Uberti

Enciclopedia Dantesca (1970)

Uberti

Arnaldo D'addario

Antichissima e potente consorteria fiorentina, ricordata da D. come esempio di stirpe tradizionalmente nobile (Cv IV XX 5), ma ormai in via di decadenza per lor superbia (Pd XVI 109-110). D. pone drammaticamente l'accento sulla personalità del maggiore esponente di questa casata - Manente detto Farinata - facendone il simbolo di un parteggiare appassionato ma non dimentico del dovere di lealtà verso la città natale, patria comune da amare al di sopra dell'odio che divide i cittadini in fazioni (If X 22 ss.).

I cronisti fiorentini hanno tramandato con un certo compiacimento una leggenda diffusa ai loro tempi (Villani [I 41] afferma che " si truova per alcuno scritto ") la quale assegnava agli U. origini quiriti, quasi traendo anche in questo caso dalla nobilitazione di una fra le maggiori stirpi cittadine nuovo fondamento per l'esaltazione delle vantate scaturigini romane di Firenze. Lontano, mitico capostipite della consorteria sarebbe stato, secondo quella leggenda, un Uberto Cesare, detto Giulio Cesare, figlio di Catilina, il quale lo avrebbe lasciato giovinetto in Fiesole, avviandosi alla battaglia in cui trovò la morte. Più tardi, scrive il Villani, Uberto " per Giulio Cesare fue fatto grande cittadino di Firenze e, avendo molti figliuoli, egli e poi la sua schiatta furono signori della terra gran tempo, e di loro discendenti furono grandi signori e grande schiatte in Firenze " (ibid.). Altrove lo stesso Villani mostra di voler trovare un fondamento storico più sicuro per l'attribuzione delle origini della casata, assegnando - come fanno anche il Malispini e Marchionne - a questo, che egli annovera fra i " molto possenti e antichi legnaggi ", degli ascendenti germanici (" nato e venuto il loro antico dalla Magna ", IV 13), attenendosi all'altro filone tradizionale, anch'esso ricorrente nella Firenze comunale in fatto di storia genealogica, che mirava a nobilitare le consorterie politicamente ed economicamente preminenti ricollegandone le origini a personaggi dell'età carolingia.

Tuttavia, mentre non si può dar credito alcuno a questi racconti mutuati dalla tradizione, le fonti archeologiche e archivistiche fiorentine confermano quel che le cronache riferiscono circa la potenza politica e la ricchezza degli U., risalenti ai primordi della storia cittadina. La sparsa documentazione della loro complessa vicenda familiare permette d'individuare il nucleo dei possedimenti urbani degli U. nelle case e torri raccolte nello spazio oggi occupato pressappoco dalla piazza e dal palazzo della Signoria e prolungantesi nella zona in cui, abbattuta la chiesa di San Piero Scheraggio, si sarebbe edificata nel sec. XVI la fabbrica vasariana degli Uffizi. Degli U. era il castello di Altafronte, posto sulla riva destra dell'Arno presso il Ponte Vecchio (è l'odierno palazzo dei Giudici), insieme con le case che si stringevano attorno alla torre longobarda detta ‛ Guardingo ' (la cui distruzione è ricordata in If XXIII 107-108) e alla chiesa di San Romolo; altri edifici essi possedevano in Oltrarno, nel quartiere di San Frediano.

Testimonianza indiretta dell'entità del loro patrimonio è un documento della fine del sec. XI. Quando, infatti, nel 1075, uno degli U., Bernardo di Bruno, professò la regola vallombrosana nell'abbazia di San Salvi, iniziando l'iter ecclesiale che lo avrebbe portato dapprima (1098) alla dignità cardinalizia e poi (1106) a quella episcopale (in Parma), i familiari furono vivamente costernati dall'entità della donazione da lui fatta della propria, cospicua, parte di eredità alla comunità monastica in cui stava per entrare. Per accontentare i suoi, e specialmente la madre e le sorelle, Bernardo ridusse la donazione a favore di San Salvi a un solo terzo dei beni di sua spettanza, che pure costituiva un'entità notevole, composta com'era da case in Firenze, da terreni presso il " Perilasium ", da poderi in Arcetri, da castelli e poderi in Mugello e altrove. Altri documenti mostrano come gli U., al pari di altre grosse consorterie fiorentine, quali, per esempio, gli Adimari, mantenessero in città una ‛ corte ', centro amministrativo del loro patrimonio fondiario sparso nel contado, costituito da proprietà dirette, da terre prese a fitto, a livello, a censo.

