccoli teatri in cera, in cui rappresentava, con dovizia di dettagli e crudo realismo, la decomposizione dei corpi. Sembra che sia stato lui il primo a costruire delle teste anatomiche in cera, modellate direttamente sul cadavere. Le cere, di uno straordinario realismo, servivano in principio soprattutto all'insegnamento dell'anatomia, della chirurgia e, alla fine del Settecento, dell'ostetricia, che cominciava a svilupparsi in quegli anni. La grande fortuna della ceroplastica, perdurante fino alla metà dell'Ottocento, coincise con una fase importante del rinnovamento della medicina e della chirurgia, ossia con l'istituzione, in Francia, delle Écoles de Santé, dove le due discipline finalmente convergevano. I modelli in cera divennero un fenomeno di moda: famose erano la collezione del granduca di Toscana Pietro Leopoldo e quella, da essa derivata, di Giuseppe II, imperatore d'Austria, che ordinò una copia dei più di mille esemplari raccolti dal fratello a Firenze e se li fece trasportare a Vienna. La moda dell'anatomia artificiale deve molto al Museo della Specola di Firenze, inaugurato nel 1775 dal granduca e affidato al naturalista Felice Fontana. Questi progettò e fece realizzare una raccolta completa di cere anatomiche, a grandezza naturale, che testimoniavano tutte le conoscenze dell'epoca sul corpo umano. La collezione comprendeva modelli di corpi, di singoli organi, di particolari, di varie membra smontabili; non mancava una messa in scena accurata del corpo anatomizzato, con un'ambientazione e orpelli di gusto enfatico, scenografico: teste abbandonate su cuscini di seta, corpi scorticati stesi su divani in pose languide. Viene alla mente una delle ultime opere di Bernini, la statua della beata Ludovica Albertoni nella chiesa di S. Francesco a Ripa, a Roma, che raffigura una donna agonizzante, in un turbinio di drappi di marmo. Con le figure in cera, l'esplorazione del corpo umano e il dialogo tra arte e scienza raggiungono certamente uno dei punti più alti. Alla fine del Settecento, le cere anatomiche traducono in modelli a più dimensioni i trattati di anatomia. "Si trattava, probabilmente sia per lo scienziato che per l'artista, di confezionare un modello eternamente trasmissibile del corpo umano, un modello completo che mostrasse tutta la meravigliosa costruzione della macchina umana per lo scienziato, ma anche modello idealizzato, garante del bello e della perfezione, per l'artista, secondo la dottrina neoclassica che dominava a quell'epoca" (Lemire 1993, p. 78). Nel secolo dei Lumi, l'anatomia affascina, le lezioni universitarie assumono carattere di spettacolo pubblico, diventa di moda conservare preparati anatomici disseccati. Il corpo, tuttavia, continua a essere vissuto in maniera ambivalente, come mostrano i disegni di Jacques Gamelin (Recueil d'ostéologie et de myologie, 1779), dove i simboli di una religione austera si mescolano alla precisione anatomica: uno scheletro inginocchiato in preghiera, un altro in una festa mondana, corpi di scorticati crocifissi, e altri soggetti inquietanti (Lemire 1993, p. 75). Il Settecento è anche il secolo che vede la nascita dell'anatomia patologica con l'opera di Giambattista Morgagni. Il suo De sedibus et causis morborum, pubblicato nel 1761, è frutto di più di sessant'anni di esercizio della medicina a Padova e di centinaia di autopsie. Per la prima volta viene stabilito un legame, retrospettivo, tra le lesioni del cadavere e i sintomi clinici. Ma è curioso notare come lo stesso Morgagni, sicuramente un maestro nell'indagine sul cadavere e fondatore di una nuova disciplina, fosse ancora legato, come medico terapeuta, a credenze anacronistiche, obsolete. Fu Morgagni a prescrivere "bocconcino fatto di succino (ambra) e di cranio umano", 'polvere di castano', 'corno di cervo filosofico' e perfino, ma con qualche esitazione, 'sangue di topo', che pareva avesse "molta efficacia nell'impedire l'avanzamento delle scrofole ancora chiuse" (Camporesi 1994, p. 118). La rivoluzione dell'Ottocento Abbiamo visto come il Seicento, con la rivoluzione scientifica, abbia segnato una vera e propria frattura epistemologica con duemila anni di sapere medico: sicuramente la storia della medicina, almeno la storia della medicina vista come scienza, come teoria, si arricchisce, mentre molto più lento appare il cambiamento nella terapia. Dal Seicento in poi, l'immagine che l'uomo ha del suo corpo si specifica, si definisce, acquista sempre più le caratteristiche di una macchina. Più complesso diventa invece il discorso quando la rappresentazione che cerchiamo di mettere a fuoco si riferisce all'uomo 'interno'. Qui il processo di rivoluzione è molto più lento, il sapere popolare, la medicina tradizionale e le terapie che ne conseguono continuano ad avere un peso determinante. Anche i cambiamenti radicali che attraversano la medicina nell'Ottocento modificheranno soltanto lentamente la mentalità per tutto ciò che riguarda la 'fabrica dell'uomo'. Quando si infrange quella concezione del corpo i cui confini con il mondo vegetale e minerale sono incerti? Quando sparisce quella rappresentazione del corpo e della vita fantasiosa, carica di implicazioni magiche, che per millenni ha dominato nell'arte e nella letteratura? (Laqueur 1990, trad. it., p. 158). La risposta non è facile. Non basta la concezione dell'uomo-macchina di Cartesio, né la concezione del mondo matematizzato che lentamente va diffondendosi. Fino all'Ottocento, il regno minerale è visto come un continuum con i regni animale e vegetale; di conseguenza, permane la tendenza ad attribuire ai minerali alcune caratteristiche che più tardi verranno definite come proprie del vivente. L'interesse continua a essere focalizzato sull'essere umano vivente, piuttosto che sui problemi della vita in generale. È naturale che la stessa rappresentazione dell'uomo ne sia condizionata. Fra la fine del Settecento e l'inizio del nuovo secolo l'intero panorama culturale è in rapida evoluzione: la Rivoluzione francese e il diffondersi dell'industrializzazione, almeno