CARRARA, Ubertino da

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARRARA, Ubertino da

M. Chiara Ganguzza Billanovich

Nacque a Padova agli inizi del secolo XIV da Giacomino, figlio di Bonifacio, e da Fina Fieschi, e fu chiamato, per distinguerlo dallo zio Ubertino il Vecchio, Ubertinello o Ubertino Novello.

Nell'agosto del 1319, quando Cangrande Della Scala, alleatosi con i marchesi Rinaldo e Obizzo d'Este e con i fuorusciti, assediò Padova, il C., insieme con Albertino Mussato e il giudice Giovanni de Vigonza, fu inviato dallo zio Giacomo (I), signore della città, a Bologna e in Toscana per chiedere soccorsi. Ma l'ambasceria non sortì alcun esito e Giacomo da Carrara, pur di impedire la caduta della città nelle mani dello Scaligero, offrì la signoria ad Enrico di Gorizia, vicario a Treviso del re dei Romani Federico d'Asburgo, quale rappresentante di quest'ultimo (4 nov. 1319).

Sei anni dopo il C. si rese responsabile di un grave episodio di violenza. Il 17 giugno 1325 uccise, per motivi di rivalità amorosa, Guglielmo Dente, di nobile famiglia padovana, e fu di conseguenza bandito dalla città dal podestà Pollione Beccadelli, che ordinò anche la distruzione della sua casa. Non soddisfatto della sentenza, Paolo Dente, fratello naturale dell'ucciso, pensò di vendicarne la morte organizzando una congiura anticarrarese, alla quale aderirono anche Gualpertino Mussato, abate del monastero di S. Giustina, e lo stesso Beccadelli. Il 22 settembre fu dato l'assalto alle case dei Carrara, che però si opposero validamente e riuscirono a respingere gli aggressori. Alla notizia dei tumulti, il C. si precipitò da Chioggia a Padova, accompagnato da numerosi seguaci: uccise il podestà, saccheggiò le case dei maggiorenti e, per distruggere i documenti della sua condanna, penetrò nella cancelleria del Comune, bruciando i registri dei banditi e gran parte dell'archivio. I Carrara, che dalla sommossa erano usciti vincitori e rafforzati nella propria autorità, fecero allora eleggere podestà Corradino Bocchi di Brespia, con la condizione che egli non procedesse contro il C., e ottennero inoltre da Corrado di Owenstein, capitano a nome di Enrico di Carinzia, vicario di Federico a Padova dal 1321, una sentenza di bando contro i Dente e i loro sostenitori (14 dicembre), tra i quali, sebbene innocente, fu compreso Albertino Mussato e il figlio Vitaliano.

Dopo che il cugino Marsilio ebbe trattato segretamente la dedizione di Padova a Cangrande Della Scala nel settembre del 1328 per sventare i piani del rivale Nicolò da Carrara, il C., che secondo i Gatari prese parte agli accordi, intervenne nel novembre alle celebrazioni organizzate a Verona per festeggiare l'acquisto di Padova e fu creato cavaliere. Condivise sempre la linea politica perseguita da Marsilio e quando questi, desideroso di recuperare la perduta signoria e di liberarsi dal giogo scaligero, stipulò con Venezia e Firenze il patto segreto del 14 luglio 1337, - patto con cui si impegnava a riconoscere una sostanziale subordinazione di Padova nei confronti della Serenissima -, il C. venne in esso designato quale successore dello stesso Marsilio nella signoria di Padova. La data del 3 ag. 1337 sancì l'effettivo costituirsi della signoria carrarese: in quel giorno Alberto Della Scala fu fatto prigioniero dalle milizie veneziane e Marsilio fu acclamato signore. Ma poiché tale elezione avvenne grazie all'intervento di due potenze esterne, Venezia e Firenze, né Marsilio né il C. poterono esimersi dal compiere atti che esprimevano, specie nei confronti della prima, il riconoscimento di una sorta di protettorato. Infatti il 10 marzo 1338 Marsilio, gravemente ammalato, fece approvare anche dal Maggior Consiglio la successione del C., ma con la clausola "semper de beneplacito domini Ducis Venetiarum et communis Florentie" (Cortusi, p. 89). Dal canto suo il C., per garantirsi l'appoggio della potente Repubblica, chiese proprio in quegli stessi giorni la cittadinanza veneziana, che gli fu concessa il 22 marzo 1338, all'indomani della morte di Marsilio. Poi, appena confermato signore dal Maggior Consiglio, si affrettò ad inviare una solenne ambasceria a Venezia e a Firenze, notificando la sua nomina e sollecitando, con espressioni di grande devozione, la conferma dei patti già conclusi con Marsilio. Chiese inoltre di aggiungere al capitolo del trattato che obbligava il signore di Padova ad aiutare e difendere Venezia contro qualsiasi nemico, un uguale impegno nei confronti di Firenze: il 5 maggio, in una sala del palazzo ducale di Venezia e alla presenza di ambasciatori fiorentini, venne steso il documento di rinnovo dell'accordo del 14 luglio 1337 con la modificazione richiesta.