Alla larga disponibilità di mezzi economici si accompagnavano il prestigio sociale e il potere politico, che gli U., verso la fine del XII secolo, ritennero di poter concentrare nelle loro mani, rompendo la collaborazione con le altre potenti consorterie dominanti del regime consolare, Fifanti, Giandonati, Iudi, Cavalcanti, Tornaquinci. Nell'estate del 1177 essi credettero possibile un tentativo signorile e inalberarono la bandiera imperiale contro i rivali, che in quel momento erano politicamente avversi all'Impero; il prolungarsi della carestia imperversante in quel torno di tempo in Toscana e in Italia fece ritenere al loro capo, Schiatta di Gerardino di Uberto, che fosse lecito fidare anche sul favore della popolazione, irritata contro l'azione politica del ceto dirigente. I cronisti ricordano di questa lunga contesa gli episodi più clamorosi, quali i due incendi che devastarono buona parte della città, bruciando le case e le torri delle casate dominanti, distruggendo fondachi e botteghe artigiane, nei quartieri meridionali di Firenze, ma risparmiando - fatto significativo, e illuminante ai fini di un'attribuzione della responsabilità dei due accadimenti - i beni dei ribelli. Nel 1178 una piena dell'Arno travolse il Ponte Vecchio, e gli U. tentarono d'impedirne o, almeno, di molestarne la ricostruzione, saettando, dal castello di Altafronte, sui cittadini inviati a quel fine dai reggitori del comune. Tuttavia, dopo due anni di agitazioni e di colpi di mano - secondo una diffusa, ma infondata, tradizione del secolo XIV i Fiorentini, esasperati, avrebbero perfino pensato di ricostruire una nuova città, più pacifica - gli U. furono costretti all'accordo con gli altri grandi, anche perché, nel settembre, con la prigionia di Cristiano di Magonza, era venuto a mancare un loro potenziale alleato nel rappresentante dell'imperatore. Secondo i patti, Schiatta cedette per 300 libbre ai Giandonati la quarta parte dei suoi diritti di proprietà sull'Altafronte, accettando, in sostanza, di rinunziare alle velleità di signoria, e reinserendosi nel ceto politico dominante. Nel XII e nel XIII secolo gli U. ottennero, infatti, più volte il consolato, con Uberto (1180, 1194), Gianni (1184), Tignosino (1189), Schiatta (1191, 1197), Ranieri (1201), e Guido (1204). Più tardi, durante la contesa fra Ottone IV e Filippo di Hohenstaufen per la corona imperiale, essi tennero per lo Svevo, mentre in città ostentavano un contegno altero, quale sembrava connaturale a una casata orgogliosa delle sue antiche origini, dei larghi mezzi economici e del potere politico di cui poteva disporre.

Nel 1216 gli U. sono al centro degli avvenimenti sanguinosi ai quali i cronisti fiorentini attribuirono l'origine delle divisioni che avrebbero per decenni sconvolto la vita politica cittadina: l'uccisione di Buondelmonte de' Buondelmonti (v.). Al fatto di sangue gli U. diedero intenzionalmente un significato politico, proclamandosi seguaci " del Ghibellino " e dichiarandosi - con gli altri congiurati - avversari della Parte " del Guelfo ", alla quale aderivano molte fra le consorterie consolari padrone del comune, fra cui i Buondelmonti. E, in nome di quell'ideale politico, armarono case e torri contro i reggitori del comune, riuscendo a togliere, sia pure per breve tempo, il potere ai rivali.

Il truce episodio - ben noto nella storia della lotta politica fiorentina - fu anche l'avvio di una lunga faida tra U. e Buondelmonti, che non si sarebbe mai placata, nonostante le paci giurate più volte nel XIII e nel XIV secolo. Ancora nel 1307, un procuratore dei Buondelmonti dichiarava nel corso di un processo discusso dinanzi al legato papale che i suoi mandanti conservavano nei confronti degli U. una " capitale " inimicizia.

Sul piano politico, la nuova sortita degli U. contro le altre consorterie magnatizie fu ben presto respinta, e in Firenze si tornò ancora a una gestione paritetica del potere, fino ai nuovi torbidi del 1238, quando, per alcuni mesi, Giandonati e Fifanti, Donati e Tedaldini, U. e Uguccioni, si scontrarono nuovamente in nome delle due fazioni. Tre anni più tardi, gli U. sono protagonisti di una significativa disputa con i Vallombrosani, durante la quale impongono quale rettore della chiesa di San Firenze - la loro parrocchia - un prete parteggiante per Federico II; e ciò col favore del vescovo Ardingo. Strumento dell'influenza politica goduta dagli U. in questo periodo fu anche la connivenza dei podestà, che essi facevano scegliere tra gli amici della loro Parte politica e dai quali ricevevano il sostegno nelle loro imprese contro i rivali. Come quando, nel 1241, il podestà Ugo Ugolini Latini di Città di Castello ne tollerò le violenze contro gli abitanti del castello di Ulignano, feudo degli Alberti; episodio che non mancò di riaccendere il fuoco delle contese fra le maggiori casate. Nell'autunno di quell'anno, gli U. - insieme con i loro alleati tradizionali, i conti di Gangalandi, i Lamberti, i Caponsacchi, gli Amidei, i Bogolesi, i Fifanti - si schierarono a favore di Federico II, sostenendone la politica di soffocamento delle libertà comunali, attuata mediante l'imposizione di podestà imperiali, e rinnovando attacchi contro le casate avversarie. Contro i guelfi scesi in campo per assalire il castello di Gangalandi, centro di raccolta degli avversari e avamposto minaccioso alle porte della città, gli U. si unirono alle consorterie alleate per dare battaglia. Lo scontro, tuttavia, non ebbe luogo, per l'intervento pacificatore del vescovo Ardingo; ma la contesa riarse più tardi, quando, il 29 novembre, i ghibellini accorsero a Campi in aiuto ai Bertaldi di Santa Trinità, e caddero nell'agguato teso dai guelfi - capeggiati dai Buondelmonti - in spregio della recente tregua patrocinata dal presule.