nei Paesi europei, aprono uno scenario inedito che condiziona anche la ricerca scientifica e la medicina. L'uomo conquista un ruolo e diritti prima impensabili (anche se a volte meramente teorici) e la natura stessa viene guardata con occhi diversi, quale conseguenza, tra l'altro, dei grandi viaggi di esplorazione in ogni parte del mondo, fin nelle contrade più remote, e della scoperta e del confronto-scontro, spesso cruento, con etnie e culture differenti. Sono questi gli anni in cui si afferma definitivamente la borghesia, con il suo alto concetto di sé, con le sue sicurezze e i suoi eccessi. Si sono consolidati i primi Stati nazionali, soprattutto Francia e Inghilterra, e la rivoluzione industriale, introducendo un nuovo modo di produzione, avvia una trasformazione radicale delle società occidentali. La filosofia e la storia naturale, che fino a questo momento hanno rappresentato 'in toto' il campo del sapere, tendono a distinguersi sempre più e ad articolarsi in nuove forme disciplinari. Soprattutto le materie scientifiche si specializzano, si vanno configurando secondo uno statuto autonomo, ed è in atto un processo di professionalizzazione che porterà alla creazione di istituzioni pubbliche e private, al fine di promuovere e organizzare le ricerche. Cambiano la figura e il ruolo stesso dello scienziato, mentre inizia quella separazione fra cultura umanistica e cultura scientifica tuttora dominante. In questo quadro anche l'immagine del corpo non è esente da profondi mutamenti. L'organismo viene pensato non più come una macchina semplice, passiva, costituita da materia inerte, qual era inquadrabile nella fisica newtoniana, ma come una macchina dotata di una propria forza interna, che va al di là del calore innato e rappresenta un campo di risorse cui attingere. Partendo da queste premesse, si sperimentano le prime vaccinazioni e si consiglia da parte degli igienisti di ricorrere ai bagni freddi per restare in buona salute. La terapia tradizionale, risalendo almeno ad Ambroise Paré, chirurgo, a metà Cinquecento, dei reali di Francia, si avvaleva di bagni caldi, di oli ed essenze, per detergere il corpo e creare un involucro protettivo da infiltrazioni e corruzioni esterne. Il nuovo codice prospetta l'opposto, muovendo dall'idea di un corpo intrinsecamente dotato di energie nascoste, finora insospettate, che si risvegliano con l'immersione in acqua fredda. Questa stimola ed eccita gli organi interni che con le loro contrazioni producono energia e calore, rafforzando in tal modo il fisico. Siffatta rappresentazione si arricchisce e approfondisce con gli studi dei primi dell'Ottocento, che vedono nell'involucro esterno del corpo, nella pelle, un organo con funzioni respiratorie. La definizione e la concettualizzazione della termodinamica da parte di Sadi Carnot mettono a fuoco "l'immagine dell'energia collegata a quella di un organismo che brucia: quantità di lavoro e quantità di calore consumato dal corpo sarebbero equivalenti. Si apre così un nuovo orizzonte per la rappresentazione delle dinamiche organiche e anche, semplicemente, per la salute stessa" (Vigarello 1985, p. 185). Dall'immagine meccanica di un corpo composto di tiranti e pulegge, o paragonabile a un orologio (Cartesio), si passa al modello più complesso di un organismo che brucia, che consuma calore e possiede una sua energia specifica. Il riferimento analogico è ora alla macchina a vapore: il soffio della respirazione viene paragonato a quello di una locomotiva, il calore a quello dei combustibili di cui si serve l'industria (Vigarello 1993, p. 233). La forza e le risorse del corpo non sono più date dalla somma delle singole qualità materiali, ma dal funzionamento e dall'organizzazione complessiva dell'organismo. Si comincia a pensare in termini di calorie usate e scambiate, e al loro impiego che può essere misurato e calcolato. La salute stessa viene rapportata al rendimento complessivo di un motore, e non più al buono stato delle singole parti che lo compongono, ovvero gli organi. Il mutamento di prospettiva investe anche l'estetica e la moda dell'Età romantica nei nuovi canoni dell'esilità, della sottigliezza della vita, del risalto dato al petto, quali si disegnano anche nelle uniformi militari. Il ritratto del cavaliere fiorentino di Jean-Auguste-Dominique Ingres, del 1823, perfetta immagine di dandy, ne è un esempio significativo: "l'effetto del gilet accentuato dalle spalline ricorda la lenta presa di coscienza del nuovo ruolo dato alla respirazione. Il petto alimenta la vita, trasformando la ricchezza del sangue" (Vigarello 1993, p. 215). Il poeta inglese George Byron, in un suo viaggio in Italia nel 1807, si fece accompagnare da un medico personale che controllasse per lui dieta e attività motorie, e, identificando lo stato fisico ottimale con la magrezza, scriveva in una lettera: "Voi mi domandate notizie della mia salute. Sono di una snellezza accettabile che ottengo con l'esercizio e l'astinenza" (da Vigarello 1993, p. 216). I valori del corpo, il culto dell'aspetto esteriore e l'adeguamento al nuovo modello estetico si sostituiscono in parte ai requisiti del rango e della condizione sociale dell'aristocrazia, e vengono spesso identificati con la salute. Anche se Théophile Gautier sosteneva che l'uomo di genio dovesse essere opulento, per alcune élite "i valori della salute sono già mescolati a un affinarsi della silhouette [...]