Uno dei primi compiti che si presentarono al C. fu quello di liberare il territorio padovano dagli ultimi capisaldi scaligeri. Dopo un anno e mezzo di assedio anche Monselice dovette arrendersi (19 ag. 1338), mentre la rocca, strenuamente difesa dal capitano Fiorello da Lucca, cadde solo il 28 novembre con il tradimento. Fu Venezia ad intervenire per por fine alla guerra, perché, dopo aver ottenuto Treviso il 2 dicembre dallo stesso Mastino Della Scala e assicurato nell'entroterra veneto quell'equilibrio che le era garanzia di sicurezza, non aveva più interesse, nonostante i patti, a proseguire la lotta per far avere a Firenze l'ambita Lucca. Si giunse così alla pace, conclusa il 24 genn. 1339: la Serenissima ottenne, oltre a Treviso (che tenne per sé), anche Bassano e Castelbaldo, che cedette al C.; furono riconosciuti i diritti del C. su Padova e il distretto, mentre gli Scaligeri rimasero signori di Verona, Vicenza, Parma e Lucca.

L'intesa aveva in sé i germi di futuri dissensi: ad un anno di distanza riprendevano infatti le ostilità. Nella speranza di impadronirsi di Vicenza, il C. strinse alleanza il 9 apr. 1340 a Lendinara con il marchese Obizzo d'Este, con Firenze e con Taddeo Pepoli ai danni di Mastino Della Scala, che, in risposta, si unì a Luchino Visconti e a Ludovico Gonzaga e mosse contro Bologna. In difesa di questa città il C. inviò nell'agosto truppe guidate da Enghelmario di Villandres. Si stava per venire alle armi, quando il Visconti riuscì a comporre le discordie.

Deluso nelle sue aspirazioni, il C. si alleò l'anno seguente con il Gonzaga, il Visconti e Azzo da Correggio per togliere Parma dalle mani dello Scaligero. Con essi nel settembre del 1341 corse il territorio veronese compiendo saccheggi fino alle porte della città, con l'intenzione di assediare poi Vicenza. Ma anche questa volta il piano fallì, perché i Mantovani, paghi del bottino, si ritirarono e l'alleanza si sciolse. Azzo da Correggio era però riuscito ad impadronirsi di Parma (21 maggio 1341). I Fiorentini colsero quindi l'occasione per tentare ancora una volta di ottenere Lucca e aprirono negoziati con la corte di Verona dichiarandosi disposti a pagare per l'acquisto della città unsa grossa somma. Ma i Pisani, decisi essi pure ad avere Lucca, vi inviarono le loro milizie e l'assediarono. Invano Firenze, richiamandosi agli accordi stipulati il 5 maggio 1338, si rivolse al C. per rinforzi. I Fiorentini allora, nel timore che Mastino vendesse Lucca ai Pisani, preferirono acquistare la città nonostante fosse assediata, impegnandosi a pagare 180.000 fiorini di oro (21 sett. 1341). Ma il C. non solo si rifiutò di aiutare i Fiorentini: nell'ottobre inviò addirittura truppe in soccorso dei Pisani, che si unirono a quelle mandate dal Visconti, dal Gonzaga, dai Correggio, dai Genovesi e dai ghibellini toscani e romagnoli. Tale comportamento poco leale verso Firenze era dettato dal suo rancore nei confronti di Mastino Della Scala. I Pisani infatti, grazie a questi sussidi, l'11 luglio 1342 si impadronirono di Lucca, privando in tal modo lo Scaligero sia della città, sia del suo prezzo, che i Fiorentini avevano solo parzialmente saldato. Ma dopo lo scambio di varie ambascerie, vennero finalmente appianate anche le controversie tra il C. e Mastino, che, incontratisi a Montagnana il 25 maggio 1341, strinsero amicizia, rinsaldata dal matrimonio di Gentile, figlia naturale del C., con un figlio illegittimo dello Scaligero.