Se i capi degli U., Manente detto Farinata e Neri Piccolino, sfuggono all'agguato, altri ghibellini sono uccisi o feriti; al ritorno della loro schiera in Firenze le consorterie si armano, la popolazione si chiude nelle case, mentre scoppiano incidenti e risse per le strade. L'anno dopo, gli U. e gli altri ghibellini obbligarono il comune a concedere al re Enzo gli aiuti in danaro, in rifornimenti annonari e in armi, richiesti a nome dell'imperatore; milizie fiorentine furono inviate al fianco di quelle imperiali contro le città ostili allo Svevo. Contro Viterbo, Firenze raccolse armati nel 1243, imponendo tributi alle comunità soggette del contado. Né gli U. furono estranei alla diffusione del movimento spirituale dei patarini, sostenendo in sede politica l'intervento compiuto da Federico II contro l'inquisizione fiorentina (maggio 1245) per rivendicare al tribunale del podestà l'autonomia di fronte a quello dell'inquisitore.

Tre anni più tardi, gli U. furono oggetto degli attacchi sferrati dai guelfi contro il duro governo esercitato da Federico di Antiochia. Nella notte di Candelora del 1248, i Bagnesi, i Pulci, i Guidalotti, li assalirono nelle loro case, delle quali Farinata e Neri Piccolino guidavano la difesa; negli altri quartieri di Firenze le casate avversarie impegnavano in duri assedi i principali esponenti del ghibellinismo cittadino. Solo l'accorrere da Prato delle milizie di Federico di Antiochia liberò i ghibellini e ne facilitò il trionfo definitivo; i guelfi, sconfitti, ripararono a Lucca e nei castelli tenuti dai loro amici politici. Se, tuttavia, questo scontro aperto non fu esiziale per i vinti - dei quali il comune cercò di favorire il ritorno onde evitare un grave danno per l'economia di Firenze -, esso segnò anche il momento del maggior favore goduto dagli U. presso Federico di Antiochia. Essi erano ormai capi riconosciuti della fazione imperiale; bisognoso del loro aiuto contro i ricorrenti conati antisvevi dei guelfi, Federico donava a Neri Piccolino il castello di Pulicciano, tolto al vescovo di Volterra, e, anche a costo di provocare la vivace reazione dei Senesi, cedeva a messer Iacopo detto Grifone, zio di Neri, i castelli di Campiglia e di Castiglione, tolti ai Visconti di Campiglia. Fra 1248 e 1250, negli anni della crisi finale del regime federiciano e del predominio ghibellino in Firenze, Farinata e Neri furono attivissimi nell'organizzare l'armamento delle ‛ terre ' fortificate possedute nel contado; così che il primo non fu presente in città al momento dell'insurrezione dei Fiorentini contro il malgoverno svevo (settembre 1250).

Tuttavia, pur mentre le fortune ghibelline declinavano, gli U. restarono padroni delle loro case in Firenze e dei loro possedimenti nel contado, anche sotto il governo del ‛ primo popolo ' e nonostante la ripresa politica dei guelfi. San Gimignano, di cui Neri Piccolino era podestà, costituì ancora per molto tempo uno dei centri del loro potere. Altrove, come a Pulicciano, gli U. si difendevano efficacemente dall'assalto degli avversari resi più baldanzosi dalla morte di FedericoII (13 dicembre 1250) e dal conseguente sbandamento della Parte imperiale. Ma, al pari di altre grandi casate ghibelline, dovettero consegnare ostaggi - un figlio di Farinata e un figlio di Iacopo Grifo - al podestà Uberto da Mandello, onde garantire al regime popolare la propria fedeltà e quella della Parte.

La reazione degli U. e dei loro amici politici si fece sentire minacciosamente di lì a poco, nell'estate del 1251, quando, formatasi (19 giugno) la lega antifiorentina tra Siena, Pisa e Pistoia, e accentuatasi in Firenze l'alleanza tra guelfi e regime popolare, i ghibellini toscani si adunarono a Castiglione Val di Strove per accordarsi con i collegati sull'azione da svolgere a favore di Corrado e di Manfredi di Svevia. Anche in questa occasione gli U. sono mossi dall'intento di restaurare in Firenze, con le fortune del ghibellinismo, quelle della loro schiatta, in un rinnovato sogno di predominio politico. Tuttavia, la lega stretta fra i potentati ghibellini della Toscana non avrebbe retto all'urto delle forze fiorentine, che contrattaccarono investendo Pistoia; anzi, i ghibellini dimoranti in città, i quali si erano illusi di poter tenere ancora nascoste le loro intenzioni, vennero costretti dallo svolgersi degli avvenimenti a prendere aperta posizione e (agosto 1251) furono banditi come traditori. Degli U., Farinata e Neri Piccolino fuggirono a Siena.