. Le turbolenze intime di questo inizio del XIX secolo aggiungono una tensione psicologica alle preoccupazioni sul corpo" (Vigarello 1993, p. 217). Ma, lasciando da parte la moda con tutte le sue implicazioni socioculturali, torniamo a temi più attinenti al nostro discorso scientifico. Nella cultura medica dell'Ottocento la concezione della vita subisce una serie di cambiamenti. Paradossalmente, è un diverso concetto di morte che sposta l'attenzione sulla vita, su una sua definizione, e consente lo svilupparsi di una 'scienza della vita'. E non è un caso che il termine biologia venga coniato, all'inizio del secolo, da Jean-Baptiste de Lamarck, contemporaneamente al tedesco Ludolf Christian Treviranus. La morte diventa specchio rivelatore della vita. L'anatomia patologica gioca la sua parte, le stesse malattie vengono riclassificate e le lesioni organiche dei cadaveri sostituiscono come fonte di conoscenza i sintomi del paziente vivo. È il francese Georges Cuvier, fondatore della paleontologia e dell'anatomia comparata, che comprende lo stretto rapporto esistente tra la vita e la morte, e ne fa la base per stabilire la correlazione tra le parti anatomiche, correlazione che diventerà in seguito principio fondamentale della zoologia. I rapporti concettuali tra la vita e la morte sono profondamente cambiati; la vita non è più immaginata come un accumulo di proprietà che resistono alla morte, ma piuttosto come una serie di connessioni: è l'ambiente che produce la vita, la vita che produce la malattia, e la malattia, infine, che produce la morte (Albury 1993, p. 257). Questo mutamento di concezione emerge in tutta evidenza alla fine del secolo. Con la scoperta dei batteri e la nascita della fisiologia, assistiamo a un vero e proprio ribaltamento: ciò che prima era considerato morte viene ora considerato vita, e viceversa. La stessa putrefazione, ritenuta uno dei segni classici della morte, viene descritta come "la moltiplicazione di microscopiche creature viventi" da Louis Pasteur, il quale più avanti aggiunge: "In breve, la vita appare in una nuova forma dopo la morte, e con nuove proprietà" (da Albury 1993, p. 258). La frenologia Un discorso a parte merita la frenologia. All'inizio del secolo, a Parigi, il tedesco Franz Joseph Gall elaborò una teoria che postulava un parallelismo fra la conformazione del cranio e le attitudini intellettuali. Egli esaminò i crani delle statue di uomini famosi e quelli di alcuni suoi contemporanei e ne dedusse che a una certa morfologia della teca cranica corrispondeva lo spirito matematico, a un'altra quello musicale, a un'altra ancora il tipo degli scrittori o quello dei pittori. La teoria di Gall, che egli chiamò 'organologia' ma che si diffonderà poi con il nome di 'frenologia', fu esposta per la prima volta pubblicamente in una lettera del 1798 indirizzata al barone von Retzer e apparsa nel Neue Deutsche Merkur di Wieland, in cui il medico dichiarava l'intento di voler studiare l'uomo partendo dalle funzioni del cervello, perché in tal modo si sarebbero potuti risolvere molti misteri della natura umana. La sua dottrina si basa sul presupposto che le facoltà intellettuali e le qualità morali siano innate, e che a regolarle e manifestarle sia proprio la conformazione del cervello, che egli riteneva costituito da tanti organi specifici quante sono le funzioni primarie, e preposto quindi a ogni inclinazione e facoltà. È una teoria fondata in maniera evidente sulla localizzazione cerebrale delle funzioni psichiche; essa tuttavia non scaturiva da alcuna nuova scoperta nel settore anatomico o fisiologico, né dalla messa a punto di nuove tecniche, quanto piuttosto da un modo nuovo di considerare il cervello e la sua attività. Gall è in polemica con molti dei miti egualitari e le velleità pedagogiche del secolo dei Lumi: l'innato, per lui, ha un'importanza di gran lunga maggiore dell'acquisito. Le sue rappresentazioni del cervello, però, derivate da una lunga esperienza d'anatomista e dalla pratica di nuovi metodi di dissezione, sembrano talvolta porsi in contraddizione con la sua teoria. Mentre lo scienziato tedesco sostiene infatti che il cervello è una meravigliosa collezione di diversi apparecchi, ne suggerisce poi rappresentazioni in cui non si trova traccia alcuna di organi specifici preposti a particolari funzioni mentali. Fra il 1810 e il 1819, Gall pubblicò quattro imponenti volumi del trattato Anatomie et physiologie du système nerveux en général et du cerveau en particulier, i primi due in collaborazione con il discepolo Johann Cristoph Spurzheim. Accompagnava l'opera un atlante di cento tavole di illustrazioni, ove medicina e disegno si compenetrano, e la rappresentazione dei volti appare direttamente funzionale agli assunti dello scienziato. L'organologia, e in seguito la frenologia (che ne è un po' la presuntuosa semplificazione), suscitò un grande interesse intorno al 1830, per cadere successivamente in ogni sorta di esagerazioni. In Francia prima, poi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, paesi in cui la disciplina ebbe ampia diffusione, furono fondate innumerevoli società, scuole, case editrici e periodici, che adattavano le dottrine di Gall alle più diverse esigenze, e vi fu una cospicua produzione di busti e calchi, che spesso finirono come ornamenti delle case borghesi. La frenologia influenzò il campo artistico e in particolare la pittura di Théodore Géricault, nella inquietante galleria di ritratti di nevrotici, come l'alienata monomane del gioco o la monomane dell'invidia (v. fig. 1.194); ed è significativo che la Società frenologica di Parigi pubblicasse una rivista rivolta ad artisti, medici, filosofi e pedagoghi, in cui le riflessioni spaziavano dalle caratteristiche distintive di un artista fino all'analisi e alla critica frenologica della produzione estetica. Nel pensiero di Gall confluivano in qualche misura quelle che erano le concezioni della fisiognomia, che pretendeva di poter classificare e giudicare un individuo dai tratti somatici del volto, dalla gestualità e dalla conformazione del corpo. Un'antica tradizione, questa, che si può far risalire almeno al Cinquecento e di cui troviamo echi nel napoletano Giambattista Della Porta, drammaturgo e cultore di scienza, che nel De humana physiognomia (1586) tentò di cogliere i rapporti tra la realtà profonda della natura e le sue esterne manifestazioni, sottolineando nell'uomo il mutuo legame tra anima e corpo; o nel già citato Le Brun, o ancora in Johann Sigismund Elsholtz, che nella Anthropometria (1660) scriveva: "Tutto si basa su di un unico fondamento, conoscere la concordanza delle differenti parti del corpo fra di loro [...], e poi il