Un'ordinaria forma non alletta. Arte, riflessione sull'arte e società

Storia di Venezia (1997)

"Un'ordinaria forma non alletta". Arte, riflessione sull'arte e società

Lionello Puppi
Ruggero Rugolo*

Il Seicento rappresenta nella complessa compagine della storia di Venezia l'estrema grande occasione di reagire, frattanto a livello artistico, all'ineluttabile destino che costringeva ormai la Repubblica ad un ruolo di crescente marginalità nelle vicende politiche europee. Si avverte in tale particolare momento l'esigenza di connotare visivamente il tessuto urbano della città dei segni di un ῾trionfo' che è, in realtà, l'obiettivo ambiguo di una volontà che mescola e confonde auspici, sogni, illusioni con i dati concreti della realtà politica e sociale. Dopo la drammatica vicenda dell'Interdetto, che aveva veduto la Repubblica all'inizio del secolo isolarsi in un'ostinata affermazione della propria indipendenza da qualsivoglia ingerenza esterna (quella, ad esempio, della potenza asburgica che agiva attraverso la Roma dei papi), è alquanto significativo che la prima grande commissione pubblica - mitigate le pur lodevoli velleità della passata classe dirigente, che vedeva i Donà quali capifila del partito antiromano - si concentri in una combattuta (1) cooperazione tra Stato e Chiesa nella rifabbrica della cattedrale di Chioggia del 1626 (2). E non è un caso che l'architetto incaricato del progetto sia proprio Baldassarre Longhena, l'artefice della futura celebrazione della ῾rifondazione' di Venezia con l'innalzamento del tempio della Madonna della Salute, quale voto cittadino per la terribile peste del 1630.

Tra Scamozzi e Longhena

L'apparizione (per cura dell'autore), nel 1615, dei primi sei libri dell'ambiziosa - e tormentata - fatica trattatistica di Vincenzo Scamozzi, trascendeva, sebbene il personaggio in quanto progettista fosse stato coinvolto in contrastati impegni sui nodi pubblici significativi delle piazze marciane e di Rialto - di cui diremo -, ogni indugio sul particulare costituito dall'immagine della città, per dispiegarsi nell'idea di un'architettura universale. Singolare l'avventura artistica e teorica di Vincenzo e sinora - a dispetto dell'applicazione intensa ed accorta di studiosi quali un Franco Barbieri e un Carmine Jannacco (3) - ancor da approfondire in buona misura, a cominciare dal problema di grande interesse e ricco di determinanti implicazioni posto dai modi della sua giovanile formazione; e non tanto alludiamo in prima istanza, alla possibilità di identificare gli ambienti e le persone frequentate, ma proprio le condizioni nelle quali ebbe a realizzarla. Lo Zorzi, nel corso di benemerite ricerche archivistiche (4), è riuscito a rinvenire un solo documento, datato 1575, nel quale il nome dello Scamozzi sia accompagnato da una qualificazione professionale - "carpentarius" -: tuttavia, il personaggio vi figura accanto al padre, che risulta costantemente designato, appunto, come "carpentarius" o "marangonus", talché l'indicazione, "collettiva", ci sembra assai poco probante. È ben più significativo che, sino al 1580, allorché si definirà "studiosus architecturae", lo Scamozzi sia rammentato dalle carte a nostra conoscenza senza l'indicazione di un'eventuale professione, benché possa essere stato utilizzato - come egli stesso ammetterà - in qualità di perito in stime di vario genere. Del resto, né le matricole né i verbali della fraglia vicentina dei muratori e dei lapicidi registrano sue presenze di sorta. È ben credibile, pertanto, che la formazione di Vincenzo sia avvenuta al di fuori di qualsiasi tirocinio di mestiere, con tutti i vincoli e le limitazioni che ciò comportava: ma come frequentazione, liberamente scelta e decisa, di circoli culturali, cui il padre Giandomenico - costruttore di oneste capacità e in quanto tale frattanto in grado di fornire basi pratiche di esperienza architettonica - potrebbe averlo introdotto, profittando delle proprie relazioni, abbastanza ampie e a livelli non spregevoli, con l'ambiente vicentino.

L'ipotesi può giovarsi di altri non trascurabili indizi, nei numerosi passi del trattato scamozziano dove si insiste sulla distinzione tra "l'architetto" e i "capimastri" che "è come appunto tra il padrone, e i servi", e che si fonda sulla qualità puramente mentale, garantita dal più ampio "scientifico sapere", del lavoro del primo; e sul carattere manuale dell'impegno dei secondi. Altrove, Vincenzo depreca che talora i capimastri, "alhora che essi hanno acquistato qualche honesta prattica nell'intendere, et eseguire l'Arti loro nelle fabriche" "si danno ad intendere ad un tratto d'esser Archimastri"; pur ammettendo la necessità per l'architetto stesso "nell'andar in pratica", ma solo per "vedere, et osservare l'esperienza delle cose". Ancora, non esita a ribadire che "tutte le Arti hanno la Theorica, et anco la pratica; quella come padrona, e questa come sua ancilla": giustificando la posizione rigorosamente subalterna delle "Arti operative, o fabrili" in quanto richiedono sforzo o impegno fisico. Del resto, nel testamento dettato nel 1602, lo Scamozzi dichiara, in maniera estremamente sintomatica: "io son visutto sempre huomo libero [...]; per poter molto più, e commodamente attendere a studij di questa facoltà, essendo così inclinato dalla Natura" (5). Un siffatto atteggiamento è in relazione con l'affermazione orgogliosa dell'artista nella Dedica del libro VIII della parte II dell'Idea ai "Deputati" vicentini. Vicenza - egli dichiara (6) - è

quella città nella quale io ho hauto i miei antenati, e genitori, la mia nascita, et educatione giovanile, doppo la quale per attendere a più gravi studij passai a Roma, e qual Cittadino del Mondo feci molte peregrinationi, et alla fine mi fermai qui in Venetia.

Se pur Vicenza e Venezia son fissate come cardini ai poli estremi di un proprio destino di architetto, la rivendicazione orgogliosa e sovrana è quella del ruolo di "Cittadino del Mondo" la quale si pone in relazione immediata con la nozione di libertà, che trova avanti tutto la sua negatività nei vincoli di una condizione artigianale e che è poi astrattamente e globalmente proclamata; e che sottintende insomma una concezione di totale disponibilità dell'intellettuale, il quale trova la giustificazione della propria funzione e il fondamento della propria superiore dignità nell'"attendere a [gli] studij", al di fuori di ogni ordine di responsabilità sociali. Ciò che, insomma, configura una condizione di disponibilità aperta alla vocazione cosmopolitica, e rispecchia, alle radici, una situazione di incrinatura, se non di rottura, con ogni definita e peculiare dimensione sociale. I modi, esternamente considerati, della probabile formazione dello Scamozzi per cui dunque il ruolo dell'artista e più specificamente dell'architetto si identifica con quello dell'intellettuale libero, qualificato dall'esercizio della "Theorica", che presuppone la "cognitione delle cause", costituiscono, s'intende, il punto d'avvio favorevole a una presa di coscienza capace di articolare una somma di lucide argomentazioni, nella misura in cui avveniva nel contesto di una realtà di crisi della concezione tradizionale di quelle professioni. Ma siffatti modi sono, per se stessi, oltremodo significativi: e ci par giusto richiamare ciò che ha osservato molto pertinentemente l'Argan, sia pur ad altro proposito, circa il significato di una prassi artistica di tipo "artigianale" che si caratterizza nel senso di "una piccola salvezza individuale", condizionata, aggiungeremmo, dal suo porsi in un ordine collettivo ben determinato e organizzato. Quanto all'identificazione dei concreti contenuti della formazione dello Scamozzi sono state fornite dagli specialisti dell'architetto due diverse, ma non inconciliabili, ipotesi. Da una parte infatti il Barbieri - cui si debbono interventi critici tra i più consistenti ed illuminanti - ha proposto di riconoscerli nei particolari orientamenti di quell'Accademia Olimpica, fondata a Vicenza nel 1555 con la fusione di alcuni circoli culturali gravitanti intorno a personaggi della locale aristocrazia e con la quale lo Scamozzi fu in rapporto di lavoro; d'altro canto, lo Zorzi ha invece suggerito di individuarli nei temi dell'insegnamento impartito presso il Seminario vicentino, fondato nel 1565 dal vescovo veneziano Matteo Priuli. In particolare, il Barbieri osserva come l'intera parabola, a livello della speculazione teorica e della attività creativa, risenta di un'educazione avvenuta in un ambiente in cui, giusta lo storiografo contemporaneo Marzari,

si sono trattate [...] e trattansi oggidì le cose della poesia, della logica et filosofia, dell'oratore, dell'umane lettere latine et vulgari, della metafisica et matematiche, della musica, della geometria et aritmetica, della pittura, scultura et architettura, delle antiche et moderne historie, della educazione de' nobili e di qualunque altra lodevole professione.

Un ambiente, pertanto, contrassegnato da disposizioni eclettiche e viziato da una evidente tendenza a impostare in termini di astrazione universalizzante i problemi della cultura: certamente, ben avverte il Barbieri, "ancorato alla forma mentis dell'aristotelismo, anche se pur vagamente intriso di seduzioni neoplatoniche". Apprendiamo, dal Palladio, che nella congerie di interessi denunciata dal Marzari agli studi di architettura doveva essere dedicato un interesse rilevante, che vedeva l'applicazione di "molti gentil huomini" distinti "per nobiltà e per eccellente dottrina"; ma sempre il Barbieri ha dimostrato che alla prova dei fatti (l'elenco delle opere appartenenti alla biblioteca del cenacolo Olimpico; la reale attività esplicata dai suoi membri), "i problemi dell'architettura" venivano, molto probabilmente, piuttosto trattati con tono "intellettualistico e astratto", non scevro da velleità enciclopediche (sappiamo che un ῾suggeritore', il Trissino, aveva avviato uno scritto intitolato Principio dell'architettura universale), sollecitate dalla circolazione, tra gli accademici, degli scritti serliani disponibili, di cui doveva essere stata colta, soprattutto, la capacità di inglobare una gamma svariata di esperienze nella propria trattazione, per giunta esposta in termini di semplificazione didascalica. Potremmo aggiungere che la segnalazione, tra i motivi dibattuti nell'Accademia Olimpica, di questioni inerenti all'"educazione de' nobili", nel momento in cui vale una distanza che si sarebbe tentati di cogliere come una sorta di ῾vizio d'origine' rispetto all'autocoscienza dell'intellettuale veneziano, costituisce un'ulteriore ῾pezza d'appoggio' alla supposizione di una presenza dello Scamozzi in quel consorzio, giacché esse sono certamente in relazione con la resurrezione di una coscienza aristocratica, che è trionfale nei centri dell'Entroterra, ove recupera "l'orgoglio del sangue e della casta" a scapito di una socialità fondata sull'"industre iniziativa" e su differenti rapporti nell'articolazione della collettività. E s'aggiunga che codesta "educazione de' nobili" doveva fondare i propri principii cardine sulla degradazione, a livello di ignobiltà, delle "artes mechanichae", il cui concetto è esteso a comprendere "i mestieri e le professioni contrari alla dignità e all'onore del gentiluomo"; e quelli, si capisce, in primo luogo, richiedenti l'esercizio della manualità (7). La frequentazione dell'Accademia Olimpica, che è alla fine ben credibile, dovette interessare lo Scamozzi sino al 1572, allorché egli prenderà saltuaria dimora a Venezia; o tutt'al più sino al 1575, allorché, alla conclusione della lettura dell'edizione vitruviana del Barbaro, stenderà un trattatello sulla prospettiva, oggi perduto, che probabilmente traduceva le sue impressioni sulle esperienze in quell'ambiente; per il quale, a un certo punto, avrà provato qualche insofferenza, in quanto la coscienza aristocratica del ruolo dell'intellettuale, proprio ivi maturata, doveva indurlo a rifiutare la posizione subalterna in senso cortigianesco, che si sarebbe finito per imporgli; e che il candido Palladio senza malumori, e il più ambizioso Giambattista Maganza con qualche malumore avevano pur accettato. Invece l'esclusione da parte dello Zorzi di una presenza scamozziana nell'ambito Olimpico è fondata, sostanzialmente, sulla constatazione che Vincenzo non assurgerà alla dignità di accademico: il che pare argomento non decisivo, soprattutto quando si pensi al rapido allontanamento dell'architetto da quel circolo. È molto interessante, invece, e credibile, la congettura di una frequenza della Scuola del locale Seminario - che non esclude affatto la relazione con gli Olimpici - e non solo perché ivi lo Scamozzi poteva realizzare l'apprendimento del latino, che assai per tempo mostrerà di conoscere, ma per altre considerazioni.

La Scuola del Seminario, in effetti, voluta dall'autorità ecclesiastica vicentina in applicazione sollecita dei decreti tridentini, dovette sin dall'inizio vedere un'attiva presenza dei padri Somaschi, che nel 1584 ne assumeranno tout court la direzione disciplinare e amministrativa: ora, è noto che lo Scamozzi mantenne a lungo con quella Congregazione religiosa, che si segnala per un impegno particolare nell'applicazione dei principii controriformistici, rapporti abbastanza stretti, che si tradussero nella commissione di alcune opere di architettura (le chiese di San Gaetano a Padova e dei Tolentini a Venezia; indirettamente, il monastero di San Michele a Este; ecc.). Si tratta alla fine di un tramite non trascurabile che, se non altro, potrebbe avere fatto confluire nel mondo degli interessi culturali scamozziani umori propri dei circoli di san Carlo Borromeo, già esplicati negli Acta Ecclesiae Mediolaniensis del 1576 e poi tradotti nel trattato Instructionum Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae edito dal cardinale nel 1577; laddove la tendenza a proporre il fatto architettonico al di fuori di presupposti simbolistici, in quanto dato che ha da scaturire da un impegno di sostanza pragmatica, poté ben sollecitare una mentalità come quella dello Scamozzi già condizionata dall'esperienza dell'empirismo serliano. Senza dimenticare che le vivaci istanze funzionalistiche di quel testo potranno aver avuto più tardi, egualmente, risonanza.