Tre anni più tardi, il trionfo di Firenze, ormai pacificata con i Pisani e i Senesi (1254) e divenuta padrona di Poggibonsi, di Empoli, di Montevarchi, obbligava anche Neri Piccolino a cedere - ma per acquisto - Pulicciano e a impegnarsi a rispettare l'accordo che Farinata e Ranieri de' Pazzi avevano stipulato con il comune fin dal settembre 1252, col patto della revoca dei bandi, della restituzione dei beni, dell'abolizione delle leggi antighibelline, e contro l'impegno dell'obbedienza garantito dalla consegna di ostaggi.

La tregua, tuttavia, venne rotta nuovamente - e, questa volta, definitivamente - nel 1258, dopo l'incoronazione di Manfredi a re di Sicilia e l'avvio del piano di guerra a Firenze. All'appello dello Svevo risposero gli U., i Guidi ghibellini, i Lamberti, gl'Infangati, i Fifanti, i Soldanieri, i Caponsacchi, stanchi di doversi piegare al predominio guelfo nella città. Gli U., anzi, si fecero protagonisti della congiura ordita dal cardinale Ottaviano degli Ubaldini ai danni del comune e, fallito il tentativo d'impadronirsi del potere con la forza, citati in giudizio, opposero resistenza asserragliandosi nelle loro case e uccidendo alcuni messi del podestà. Ma furono sopraffatti dal popolo accorso in armi, che ne travolse le difese e uccise Schiattuzzo; poco dopo, sottoposti a tortura, Umberto Caini U. e Mangia degl'Infangati rivelavano la trama e venivano decapitati. Il fallimento della congiura obbligò sedici casate ghibelline all'esilio insieme con i loro aderenti, fra i quali si trovavano anche elementi popolari. Mentre i profughi trovavano rifugio in Siena, quelli dei ghibellini che si erano tenuti fuori della congiura poterono restare in città, anche se sottoposti a vigilanza. Gli esuli vennero banditi (2 ottobre 1258) e le loro case diroccate. Il comune, ormai pienamente dominato dai guelfi, ordinò che le macerie fossero utilizzate per costruire la cinta di mura a difesa dell'Oltrarno. Né cessò dal perseguitare i fuorusciti; ché anzi chiese ai Senesi di consegnare Farinata e altri nove U.; Siena, invece, continuò a proteggerli, mentre dichiarava la propria ostilità ai guelfi fiorentini giurando fedeltà allo Svevo (16 maggio 1259) e accogliendone tra le mura le milizie. Anche gli U. mandarono propri rappresentanti - fra i quali Farinata - al re, per aderire alla sua causa.

Tra il 1259 e il 1260, Farinata, insieme a Guido Novello, sembrò, tuttavia, incline ad accordarsi con i Fiorentini, ma gli approcci erano solo un tranello, perché l'U. non mancò di rendere edotti i Senesi di quanto si trattava negl'incontri con gli avversari.

Gli avvenimenti del 1260 sono, ancor più che momenti della vicenda familiare degli U., aspetti della biografia politica di Farinata, capo riconosciuto, oltre che della consorteria, dei ghibellini trionfanti dopo Montaperti (1260) e divenuti padroni di Firenze; ma anche difensore della sua patria nel convegno di Empoli. Al seguito del loro maggiore esponente gli altri U. godettero i vantaggi della vittoria e parteciparono attivamente al governo e alle imprese antiguelfe del comune. Nel corso di queste lotte, a Castiglioncello presso Ripafratta ebbe luogo l'11 settembre 1263 un nuovo episodio della faida inestinguibile fra essi e i Buondelmonti; mentre Farinata, che con senso di generosità si accingeva a salvare dalla morte Cece de' Buondelmonti che gli si era arreso durante lo scontro accesosi in quella località, fu sopravanzato dal congiunto Pier Asino, il quale gli uccise il prigioniero fra le braccia.

Morto Farinata, capo della consorteria (1264), gli U. continuarono a militare con impegno nelle file del ghibellinismo al seguito del conte Guido Novello, intrattenendo stretti rapporti con i da Romano e con altri signori aderenti alla causa sveva, tramite Cunizza che, dimorando in Firenze fin dal 1260, era in relazione con il fratello - Neri Piccolino - e i figli - Lapo e Azzolino - di Farinata. Tuttavia, non si può dire che essi si siano accinti con altrettanto impegno ad accorrere sul campo in aiuto di Manfredi nel 1266 se, mentre Pier Asino era accanto al re, Lapo appena pochi giorni prima della battaglia di Benevento trattava ancora con il comune di San Gimignano la consegna dell'armamento necessario per partecipare alla guerra.