fatto che il viso è come uno specchio, che riflette tutta l'armonia delle altre membra" (da Madlener 1993, p. 227). Nell'ambito di questa tendenza, alla fine del Settecento, un pastore protestante svizzero, appassionato di scienze occulte, Johann Kaspar Lavater, tentava di elaborare una teoria estetico-scientifica in cui il bello corrispondesse al buono e la verità al piacevole. Era un po' lo spirito del tempo, che coinvolgeva anche Wolfgang Goethe nel suo entusiasmo per le tracce del pensiero divino che si potevano distinguere nelle forme dello scheletro. Per tutto il Settecento le malattie furono spiegate ponendo più attenzione alle loro manifestazioni esteriori che alle loro cause, e fu elaborata una serie di sistemi interpretativi in tal senso. Dallo studio delle contrazioni muscolari lo svizzero Albrecht von Haller sviluppò la nozione di 'irritabilità', che venne ripresa e trasformata in 'incitabilità' dal medico scozzese John Brown. Secondo il rappresentante della scuola medica di Edimburgo, la vita deriva, in sostanza, da una serie di forze nervose che rispondono in maniera più o meno intensa a delle eccitazioni. Le malattie si sviluppano quando queste forze vengono perturbate, e sono divise in due grandi categorie: le 'asteniche' che possono essere combattute con stimolanti come l'alcol, e le 'steniche' che invece vanno curate con l'uso di sedativi come l'oppio. Il naturalista Petrus Camper, professore d'anatomia e di chirurgia all'Athenaeum di Amsterdam, nella sua Dissertation physique, pubblicata postuma nel 1791, cercò di dimostrare graficamente le differenti strutture fisiche riscontrabili fra razze diverse, usando il metodo dell'angolo facciale. Egli immaginò due linee ideali dalla radice del naso al meato auricolare e dall'osso frontale alla parte alta degli incisivi; in quest'angolo compreso fra zero e cento si potevano catalogare tutti gli animali, uomo compreso. Lo scienziato voleva individuare una specie di scala ideale della perfezione al cui vertice si situava, ovviamente, il modello delle statue greche. Un altro interprete significativo di questa tendenza a far coincidere interiorità e aspetto esteriore fu il fisiologo inglese Charles Bell, che nel suo Essay on the anatomy of expression in painting, pubblicato a Londra nel 1806, delinea un parallelismo fra i movimenti dell'anima e quelli dei muscoli. Il discorso medico trova la sua legittimità sia nel campo della 'metafora' artistica sia in quello dei sintomi: "Normalmente parliamo della paura che cola nelle arterie e 'gela' il sangue; la sensazione è naturalmente nei nervi, ma essendo la condizione delle arterie la condizione visibile della paura che invade le membra, l'immagine è veridica" (p. 165). Durante tutto l'Ottocento la frenologia esercitò comunque un'indubbia influenza sulle rappresentazioni del corpo: l'antropometria da un lato, soprattutto nell'ambito della criminologia, e l'antropologia dall'altro, pur cambiandone radicalmente i metodi, ne ripresero problematiche e ricerche. È il caso di Pierre-Paul Broca, autore di importanti lavori sulle localizzazioni cerebrali del linguaggio e di indagini etnografiche su celti, bretoni e arverni, il quale pose le basi sistematiche dell'antropologia come storia naturale dell'uomo, elaborando un metodo d'osservazione e di analisi, con sistemi di precisione, da utilizzare negli studi morfologici. Dalla psichiatria alle scienze naturali, la ricerca tendeva quindi alla classificazione, all'individuazione di quei 'segni' su cui poter fondare il sapere. A fine secolo, molti di questi orientamenti confluirono nell'opera di Cesare Lombroso, che dai tratti somatici pretese di desumere le attitudini criminali (L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza e alle discipline carcerarie, 1876). Una nuova concezione del vivente Per comprendere quella che abbiamo definito come una vera e propria rivoluzione del sapere, e per tentare di dare un significato ai rapporti fra arte e scienza, alle influenze reciproche, talvolta dirette, più spesso sotterranee, psicologiche, culturali, che entrano in gioco fra teorie scientifiche e rappresentazioni del corpo (con la medicina che svolge un ruolo ora apertamente scientifico, altre volte molto più ambiguo, come d'artigianato sociale), è necessario richiamare quella che abbiamo eletto a nostro punto di riferimento costante: la concezione del vivente. Le due grandi scuole di pensiero aristotelica e cartesiana non ponevano soluzione di continuità fra l'animato e l'inanimato e concepivano un mondo creato, in armonia, dove il tempo, il contingente, non avevano spazio. Con il 19° secolo il concetto di vivente viene completamente ridefinito, sulla base di un approccio scientifico sostanzialmente innovato. Lo sguardo sul corpo segue un percorso che si sposta progressivamente sempre più all'interno e in profondità: dal visibile del microscopio settecentesco si giunge a individuare negli esseri viventi una struttura che comprende e sottintende organi e funzioni e che si risolve nelle cellule, per passare successivamente, verso la fine del secolo, all'indagine sui cromosomi nel nucleo della cellula. Ai primi dell'Ottocento è ormai divenuto chiaro che non esiste una sola organizzazione del vivente, ma che ne esistono diverse, l'una nell'altra. Si rifiuta la concezione di un organismo come la somma delle proprietà di ciascun elemento ultimo che lo compone: la qualità propria di esso è l'intrecciarsi delle molecole in un tessuto. Il corpo, infatti, non può essere suddiviso all'infinito, e la caratteristica del vivente viene individuata nell'organizzazione, nelle relazioni che intercorrono all'interno di un essere nella sua totalità, attraverso la continuità dei tessuti. Ci si rende conto che, nonostante la diversità delle forme, gli stessi organi svolgono sempre le medesime funzioni; non è la forma che fornisce a un organo le sue proprietà, queste piuttosto gli derivano dalla specificità del tessuto che lo costituisce. Scrive il fisiologo Xavier Bichat nel Traité des membranes, pubblicato