Ovviamente, non è qui il caso di seguire, tappa per tappa, la successiva vicenda scamozziana: a cominciare dall'approdo primo a Roma che si prolungherà dal 1578 al 1579 (compresa una puntata in Campania) e che non solo metterà Vincenzo a confronto con i circoli zuccareschi dove (ma vi sarà dell'altro di cui presto diremo) dovette farsi più chiara nell'architetto, in una con l'urgenza dell'ampliamento delle proprie basi di esperienza, la volontà pur maturata nell'ambiente vicentino, di una sintesi, alla cui definizione s'aggiungeva, ora, l'indicazione di nuovi strumenti operativi. Ciò che importa rilevare finalmente è che il successivo spostarsi dell'architetto per "l'Italia più volte [...] la Germania, Francia, et anco buona parte dell'Hungaria" traduce una condizione di cosmopolitismo culturale che scaturisce dalla realtà storica particolare nella quale l'architetto si era formato e si muoveva. Nel 1584 Vincenzo, molto probabilmente insieme al padre, aveva curato un "Indice copiosissimo" del trattato serliano, preceduto da un "Discorso sull'architettura" in cui già si configura un tentativo di rielaborare la materia vasta, relativa all'attività costruttiva: sottintendente la significativa distinzione tra l'architetto, la cui azione è connotata da un impegno d'ordine scientifico, e gli esecutori. Certamente, sin d'allora, lo Scamozzi doveva pensare all'opera di maggior respiro e organicità sistematica, che sarà L'idea dell'Architettura Universale avviata - giusta il testamento del 1602 - almeno sin dal 1591; ed edita alla vigilia della morte, nel 1615. L'impostazione data dallo Scamozzi al suo trattato si fonda sul presupposto che l'architettura

sia scientia (come dice Platone), per la qual cosa, poiché essa ha le sue dimostrazioni, certe e indiscutibili, perciò si possono insegnare, e dimostrare come è costume e delle Matematiche, e simili altre, i quali sono tutti i segni del sapere, come dice Aristotile.

In altri termini, Vincenzo fonda il proprio discorso su un apriorismo, che scaturisce dalla necessità di garantire su un fondamento oggettivo il ruolo di libertà intellettuale dell'architetto. Ed è sorprendente constatare come egli - laddove in altre situazioni l'acquisizione di una libertà astratta, nel contesto di una realtà che non offriva concrete alternative nell'ordine sociale, in cui potesse realmente esercitarsi, determina crolli clamorosi o evasioni estetizzanti e alienanti - proceda imperterritamente, frattanto, nell'articolare il suo progetto di sistemazione universalistica. In cui vien fatto rientrare ogni dato desunto dall'ampia realtà architettonica sperimentata opportunamente destoricizzato e condizionato al rigido presupposto. L'esortazione aristotelica dello Zuccari, "di cominciare sempre dalli principi primi, et generali, et poi passar alla conclusione delle cose, che si trattano in particolare", trova così una singolare applicazione.

Si fà molto chiaro [scrive lo Scamozzi] che al'Arte si conviene più il sapere e il conoscere le ragioni delle cose, che all'esperienza: essendo che l'arte ha cognitione universale, e l'esperienza solo degli accidenti particolari. Laonde ancor noi reputiamo più dotti, e sapienti gli architetti che possedono questa facoltà con quei termini che ricerca l'arte, che quelli che la tengono solo per via della esperienza; e tanto maggiore quanto i primi acquistano le cose per via delle scientie, essendo che allora dagli universali vengono in cognizione de' particolari delle cose: onde sanno le cause che sono termini scientifici, e rendono le ragioni.

Talché, ben osserva il Barbieri, "nell'atto stesso in cui postulava un allargamento notevolissimo per i suoi tempi, della base della cognizione, l'eclettismo dello Scamozzi rivelava il suo vero aspetto"; congegnando una summa, che, nel suo universalismo fondato su astrazioni aprioristiche, elude in realtà un confronto, quale che potesse essere, con i problemi reali, più ardui e scottanti; una sorta di sia pur perfetta "città ideale" che, non meno di affermazioni più dirette ed esplicite, attesta la catastrofe del Rinascimento umanistico. C'è una questione, tuttavia, che val la pena almeno di impostare: un controllo meticoloso e attento de L'idea dell'Architettura Universale consente di cogliere incrinature a malapena saldate, e scarti che non sempre il procedere rigoristico dell'autore riesce a ridurre alle ferree premesse. E si tratta non solo della difficoltà, talora abbastanza evidente, di purificare la nozione di "giudicio", scientificamente fondato, da ogni carica di soggettivismo; ma, soprattutto di preoccupazioni funzionali e di interessi tecnicistici; e, insomma, davvero, di una non più predeterminata ma pronta e pragmatica risposta a una problematica concreta, colta immediatamente nel suo configurarsi "storico" (8). Vale la pena, a questo riguardo, rammentare che lo Scamozzi aveva chiesto a Paolo Gualdo di predisporgli il testo dedicatorio dell'Idea: che non pubblicò, ma ci resta nella relazione manoscritta originaria. Ora, preme mettere l'accento su un denominatore culturale che connota le dimensioni con le quali il Gualdo ebbe dimestichezza, e che è identificabile nell'aspirazione neoplatonica, impersonata al livello di coscienza teoretici da un Lomazzo e, seppure contaminata in un assetto aristotelico, da Federico Zuccari. Si tratta, in sostanza, dell'esito di una scelta, rivolta a definire un supporto filosofico, stimolante e operativo, ad una vocazione insofferente dei rigori paralizzanti delle correnti più tradizionaliste dell'aristotelismo o alle deviazioni ῾libertine' (ma non meno 'reazionarie') alla Cremonini; e tesa, per il riguardo che più ci importa, a giustificare la concezione pragmatica dell'arte che, dalle istanze del Poësis etpictura di Antonio Possevino e del De historia di J. ver Meuren, approda al Discorso del Paleotti e, infine, alla sistemazione, capace di aperture pragmatiche, del De pictura sacra e, in ispecie, delle Instructiones del Borromeo. Il terreno è fecondo, ricco di fermenti; financo contraddittorio, per la sua innegabile complessità. Nel cardinal Federico la coscienza della funzione educatrice dell'operare artistico non si disgiunge, così, dalla convinzione del profondo e inscindibile correlarsi di arte e scienza, testimoniato dalla lettera al nipote Giovanni del 9 settembre 1628, e dalla formulazione delle regole disciplinanti l'organizzazione dell'Accademia, anticipata dall'istituzione, nel 1617, della Congregazione "pro construendis, instaurandisve et ornandis Ecclesiis, sacrisque aedibus". L'atteggiamento del prelato nei riguardi di Galileo, non solo cortese, affabile, cordiale, ma sinceramente curioso delle ricerche matematiche e astronomiche dello scienziato (benché sempre prudente e mai 'ideologicamente' scoperto), è oltremodo caratteristico: ma significativa è, ai nostri fini, la constatazione che fu, probabilmente, il Gualdo a mettere in contatto Federico con il Galilei. Giacché tra quest'ultimo e Paolo correvano sentimenti affettuosi d'amicizia, stabiliti - noi crediamo - sin dall'approdo del Toscano in quel di Padova, nel crogiolo vivacissimo cui sopra abbiamo alluso: e si veda la corrispondenza intercorsa. Del resto, a riprova, il Viviani, nella ben informata biografia di Galileo, redatta nel 1654, mette in evidenza come lo scienziato, della scoperta degli anelli di Saturno, s'affrettasse a dar notizia, insieme, ad alcuni matematici italiani e stranieri "et a' suoi amici più cari", indicando, tra questi pochi, "Mons.r Gualdo", in una con l'altro padovano "Mons.r Pignoria": così come, circa le macchie solari, per la delicatezza della faccenda che poteva "concitargli l'invidia o la persecuzione di molti ostinati Peripatetici", s'aprirà solo "ad alcuno de' suoi più confidenti di Padova e di Venezia e di altrove" : e al Gualdo (nonché al Pignoria) prima di chicchessia.

A voler postillare soltanto, e nei punti salienti, uno scritto prevalentemente di circostanza, quale la prefazione all'Idea, nell'abbozzo non sostanzialmente, poi, rinnegato, è dato cogliere indizi precisi del clima e degli umori che, in termini assai schematici, si sono tracciati. Si faccia caso come le "Discipline Mathematiche" siano apertis verbis proclamate fondamento "a tutte le altre arti liberali" (alla cui dignità è rivendicata la professione artistica) e come, specificamente, la "Architettura" sia considerata inseparabile dalle "Mathematiche" (e lo Scamozzi tempererà, introducendo la nozione mediatrice del "Disegno"); ancora, si ponga mente alla consapevolezza, più volte espressa, di una funzione sociale dell'arte ("non havendo mai havuto altro fine che poter giovare al presente e futuri secoli"), per quanto limitata da un riferimento, platonicamente fondato, alle "persone savie e intendenti", e dallo sprezzo per il "favore, et applauso popolari". Vicino allo Scamozzi sin dal tempo della comune frequentazione delle pubbliche scuole e del Seminario, a Vicenza; amico, poi, così sicuro e fedele da essere chiamato a collaborare, in un momento d'ansia e incertezze, alla definizione di quel trattato, che era il frutto di meditazioni protrattesi per lustri e doveva tradurre le ambizioni più care: è indubitabile che il Gualdo abbia trasmesso, negli incontri che saranno stati frequenti, durante gli anni del lungo rapporto, suggerimenti e stimoli maturati nella dimensione alla quale apparteneva e che egli stesso contribuì a costruire. In tal guisa, più persuasivamente si possono spiegare dati attivi nella cultura scamozziana: dei quali, per un verso, il riferimento alla probabile giovanile frequentazione dell'Accademia Olimpica (presto d'altronde trascurata: di sicuro, in base a un giudizio che ne doveva aver ravvisato il chiuso provincialismo e la sclerotica inattualità; e che fu, io credo, comune al Gualdo, il quale a quell'ambiente fu sempre estraneo) non riesce a cogliere la reale genesi; mentre la constatazione dell'ampiezza degli interessi e dei rapporti istituiti dall'architetto attraverso viaggi e spostamenti affida, tutt'al più, alla possibilità di una generica comprensione. In particolare, si illuminano, all'origine, le presenze zuccaresche che già il Barbieri individuava come momenti determinanti nella struttura dell'Idea; e, tanto meglio, quell'impegno di sostanza pragmatica, che già mettemmo in evidenza, riportandolo a istanze colte nei circoli controriformistici prossimi al Borromeo, ma riconoscendone il tramite - in realtà insufficiente - nelle ricordate relazioni esistenti tra Vincenzo ed i Somaschi. C'è, tuttavia, di più. È grande merito del Battisti l'individuazione, nell'Idea, di preoccupazioni funzionali e di interessi tecnicistici, malamente mascherati dall'impianto rigoroso del discorso: raccogliendo l'indicazione dello studioso - e confortati da un rilevante contributo dello Jannacco - ci capitò, una volta, di chiederci se non fosse il caso di cogliere, in siffatti ῾scarti', la conseguenza di un'inquietudine (connaturata ad una mentalità, come quella di Vincenzo, ῾disponibile') da relazionarsi alla presenza galileiana a Padova, affidando la eventuale risposta a un approfondimento dello studio dei milieux concretamente frequentati dallo Scamozzi. Siamo persuasi che il rapporto con il Gualdo possa rendere conto davvero - e nell'ordine a suo tempo suggerito -, di quei fermenti e, insomma, di quella problematica, per tanti riguardi inaspettata(9).

Tanto, financo in codeste sue inquietudini problematiche peraltro prive d'ogni progettualità ideologica, sembra attraversare senza risonanza e conseguenze, com'è stato anticipato, le aspettative veneziane quali abbiamo sommariamente indicato in esordio. Giova, tuttavia, qualche riflessione.

Baldassarre Longhena fu allievo, per quello mi viene asserito dal Kavalier Duodo, di Vincenzo Scamozzi. Vincenzo Scamozzi abitava in contrada di San Severo; nella stessa contrada abitava il padre di Baldassarre, che era tagliapietra, e forse questa vicinanza fece che Baldassarre Longhena incontrasse l'amore dello Scamozzi.