La sconfitta dello Svevo segnò l'inizio della decadenza politica e della crisi economica degli Uberti. Pier Asino, fatto prigioniero, venne rinchiuso nei castelli angioini della Provenza e, per punirne un tentativo di fuga, fu accecato e mutilato della mano destra e del piede sinistro; nel 1267 Carlo d'Angiò ne ordinò la decapitazione, ma, forse istigato dai Buondelmonti, finì per fargli fracassare il cranio a colpi di mazza. La barbara sorte riservata al congiunto prigioniero di guerra non impedì, per allora, agli altri U. rimasti a Firenze di continuare a vivere nelle loro case, sia pure acconciandosi a patteggiare con gli avversari inorgogliti dalla vittoria. Neri Piccolino, come podestà di San Gimignano, offrì ai guelfi di condividere con i ghibellini il potere in quel comune; Neri Cozzo, figlio di Farinata, prese in moglie Ravenna di Simone Donati nel quadro della politica di pacificazione promossa in Firenze dai Trentasei (dicembre 1266), in virtù della quale Guido Cavalcanti sposò una figlia dell'eroe ghibellino, Beatrice.

La crisi precipitò, per gli U., nel 1268. Travolti nel generale crollo delle fortune ghibelline, essi si divisero fra loro, scegliendo i vari gruppi gentilizi diverso atteggiamento politico e diversa sorte. Mentre pochi di loro restavano in Firenze, adattandosi a subire le umiliazioni imposte dai guelfi, ben ventisei famiglie della consorteria sceglievano la via dell'esilio, rifugiandosi a Pisa, nel monastero vallombrosano di Sant'Ellero, nelle rocche di Gaville e di Castelvecchio presso Figline, a Lamporecchio, a San Miniato e a Poggibonsi. Gli esuli vennero compresi nei bandi e nelle confische ordinate dal comune, che diroccò gran parte delle loro case, le cui macerie sarebbero rimaste a lungo allo scoperto (nel 1299, su di un'area che era stata di loro proprietà furono edificate le carceri dette delle Stinche) a testimoniare dell'odio dei guelfi contro questa casata. Odio che, ancora nel 1299, si sarebbe accompagnato a un senso come di superstizione nei confronti della loro memoria, impedendo ai costruttori del palazzo dei priori di usufruire, nella progettazione dell'edificio, di tutta l'area già occupata dalle loro case. I sepolcri degli U. in San Piero Scheraggio vennero infranti e i resti mortali gettati in Arno; quelli di essi che poterono restare a Firenze fecero di Santa Croce la sede delle loro sepolture.

Da questo momento ha inizio la diaspora degli U., che ne avrebbe portato la maggior parte sempre più lontano da Firenze e dalla Toscana, in cerca di aiuto e d'inserimento fra i potentati ancora avversi agli Angioini e ai guelfi, nell'Italia settentrionale e nel regno aragonese di Sicilia (ove si estinsero, sembra, nel sec. XIV). Rami della casata ebbero qualche fortuna in Oriente, ove finirono nel Cinquecento, mentre ancora nel Settecento si ricollegava - ma senza poterne dare valida giustificazione - agli U. di Firenze una famiglia veneziana derivata da un medico di tal cognome vivente nel sec. XVI.

La vicenda genealogica della casata fino ai primi decenni del Trecento è in buona parte cronaca delle repressioni dei conati ghibellini da parte di Firenze. Quando, nel giugno 1267, le milizie del comune assalirono in forze il monastero di Sant'Ellero per snidarne i fuorusciti, molti U. furono catturati, mentre uno di essi si gettava dalla torre campanaria per non cadere nelle mani dei Buondelmonti che lo cercavano a morte. Sei anni più tardi, Neri Boccalato, figlio di Iacopo Grifo e cugino di Farinata, insieme con altri congiunti e compagni di fazione, si adattò a implorare il perdono di Carlo d'Angiò; il re ne riammise in Firenze le mogli e i figli in tenera età, ma esigendo che ne stessero lontani i maschi da dieci anni in su; i ghibellini residenti in Firenze avrebbero dovuto ‛ sodare ' per gli U. perdonati. Nel 1280, nel quadro dell'iniziativa pacificatrice tentata dal cardinal Latino, U. e Buondelmonti sembrarono, finalmente, rinunciare alla faida che li divideva; ma non tutti gli U. aderirono alla pace, mancando all'accordo i figli di messer Ranieri Zingani, desiderosi di vendicare la morte del padre, spentosi cieco nell'isola di Montecristo. Né, d'altra parte, si era placata l'avversione dei guelfi verso questa famiglia, sei membri della quale - tra cui due figli di Farinata -, ritenuti nemici irriducibili e pericolosi, vennero banditi senza termini di tempo, pur mentre si permetteva ad altri consorti di rimetter piede in Firenze (il Boccaccio scrive che " mai della famiglia U. alcuna cosa si voleva udire, se non in disfacimento e distruzione di loro "; e Benvenuto annota che " quando fit aliqua reformatio Florentiae de exulibus rebanniendis excluduntur Uberti "). Due anni più tardi, alla persecuzione a carattere politico si aggiunse - ma era anch'essa espressione di odio politico - quella religiosa, con l'accusa mossa dal minorita fra' Salomone da Lucca, inquisitore in Firenze, contro la memoria di Farinata, e contro la vedova Adaletta, i figli - Lapo, Federigo, Maghinardo - e i nipoti - Lapo e Itta di Azzolino - di lui ancora viventi; l'imputazione era di appartenenza alla setta dei patarini e comportò la condanna, che coinvolse, oltre al già morto Farinata e ai discendenti ancora vivi, anche Azzolino, pur egli morto per decapitazione nel 1270. Nel 1283, il podestà Aldighiero della Senazza, in conseguenza della sentenza inquisitoriale, condannava i rei alla confisca dei beni e al rogo; invano essi interposero appello al tribunale imperiale, che rispose dichiarandosi incompetente, poiché le pene erano state decretate contro soggetti dichiarati eretici dal giudice ecclesiastico competente. Nel 1285 il medesimo frate inquisitore avrebbe ordinato che le ossa del già da tempo defunto Bruno degli U. fossero disseppellite e bruciate, confiscando i beni di lui, passati in eredità ai nipoti Bruno e Guiduccio.