postumo nel 1816: "Basta la minima riflessione per comprendere che gli organi devono differire non soltanto per la maniera in cui la fibra che li compone è sistemata e intrecciata, ma anche per la natura di questa stessa fibra; che vi è fra di essi differenza di composizione come di tessuto" (da Jacob 1970, p. 127). È necessario dunque riferirsi a un sistema organizzativo per comprendere il ruolo di un organo, e al suo tessuto per comprenderne le qualità. L'attenzione si è spostata dalle forme all'organizzazione, e si cerca di individuare un minimo comun denominatore per tutto il vivente. Gli elementi costitutivi di un organismo non sono semplicemente messi insieme, ma intimamente integrati. "Solamente una volta ammessa la possibilità di tali relazioni ‒ scrive in tempi recenti il biologo F. Jacob ‒ fra un essere vivente e i suoi costituenti, acquista senso l'aspetto a forma di cellule, d'alveoli, di nidi d'ape, intravisto in certi tessuti dal XVII secolo". L'importanza della teoria cellulare, afferma ancora Jacob, è dovuta al fatto che offre una soluzione unica a due problemi apparentemente distinti: "Scomponendo gli esseri in cellule, dotate ciascuna di tutte le proprietà del vivente, essa fornisce alla loro riproduzione al tempo stesso un significato e un meccanismo" (p. 131). Lo studio degli esseri viventi ne esce profondamente trasformato. Dalla struttura visibile settecentesca si è passati all'indagine sull'organizzazione, e in questa bisogna distinguere la struttura, la funzione e l'ambiente. "Non c'è vivente se non nella misura in cui i valori di questi tre parametri restano in armonia. Ogni variazione di uno di essi influisce sull'insieme dell'organismo che reagisce modificando gli altri" (p. 143). Il riferimento non è più alla 'scala naturae', alla catena ininterrotta degli esseri viventi, ma ad alcuni grandi gruppi d'organizzazione. Si scopre inoltre che gli organi più importanti sono collocati sempre all'interno, nelle parti più recondite dell'organismo, mentre in superficie ci sono soltanto organi accessori. Esiste quindi anche un'organizzazione nello spazio, e le molteplici trasformazioni che avvengono in un organismo nel corso dell'ontogenesi fanno ipotizzare per la prima volta anche un'organizzazione nel tempo. Sono le premesse indispensabili per lo sviluppo di una teoria dell'evoluzione. L'origine delle specie Con la pubblicazione di On the origin of species di Charles Darwin, nel 1859, vengono messe in discussione alcune delle credenze di fondo dell'epoca e alcuni capisaldi del pensiero dominante da almeno duemila anni. Dopo la frattura epistemologica della rivoluzione scientifica del Seicento, si attua ora la seconda rottura con un sapere che postula il principio della creazione individuale di ciascuna specie e colloca l'uomo al centro dell'universo, quale essere a sé, privilegiato rispetto al mondo animale. Per Darwin gli organismi viventi, uomo compreso, discendono in tutte le loro forme da un antenato comune. La stessa idea di progresso e di perfezionamento continuo della natura viene messa in crisi dalle sue teorie, poiché il processo evolutivo introduce nel discorso scientifico i concetti di caso, di probabilità, di unicità: l'evoluzione non conduce necessariamente a un progredire delle specie. Darwin applica la nozione di contingente al vivente, un vivente che non partecipa più dell'armonia immutabile dell'universo. Tali assunti erano sufficienti a incrinare molti dei cardini più radicati del pensiero occidentale. Secondo il biologo E. Mayr (1982), dalle teorie di Darwin discendono varie implicazioni: l'improponibilità di una visione statica dell'universo, l'insostenibilità della teoria creazionista, la possibilità di spiegare il 'disegno' del mondo in termini di processo materialistico, la necessità di rifiutare una teleologia cosmica e l'antropocentrismo, infine, l'urgenza di sostituire un modo di pensare per popolazioni alla concezione essenzialista. Quest'ultima conseguenza è particolarmente importante per il nostro discorso: non ci si riferisce più a un modello ideale di uomo ma a un gruppo, a una popolazione composta di individui. Assume dunque risalto il singolo uomo piuttosto che la sua essenza platonica. La diffusione delle teorie di Darwin e il contemporaneo sviluppo delle scienze naturali, la rivoluzionaria concezione dell'uomo e l'immaginario che ne conseguì, modificarono i rapporti fra arte e scienza e portarono a nuove esigenze estetiche. Proprio dalla scienza, con il tramite della tecnica, nasceva nella prima metà del 19° secolo la fotografia, che condizionò fortemente l'arte, fino allora depositaria del monopolio della rappresentazione del mondo, sia nelle forme più sublimate della godibilità estetica, sia nelle diramazioni più tecniche del disegno scientifico. Interpretando la nuova coscienza del reale, l'arte si volge ora alla natura con obiettività inconsueta, reagisce al soggettivismo e adotta il criterio della 'impassibilità' e 'impersonalità' dell'osservazione e della descrizione. Il positivismo, l'esattezza scientifica, la riproduzione fedele dei fenomeni paiono aver trovato nella fotografia un proprio mezzo ideale di espressione. Lo stesso Darwin per il suo The expression of the emotions in man and animals (1872) si basò sulla casistica fotografica di Guillaume-Benjamin Duchenne de Boulogne, un medico francese che intorno alla metà del secolo analizzò il ruolo dei muscoli nelle espressioni facciali; e il neurologo Jean-Martin Charcot costruì la sua interpretazione dell'isteria anche attraverso la Iconographie de la Salpêtrière (1876-80). Dalla teoria dei tessuti alla teoria cellulare All'inizio del 19° secolo, in diversi ospedali parigini si cercava di localizzare la malattia in un punto preciso del corpo del malato; l'esame anatomico del cadavere procedeva parallelamente alla descrizione clinica delle affezioni che avevano colpito il paziente. Nella sua opera Nosographie philosophique, del 1798, Philippe Pinel aveva sostenuto che la medicina doveva ricorrere al metodo dell'analisi