Così il Temanza, nel prezioso Zibaldon (10) d'appunti conservato presso la Biblioteca del Seminario Patriarcale di Venezia, parzialmente edito dal compianto Ivanoff, fonda un topos, raccolto, articolato ed eventualmente temperato dai più recenti studiosi dell'architetto dal Semenzato alla Bassi e dal Cristinelli al Lewis. Conviene, al cospetto d'una simile affermazione d'acchito sorprendente, prendere atto subito che il Temanza è, in linea di principio, attendibile e che non può esser sottovalutato: nell'informatore suo si riconosce per limpida trasparenza Nicolò Duodo, cui fu "molto amorevole", e consulente nello "studio delle matematiche, e della architettura", quell'Andrea Tirali il quale gli completò le fabbriche gentilizie alla Rocca di Monselice (dove, ospite del gentiluomo, perderà la vita il 28 giugno 1737): ma era stato, negli anni d'avvio della sua attività, vicino al vecchio Longhena. Sarebbe lecito, a tali condizioni e garanzie, ipotizzare, deducendo magari anche dalla lettura delle prime opere, che Baldassarre potrebbe aver goduto del privilegio di un'educazione ben più ricca di ciò che gli sarebbe venuto dal mero apprendistato nella bottega del padre Melchisedec, un lapicida impegnato soprattutto in imprese di ornamentazione architettonica nient'affatto spregevoli e richieste da una committenza di buon rango culturale e sociale. Alla fin dei conti e in principio, ciò non è affatto peregrino, e che, per designare le cose senza reticenza, nello Scamozzi possa riconoscersi la figura concreta del maestro - o di chi, nel processo di formazione del giovane, dovette aver parte grande - par dunque conclusione accettabile. Sicché, sebbene su basi largamente indiziarie e per quanto assai ardita e comunque inverificabile, non ci sentiamo di respingere tout court, almeno, la congettura del Lewis onde l'adolescente Longhena potrebbe aver financo assistito alla tormentata compilazione del trattato scamozziano, tanto più che un documento, coinvolgente Melchisedec nel 1610, allude ad una protezione accordata al lapicida da un "signor commendator Contarini" (il Giulio, che convoca lo Scamozzi a Bergamo?) e che, in ogni caso, rappresenta un milieu patrizio in cui potrebbe spiegarsi l'educazione ῾alta' di Baldassarre (11). S'è visto, infatti, che Vincenzo aveva sì posto mano ai suoi "libri d'architettura, e prospettiva" sin dall'agosto 1591, ma solo nel 1607 cominciava la stesura di ciò che, otto anni appresso, manderà alle stampe, e saran solo sei dei dodici libri originariamente previsti. Posto, addirittura, che la prossimità dello Scamozzi possa aver inciso sul giovane Longhena pure per altri non irrilevanti riguardi, conviene non trascurare che i movimenti del padre nell'ambito dei cantieri del piccolo artigianato tradizionale ovvero all'ombra di un protagonista della ῾restaurazione' neosansoviniana quale Antonio da Ponte, non dovettero esser privi di significato, e restar senza destino.

Manfredo Tafuri, in un brillantissimo saggio che ha il valore di una fondamentale referenza - dopo aver analizzato la dialettica intercorrente tra la ῾vocazione' del gruppo oligarchico incentrato su Daniele Barbaro e la ῾presenza' di Palladio in Venezia e dopo aver constatato che questa, nel suo progetto più qualificante, pei suoi contenuti ideologici, ed ambizioso (il riassetto figurativo del Canal Grande), si risolve, con l'isolamento e il logorio del referente sociale e culturale, in una serie di "atti mancati" -, annota che, quando pur ad Andrea accada di imporre le proprie forme, esse vengono accettate "come ῾sfondo' del panorama urbano": e valgano, alla fin dei conti, in quanto ῾parate' di suggello visivo all'invaso del bacino marciano. L'eversione implicita nel disegno architettonico-urbanistico palladiano per Venezia, sorretto dalla lucida tensione voluta a costruire, in quello, "la dignità di un'arte chiamata al ῾comando' grazie alla ῾virtù' conseguita ῾intendendo le cagioni'", cioè attraverso una scientia fattasi ethica, viene così esorcizzata e resa inoffensiva nel momento stesso in cui viene ripristinata, alla conclusione del "dibattito nascosto" interno al ceto patrizio dirigente, "la tradizionale relazione fra sapere, tecniche e potere" "su cui si regge buona parte degli equilibri istituzionali della Serenissima" implicando il fedele servizio alla "sapienza di Stato" da parte dei proti delegati alla realizzazione dei pubblici interventi. D'altro canto, il Foscari, a capo di una severa restituzione filologica dell'avventura esecutiva del progetto palladiano per la facciata della cattedrale di San Pietro di Castello, può cogliere, in maniera tutt'affatto convincente, l'approdo a un ennesimo "atto mancato" e al sostanziale annullamento, pure in quell'area apparentemente marginale del cosmo urbano, di un'invenzione originariamente drizzata a confrontarsi, stabilendo il cardine di un'alternativa, con il classicismo erudito, rigoroso, e neutrale, del Sansovino "assunto come ῾arte di Stato'". E ci è già accaduto di sorprendere la polemica autocoscienza dell'architetto, ormai vecchio e provato, in certe insistenze quasi folli e disperate - non è qui il caso di riprendere la discussione intorno all'effettiva destinazione del noto disegno per una facciata trionfale conservato nelle raccolte di Chatsworth - delle sortite per la ricostruzione di palazzo Ducale devastato dal fuoco nel 1577: quando lo sforzo speso nel rilasciar perizie, pur sommesso e più sovente allusivo che esplicito, ma ossessionato dal ῾dovere' di "risarcire" "i difetti et i mancamenti [della] fabbrica" gotica ed innaturale, sarà sunteggiato con noia frettolosa e sprezzante dal verbalizzatore dei provveditori alla rifabbrica ("adduce molte altre ragioni che si tralascia per non moltiplicar tanta diceria") (12).

Malgrado una discreta, ma non certo soddisfacente, disponibilità documentaria consentita dalle fatiche d'archivio dei cartisti soprattutto fra lo scorso e il presente secolo, l'introspezione critica degli otto, dieci lustri che tragittano dalla morte di Palladio all'avvento del Longhena continua ad essere abbastanza superficiale e svagata; e, se non è qui il caso di tentare una messa a fuoco e qualche approfondimento, son tuttavia necessarie alcune riflessioni d'ordine generale. Innanzi tutto, è da considerare con perplessità e con qualche sospetto l'ipotesi di un persistere di scuola palladiana, avanzata da taluni studiosi, a meno che non ci si intenda senza equivoci su ciò che si vuoi veramente dire. Ove, infatti, si pretendesse alludere alla continuità di gestione dell'utopia incarnata nel linguaggio dell'architetto padovano (che, tra l'altro, dovrebbe scontare l'intatta compattezza del milieu sociale e culturale di riferimento), ci par che i conti non tornino affatto: non solo quel linguaggio scaturisce dall'occasione privilegiata che esalta l'evento dell'incontro e della coniugazione tra l'avventura (e il genio) di Palladio e un momento irripetibile della storia di Venezia (e tanto basterebbe), ma esso è bruciato e divien improponibile, col fallimento della ῾presenza' del maestro, di cui abbiamo testé ragionato. Quando, viceversa, s'intendesse cogliere un seguito circoscrivibile all'impiego, meramente lessicale e tutt'al più articolato in schemi sintattici comunque impoveriti e rigidi, di un certo vocabolario, a sua volta ridotto e semplificato, potremmo magari essere d'accordo. Ma si tratta di poca cosa. In ultima istanza, a voler usare nomi e cognomi - quando si eccettui Francesco Zamberlan, ben presto emarginato in quanto architetto (nel momento in cui la sua consulenza come ingegnere appare richiesta con qualche costanza dai savi esecutori alle acque), e troppo sfocato risultando Antonio Paliari, il Marcò, che, con il gruppo famigliare, incontriamo nel complicato cantiere di San Giorgio Maggiore - la figura di qualche evidenza che si presenti con requisiti simili s'identifica in Francesco di Bernardino Smeraldi, il Fracà, che, capomastro di fiducia di Palladio - lo troviamo accanto a lui nei lavori pel restauro di palazzo Ducale e in operazioni di modesta entità per la chiesa di San Giuliano -, al di là della scomparsa del maestro, assumerà la direzione del cantiere di San Pietro di Castello, con quale inclinazione al compromesso e alla rinunzia s'è indietro adombrato: Talché la decisione di presentarsi al concorso per la carica di proto all'ufficio del sal, sia il 18 aprile 1597 sia il 18 luglio 1600, s'avverte ispirata da una personale ambizione sollecitata dalla responsabilità di una bottega abbastanza articolata (troveremo il figlio Antonio implicato nel concorso per la Salute) e dalla volontà di uscir dal circuito della committenza religiosa per accedere ai ruoli elevati del servizio di Stato, cui la convocazione alla fabbrica delle Procuratie l'aveva avvicinato: e non certo dalla coscienza d'affermare a quei livelli una rivincita degli ideali e del ῾progetto' palladiani (13).

Di ben altra qualità e peso son, viceversa, l'apparizione e il movimento veneziani, proprio a partire dal 1580, di Vincenzo Scamozzi. S'intende che le matrici dell'attitudine di costui affondano ovviamente nella peculiarità dei modi della giovanile sua costruzione; e appartengono all'atteggiamento scientista e cosmopolita che s'è descritto. I reiterati tentativi di scalata dello Scamozzi alle sovrintendenze dei programmi della pubblica edilizia a Venezia, s'avvertono, in quest'ordine, illuminanti in quanto ripropongono sostanzialmente, ancorché in contesto diverso e in apparenza più propizio, la scadenza del fallimento conosciuto da Palladio, complicando la stessa carica di insidie alla funzione tradizionale del proto: laddove, però, la minaccia eversiva non già si inscrive, esprimendone il progetto ideologico, in una trama connessa, e ferrea, di relazioni sociali, politiche, culturali - sebbene il patronato di Giacomo Contarini, perseguito dall'architetto, e ottenuto, siccome attesta la lettera introduttiva ai Discorsi sulle antichità di Roma del Porro che alla sua volta adombra sin dal 1581 l'esistenza di un attivo sfondo possibile, attenda d'esser riconsiderato sulla scorta del recente ragionamento della Olivato (14), non meno che quello di Marc'Antonio Barbaro e il successivo legame con i Duodo -, ma obbedisce piuttosto all'intransigenza della vocazione personale. Il rapporto dello Scamozzi con la committenza di Stato a Venezia - cui abbiamo indietro accennato - s'incentra sui `casi' costituiti dalla tormentata vicenda per il completamento della Libreria e per la costruzione delle Procuratie (15) e dalla definizione del ponte di Rialto (16): il cui valore esemplare è sottolineato dal duplice, polemico confronto istituito dall'architetto con i dati di partenza esistenti, che sottopone a critica radicale revocandone in dubbio la legittimità in riferimento al valore assoluto dei canoni di classicismo astrattamente asseriti, e con i pubblici "inzegneri" tradizionali al cui novero troviamo reclutato per breve tratto ad un certo momento lo stesso Fracà. Consideriamo il primo episodio. Quando si dia retta al Temanza, l'assunzione di Vincenzo ai livelli ufficiali, e alti, dell'esercizio progettuale della Serenissima sarebbe stata sancita dall'affermazione nel concorso per la continuazione della fabbrica della Libreria, rimasta sospesa alla morte del Sansovino (1570), sui concorrenti Francesco "scalpellino" (dunque, il Fracà) e Simon Sorella, il quale, peraltro, sappiamo essere stato non solo proto delle Procuratie ma precedentemente impegnato nella demolizione della vecchia Beccaria - ingombrante nell'angolo tra la Zecca e la Libreria appunto - e nella sua ricostruzione accanto alla chiesa di San Giminiano: in accordo, l'una e l'altra operazione, col programma marciano a suo tempo elaborato, e avviato, da Jacopo Sansovino e puntualmente descritto dal figlio Francesco: sul cui significato, chiarito dalle penetranti analisi sovrattutti del Lotz e del Tafuri, ci esimiamo di indugiare. Il Tatti, in sostanza, vi progettava - pel ῾sito' del potere serenissimo - attraverso un uso dispiegato ed opportuno di citazioni qualificanti relative alla gamma estesa e complessa delle funzioni confidate e concentrate in quell'area urbana, la definizione di uno spazio capace di rappresentare organicamente la trionfale autocoscienza veneziana del proprio mito come renovatio imperli romani: ma ciò postulava, per inverare la ricchezza e lo spessore dei valori convocati in un'unità di immagini la cui coerenza con i segni preesistenti ed intangibili della forma urbis era fuori discussione, l'obbedienza ad una "logica strutturale" e visiva, severa e sorvegliatissima e un uso rigoroso, insomma, del repertorio classicistico. La fondazione, in tal guisa, da parte del Sansovino, di un ῾classicismo di Stato' in quanto linguaggio trasparente ed allusivo all'utopia della ῾terza Roma' ma nient'affatto contraddittorio, ed anzi puntualmente adeguato ad informarla e a calarla - integrandovela - nel tessuto urbano, "con la continuità dell'idea di Venezia", nel momento stesso in cui si afferma un'efficiente e compiuta ῾tecnica della retorica', che si esalta e connota (come ogni tecnica) nelle sue connessioni e nella sua subordinazione alla ῾sapienza' della politica e del potere, stabilisce uno statuto e codici non eludibili. Ed è con questi che, denunciandone la legittimità, entra in polemica lo Scamozzi, allorché critica radicalmente l'incongruenza della ῾slogatura', dove "gli ornamenti d'un ordine va a cozzar con gli altri", nell'incontro tra Libreria e Zecca dopo la rimozione della Beccaria prevista dal Sansovino - e se accetta, come credo, d'eseguirla, lo farà di malanimo, pentendosene quant'occorre per rinnegarne la responsabilità, più tardi, ed asserire che "le quali tutte cose non sono da eccellenti architetti approvate" e sarebbero state, in effetti, realizzate "fuori del nostro consenso" -; ovvero, quando, sin dal 24 ottobre 1582, insisterà sulla necessità d'elevare la Libreria di un piano, e ci tornerà sopra, con caparbia insistenza, sin al 1588; ovvero, infine - ed il ῾nodo' sta qui -, quando elabora, affidandone la costruzione ad "artificiosi maestri vicentini", il primo modello ligneo di "una parte delle fabriche degli illustrissimi signori Procuratori in Piazza di S. Marco", col fine di "riforma[re]", obiettando la soluzione rispondente davvero ai principi "del bello, e del buono" ai "mali effetti" delle ῾scorrettezze' sansoviniane nella Libreria, e di dimostrare la pertinenza del terzo ordine.