Più tardi, al volgere del sec. XIII, il comune di Firenze avrebbe ancora una volta rifiutato l'offerta di obbedienza di Lapo e di Maghinardo, figli di Farinata, nonostante che in loro favore avesse interceduto (1304) anche il papa. Tuttavia, nel 1303, quando fu dato a Lapo di Azzolino di Farinata il salvacondotto per venire in città insieme con altri amici politici, onde permettergli di trattare l'accordo con i guelfi sotto l'egida del cardinale Niccolò da Prato, fu possibile vedere in qual misura fosse ancora vivo nei ghibellini rimasti in Firenze il ricordo dell'antico splendore degli U.; i vecchi compagni di Farinata accorsero a baciare commossi le loro insegne mentre Lapo passava per le strade. Delusi nelle aspettative di pacificazione e disperando, ormai, di tornare in patria, gli U. esuli si adattarono a passare agli stipendi dei comuni e dei signori ghibellini ostili a Firenze, di Pisa, di Arezzo, di Genova, che essi servirono come rappresentanti diplomatici, come capitani mercenari, come uomini di legge, come amministratori. Alcuni di essi si unirono ai fuorusciti Bianchi (al convegno di San Godenzo ove fu D. intervennero anche quattro membri della casata, fra cui Lapo di Azzolino di Farinata) e, infine, accettarono di porsi al servizio del re aragonese di Sicilia (Farinata di Lapo fu castellano del " castrum ad mare " di Palermo nel 1298) e di Enrico VII, al quale gli U. prestarono giuramento in Arezzo nel 1311. Ghino di Lapo venne inviato dall'imperatore (1313) come ambasciatore al comune di Todi, la città di cui Taddeo di Lupo era stato podestà due anni prima; nel 1311, Enrico VII nominò governatore di Mantova Lapo di Farinata, che vi era già stato podestà nel 1296, 1297 e 1299, per passare poi a Verona onde esercitarvi le stesse funzioni nel 1301 e nel 1303.

Tipico esponente di questa generazione tormentata fu Schiatta detto Tolosato - o Tosorato -, figlio di Grifo, cugino di Farinata. Ribandito nel 1280 come uno dei più pericolosi fuorusciti, e dopo aver errato qua e là per la penisola, egli era in armi nel 1296 in Sardegna, al servizio dei Pisani contro Mariano di Arborea. Tolosato vinse in battaglia il suo antagonista, lo fece prigioniero e ne decretò la morte confiscandogli il tesoro e assumendo il titolo di ‛ giudice ' (1297). Dopo aver conquistato altri allori guerreschi, l'U. tornò a Pisa, sperando di ottenervi un trionfo; ma non fu accontentato, e, per vendicarsi, tornò nell'isola per aizzare i suoi nuovi sudditi contro i Pisani. Ma questi, piuttosto che averlo nemico, preferirono trattare con lui chiamandolo nuovamente al loro servizio. In conseguenza di ciò, Tolosato divenne il protettore di altri suoi consorti e di quanti - Bianchi compresi - erano stati banditi dai guelfi toscani. Con questi amici, e con altri accorsi al suo fianco dalla Sicilia, l'U. formò una forza ghibellina tanto temibile da preoccupare il pontefice, il quale reagì alla minaccia destituendo dall'ufficio di priore di San Romolo il prete Cino Ugolino, finanziatore delle imprese di Tolosato. Questi, tuttavia, aveva raggiunto l'apice delle sue fortune. Nel 1304 divenne capo delle milizie pistoiesi e, da Pistoia, si fece sostenitore degli ultimi conati di riscossa dei Bianchi fiorentini (tentativo della Lastra, del 1304). La conclusione della pace tra Fiorentini e Pistoiesi gli tolse, però, la base della sua attività antiguelfa, obbligandolo alla fuga. Nuovo suo rifugio fu Imola, dove si pose al fianco del cardinale Napoleone Orsini. Da ultimo, lo troviamo al seguito di Enrico VII, come testimone della sentenza che l'imperatore emanò in Pisa contro Roberto d'Angiò il 26 aprile 1313.