filosofica per poter vagliare adeguatamente fenomeni complessi; da questo assunto si iniziò a studiare gli organi malati paragonandoli a quelli in stato di salute e cercando strutture e proprietà fondamentali in comune. Sviluppando questo tipo di ricerca, il già citato Xavier Bichat, sostenitore delle teorie vitaliste (Recherches sur la vie et la mort, 1800), introdusse in anatomia la nozione di tessuto e identificò nei tessuti l'architettura principale del corpo. Quando si studia una funzione, sostiene Bichat, è opportuno "esaminare in modo generale l'organo complesso che la esegue"; per conoscere le proprietà di quell'organo è necessario 'decomporlo' e analizzarlo con rigore per svelarne la struttura più intima, gli ultimi elementi, ossia i tessuti (Coleman 1971, trad. it., p. 30). Bichat arrivò a individuare ventuno tessuti, ciascuno diverso e dotato di proprietà vitali distinte. Per molti anni i tessuti furono considerati come il limite estremo dell'indagine anatomica e soltanto la messa a punto di microscopi più potenti e privi di aberrazioni ottiche, e il conseguente sviluppo della teoria cellulare, formulata nel 1839 dai due biologi tedeschi Theodore Schwann e Matthias Schleiden, permisero di superare questa frontiera offrendo alla patologia nuovi campi di ricerca. Si deve al medico tedesco Rudolf Virchow, ottimo microscopista, il definitivo affermarsi della teoria cellulare. Egli avversò l'idea di una malattia generale, ereditata dalle antiche concezioni umorali, per indagare piuttosto su quale fosse la sede della malattia. La ricerca dunque si spostava per lui dagli organi ai tessuti e da questi alle cellule. Per Virchow le cellule sono l'ultimo anello nella catena delle formazioni reciprocamente subordinate, che costituiscono gli organi, i sistemi, l'individuo. Al di sotto di esse non vi è niente altro che mutamento. In pochi anni, più o meno a metà del secolo, venne dimostrato che la cellula era l'elemento organico centrale che collegava le generazioni degli animali, uomo compreso, e delle piante, un ruolo che, a fine Ottocento, sarà riconosciuto al nucleo della cellula e quindi ai cromosomi, le strutture in cui si organizza il materiale genetico all'interno del nucleo. Contemporaneamente, la fisiologia, passando dall'analisi delle funzioni degli organi allo studio dei processi cellulari, tentava di ricondurre tutto a un livello ancora più basilare, rifacendosi alla chimica e alla fisica. Abbiamo già visto come il modello di rappresentazione del corpo umano non fosse più una macchina semplice, meccanica, quanto piuttosto una macchina a vapore, un motore termico che viene sempre più strutturandosi e perfezionandosi. La macchina a vapore era un chiaro esempio di conversione del calore in lavoro meccanico, così come l'elettricità, generata da processi chimici, si trasformava in luce e calore. Fu dimostrato come la gran parte dei fenomeni chimici e fisici fossero fra loro convertibili e su questa base venne formulata la teoria della conservazione dell'energia. Tali idee furono applicate allo studio dei processi vitali: anche il calore animale era il prodotto di una combustione, l'organismo era un "dispositivo di conversione dell'energia, una macchina al pari di quelle analizzate dalla meccanica e dalla termodinamica" (Coleman 1971, trad. it., p. 137). Non è questa la sede per ripercorrere, seppure per sommi capi, la storia delle ricerche sulla respirazione, sulla natura e la fonte dei materiali di combustione per gli organismi, né della biochimica, da Antoine-Laurent Lavoisier a Justus von Liebig: è sufficiente dire che, a fine secolo, le tecniche della misurazione diretta e indiretta della produzione del calore animale furono unificate dal fisico Max Rubner, e offrirono la prova conclusiva che la legge della conservazione dell'energia valeva anche per la biologia. Ciò portò a un'ulteriore deduzione: gli esseri viventi sono una parte integrante, e non separata, dell'universo fisico. Figura centrale del grande cambiamento avvenuto nel campo della medicina nell'Ottocento è Claude Bernard, cui si devono importanti scoperte nel campo della digestione e della chimica animale, della neurofisiologia e della farmacologia, e soprattutto l'introduzione del metodo sperimentale in fisiologia. Egli pone il dato certo, ossia ripetibile in condizioni determinate, a fondamento della fisiologia e della medicina scientifica. Per Bernard l'esperimento deve essere ben definito e seguire regole precise, e, soprattutto, non può essere separato dall'osservazione. La sperimentazione ‒ egli afferma ‒ è soltanto un'osservazione provocata, condotta con l'ausilio di mezzi e strumenti vari. La fisiologia non è più passiva, ma interviene attivamente nei processi vitali, perché la meta di ogni scienza, sostiene ancora Bernard, è 'prevedere e agire'. L'adozione del metodo sperimentale amplia ulteriormente la concezione di vivente. È Bernard che definisce con chiarezza il valore di funzione, ossia il ruolo svolto da ciascun tessuto e organo del corpo per assicurare la vita, ruolo accelerato o rallentato dall'organismo a seconda dei bisogni. Un altro importante concetto precisato dallo scienziato è quello di ambiente interno (milieu intérieur): i tessuti sono infatti immersi in un insieme fisico-chimico dentro e fuori dai vasi, dalla stabilità del quale dipende la vita; inoltre, la vita stessa viene caratterizzata dai diversi meccanismi che assicurano questo equilibrio. L'indagine biologica negli ultimi anni del secolo abbandona la forma come obiettivo di ricerca, e reagisce contro la morfologia, la descrizione e la comparazione; tutte le attenzioni sono rivolte allo studio delle funzioni (Coleman 1971, trad. it., p. 179). Il darwinismo Il grande problema intorno al quale ruota la ricerca negli ultimi decenni dell'Ottocento è quello dell'ereditarietà, della sua natura, dei suoi meccanismi. Ernst Haeckel, convinto sostenitore delle teorie di Darwin e pioniere delle ricerche sulla fauna marina, scrive nel 1866: "Lo sviluppo evolutivo si è verificato e continua a