E sarà pur anche che siffatto modello, con tutto ciò che di rottura e di eversivo la sua ῾magnificenza' implicava, proprio nel momento della crisi del ῾partito conservatore' e dell'avvento del gruppo riformatore dei ῾giovani', ch'è del 1582, potesse essere strumentalmente approvato consentendo a Vincenzo - avvantaggiato forse dai collegamenti personali che, indietro, si sono accennati - l'affermazione nel concorso di quell'anno, e l'assunzione, della quale s'è detto. Resta, però, che la "seconda renovatio" promossa dalla nuova élite dirigente non riesce a disgregare i contenuti né a sovvertire le regole del ῾classicismo di Stato' affermati dalla prima, né infrange il ferreo rapporto, da quella sancito, tra potere, tecniche, espressione e linguaggio, ribadendo il senso esemplare e non revocabile della ῾retorica' impalcata dal programma anticanonico del Sansovino. Come nella continuazione della Libreria, così nell'impostazione del raccordo delle Procuratie nuove a questa, e nella continuazione della fabbrica lungo la "piazza maggiore di San Marco", la presenza scamozziana si traduce nella sofferenza di uno sforzo, quasi ossessivo, d'imporre l'assoluta perfezione distillata dalla propria astratta Theorica: e si pensi alle proposte via via sfoderate nei disegni 194 A degli Uffizi e 5448 del Louvre, il quale ultimo aggancia il 1596 di un secondo modello, fondato su un circostanziato rilievo di "tutti gli edifici intorno alle due piazze". Il successo, che si potrebbe esser tentati di cogliere nella terminazione con cui il senato il 26 settembre 1596 l'approva, disponendo che si dovesse procedere appunto "secondo il modello di Vincentio Scamozzi architetto di tanta opera, et contro l'opinione di tanti emuli", malgrado la definitiva conferma del consenso l'anno appresso al di là del controllo favorevole del perito Alvise Galesi, è più apparente che reale. All'ufficio di proto dei procuratori, Vincenzo non sarà mai chiamato; talché, poi, non stupisce che la soluzione adottata pel punto critico della sutura tra Libreria e Procuratie non corrisponda affatto a quella indicata nel disegno del Louvre, e nemmeno a quella fermata nel foglio edito da Donato Rascicotti nel 1599, di sicuro su sollecitazione, o per conto, dell'architetto che doveva avvertire ῾riconvertite' e tradite nelle "indecentie, e schiocchezze" dei fatti, all'interno dell'ossequio di massima, le velleità d'adeguamento all'assoluto insindacabile delle regole di "Natura" verificate da "gli antichi nelle opere loro approbate", del proprio progetto. La liquidazione del maestro, già respinto da ogni compito istituzionale nei cantieri marciani dai procuratori, pure nell'elezione del nuovo proto all'ufficio del sal, tra 18 e 28 aprile 1597, a vantaggio di Antonio Contin non è certo priva di significato: e tanto meno, solo che si prenda atto che i ballottaggi l'avevano relegato financo dietro allo Smeraldi (che non per caso succederà però al Sorella nella carica di proto e nella conduzione del cantiere delle Procuratie), rendendone così bruciante la sconfitta da dissuaderlo a presentarsi alla successiva elezione, bandita in seguito alla morte del Contin il 21 agosto 1600 (17). Se si considera, infine, la vicenda del ponte di Rialto, lo smacco dello Scamozzi appare ancor più scoperto, e bruciante. Non v'è dubbio, in accordo con le conclusioni del Tafuri, che la decisione energica di risolvere l'annosa faccenda relativa alla definizione del ῾sito' dei commerci, sia inseparabile dalla scadenza della crisi politica del 1582: ma è un fatto che l'autorevole e improvviso spostarsi dello Scamozzi su un'area diversa, sebbene dialetticamente connessa, nell'ordine delle funzioni e sul piano dell'amministrazione da parte delle magistrature, e proprio nella fase immediatamente successiva alla presentazione dei primi modelli tra 20 e 23 dicembre 1587, sia inseparabile dall'"infiltrazione" di Marc'Antonio Barbaro tra i provveditori alla fabbrica del Ponte: né par contestabile che questi, poi, propugnando la soluzione a tre arcate affacciata da Vincenzo e ignorando lo Zamberlan, sognasse di sanzionare un omaggio a Palladio, ch'era ῾fallito' più di trent'anni avanti su quel nodo, nel momento, però, in cui gli era consentito di resuscitar e di fissare per allusione nella pietra la superiore legittimità delle implicazioni ideologiche sottese dalla ῾macchina impossibile' proposta nelle xilografie dei Quattro Libri. L'atteggiamento scamozziano, forte dell'appoggio di "que' gravissimi senatori, che ne [del Ponte] havevano cura, i quali furono sempre nostri grandissimi protettori" (e non è difficile intuire chi il richiamo nasconda), è baldanzoso: sicché l'architetto dopo aver risposto ai nove quesiti sulle peculiarità più opportune dell'opera costruenda diramati dai provveditori tra i proti e gli ingegneri concorrenti o aspiranti all'impresa, censurando ogni progetto di una sola arcata, all'inizio del gennaio 1588 inoltrava un proprio disegno configurante la soluzione monumentale imperniata sui tre archi, descritta nell'Idea e rappresentata nel noto disegno del Royal Institute of British Architects di Londra. La risposta della fazione ostile al Barbaro è immediata, e consiste veramente in una ῾stroncatura feroce' la cui orchestrazione viene affidata, si badi, ad un ῾tecnico', il proto alle acque Guglielmo de Grandi. Il leitmotiv del cui testo, rimesso sin dal 12 di quello stesso mese, consiste non per caso in una implacabile sequenza di denunce degli errori di misura e di calcolo, e insomma dell'insipienza ῾tecnica' dello Scamozzi - al quale in un passaggio illuminante vien obiettata la perizia del Sansovino - finalizzata alla liquidazione d'ogni ipotesi triarcuata. L'emergenza vincente, di lì a poco, del progetto di Antonio da Ponte chiarisce, in facile trasparenza, su chi, e perché, i provveditori da principio puntassero, giovandosi d'ogni mezzo opportuno; e l'accanimento con cui il Barbaro e lo stesso Vincenzo, al quale non gioverà la presentazione, se pur avvenne, di un modello a un'arcata, infuriarono sul proto al sal e sulla sua proposta, vale a individuare i nodi essenziali, e la relativa contrapposizione di prospettiva ideologica, della diatriba (18).

Il da Ponte è indiscutibile protagonista della congiuntura che veniam tentando di discriminare; e sorprende che gli studi l'abbiano, sinora, emarginato o sottovalutato (19). Proto al sal sin dal 1563, egli incarna, assommando, esercitando e interpretando un raggio vasto di competenze e di specializzazioni, la figura peculiare dell'ingegnere-architetto veneziano; e che il suo ruolo ῾centrale' si venga precisando intorno al 1568 - cioè, alla vigilia della morte del Sansovino - non sarà stato per mero accidente. Né privo di peso e conseguenze per il definirsi della sua attitudine e per il riconoscimento concreto tributato alla sua disponibilità, sembra essere stato il suo presumibile, stretto rapporto giovanile con Giannantonio Rusconi, che sembra ῾piazzarne' l'educazione all'interno del filone culturale orientato dalla rivendicazione del ruolo preminente dell'"Isperienza" donde scaturiscono, di fatto, i grandi tecnici del territorio. Certo. Il poco ch'è dato sapere intorno alle strutture istituzionali crea imbarazzo serio quando ci si rivolga quesito intorno ai ῾luoghi' deputati della formazione e della qualificazione professionale dei funzionari e dei maestri che la Repubblica (e, s'intende, l'iniziativa privata) chiamava ad esercitare i compiti alti, e direttivi. Lo spoglio delle carte relative, ad esempio, ad una fraglia ipoteticamente coinvolta, come quella dei lapicidi, è, anche in questo senso, assai deludente; e se permette d'accertare, proprio nella seconda metà del Cinquecento, la ricorrente preoccupazione di garantire, attraverso il rispetto della regola dell'"approbazione" troppo sovente elusa, la serietà della preparazione e la competenza del mestiere, al tempo stesso induce a sospettare una notevole e quasi incredibile crisi dell'arte. D'altra parte, e per star a ciò che in questa sede più direttamente ci interessa, la tormentata presenza veneziana dello Scamozzi rappresenta al nocciolo - e ci abbiamo insistito - il conflitto tra la figura del ῾libero' intellettuale e quella dell'operatore attrezzato da un bagaglio quanto più possibile ricco di strumenti tecnici ideologicamente neutrali e perciò realizzabili dalla ῾sapienza di Stato' che, pur riservandosi scelte di rifornimento ῾esterno', avrà ben previsto o propiziato l'allestimento di strutture per la formazione del personale destinato al reclutamento. Se Antonio da Ponte provenisse dai ranghi della corporazione dei tagliapietra, in fin dei conti, ignoriamo: è, però, probabile che la sua matrice artigianale sia da riconoscere nella fraglia dei marangoni, solo che in lui si riconosca il concorrente omonimo del quondam Battista, che già si candidava, in tal fase senza fortuna, alla carica di proto al sal nella famosa tornata dell' 11 gennaio 1554 che vedeva la sconfitta di Palladio; e ciò sarebbe alquanto interessante. Si diceva della ῾centralità', sul piano della pubblica iniziativa, del personaggio a partire dal 1568: non soltanto lo troviam attivo e nel ruolo abbastanza scoperto di controllore o revisore del grande cantiere ῾aperto' di palazzo Ducale - che, peraltro, apparteneva alle sue competenze istituzionali: ma la sua ῾presenza', soprattutto in seguito all'incendio del 1577, è tutta da ricontrollare, e non dovrebbero mancar sorprese e ad inaugurare quello, pur di sua spettanza, delle nuove prigioni: ma v'è, a esaltarla, l'affermazione per il ponte di Rialto, cui s'è accennato a che vale il suggello ad un ῾progetto' confidato alla sua gestione ed a una sua capacità organizzativa, riconoscibile, e riconosciuta, nell'uso della ῾consorteria' dei Contin da lui addestrata. Nei termini di una lettura concreta degli esiti, par di concludere che l'emergere del personaggio, e l'attribuzione di compiti siffatti, sia inseparabile dal riconoscimento di un'attrezzatura tecnica capace di esprimersi ed articolarsi in forma, nel rapporto con il ῾dato' urbano, attraverso un linguaggio integrabile - e, dunque, finalizzabile ad un sapere superiore - con il continuum che aveva espulso ai suoi margini Palladio e neutralizzato Scamozzi, e che è veramente trasparenza d'una continuità dell'idea di Venezia e della redazione del mito da quella asserita in una congiuntura che la crisi dei conservatori e l'avvento dei ῾giovani' non pone in discussione. Il ῾neosansovinismo' che impronta, costituendone anzi il nerbo, le soluzioni stilistiche ῾severe' governate dal da Ponte - estendendone lo ῾scenario' e obiettivamente unificando i dispositivi della renovatio marciana e realtina (omologando, insomma, l'articolazione dialettica di significato e d'intervento su quei luoghi che costituiscono ab origine "con specifiche funzioni", "una sorta di analogon" l'uno dell'altro) - s'avverte scelta inevitabile non meno che coerente. Il panorama della vicenda architettonica - frattanto: oltre, dilateremo il nostro ragionamento ad altri generi dell'orizzonte artistico - a Venezia nei quarant'anni all'incirca che separano la morte di Palladio dall'avventura del Longhena non s'esaurisce nei lineamenti, in ogni caso sommari, che abbiamo tracciato: sebbene la flessione dello slancio dell'iniziativa privata e religiosa che finisce per ripiegare, salvo eccezioni che non paiono tuttavia di gran risonanza, in operazioni di scala minore o in una sorta di ordinaria manutenzione dell'esistente cui il piccolo artigianato corporativo poteva supplire, non offra, in prima evidenza, segnali rilevanti. Il fatto si è, alla fin dei conti, che, ove le nostre ipotesi d'avvio siano ragionevoli, le circostanze dovettero innestare la formazione del Longhena all'interno della dinamica del confronto che oppone l'orgogliosa rivendicazione scamozziana della ῾Theorica' al ῾conservatorismo', con ogni sua implicazione anche di ῾probità' artigianale, del da Ponte e della sua ῾setta' (20).

Si tratta di una duplice esperienza - ma spiace che nessun elemento sia emerso per poter ragionare delle matrici del destino del maestro in rapporto con i milieux intellettuali della comunità ebraica - che le congiunture renderanno operante nella sintesi di una vocazione irripetibile, e di un ῾esercizio' tale da lasciar segno indelebile, in qualche guisa sigillandola per sempre, sull'imago urbis di Venezia nel momento stesso in cui condizionava, quasi attraversando tutto il secolo, l'attitudine e i linguaggi (per quanto pur d'altre esperienze nutriti) degli architetti, dal Tremignon al Sardi, al Gaspari che il Seicento veneziano concorrono ad accampare (21). Sintesi ed esercizio che, giusta il commovente ῾ritratto' del ben informato Temanza (22), si percepiscono vissuti nella coerenza del comportamento umano:

Era Baldassarre uomo piccolo di statura, vestiva sempre di nero, e sosteneva la professione con molto decoro. Era di maniera assai dolce e di uno civile costume. Aveva in sua confidenza alcuni operàij di molta esperienza con li quali consigliava le cose sue. Aveva poi un costume di ascoltare tutti, anzi quando andava a visitare le sue fabbriche, chiamava a sé li capi mastri, e molte volte anco li più inesperti giornalieri, et con essi discorreva di ciò che emergeva nell'opera; poi raccoglieva il parere di ciascuni, e con tali lumi si determinava a quello li pareva il migliore.