Bibl.-Per ricerche sulla storia genealogica degli U. è di grande interesse la consultazione delle ‛ lecturae ' dedicate al canto X dell'Inferno (se ne vedano le citazioni nel vol. La D.C. con i commenti di T. Casini - S. A. Barbi e di A. Momigliano, a e. di F. Mazzoni, Inferno, Firenze 1972, 201-202) e delle opere citate nella bibliografia relativa alle voci Farinata degli Uberti; Firenze: Storia; Guelfi e Ghibellini, in questa Enciclopedia. Alla stirpe degli U., e specialmente alla nobiltà delle sue origini, accennano le biografie di Farinata di F. Villani, in Vite d'uomini illustri fiorentini, Firenze 1826; di S. Razzi, Vite di cinque huomini illustri, ibid. 1602; e l'anonimo elogio del medesimo eroe ghibellino in Serie di ritratti d'uomini illustri toscani, I, ibid. 1766. Prime fonti della storia di questa consorteria sono le cronache fiorentine (Malispini, Marchionne, Villani, Compagni, Velluti, Cerretani, Cavalcanti, Ridolfi, Capponi, Cambi) e la documentazione archivistica (in Archivio di Stato di Firenze, le ‛ provvisioni ' del comune, i protocolli notarili, ecc.) dei cui sparsi dati si servirono, per tracciare profili della vicenda genealogica o per puntualizzare aspetti della biografia dei vari personaggi - fra cui principalissimo Farinata, esaltato da D. ma anche figura di rilievo nella storia del comune - i genealogisti fiorentini (secoli XVII-XVIII) Pucci, Dei, dell'Ancisa, Monaldi, della Rena (le annotazioni dei quali sono conservate nell'Archivio e nella bibl. Nazionale Centrale di Firenze) e S. Ammirato, Delle famiglie nobili fiorentine, Firenze 1615; ID., Albero e istoria della famiglia dei conti Guidi, ibid. 1640; ID., Vescovi di Fiesole, di Volterra e di Arezzo, ibid. 1637; V. Borghini, Discorsi, a c. di D.M. Manni, ibid. 1755; B. de' Rossi, Lettera a Flamminio Mannelli nella quale si ragiona... delle famiglie e degli uomini di Firenze, ibid. 1585; P. Mini, Discorso della nobiltà di Firenze e de' Fiorentini, ibid. 1593; ID., Difesa della città di Firenze e de' Fiorentini, Lione 1577; U. Verini, De illustratione urbis Florentiae libri III, Parigi 1583; M. Salvi, Delle historie di Pistoia e fazioni d'Italia, Roma-Pistoia 1656-1662.

Nuove ricerche archivistiche compiute fra il XVII e il XIX secolo contribuirono a porre in evidenza altre fonti relative alla storia degli U., che vennero pubblicate o usufruite nelle opere di F. L. Del Migliore, Firenze città nobilissima illustrata, Firenze 1684; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722; D. M. Manni, Osservazioni istoriche sopra i sigilli antichi de' secoli bassi, Firenze 1740-1786; G. Brocchi, Le vite de' Santi e Beati fiorentini, ibid. 1742-1761; L. Mariani, Della nobiltà fiorentina e delle case nobili che si trovano al dì d'oggi, in Storia universale della nobiltà di Firenze, I, Napoli 1745; G. M. Mecatti, Notizie istorico-genealogiche appartenenti alla nobiltà e alla cittadinanza fiorentina, ibid. 1753; G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne' suoi quartieri, Firenze 1754-1762; G. M. Mecatti, Storia genealogica della nobiltà e cittadinanza di Firenze, Napoli 1754; V. Borghini, Dell'arme delle famiglie fiorentine, Firenze 1755; G. Lami, Sanctae ecclesiae Florentinae monumenta, ibid. 1758; ID., Lezioni di antichità toscane, ibid. 1766; I. di San Luigi, Delizie degli eruditi toscani, ibid. 1770-1789 (passim, ma partic. VII, ibid. 1776, 135 ss., " Famiglie consolari che risederono in Firenze dagli anni di Cristo 1138 agli anni 1260 "); Eccellenze e grandezze della nazione fiorentina. Dissertazione che si premette ad una descrizione alfabetica dei nomi e famiglie nobilissime di Firenze, ibid. 1780; S. Salvini, Storia cronologica de' canonici fiorentini, ediz. a c. di G. Albizzi, ibid. 1782; M. Rastrelli, Priorista fiorentino istorico illustrato, ibid. 1783-1785; V. Follini, Firenze antica e moderna illustrata, ibid. 1789; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena 1790; D. Moreni, Notizie istoriche dei contorni di Firenze, Firenze 1792-1795; E. Repetti, Dizionario geografico, fisico, storico, della Toscana, ibid. 1833-1846; P. I. Fraticelli, Delle antiche carceri di Firenze denominate le Stinche, ibid. 1834; L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza e d'istruzione elementare gratuita della città di Firenze, ibid. 1853.