verificarsi attraverso la propagazione materiale, cioè attraverso la generazione ancestrale e secondo le leggi dell'ereditarietà, della variabilità e dell'adattamento che modificano l'ereditarietà. Tutte le forme di vita, anche le più elevate e complesse, possono sorgere solo attraverso questi mezzi, attraverso la graduale differenziazione e trasmutazione delle forme di esistenza più semplici e infime" (da Coleman 1971, trad. it., p.178). Haeckel è, fra gli scienziati, quello che forse influenzò maggiormente la cultura e l'arte del tempo. Lo zoologo tedesco perseguì, in ogni sua indagine, anche una finalità artistica, fino all'elaborazione di una teoria estetica evoluzionista. Immaginò la natura e il cosmo come un'unica indivisibile entità in cui sono accomunati tutti gli organismi, dalle forme più elementari a quelle più complesse. Per Haeckel le forme naturali precedono le forme artistiche, essendo queste ultime niente altro che forme naturali idealizzate e stilizzate. Egli cercò di dare fondamenta biologiche all'arte e, dotato di grande talento creativo, illustrò personalmente le sue monografie sugli animali marini con una serie di affascinanti acquarelli. Haeckel ebbe certamente un influsso diretto notevole su tutto l'art nouveau e un'eco indiretta sulla sensibilità esasperata del movimento simbolista. Per suo tramite, il darwinismo alla fine del secolo divenne la filosofia per eccellenza e, parallelamente, la biologia divenne una scienza di moda. Hippolyte-Adolphe Taine, docente alla École des Beaux Arts di Parigi, affermò che compito dell'artista era cercare le verità più nascoste della vita e che, per far ciò, egli doveva rifarsi alla teoria dell'evoluzione e alle scienze naturali, così da poter scoprire le analogie esistenti fra il processo evolutivo, la fisiologia degli animali e delle piante e le forme artistiche. Egli stesso adoperò nei suoi corsi una terminologia evoluzionista, facendo particolare riferimento alla selezione naturale. Secondo Taine, è l'ambiente che determina le specie delle opere d'arte. Esso non sopporta se non quelle che gli sono conformi ed elimina le altre "con una serie di ostacoli frapposti e di attacchi rinnovati a ogni passo del loro sviluppo" (introduzione alla Histoire de la littérature anglaise, 1863). Anche in altri ambiti una lettura biologica dei tratti umani si richiamò spesso a interpretazioni semplificate di Darwin: i selvaggi vennero considerati dagli antropologi popolazioni a uno stadio primitivo dell'evoluzione della civiltà; analogamente, certi caratteri somatici dei contadini furono letti come un segno di arretratezza evolutiva. È il caso dei volti dipinti da Vincent van Gogh nei Mangiatori di patate del 1885, o della scultura Ballerina di quattordici anni di Edgar Degas (1879-81; v. fig. 1.200), un altro esempio esplicito di immagine derivata direttamente dalla scienza per raffigurare una creatura di classe inferiore (Callen 1993, p. 360). È stato sottolineato come l'interesse di Degas per la fisionomia e l'anatomia non derivasse soltanto dalla ricerca d'una moderna espressività nella rappresentazione dei suoi personaggi, ma anche dalla tendenza a sottomettere il corpo a una forma sempre più rigorosa di classificazione scientifica. "Il linguaggio della scienza offre all'artista un nuovo vocabolario di segni visuali per modernizzare i codici pittorici convenzionali e per dare all'arte dei nuovi poteri di rappresentazione" (p. 362). Negli stessi anni si sviluppava anche il darwinismo sociale di Herbert Spencer, e la conflittualità fra le classi, o fra le nazioni, era interpretata come lotta per la supremazia del 'più adatto'. Alla fine del secolo si diffuse un certo fatalismo melanconico, perché anche l'uomo, come altre specie, appariva destinato all'estinzione dopo il lungo processo evolutivo che lo aveva portato a svilupparsi dalle forme più semplici di vita. Nei pittori simbolisti come Edvard Munch, Arnold Böcklin, Gustav Klimt, gli influssi del darwinismo sono di varia natura. La concezione romantica 'innocente' dell'uomo e dell'amore si è esaurita e l'attenzione degli artisti è piuttosto rivolta a temi come la sessualità, la procreazione, le passioni più primordiali. Darwin, nell'ultimo capitolo di The descent of man (1871), in cui si parla della selezione naturale nell'uomo, tratta esplicitamente del ruolo giocato dalla gelosia, dalla rabbia, e dalle altre passioni nei comportamenti riproduttivi in tutto il regno animale (Larson 1993), concetti traslati figurativamente nella Gelosia I di Munch del 1896 o nei Contes Barbares di Paul Gauguin del 1902. Il darwinismo ebbe certamente un'influenza anche sulla maniera di rappresentare la figura femminile: talvolta sposa e madre, felice e appagata nel suo ruolo, altre volte essere inquieto e perverso; in ogni caso la donna subisce il dominio della sua natura biologica. Gli artisti di questa generazione, inoltre, sono attratti dai sogni, dal fantastico, dai processi mentali: si inaugura la stagione di Sigmund Freud e della psicoanalisi. Paradossalmente, proprio negli anni in cui nell'arte si assiste alla dissoluzione della forma, al superamento dei canoni stabiliti dalla tradizione, e alla scomposizione della figura umana, la scienza sente il bisogno di tracciare regole certe per misurare e studiare il corpo. Se le immagini nella pittura e nella scultura sono di corpi liberi, non sottomessi a norme, spesso selvaggi, aperti e disponibili a ogni metafora, contemporaneamente la scienza ‒ in particolare l'antropologia ‒ misura e cataloga il corpo umano, e le regole, le proporzioni, l'oggettivazione diventano rilevanti. Da un lato c'è Pablo Picasso con le Demoiselles d'Avignon (v. fig. 1.216), dall'altro l'antropometria giudiziaria di Alphonse Bertillon. Il contrasto non potrebbe essere più netto. Ma non si tratta soltanto di rappresentazione: regole e disciplina diventano di primaria importanza per la gestione del corpo e per la salute dell'uomo. Al di là del visibile La lettura del corpo Abbiamo visto che la lettura del corpo, nei secoli, si