"Smania di crescere in grandezza"

A partir dal 1626, dalla consegna del cantiere della rammentata rifabbrica del duomo di Chioggia, Venezia è tutta un fervore di cantieri privati e pubblici che contribuiranno in maniera determinante a ridefinire la scena urbana. Non manca però dietro la serietà di questo programma, la presenza, spesso invero neppure celata, di un gusto per il grottesco e il mostruoso sul quale dovremo tornare e che dovremo tentar di spiegare nel suo effettivo significato: le deformità delle sculture attribuite al Merengo sulle facciate di San Moisè e del Le Court nel monumento Pesaro ai Frari, che toccano il loro culmine nella stralunata e bizzarra congerie allegorica di Francesco Pianta alla Scuola di San Rocco. L'eccesso e l'enfasi sembrano la parola d'ordine dell'epoca, e rappresentano un'attitudine che si manifesta nella sovrabbondanza delle ornamentazioni delle architetture, in uno sforzo di suscitare la meraviglia dello spettatore che appar perseguita anche nel tentativo, che analizzeremo, di stabilire le coordinate tecniche e storiografiche di un destino della pittura. È, frattanto, la trasposizione scenografica all'interno del tessuto urbano di una sorprendente rappresentazione teatrale. Ne esibiremo, tra poco - ancorché al livello della finzione letteraria -, un sintomo eloquente. Ma, adesso, conviene non dimenticare che l'impressione dei segni, anzitutto architettonici e plastici, da parte delle maggiori famiglie avviene sotto il vigile controllo delle autorità pubbliche le quali, secondo una consolidata tradizione, non permettevano alle famiglie più influenti del patriziato lagunare di manifestare la propria condizione gentilizia in maniera clamorosamente ostentata nell'accentuazione, per dir così, della propria privata grandezza sullo scenario aperto e pubblico. Siffatta cautela si denuncia in maniera più evidente in quegli autentici monumenti funebri di grande rilevanza urbanistica (che son le facciate celebrative di alcune chiese), ma dedicati, con l'approvazione del senato, per lo più a personaggi di secondo piano nella vita politica della Repubblica, quali ad esempio i Fini, mentre ai personaggi di spicco appartenenti all'oligarchia che gestiva le cariche più importanti del governo dello Stato sono più volentieri dedicati monumenti splendidi, e però, relegati all'interno degli edifici sacri, come ad esempio il deposito Pesaro ai Frari o quello Valier ai Santi Giovanni e Paolo, se non addirittura mortificati come i grandiosi progetti del Gaspari, mai accettati dal senato, per una commemorazione celebrativa del doge Francesco Morosini nella facciata di San Vidal. Un filo rosso lega tuttavia questa generale, frenetica volontà di manifestare, attraverso le tinte più accecanti, il proprio ῾esserci', che può raggiungere il tono del più alto e sonoro trionfo sulla morte nel longheniano progetto per la basilica della Salute, oppure, per contrasto, del più involuto concettismo nei dossali lignei del Pianta nella Scuola di San Rocco.

Spentisi, verso il 1720, la vocazione e lo slancio trionfali, accantonato definitivamente ogni desiderio di potenza, dopo Passarowitz (1718), la Repubblica si chiude in una neutralità imperturbabile, che sarà in definitiva fatale per le proprie sorti. Intorno a quella data esordisce con una commissione, probabilmente veneziana, anche il giovane Canaletto consegnandoci quattro vedute di importanza cruciale per comprendere il mutamento di un'epoca, dove Venezia ci appare come un universo urbano ormai concluso e suggellato, che con occhio quasi scientifico, ma - come vedremo - non necessariamente fotografico, viene esibita quale scenario dove non v'è più spazio alcuno per ulteriori riassetti, nel momento in cui si offre ai sottili scarti visionari dell'immaginazione inesausta dell'artista.

"Ornamento e magnificenza": "contra il dispiacer del morire"

S'è alluso, indietro, all'ambiguità delle tensioni trionfalistiche sottese dall'avventura architettonica - ma, potremmo, anticipando, tout court asserire artistica in senso lato - della Venezia secentesca. Si tratta delle pagine che aprono il "dialogo secondo, Estisiphilo nominato, overo amante del senso" di un trattatello, per parecchi altri versi quanto basta noioso e scontato, Contra il dispiacer del morire detto Athanatophilia apparso a Venezia nel 1597, ma ristampato nel 1609, e che coglie, invero, in quell'ambiguità, i presagi di un destino letale immanente e ineluttabile (23).

L'autore - il medico bresciano Fabio Glissenti, sodale di Federico Contarini - pone in dialogo personaggi della più disparata condizione sociale e culturale:

il Filosofo, il Cortigiano, un Vastagio, un Portator de vino, un Mendicante, un Macellaio, un Castaldo, una Cingara, un Servitore, et un Gondoliere.

Nessuno d'essi, in apparenza, mette in discussione la pulcritudine - speculare ad un destino magnanimo e sovrano - della scena intera ch'è Venezia, nei cui luoghi più carichi di memoria e fulgidi d'aspetto s'incontrano e conversano; laddove, tuttavia, colpisce che la morte costituisca, ancorché per scongiurarne il timore, non tanto il tema di fondo, ma il fil rosso, quasi ossessivo - e sbalzato dal ricorrere di teschi ghignanti e scheletri avvinghiati a tortili colonne o a enigmatiche e improbabili tele di ragno o, ancora, sguscianti tra i protagonisti accalorati nella discussione e ignari ovvero a remigar su una gondola - che asseconda i percorsi labirintici del dibattito. I topoi del mito di Venezia, dunque, son tutti presenti, e puranco nell'esaltazione delle qualità morali incomparabili del ceto destinato a gestirlo.

Non [...] potrei, [asserisce, ad esempio, il Filosofo] se non lodare infinitamente il Serenissimo Prencipe, et gli eccellentissimi Senatori di questa illustrissima Repubblica, per li più prudenti, savi, giusti, temperati, e magnanimi huomini del mondo; atti non tanto tutti insieme, ma ciascuno da se à governare Provincie, e Regni. Né volere stimare, ch'io havessi assomigliato l'appartamento del palazzo di sopra al Cielo, quando non fossi sicuro, che'l Serenissimo Prencipe, e questi Illustrissimi Senatori, non per altro di continuo s'affaticano, che per assomigliarsi co'l maggior loro poter alle celesti monarchie, amministrando giustizia a' sudditi, buon governo, e buone leggi alle Città loro, pace, e concordia con straniere genti, pietade a' miseri, soccorso a' poveri, temperanza a' se stessi, e libertà a' tutto il mondo. Né si può attribuire la eternità di questa famosa Republica ad altri, che alla magnanimità, grandezza, prudenza, et integrità di questi semidei. Perche Iddio non havrebbe tolerato per tanto lungo tempo huomini d'altra sorte, empij, e profani; come [...] avvenne alle Republiche de Greci, de Romani e de' Lacedemoni, le quali in tratto di tempo partendosi dall'equità, e dalla giustizia sottentrarono il giogo della tirannide, perdendo l'antica loro cara libertà.

È sin troppo evidente che si tratta di un'enfasi che ha puntuali, e più tardi, riscontri in una letteratura encomiastica che percorre un Seicento il quale vede ben due ristampe della Venetia città nobilissima et singolare di Francesco Sansovino (1604 e 1663) e ripropone in risonanze tanto baroccamente assordanti quanto vacuamente ripetitive gli elogi che si eran dipanati, su ben altri fondamenti, e con autentica, dietro i paludamenti obbligati dell'ars rhetorica, progettualità tra Quattrocento e Cinquecento.

Così, il nostro autore, s'innesta nella traiettoria in qualche guisa obbligata e vincolante che, nel 1590 - e a capo di un itinerario mirato -, aveva disegnato Giason de Noses nel Panegirico in laude della Serenissima Repubblica di Venezia, stampato in Padova dal Meietti, volto "principalmente" a "laudare"

la forma della Repubblica, il clima e il sito della sua città, le sue leggi e discipline, la gran virtù de' cittadini, la lunghezza del tempo nella quale è felicissimamente durata [e] si esortano poscia coloro che la governano a conservarla, quegli che le sono soggetti ad ubbidirle e gli altri a rivederla e a stimarla come rifugio di tutta Italia e di tutta la cristianità.

Ed è, proprio, la "divina maestà del doge" a garantire tanto, là dove spicca e s'esalta una concordia sociale per cui "vanno di pari il plebeo mecanico con il gentiluomo, il povero col ricco, l'umile con l'altiero, il forestiero con il cittadino, il privato con il Principe". Il quale, mentre

gli altri potentati vanno superbi e altieri, gloriandosi di essere sciolti dalle leggi, [...] se ne loda [...] per essere sottoposto non pur alle leggi divine ma alle umane, e non solo alle civili ma alle criminali, e non tanto vivo quanto [...] dopo la morte; anzi questo è il supremo suo vanto che in tanta altezza di dignità non è chiamato in giudizio, ma può esser chiamato; non è accusato, ma può esser accusato; non è condannato, ma può esser condannato [...]. Qui non succede il figliuolo al padre, da cui potesse il dominio essere alcuna volta men che ottimamente governato; e chi vi succede è soggetto alle leggi non altrimenti che qualunque altro cittadino. Non è impresa che non possa sperar di eseguir felicemente in favor dell'onesto, e contro giustizia è impedito e legato da ogni parte. Mentre si contenta di essere inferiore alle leggi è sempre superiore a tutti e inferiore ad ognuno quando si proponesse di voler essere superiore alle leggi. E quantunque non abbia alcun particolare ufficio, dirizzando nondimeno tutti gli altri al loro ufficio, è come il maestro del coro verso quegli che cantano, il quale [...] viene a generare quella perfetta consonanza e armonia che da tutti ne seguita. Si vede poi risplender la vera forma degli Ottimati nel Senato, nel Collegio, nel Consiglio di Diece, ove non convengono se non quegli che non hanno mai atteso ad altro che a regger città, regni e provincie con non minor giustizia che sapienza. Si scorge finalmente la moltitudine temperata e moderata nel Gran Consiglio e massimamente nella creazione de' magistrati guidata, parte per sorte dalla volontà suprema, parte dal prudente giudicio degli elettori. [...] In somma, tutto questo corpo [...] è a somiglianza di una figura piramidale. Il Gran Consiglio è come la base e il firmamento in cui si appoggiano tutti gli altri ordini. Il Principe è come la punta. Il Senato, il Collegio, il Consiglio dei Diece è come il mezzo. La cima è suprema, ma è tenue. Il firmamento è più grande, ma è infimo. Il mezzo riceve il suo stabilimento dalla sede più bassa, ma le è superiore. In quantità è maggiore al grado supremo, ma in maestà è minore.

Una simile perfezione, per Pompeo Caimo, nel Panegirico politico del 1627, si pone come specularità di un destino di durata infinita:

se non ci par meraviglia che i cieli durino e serbino tuttavia l'antica lor forma, non ci deve parer per meraviglia che la republica di Venezia si conservi salva e vada sicura dagli incontri di ogni ruina [...], poiché essa [...] chiude in sé quasi orbe tutta l'ampiezza della nobiltà e quasi stelle le persone che si avalgono nel governo, li consiglieri veramente quasi stelle fisse, [...] li Magistrati quasi stelle mobili [...] fra li quali come sole sfavilla e [...] risplende il Prencipe.

Una ridondante metafora, che sprigiona l'immagine di una "Venezia edificata" in obbedienza ad un preciso, e superiore, disegno cosmologico. Per Businello, introducendo al poemetto omonimo affidato ai tipi del Pinelli nel 1624 da Giulio Strozzi(24), la città s'esibisce come

la regina del Mar, la dea dell'onde,

metropoli di fe', nido di pace,

che sola a se medesma corrisponde,

ch'accende in libertà perpetua face,

che nel ciel di sue glorie altro non vede

se non se propria di se stessa erede,

la sorella d'Astrea, l'alma donzella

che in sacre leggi i suoi vassalli bea,

quella ch'è di se stessa e polo e stella

né teme rabbia d'influenza rea,

canta pur, loda pur in mille modi:

te stesso eternerai nelle sue lodi.

Ma ecco che dall'autore della nostra dissertazione intorno al "dispiacer" della morte, nel momento in cui identifica nella sede dogale la rappresentazione delle virtù e del destino perenne della Repubblica, la corrispondenza con l'ordine del cosmo vien puntualmente discriminata.

I protagonisti del dialogo, "desiderosi d'intender il rimanente del ragionamento della morte rimasto sospeso la sera" del giorno innanzi, si danno appuntamento presso le "consuete logge del palagio". Il "cortegiano", rammaricato di constatare non ancor sopraggiunto il "filosofo", si pone a

riguardare quegli intagli di mezo rilevo posti ne i capitelli, e ne gli archi delle colonne del palagio; e mentre così attento se ne stava a rimirare sopra giunse il Filosofo, che non se n'avvide; ma salutandolo poi, e dimandatolo, che cosa egli mirasse così attentamente, si rivolse a lui, e noi allhora fatti più vicini udimmo il Cortigiano a risalutarlo, e rispondere che mentre ivi l'attendeva andava pascendo gli occhi di quelle antiche, e sententiose scolture, che molto belle gli parevano; a cui rispose il Filosofo, che v'erano cose degne di considerazione per lo significato loro; delle quali havrebbe discorso volentieri, quando a più nobili speculationi non fosse ubligato; ma che reputasse, che non v'era in quel palazzo colonna, base, capitello, arco, pietra, o trave, che non fosse con somma maestria, et intelligenza ivi stata riposta. Le quali cose tutte formavano così bel theatro, così ricca e sontuosa casa, che per esplicare la sua grandezza non trovava cosa a cui somigliare le potesse meglio che a tutta la sfera del mondo.

S'accende, allora, la curiosità di tutti ed il "filosofo" vien richiesto d'essere più esplicito. Dapprima riluttante, alfine il personaggio dichiara agli astanti il proprio pensiero.

Voi sapete tutti [esordisce] che questo vago theatro del mondo è composto di Cieli, secondo l'opinione de' Filosofi, incorrottibili, e d'elementi, i quali gli uni con gl'altri, e gli altri da gli uni si generano, e corrompono. In questo d'incorrotibile, e corrotibile, formato mondo vi sono due stanze principali, conformi alli habitatori loro; l'una è ne Cieli, o sopra i Cieli dove stanno gli immortali et impassibili beati; l'altra è nell'elemento della terra, dove habitano gli infelici mortali.