I rapporti tra il C. e la Repubblica veneta si erano mantenuti fino a questo momento ottimi: con sentenza del 24 marzo 1340 il doge aveva risolto la lunga e delicata questione riguardante l'eredità di Tiso (IX) Camposampiero, assegnando al C. il castello di Camposampiero e la curia, e a Guglielmo Camposampiero, suo antagonista nella controversia, il resto dell'eredità. E quando nel luglio dello stesso Vitaliano Dente, che si era rifugiato a Venezia dopo l'uccisione del padre Guglielmo, tentò di far avvelenare il C., il doge si affrettò a decretarne il bando e la confisca dei beni. Così, in occasione della rivolta di Candia nel 1342, il C., dietro richiesta del governo veneziano, inviò consistenti soccorsi per domare la sollevazione. Tuttavia la Serenissima non mancò mai di sottolineare la sua posizione di supremazia nei confronti del C.: lo si vide durante il processo per il tentato omicidio di Lemizio Dente, fratello naturale dell'assassinato Guglielmo, che risultò esser stato compiuto a Venezia nel maggio del 1343 da sicari del Carrara. Sebbene fosse il signore di Padova, il C. fu citato, con lettera ducale, a comparire in persona entro otto giorni davanti al tribunale veneziano per scolparsi dell'accusa. E poiché egli non si presentò, fu sì assolto dal reato principale per mancanza di prove dirette, ma venne dichiarato contumace e bandito da Venezia e dalle terre del dogado.

Tale atteggiamento di intransigenza era motivato d'altra parte dai sospetti destati nella Repubblica veneta dai nuovi rapporti stabilitisi proprio in quello stesso periodo tra il C. e Mastino Della Scala, che rischiavano di turbare il difficile equilibrio raggiunto nell'entroterra. Condannando il C., Venezia intese quindi ribadire ancora una volta la propria superiorità nei confronti della signoria carrarese.

Di particolare rilievo e concordemente sottolineata da tutte le fonti fu l'attività svolta dal C. nell'interesse pubblico. In Padova proseguì infatti l'opera di costruzione e riparazione delle mura iniziata da Marsilio; portò a termine l'edificazione del palazzo signorile (1343), sulla cui torre di ingresso fece collocare nel marzo del 1344 uno splendido orologio, dovuto all'ingegno del famoso medico e astrologo Iacopo Dondi; selciò le strade della città e tracciò o riassestò altre per agevolare le comunicazioni con il contado; rinforzò gli argini dei fiumi, scavò un canale navigabile tra Este, di cui aveva ricostruito la rocca nel 1339, e Montagnana; incrementò l'industria e il commercio, potenziando soprattutto l'arte della lana e la fabbrica della carta; favorì gli studi confermando all'università gli antichi privilegi, aggiungendone nuovi e chiamando nel 1344 alla cattedra di diritto civile il celebre Rainiero Arsendi da Forlì; sul piano legislativo introdusse nel febbraio del 1339 importanti riforme negli statuti comunali.

Gravemente ammalato e privo di figli legittimi, il C. il 27 marzo 1345, per consiglio del suo vicario Pietro da Campagnola, fece approvare dal Consiglio quale successore Marsilietto Papafava da Carrara, preferendolo, benché alquanto lontani fossero i loro legami di parentela, ai nipoti Giacomo e Giacomino, figli del ribelle Nicolò. Morì il 29 marzo 1345 e fu sepolto nella chiesa di S. Agostino di Padova.

Aveva sposato in prime nozze Giacomina, figlia di Simone da Correggio, zio materno di Alberto e Mastino Della Scala. Ottenuto lo scioglimento del matrimonio, che asserì di aver contratto forzatamente per suggerimento del cugino Marsilio al tempo della dominazione scaligera in Padova, sposò il 24 apr. 1340Anna Malatesta, figlia di Malatestino Novello.

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