costruisce, si amplia e acquista dimensioni diverse: talvolta più semplici, quando ha punti di riferimento forti come la religione, talvolta più deboli, in epoche di passaggio o di crisi. Non è mai soltanto astratta, ma è sempre frutto di una costruzione, più o meno inconscia, dell'immagine del corpo e della malattia. La storia della medicina è per uno dei suoi aspetti proprio questo lento maturarsi di un discorso: parte da un corpo che è ancora confuso nella natura, da un corpo del malato che è informe e che non possiede la propria individualità né di coscienza, né spaziale, per giungere a un corpo che è divenuto individuo, oggetto del sapere, spazio della malattia (Herzlich-Pierret 1990, p. 101). La medicina ha imparato nei secoli a vedere, e poi a leggere, il corpo malato: ed è un corpo che cambia nei suoi atteggiamenti e nelle sue rappresentazioni, dalle grandi epidemie alle malattie croniche. La scoperta del corpo è avvenuta a tappe: dall'involucro esterno alle viscere e ad alcuni organi interni, poi progressivamente gli altri organi e le loro connessioni, con uno sguardo sempre più proteso all'interno e in profondità. I medici incominciano a descrivere ciò che "du-rante secoli, era rimasto al disotto della soglia del visibile e dell'enunciabile [...] il rapporto del visibile e dell'invisibile, necessario a ogni sapere concreto, ha cambiato struttura e ha fatto apparire sotto lo sguardo e nel linguaggio ciò che era al di qua e al di là del loro dominio" (Foucault 1963, trad. it., p. 108). La medicina cambia ‒ sostiene M. Foucault ‒ nel momento in cui alla domanda del medico al malato 'Che cos'ha?' si sostituisce la domanda 'Dove ha male?'. La malattia si esprime con sintomi e segni: è sintomo "la forma in cui la malattia si presenta" (p. 109). Il sintomo è la trascrizione prima della malattia, tutto ciò che è visibile. "Tosse, febbre, dolore al fianco e difficoltà di respirazione non sono la pleurite stessa" che non si offre ai sensi, la malattia si svela solo attraverso il ragionamento. Il segno invece ‒ sempre secondo Foucault ‒ annuncia. È pronostico, per quel che succederà, anamnesico, per quel che è successo, diagnostico, per quello che si svolge al momento. Il segno non fa conoscere, al massimo da esso si può delineare un riconoscimento, come il polso indica il ritmo e la forza della circolazione del sangue. "Attraverso l'invisibile, il segno indica il più lontano, il disotto, il più tardi [...]. La formazione del metodo clinico è connessa coll'emergenza dello sguardo del medico nel campo dei segni e dei sintomi [...]. La clinica costituisce probabilmente il primo tentativo, dopo il Rinascimento, per fondare una scienza sul solo campo percettivo e una pratica sul solo esercizio dello sguardo. C'è stata magari, da Descartes a Monge, e prima in pittori e architetti, una riflessione sullo spazio visibile; ma si trattava di fissare una geometria della visibilità, cioè di situare i fenomeni dipendenti dalla percezione all'interno di un dominio senza sguardo" (p. 109). Si è detto che l'immagine del corpo è stata incerta, fluttuante e poco formalizzata per migliaia d'anni. Né si può affermare che il sapere medico abbia sempre influito in maniera diretta e determinante sulla formazione di questo immaginario in cui, per secoli, altre forme di sapere, altre conoscenze, come quella artistica e intuitiva, avevano svolto un ruolo determinante. In maniera particolare, abbiamo sottolineato, la percezione del corpo malato, anche quando a occuparsene sono stati i medici, ha sempre rinviato a un ordine di tipo più vasto, alla complessità del contesto culturale. La nozione del corpo come microcosmo, gli atteggiamenti collettivi di fronte a un male non guaribile, la considerazione della malattia come peccato, hanno influito e condizionato l'immagine e la percezione del corpo malato come luogo dell'orribile esteriorizzato. Tutto questo per il passato: ma qual è il discorso da fare oggi? "La concezione moderna di un corpo-macchina aiuta a fare del corpo lo spazio silenzioso e un po' neutralizzato d'una malattia controllabile dalla medicina" (Herzlich-Pierret 1990, p. 102). Lo sviluppo del metodo clinico e sperimentale, l'approccio spaziale dell'anatomia patologica che colloca la malattia nel corpo, e l'approccio temporale che rintraccia e classifica in serie cronologica i sintomi, hanno portato a una penetrazione sempre più intima del corpo e a una comprensione sempre più completa del suo funzionamento. Grazie a tecniche d'investigazione sempre più raffinate, dal moltiplicarsi delle dissezioni allo studio diretto sul vivente, dall'orecchio rafforzato dallo stetoscopio all'occhio amplificato dal microscopio e dall'endoscopio, fino ai raggi X e alle più moderne tecniche di imaging, possiamo affermare di aver compiuto progressi enormi nella conoscenza sia morfologica che fisiologica del corpo umano. Per la prima volta nella storia, lo sguardo e la nostra immagine del corpo sembrano totalmente dipendenti dal sapere medico. È davvero così? La nostra immagine del corpo si è liberata una volta per tutte da miti e fascinazioni, dal timore del sangue, dal sesso come istinto primordiale, dalla paura profonda, intima e incontrollabile, della malattia? Talvolta oggi, paradossalmente, la malattia si legge meno facilmente: il corpo, in apparenza intatto, può ospitare ignaro un virus che si scatena inaspettatamente, secondo regole che ancora la biologia non conosce. E allora l'immagine del corpo evidente, razionale, che si conosce fino alla struttura molecolare dell'informazione genetica, può ridiventare ambigua, perdere la certezza, ricadere in un ambito di interpretazioni ideali, ridiventare alibi di noi stessi di fronte a una malattia che non conosciamo, non sappiamo di avere, sappiamo di non poter combattere. Ancora oggi, dunque, l'immagine dell'uomo e del suo corpo si offre come uno specchio dentro cui ogni epoca riflette talvolta le proprie sicurezze, e molto più frequentemente le proprie incertezze.

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