E, dopo siffatta premessa, prosegue:

il palagio ha queste due stanze principali; l'una nel più alto appartamento, e l'altra nel di mezzo et inferiori; in quella dunque che superiore si chiama si trovano così ricche, così ampie, e così ben ordinate sale, che il tetto risplendente d'oro, e fregiato di superbi ricami, le pareti adornate di vaghissime et eccellenti pitture, il suolo di finissime pietre incrostato, benissimo si possono assomigliare al ricco, nobile, vago e risplendente coperchio del Cielo. In cui si come dimora Iddio con gli Angeli suoi, e l'anime de' beati con immensa maestà, e grandezza, così in questo vi sta il Serenissimo Prencipe, con gli illustri Senatori, e co' ministri suoi. Nel Cielo delibera Iddio le cose dell'eternità, dell'intelligenze, e dell'amore con lo predestinato regimento del Paradiso, del movimento de Cieli, di Pianeti, e delle minute Stelle; così nel palagio consultasi, e deliberasi delle cose pertinenti alla conservatione, all'honore, all'utilità della Republica, disponendosi del reggimento dell'ampie Provincie, e del governo de sudditi, e delle populate città. Nel Cielo habitatione stabile vi sta Iddio giusto, incorrotibile, somma bontà, e somma sapienza. Nel palagio il Prencipe giusto, prudente, e pietoso. In Dio come a centro, di dove hanno origine tutte le linee ritornano tutte le cose, create, e della bontà di lui participano. Così nel Prencipe, e congiunto Senato tutte le cose si riportano, e da lui poscia ritornano con pietoso affetto, et amore nei popoli suoi.

V'è, poi, l'altra "stanza", più in basso: ma si tratta di ulteriore, puntuale corrispondenza con l'ordine cosmico, giacché, anche

nel mondo sono gli elementi più bassi, ne i quali vivono tutti i mortali, secondo la natural inclinatione e genio, o secondo cert'habito contratto, intenti alle attioni loro. Così nel secondo appartamento del palagio stannovi gli officij, e magistrati, i quali hanno cura delle attioni particolari de gli huomini.

E, ancora.

Nel mondo gli animali [sogliono] diversamente portarsi nelle vite loro, e tra gli huomini chi attende ad un essercitio, chi l'altro, chi segue il Senso, chi la Ragione, chi né l'uno né l'altro, ma secondo certo suo capriccio, e chi vive a caso. Nel palagio si fa lo stesso, poi che quanti sono i pareri de gli huomini, sonvi anco tanti Ufficiali, e Tribunali. Nel Mondo chi va, chi sta, chi naviga, chi camina, chi dona, chi ruba, chi piange, chi ride, chi veglia, chi dorme, chi s'affatica, chi riposa, chi cumula, chi logora, chi offende, chi riceve ingiuria; chi canta, chi si duole, chi studia, e chi impazzisse. Così in questo appartamento si ritrovano gli stessi dispareri, et non minor intrichi, lo stesso sussurro, la stessa maniera di capriccioso procedere [...].

Via, via procedendo, il "filosofo" indica negli spazi terreni del "palagio" il riscontro perfetto tra le prigioni e il Purgatorio e il Limbo; in quelli sotterranei, tra "camerotti" e Inferno. Pertanto, e alfine,

il palagio meraviglioso per architettura, per l'ampie sale, et per le statue, per li colossi invita con larghe scale a rimirarlo: ma non si può però ben conoscere se lungamente non vi si pratica. Il mondo ci diletta, ci piace, e con vane speranze ci trattiene, e con false promesse al fin ci lascia; così il palazzo a prima vista diletta, e promette, che ivi d'ogni affare si trovi opportuno rimedio; ma riesce talhora tanto scarso, che prima manca la vita, che s'habbi ricevuta la sanità. In somma si ritrova così favorita la Serenissima città di Venetia, di questo mondo piccolo, quanto la natura del mondo grande.

Pure, e si tratta della sorpresa eloquente, l'immagine che un simile evento assesta, lascia margini all'effusione d'ulteriori e congrui ornamenti. Via via che i protagonisti del dialogo si vengono radunando, nell'attesa dei ritardatari passeggiano, "ragionando" "di diverse cose", "per quella nobilissima piazza". Ora v'è chi

lodava la bella prospettiva della piazza dalle due colonne fin all'Horologio; chi biasimava l'antica architettura della facciata della Chiesa di S. Marco; chi proponeva che sarebbe stato bene far un foro presso le Beccarie corrispondente a quello delle colonne, accioché la Zecca restasse in isola, caminando con l'apertura delle case facendosi piazza fino alla Pescaria: e chi lodava sommamente le statue antiche, i cavalli famosissimi di Fidia, posti sopra la porta della Chiesa (i quali per esser senza freno dinotano la libertà di questa patria) e chi le statue moderne, riposte sopra la libraria; et altri dicevano doversi fabricare la facciata del palagio del gran Conseglio, simile all'architettura contrapposta delle fabriche nuove. Non mancarono anco chi si vantavano di poter far una fontana perpetua nel mezo della piazza per sopremo ornamento di questa città. La qual cosa per essere più dell'altre curiosa ridusse tutti li nostri ragionamenti intorno al modo, et alla possibilità.

Tralasciamo di commentare, non tanto l'incredibile ipotesi di un ampliamento del sistema delle piazze, scandito e pur sempre di logica ῾forense', o di un rifacimento in evidenza d'eloquio classicistico della facciata di palazzo Ducale, e puranco d'insistere sulla constatazione dell'analogia dell'ultima proposta con l'idea d'Alvise Cornaro, postillata dal Tafuri e dal Bellavitis, di una "fontana d'acqua dolce, viva e pura" "oltre la piazza di San Marco" (25), per prendere atto come, dopo aver espresso le più svariate opinioni intorno al modo corretto di realizzar l'impresa, i nostri personaggi convengano

che si dovesse formare un vaso di metallo capacissimo firmato sopra un piedestallo a disegno intagliato con li suoi gradi intorno a numero sufficienti. Di sopra poi del vaso pur nel mezo, lasciando il luogo da por li cannoni, fusse riportato un tripode, sopra di cui una palla rotonda figurata per lo mare fosse riposta, e sopra di lei assisa, o in piedi una Venetia fatta con singolar maestria. Dall'un canto del tripode fosse un Leone, figurato per un S. Marco, il quale tenesse l'un piede sopra un libro aperto, e l'altro su la palla per lo mare figurata; dall'altro canto del tripode fosse con eguale grandezza del Leone posto un Alicorno, il quale riguardando con gratia la sovrastante Venetia venisse insieme a dimostrare, e la virginità di questa Regina, col riposarsele appresso, e la bontà dell'acque, quali sogliono (come dice) quando ei vi tufa il corno se sono torbide, e avvelenate rischiararsi, e rendersi sane: percioché l'acque tante volte salite, e cadute, con quello circolar modo, già detto, sarebbono diventate leggierissime, e come acque cotte, da digerire facili, e sane. Su'l terzo lato del tripode poi vi si havrebbe potuto porre, o statua rilevante la grandezza del Prencipe, overo qualche accorta impresa co'l suo leggiadro motto. Nella palla rotonda poi, dove sponta in fuori là, ove il tripode fa un angolo ottuso, per tre lati vi fossero tre cannoni di conveniente forame, proportionati alla quantità dell'acque nelle spongie, e conserve raunate, per certa lunghezza di tempo.

Venezia, dunque - "questa illustrissima città" -, nel momento in cui rifiuta che la propria perfetta condizione possa venir manipolata, è disponibile ad accrescersi di "grandissimo ornamento e magnificenza", coerenti con un'immagine che coincide col suo destino superiore e mitico.

Santa Maria della Salute - Santa Maria del Pianto:

la peste, Candia e il Peloponnesiaco

Dalla basilica della Salute, "magnifica et con pompa" (26), a Santa Maria del Pianto, "luogo [...] moderato e senza apparenza" (27), sembra trascorrere un'era. Quanto infatti la Salute è spalancata sullo scenario urbano, con la cupola che si erge maestosa al di sopra di ogni altra fabbrica cittadina - se si eccettuano i campanili -, tanto Santa Maria del Pianto è racchiusa entro il recinto del piccolo monastero, "umile e basso non di alta e rilevata architettura". Quanto la prima è proiettata al centro del bacino di San Marco, quale autentico fulcro urbanistico della città, tanto la seconda è confinata alle Fondamenta Nuove, nell'estrema e opposta periferia, a qualificare una desolata zona di recente interramento. In verità le due fabbriche, assolutamente coeve, vengono concepite nella stessa circostanza della tragica pestilenza che aveva flagellato Venezia nel 1630: unicamente per decisione del senato la prima, per ispirata volontà di un'ostinata badessa la seconda.

La gravità della prova, per la Salute, si avverte fin da quel 22 ottobre 163o, quando si decreta, in pregadi (28).

di far voto solenne a Sua Divina Maestà di eriger in questa città e dedicar una Chiesa alla Vergine Santissima, intitolandola Santa Maria della Salute, et ch'ogni anno nel giorno che questa città sarà pubblicata libera dal presente male, Sua Serenità et li sucessori suoi anderanno solennemente col Senato a visitare la medesima Chiesa a perpetua memoria della pubblica gratitudine di tanto beneficio.

In tale circostanza, di cui più volte viene ribadita la solennità, il doge non poté esimersi dal presenziare "in piedi col corno alla mano, et così tutto il senato in piedi et scoperto con atto di singolar devotione". Mentre dunque infuriava il morbo, già il senato si incaricava di sborsare 50.000 ducati ed affidava, a "tre honorevoli Nobili Nostri", il compito di "proporre il luogo et il modello [...] della Chiesa, che doverà esser Magnifica et con pompa della devotion nostra verso il merito di così sublime et utile protettione". Dopo attenta e scrupolosa analisi dei vari siti ove poter erigere il nuovo tempio, i patrizi incaricati propongono al senato di optare per quello dove sorgeva la chiesa della Santissima Trinità, tra la punta della Dogana e l'abbazia di San Gregorio.

Tra tutti, l'area indicata pareva rispondere alle caratteristiche richieste: relativa ampiezza, facile accesso, posizione centrale, "et ben consideratolo dentro, et fuori, a noi pare, che nostro Signor Dio l'habbia preparato a punto per collocarvi un tempio in cui si adori, et si riverisca la Beata Vergine Madre Sua"; aggiungendo inoltre considerazioni sulla possibilità di recuperare il materiale da costruzione demolendo gli edifici preesistenti: "fabbriche che vi sono antiche, et copiose, sumministreranno esse ancora habbundante materia per le fondamente, et altro". Scelto il luogo, rimaneva da approvare il progetto più rispondente ai requisiti richiesti, in un clima di singolare sfiducia sulla possibilità di reperire un architetto, operante nella città di Venezia, all'altezza delle ambiziose aspettative della commissione, che manifesta allora la sua propensione a trovare

a Roma, et anco altrove, che le [a Sua Serenità il doge Nicolò Contarini] paresse, facesse praticare d'alcun architetto valent'huomo, per formar il disegno, et la construtione della Chiesa, perché qui possiam dubitare, d'esserne mal provveduti [...].

Fin dall'aprile 1631, risultano presentati a un pubblico concorso ben undici progetti, che una commissione di otto patrizi, appositamente nominata, dovette esaminare. Eccettuate le due innovative proposte di Alessandro Varottari, detto il Padovanino, e di Baldassarre Longhena per un edificio "a forma di rotonda", i rimanenti si conformavano alla più tradizionale pianta longitudinale. Rimane memoria nei documenti dei progetti di Bortolo Belli, di Antonio Smeraldi - detto Fracao - assieme a Giambattista Rubertini, e di Matteo Ingoli; progetti che furono alla fine scartati, come non fu accolta l'idea pur originale del Padovanino per un tempio a pianta centrale, risultante dalla sovrapposizione di due triangoli equilateri, forse per una sua inattuabilità pratica (29). Lo spirito innovativo che pervadeva l'inedita e rivoluzionaria proposta longheniana incontrò invece il favore della commissione, che però, con squisita attitudine veneziana, rimandò al giudizio del senato anche il più convenzionale disegno di Fracao junior e Rubertini, il quale non obbediva ad alcun particolare programma simbolico, ma si proponeva semplicemente di sorpassare ῾in grandezza' il prototipo palladiano per il Redentore, impegnativo precedente di santuario votivo, eretto dalla città in occasione della terribile pestilenza del 1576. Entrambi i progetti venivano sottoposti all'attenzione del senato in quanto possedevano i tre requisiti richiesti: "che il spiegamento della Chiesa riesca tale che nell'ingresso l'occhio goda del dominio et spatiosità di tutta essa con comodo", che possegga "una proportionata et viva lucidezza egualmente disposta, si che un luoco della chiesa sia men cieco e men scarso di luce dell'altro" ed in ultimo che sia addobbata di "un concerto tale di altari nel ben disposto corpo [...] che tanto ne sii ricca la destra quanto la sinistra parte". Il 13 giugno 1631 la "ballottazione" tra i due progetti vede il Longhena vincitore con una non larghissima maggioranza (sessantasei voti contro trentanove) (30). Il senato si era espresso giudicando "più proprio" il disegno longheniano e deliberando contestualmente che "senza dilatione s'habbia a continuare la fabrica in onore della Beatissima Vergine et colla confidenza nella sua santissima intercessione per il sollievo di questa città".