Riferimenti agli U., e specialmente a quelli di essi che ebbero parte nella vita politica cittadina, si hanno anche negli studi più recenti di F. Bonaini, Della Parte Guelfa di Firenze, in " Giorn. Stor. Archivi Toscani " II (1858) 171-187, 257-289; III (1859) 77-99 167-184; IV (1860) 3-31; P. Santini, Società delle torri in Firenze, in " Arch. Stor. Ital. " s. 4, XX (1887) 35-58, 178-204; P. Santini, Documenti sull'antica costituzione del Comune di Firenze, I, Firenze 1895; ID., Nuovi documenti sull'antica costituzione del Comune di Firenze, in " Arch. Stor. Ital. " s. 5, XIX (1897) 276-325; ID., Documenti sull'antica costituzione del Comune di Firenze. Appendice, Firenze 1952; ID., Studi sull'antica costituzione del Comune di Firenze, in " Arch. Stor. Ital. " s. 5, XVI (1895) 3-59; XXV (1900) 25-86; XXVI (1900) 3-80; XXXI (1903) 308-364; XXXII (1903) 19-72, 310-359; A. Gherardi, Le Consulte della Repubblica fiorentina (1280-1298), Firenze 1896-1898; G. Salvemini, Le Consulte della Repubblica fiorentina nel secolo XIII, in " Arch. Stor. Ital. " s. 5, XXIII (1899) 61-113; B. Barbadoro, Consigli della Repubblica fiorentina (1301-1307), Bologna 1921; G. Salvemini, Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1295, Torino 1960²; U. Dorini, Notizie istoriche sulla Università di Parte Guelfa di Firenze, Firenze 1902; R. Caggese, Su le origini della Parte Guelfa e le sue relazioni con il Comune, in " Arch. Stor. Ital. " XXXII (1910) 265-309; N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Torino 1962².

Notizie sulla consorteria e sulle vicende familiari degli U. sono in: G. Carocci, Le famiglie fiorentine rammentate da D., Roma 1913; G. Mini, Il libro d'oro di Firenze antica nel canto XVI del Paradiso della D.C.-Studio storico-araldico, ibid. 1916; G. Renier, Liriche di Fazio degli U., Firenze 1883, pp. X ss. (" Una famiglia ghibellina nei secoli XIII e XIV ", con particolare riguardo alla storia degli U. durante la diaspora conseguente all'esilio, pp. CXIII-CXXXIV).

Profili della storia genealogica degli U. sono in L. Tettoni-F. Saladini, Teatro araldico, Lodi e Milano 1841-1851; nel commento di L. Passerini al romanzo di A. Ademollo, Marietta de' Ricci, II, Firenze 1845, 745 ss.; in D. Tiribilli-Giuliani, Sommario storico delle famiglie celebri toscane riveduto dal cavalier L. Passerini, ibid. 1855-1863; in G. G. Warren lord Vernon. L'Inferno, II, Documenti, Londra 1862, 595-596; in Scartazzini, Enciclopedia 2034-2036. Studi storico genealogici particolari sono quelli di F. Trucchi, Notizie storiche della famiglia degli U., in F. degli Uberti, Serventese nazionale, a c. di F. Trucchi, Firenze 1841; e di G. A. Farinata Degli U., Ricerche storico-genealogiche sulla famiglia degli U., in " Giorn. Araldico-genealogico " VII (1898) 137 e seguenti.

L'importanza degli U. nella storia politica fiorentina si rileva dal posto che a essi è fatto nelle opere generali di storia cittadina del Capponi, del Perrens, del Caggese; ma è soprattutto Davidsohn, Storia, e Forschungen, che discute criticamente i rapporti con la problematica di quella storia, dando ordine alla sparsa documentazione già nota e integrandola con nuove ricerche.

Interessano da vicino anche la storia genealogica degli U. e la biografia dei personaggi di questa consorteria gli studi di B. Quilici, La Chiesa di Firenze nell'alto medioevo, Firenze 1938; La Chiesa di Firenze nei primi decenni del secolo undecimo, ibid. 1940; Il vescovo Ranieri e la Chiesa di Firenze durante la lotta delle investiture, ibid. 1943; La Chiesa di Firenze nel secolo dodicesimo, ibid. 1951; La Chiesa di Firenze nei primi decenni del sec. XIII, ibid. 1965; Il vescovo Ardingo e la Chiesa di Firenze nel quarto e quinto decennio del secolo XIII, ibid. 1965; La Chiesa di Firenze dal governo del " Primo popolo " alla restaurazione guelfa, in " Arch. Stor. Ital. " CXXVII (1969) 265-337, 423-460.

TAG

Buondelmonte de' buondelmonti

Ottaviano degli ubaldini

Farinata degli uberti

Federico di antiochia

Cristiano di magonza