Qualche tempo dopo, in urlo di quei lotti considerati terrena nuova, ovvero frutto di bonifica, allora nella parte più remota della parrocchia di Santa Maria Formosa, andava sorgendo un piccolo monastero "non di alta e rilevata archittetura", che ben si addiceva alla regola servita della sua fondatrice, Maria Benedetta de' Rossi. L'edificio si collocava in quella frangia della città che, dai Riformati di Cannaregio fino alle Vergini di Castello, era caratterizzata, già dal Medioevo, dalla presenza di un gran numero di conventi. La Rossi, già badessa del monastero delle Grazie di Burano, avrebbe avuto diretta rivelazione da Cristo, che indicava come causa del morbo pestilenziale, appena scoppiato nel 1630, i trascurati suffragi per le anime del Purgatorio (31). Ne rendeva confessione ai procuratori del suo monastero, ravvisando la necessità che la Repubblica decidesse di erigere una chiesa e un monastero femminile, che avessero come compito precipuo quello di celebrare quotidiane messe in suffragio dei defunti. Benché la badessa fosse tenuta in grande stima e considerazione anche dalle autorità, le severe leggi dello Stato, che vincolavano all'approvazione del senato l'erezione di qualsiasi nuovo edificio sacro, impedirono in quel momento la realizzazione di un simile intento. Santa Maria del Pianto, concepita dalla Rossi, contemporaneamente alla Salute, quale voto, puranco, di espiazione cittadina al castigo della peste, sarebbe sorta in aperto antagonismo con la seconda: ciò non poteva essere ammesso. Solamente più tardi, oltre un decennio, il senato deliberò in favore della sua costruzione, poiché le motivazioni del suo sussistere risultavano nel frattempo radicalmente mutate. Era infatti scoppiata la guerra di Candia, che sembrava fin dal principio profilarsi come snervante e deleteria per la Repubblica. La suora argomentò allora efficacemente le ragioni per le quali il senato veneziano avrebbe dovuto erigere un santuario, in luogo da destinarsi, al fine di volgere in favore della collettività le sorti del conflitto stremante, provocato, a suo dire, dall'ira divina, che si voleva così dunque placare. La veggente ritenne esser giunto il momento propizio per riproporre l'antico progetto, rivolgendosi questa volta però direttamente alla persona del doge, con una sua autografa (32), datata 23 maggio 1646, in cui, rammentando i precedenti ammonimenti alla Repubblica, veniva

da parte espressamente di Dio che se vorranno la liberazione della patria bisogni ricorrere alla Beata Vergine ed un solenne voto che, concedendo la pace e liberatione della persecutione dell'ira ottomana, costruir un piccolo monasterio overo romitorio appresso Santa Maria della Salute overo altrove [...].

Profonda impressione suscitò tale messaggio nel doge e nel senato, anche perché la guerra contro il Turco continuava a negare rapida soluzione: e alfine le autorità decisero di assecondare la supplica della Rossi, confidando che un voto alla Vergine giovasse a garantire una conclusione positiva del conflitto. Il 21 giugno dello stesso anno il senato deliberava con voto unanime l'approvazione della relazione di Girolamo Foscarini, provveditore sui monasteri, che indicava, secondo un preciso disegno fornitogli dalla stessa religiosa, le caratteristiche del nuovo convento: "luogo sacro e moderato e senza apparenza" (33). I provveditori sopra i monasteri, di concerto con la Rossi, dovevano individuare il sito adatto, decidere lo stile dell'edificio, scegliere i materiali e presentare il modello. Il 29 agosto essi riferivano in senato su quattro possibili luoghi: sul rio delle Burchielle presso Santa Maria Maggiore; nel sestiere di Cannaregio; vicino all'Ospedale dei Mendicanti; e in ultimo su un terreno alle Fondamenta Nuove presso il ponte (oggi abbattuto) di San Francesco della Vigna (34). Si sa di un'iniziale preferenza della suora per il rio delle Burchielle come riferisce uno dei provveditori; tuttavia lei stessa, mutando d'avviso, il 26 agosto manifestava opinione contraria per le Burchielle, Cannaregio e i Mendicanti. Non rimanevano che le Fondamenta Nuove, visto che la scelta della Salute era stata per ovvî motivi immediatamente scartata dai provveditori, ai quali spettava la decisione definitiva, sempre attenti però, come suggerito in pregadi, a non indisporre comunque la monaca veneranda. Il 20 dicembre 1646 viene dai provveditori presentato in senato il preventivo della spesa globale, che il proto Francesco Contin, incaricato di redigere il progetto e il disegno della nuova fabbrica, aveva approntato nella scrittura del giorno prima (35). L'approvazione risale al giorno appresso, in pregadi, quando si incarica il Contin di predisporre un modello, mentre le trattative per l'acquisto del terreno edificabile di proprietà della Scuola della Carità sembravano intanto volgere a buon esito (36). L'architetto era tenuto a rimaner fedele alle prescrizioni del senato, nonché alle "religiose e moderate istantie" della religiosa, che tuttavia si affrettò ad abbandonare il mondo dei vivi di lì a poco, il 13 gennaio 1647, con la consolazione almeno di aver visto ufficialmente avallato il suo pio desiderio (37). Con rispetto profondo della volontà della Rossi dunque, si piantò la croce di fondazione, in data 9 novembre 1647, di sabato, mentre quattro giorni dopo avveniva la posa della prima pietra e della medaglia commemorativa. Sappiamo essere stata la cerimonia accompagnata da una cospicua partecipazione popolare e di autorità, avanti a tutti, e non poteva essere altrimenti, il doge Francesco Molin, il collegio dei senatori, i capi del consiglio dei dieci con gli avogadori e i censori. Il rito fu solennemente celebrato dal patriarca Giovan Francesco Morosini. Solamente dopo l'aprile del 1658 però le Cappuccine poterono accedere al convento (38). Ma la consacrazione ufficiale del piccolo monastero sarebbe avvenuta opportunamente - e per le ragioni che spiegheremo meglio oltre - il 7 maggio 1687, l'anno in cui si consacrava anche la Salute, e con la benedizione del medesimo patriarca, Alvise Sagredo, ed era l'anno della conquista di Patrasso, Lepanto, Rumelia e del golfo di Corinto. Ciò assume un significato di perfetta simmetria e specularità. Si intendevano, insomma, simbolicamente celebrare i trionfi del Peloponnesiaco, che riparavano, e con quale clamore, la perdita di Candia dolorosamente compiutasi nel 1669 (39). Non appariva, alla fin dei conti, inutile quel voto, come probabilmente qualcuno avrà forse insinuato nella deprimente circostanza dell'atroce capitolazione del '69. Il fatto si è che la città si trovava adesso convenientemente dotata di due ideali, ma profondamente diversi (e lo si spiegherà fra un poco), inespugnabili baluardi, dedicati al culto della Vergine, a difesa imperitura dagli attacchi dei mali peggiori, che all'epoca, tra le lagune, si potevano immaginare: la peste e la guerra logorante (e non tanto quella interminabile contro il Turco). Si tratta, in effetti, delle sole due chiese seicentesche di nuova e integrale fondazione, programmaticamente definite e controllate dallo Stato. Cominciamo da Santa Maria della Salute la quale rappresenta il momento dell'ottimismo dello Stato trionfante specchiato dai panegirici di cui s'è offerto qualche saggio particolarmente enfatico, la visibile manifestazione della positiva reazione della città alla frustrazione del morbo terribile che tanta morte aveva seminato e quella coerente e magnifica integrazione della sua immagine ῾chimerizzata' nel sogno d'una prodigiosa fontana dal dialogo di cui s'è qui indietro, nel terzo paragrafo, ragionato. La macchina longheniana risulta invero un complesso ed articolato insieme di elementi simbolici che concorrono a definire l'edificio come il segno spettacolare della ῾rinascita' della città "fondata sull'impossibile" (40). Unde origo inde salus l'iscrizione che compare sulla medaglia commemorativa e sul pavimento della chiesa come formulazione programmatica che consacra il tempio alla resurrezione e al perpetuarsi nei secoli dello Stato più antico del mondo. È il 25 marzo la data che nell'immaginario storico della Repubblica rappresenta la nascita e la consacrazione alla Vergine della città, e per questo la stessa data coincide con la cerimonia ufficiale la quale dà avvio ai lavori (41). Come già accaduto in passato in particolari momenti di crisi, lo Stato sente venir meno il favore del Cielo, e si ricorre allora ad una sorta di enorme talismano in grado di attrarre nuovamente quella divina benevolenza che era venuta a mancare.

La Salute, costruita "in forma di rotonda" su una base ottagonale di dimensioni colossali, non ha veramente precedenti a Venezia. Baldassarre Longhena affermava essere stata una simile tipologia "desiderata da molti e molti" (42), asserendosi essa dunque quale novità assoluta e complementare rispetto al Redentore, edificato per analoghe ragioni di voto qualche decennio avanti, e che avrebbe potuto costituire, con l'assertività della propria presenza, un grave impaccio alla possibilità di rinnovamento del linguaggio architettonico contemporaneo. Longhena, grazie alla complessità propizia della formazione

e delle attitudini che abbiam tentato indietro di discriminare, aggira abilmente l'ostacolo superando l'archetipo palladiano, ma facendosi subito appellare "nuovo Palladio" (43). Svariati possono essere i precedenti ideali e non solo architettonici: come per esempio i templi rotondi di Perugino, di Raffaello o di Carpaccio. Si è giustamente insistito sull'esempio grafico dell'Hynerotomachia Polyphili di Francesco Colonna, stampata per la prima volta a Venezia nel 1499 dal Manuzio, illustrante un tempio dedicato a Venere, e sulla chiesa della Madonna di Campagna in provincia di Verona del Sammicheli, progettata nell'anno della sua morte (1559), anch'essa come tempio votivo, a pianta circolare esternamente e ottagonale all'interno (44). E stata anche definita come tempio di Salomone (45), di biblica risonanza, nel quale, rotondo anch'esso, albergava, come già in San Marco, la sovranità investita del sacro dono della Giustizia e del suo più sapiente uso. Quindici, come nel tempio salomonico, sono i gradini della trionfale rampa di accesso a questa macchina architettonica ardentemente desiderata dallo Stato veneziano e da questo scrupolosamente controllata; da una classe dirigente che non rinnegava l'orgogliosa resistenza ostinatamente sostenuta durante gli anni dell'Interdetto, ma che si era fatta più dissimulante, avendo compreso che alla forza intollerante del potere romano che agiva col braccio lungo della Compagnia di Gesù si poteva opporre unica-mente la forza della parola, sarpianamente concepita: "Non nelle sole armi sta la forza, ma nelle parole ancora" (46). Specie di ῾Pantheon' nazionale, e l'analogia della pianta rotonda lo testimonia (47), l'"opera vergene" di Baldassarre Longhena s'esibisce quindi come la rappresentazione enfatica - la cui retorica ridondanza risulta frattanto mirabilmente controllata dal genio del suo autore della redazione secentesca del `mito', su cui ci siamo effusi, spettante all'ideologia di un patriziato, disilluso forse ma non definitivamente arresosi, che proietta "'nei secoli a venire' la propria polemica ambiguità e la propria utopia di ragione" (48).

Il segno avvolgente della macchina longheniana, "unico possibile mezzo per disciplinare la circolarità dello spazio" (49), definisce una nuova unità spaziale del bacino, sovverte le antiche gerarchie ma nel contempo completa ed esalta nell'unitarietà delle forme la polifonia delle architetture delle cupole marciane e palladiane. Ancor prima degli interventi di Palladio (San Giorgio, Zitelle, Redentore), un'unica e incontrastata voce si affacciava sul bacino: il severo monologo marciano, che si elevava senza confronti quale segno in cui la città gelosamente racchiudeva il suo senso. ῾Stanco' di dialogare con se stesso il nucleo marciano estende a poco a poco la sua stessa immagine fuori di sé, come in un gioco di specchi; dal monologo alla polifonia si riflette lo stesso tema a più voci. La Salute allora si pone quale ultima nota, la più sonora - ma, puranco, attesa: e torniamo a richiamare il dialogo del "dispiacer" della morte -, di questo concerto, in un crescendo che si percepisce, entrando dal porto di San Niccolò di Lido, dall'attacco della cupola della cattedrale di San Pietro di Castello, proseguendo fino all'inconfondibile profilo delle cupole marciane che si misurano, dall'altra parte, nelle architetture palladiane della Giudecca, per concludersi e placarsi nel trionfo verticale della circolare fabbrica del Longhena, la quale mantiene, come termine di confronto per le basse e lontane cupole giudecchine ormai caratterizzanti la linea ῾naturale' dell'orizzonte cittadino, la cupola minore del presbiterio, affiancante immediatamente il cupolone maggiore che, senza rinunciare al confronto dialettico col passato, tutto domina. La sua pregnante presenza si giustifica per gradi, con un'eloquenza degna di Paolo Sarpi, si inserisce armonicamente nel discorso, iniziato secoli prima, semplicemente ma significativamente più ῾in grande'. Il nuovo tempio è più della somma delle sue parti, ma procedendo in una ideale scomposizione si osserva che dal centro del bacino esso risulta dialetticamente rapportato, e in maniera privilegiata, al Redentore, il referente più immediato, in tutti i sensi. Si riscontrano sorprendentemente i medesimi moduli compositivi nella parte presbiteriale con le due absidi contrapposte, con i due simmetrici campaniletti e la cupola minore che otticamente si allinea alla stessa dell'architettura palladiana, con un corpo che nelle mani di Longhena si fa ῾rodondo' - come rotondi diventano i sensuali contrafforti che al Redentore appaiono al contrario squadratissimi -, e con la facciata ad arco di trionfo. Ma sopra tutto questo riposa maestosa la cupola maggiore che irrompe a pieno titolo nell'immagine della città.

Che dovesse divenire il nuovo ῾centro', non solo ideale, della città, è provato d'altronde dalla richiesta presentata in senato, tra il 13 e il i 7 giugno 1631, da Gerolamo Soranzo e dagli altri sarpiani, perché l'erezione dell'edificio avvenisse proprio sulla "punta della dogana" in modo che risultasse maggiormente visibile. Motivi pratici - impossibilità di spostare la dogana; e riserve sollevate dallo stesso architetto sulla necessità di modificare il progetto già approvato - non permisero tanto, ma soprattutto ciò non poté inverarsi, per non incrinare il già fragile equilibrio stabilito col preesistente. Così prepotentemente proiettata in avanti la nuova basilica avrebbe soverchiato, tutt'attorno, passato recente e più remoto, scalzando ogni possibile termine di confronto urbanistico, che in modo tanto geniale Longhena aveva elaborato (50). La grande "corona" di cupole del bacino si sarebbe irreversibilmente sciolta, il movimento si sarebbe fatto centrifugo, e la Salute - celando definitivamente il Redentore - non avrebbe più raccolto le membra sparse della connotazione urbana. Il nodo, il punto focale, la parte terminale del ῾rosario' mariano, qual è ora la Salute, sarebbe stata sostituita da un sordo mastodonte, specie di vorace ῾leviatano', poco consono alla realtà di rappresentazione storica e politica della Serenissima Repubblica. Non alla corona di una monarchia assoluta avrebbe dovuto assomigliare, ma, è scontato, alla corona dogale, fatta di sinuose curve e docili trapassi nella sua caratteristica e irrepetibile forma, non di altezze intangibili. Similmente la rotonda longheniana, nobilis inter pares, si rivolge alla Giudecca con la cupoletta minore e al Canal Grande con la stupefacente cascata delle linee scroscianti, che partendo dalla liscia e turgida cupola maggiore dalla ῾zampillante' lanterna e discendendo verso l'elemento-acqua, paiono formare una barocca ῾macchina trionfale', che celebra la vittoria della vita sulla morte. Vuole essere la spettacolare e ridondante epifania di un mito di Venezia che s'illude di perpetuarsi eternamente. Ad essa si legano simbolicamente le sorti dell'intera città, il suo futuro, e, appunto, ogni sua prospettiva. Essa rappresenta Venezia, come la persona del doge - e l'abbiam colto nell'effusione dei panegirici - rappresenta lo Stato veneziano: egli sta al vertice della piramide sociale, ma non ne è il signore assoluto; la sua funzione è quella delicatissima di temperare le forze tutte ῾uguali' che partecipano alla vita politica e al governo della città.

Risulta persin ovvio, per noi, comprendere le ragioni che dovettero convincere il senato ad accettare il progetto longheniano. Rispetto al rivale Fracao - che concepisce unicamente un contenitore, senza rapporto con l'esterno, così come il Belli (51) che immagina delle cupole ῾a cuffia', non emergenti quindi dal piano della copertura - Longhena "pensa urbanisticamente", è seriamente preoccupato di "vincere l'orrore del vuoto del bacino" (52), di riordinare una volta per tutte l'assetto del centro della città. Convocando Sansovino, Palladio e, per l'appunto, Scamozzi, Baldassarre realizza e completa la barocca piazza d'acqua che è il bacino, di cui la sua rotonda diviene la concreta misura, la "bussola", il "modulo conoscitivo della scala urbana" (53). Traspare, insomma, dalla concezione longheniana la volontà di riproporre ed esaltare il mito della città "regina dell'onde", delle sue vergini origini, come Francesco Sansovino ribadisce nella sua opera (54), volontà che d'altronde non poteva essere altro che la trasposizione dell'apparato ideologico elaborato dalla committenza. L'artista diviene così filtro che tramuta "il segnale-mare nel segno-acqua [non si dimentichino, allora, i richiami alla stessa dialettica mare-acqua che tragitta, s'è veduto, dallo Strozzi alla macchina allegorica della fontana immaginata in Athanatophilia]. Segno, per così dire, puro e appartenente ad un'altra organizzazione del pensiero (quella artistica) e ad un altro dibattito, diverso da quello sulle immagini, vale a dire quello sulle forme" (55). Se è vero (56) che la Salute rappresenta l'ultimo eloquente tentativo dei ῾giovani' sarpiani di dirottare l'attenzione del patriziato veneziano dalla terraferma al mare, perché essa è proiettata, come una gran nave, verso quello, e invita a guardare in tale direzione (che tuttavia resta ambigua e indefinita), tutti invece dal bacino guardano verso e oltre essa, quindi inesorabilmente ormai verso la terraferma, e forse neppure a quella, piuttosto verso quel teatro magnifico e rutilante della piazza d'acqua, che di lì a poco scadrà in giostra, ancorché fastosa, popolata di un turismo d'Oltralpe avido e curioso, pienamente assecondato dal pennello di Canaletto (come vedremo più avanti) (57).

Santa Maria del Pianto invece, al di là delle apparenti somiglianze (pianta ottagonale, numero di altari, ecc.), doveva per necessità configurarsi diversamente, ma in modo assolutamente complementare. Totalmente introflessa, rispetto all'estroversione della Salute, non poteva divenire la canzone d'organetto che riprendeva in tono minore il motivo della ῾sinfonia' longheniana. È significativo riscontrare tra le carte d'archivio (che la gentilezza di Martina Frank ci ha voluto anticipare) come il Contin, proto alla fabbrica di Santa Maria del Pianto, a più di un anno dall'inizio dei lavori, venisse dalle autorità severamente richiamato agli impegni assunti per aver gettato delle fondazioni molto più estese del necessario, tradendo così l'originario progetto approvato dalla commissione per "l'erettione d'un piciolo oratorio, moderato e senza apparenze" (58). Accertato "che la costruttione si sia principiata sopra altro modello di eccedente forma in quanto a prospettive, Cupole, Marmi e Colonati, cose tutte che richiedono molto tempo e molto dispendio" (59) - come in senato si registra l'11 gennaio 1649, ma già il 2 dello stesso mese si era brevemente riferito sul fatto obbligando il Contin a presentare immediatamente una relazione scritta, che daterà il 9 di gennaio (60) -, si rese dunque necessario quanto prima ricondurre l'esecuzione al progetto originale e alla "publica intenzione che hà mirato di far opera positiva e religiosa e di poterla ridur celermente a perfettione" (61). Al senato chiaramente premeva che i lavori procedessero speditamente la guerra infuriava intanto -, che la spesa non eccedesse i preventivi e innanzi tutto che fossero rispettate le "intenzioni" che stavano alla base dell'approvazione del progetto: la pubblica volontà di erigere un non ostentato complesso che ῾parlasse' solo di umiltà e penitenza; per cui ai provveditori sopra i monasteri (62), che hanno "ben osservato il disordine principale dell'alterazione del disegno, ponendovi hora regola" viene commesso

per il lavoro che si trova già fatto, d'accostarsi quanto sia possibile al Modello approbato, e per il restante da farsi, di star puntualmente nella forma e regola d'esso, sollecitando la costruttione e l'adempimento con ogni maggior diligenza con abbandonar intieramente il pensiero à quello ch'è stato diversificato.

Debole e poco convincente, seppur dettagliata, sarà la difesa del Contin (63), che alla fine si rimette alla superiore volontà del senato, accantonando ogni recondita intenzione di voler legare il proprio nome alla fama imperitura di un edificio che poteva diventare magnifico come la stessa Salute, mentre di lui fatalmente si spegne quasi subito la memoria e alla fabbrica dopo il 1797 fu riservato un trattamento a dir poco offensivo. A tutt'oggi desolatamente spoglia e abbandonata, sconosciuta financo a non pochi Veneziani. Come notato dal Niero (64), l'erezione del monastero del Pianto costituisce il primo esempio a Venezia di "pietas di stato di esclusiva valenza politica" - a prescindere da tutti i condizionamenti della fondatrice -, divenendo infatti unicamente espressione della volontà della Repubblica di rispondere, con un voto ufficiale, a un momento di grave crisi politico-militare, sciolta in questo da ogni possibile condizionamento popolare, che in certa misura ancora permaneva nella fondazione della Salute e, prim'ancora, del Redentore.

La basilica longheniana rappresenta comunque il massimo del retoricamente concepibile a Venezia, data l'importante funzione che doveva assolvere, mentre Santa Maria del Pianto era stata approvata con ben altre motivazioni: non quelle dell'esternare trionfalisticamente la propria superiore, benché ormai sostanzialmente velleitaria e retorica, autocoscienza, la quale pretende di riconoscersi in un segno alto e grandioso, per illudersi di esistere e farlo comprendere anche al mondo. Le sue ragioni sono diverse, sono quelle del nascondimento, del guardare con vertigine dentro il proprio abisso: "Noli foras ire, in interiore [...] stat veritas" potrebbe agostinianamente intitolarsi l'umile monastero. A Santa Maria del Pianto si doveva andare innanzi tutto per implorare il perdono espiando; alla Salute per ringraziare con giubilo. Nella prima sta la dimensione del dolore raccolto e dignitoso che richiede il silenzio sacro, la modestia e l'umiltà. Non poteva, con simili premesse, pretendere il Contin di realizzare una probabile copia della Salute, un immotivato esibizionismo architettonico, senza con questo provocare la scandalizzata reazione e l'immediata censura delle autorità, che infatti il 2 gennaio 1649 riferivano in senato di aver constatato "con meraviglia" lo stato arretrato dei lavori, eseguiti "non in conformità del Modello approbato" (65).

Ma ancora. Nel 1652, nel pieno dell'infuriare dell'assedio di Candia, il senato pronunciava il solenne voto di opporsi alla "Barbarie Ottomana", dedicando un altare a sant'Antonio da Padova all'interno della Salute, che da questo momento inizia forse a correggere l'originale, ancorché aperto (66), assunto iconografico, dirottandolo progressivamente nel senso di una scoperta ῾celebrazione' delle guerre in corso. Dapprima, tra il 1652 e il 1656, la guerra di Candia entra nella basilica, con una pala di Pietro Liberi collocata su tale altare, con la dichiarata speranza di rovesciarne le sorti a proprio favore (67). Quindi l'icona miracolosa della Mesopanditissa, devotamente trasportata dall'allora capitano generale da Mar Francesco Morosini dalla cattedrale della capitolata Candia, giunge a pieno titolo, nel 1670, sull'altar maggiore della medesima e, a sontuosa ῾cornice', le sarà immediatamente allestita la fantastica macchina marmorea del fiammingo Giusto Le Court. Infine sulla lanterna della cupola maggiore verrà propiziamente collocata la statua della Vergine col bastone del comando, vera ῾capitana da Mar' e guida della città, perché qui "Maria si identifica con Venezia, come potenza marittima, nata dal mare, quale novella Anadiomene e vivente sul mare nell'intera sua storia, di successi e di insuccessi e di ripresi interessi marinari nel corso del Seicento" (68). Persino l'ufficiale consacrazione della Salute - e, non si scordi, di Santa Maria del Pianto - coinciderà col successo, e conseguente trionfo, per la conquista della Morea da parte del Peloponnesiaco nel 1687. Il dispiegamento iconografico, interno ed esterno al tempio longheniano, riflette il privilegio pressoché univoco del culto mariano, mentre il "motivo antipeste" sarebbe stato accantonato, secondo il Muraro, intorno al 1660 (69). E comunque da sottolineare che il programma ufficiale di Stato insiste, fin dal voto del 1630, particolarmente nell'"esaltazione di Maria Vergine protettrice di Venezia, anzi identificata con Venezia stessa" (70). Nella ῾tranquillizzante', neoveronesiana pala del Liberi, allora l'unica della basilica in cui si riscontri un preciso riferimento ad un fatto della storia contemporanea (la guerra in corso appunto) e dove non appaia esplicitamente la Madonna non si fa che ribadire tale assunto. Venezia, qui, almeno dal punto di vista iconografico non teologico s'intende, si sostituisce alla Vergine. Ma nemmeno travestire la Madonna da ῾capitana da Mar' risulta forse un'operazione teologicamente troppo corretta, che, come meglio discuteremo nei successivi paragrafi, tuttavia rientra perfettamente nella secolare tendenza veneziana, che conosce nel Seicento il suo apogeo, a laicizzare, a maggior gloria della Repubblica, la dimensione del sacro.

Di rimando, la toccante Deposizione, che Luca Giordano realizza, intorno al 1665 (71), per Santa Maria del Pianto, definisce una drammatica, "riberesca", composizione in cui i personaggi principali si dispongono ai lati, lasciando, in un violento e disordinato moto centrifugo, un cupo e angosciante vuoto al centro. La Madonna implorante, con le braccia spalancate, sulla sinistra, è, a questo punto e con le dovute correzioni, facilmente rapportabile all'iconografia secentesca di "Venezia supplice nei dipinti votivi" (72). Un'atmosfera quasi da tragedia senechiana aleggia in questo singolare dipinto, dove il corpo contorto e disossato del Cristo pare sciogliersi come cera nell'accasciarsi disarticolato tra le braccia nerborute dei pietosi uomini e della piangente Maddalena sulla destra, che fa da contrappeso all'altrettanto gemente Giovanni sul lato opposto alle spalle della Madonna: alla quale è dedicato il santuario, infatti, del ῾Pianto'. Nulla in comune con le tele della Salute, eseguite dallo stesso pittore napoletano qualche anno più tardi, nelle quali si stempera una neotizianesca - principalmente - celebrazione mariana (73). Maggiori tangenze, semmai, con la pala del Liberi, che, pur nell'assenza quasi totale di pathos, e comunque in maniera più soffice espresso, dispone una Venezia implorante assolutamente gemella - ancorché più aristocratica - della giordanesca Vergine del Pianto. Vi coincidono in fondo anche i programmi. La chiesa delle Fondamenta Nuove fu eretta, vale ribadire, quale voto della Serenissima "per placar l'ira di Dio, e liberar la Repubblica dalla cruda, e ingiusta guerra mossali da' Turchi" (74), come, del resto, per i medesimi motivi il senato decise (75), nel 1652 e con voto altrettanto solenne, di erigere alla Salute un altare dedicato a sant'Antonio da Padova, il santo dei miracoli impossibili, che, supplice Venezia, intercedesse presso il Supremo

nella costituzione ben grave de calamitose travagliosissime congiunture, e nell'urgenza dei pericoli, mentre è trafitta la Repubblica nel più intimo da colpi fierissimi, et esposta a vicini gravissimi danni, et alla Barbarie Ottomana, avida d'ampliare il suo vasto Impero [...] e perché si compiacia S.D.M. placare la sua giusta ira, assistere la causa publica che è accompagnata dai riguardi della Fede della Religione, abbattere la potenza di formidabile fiero nemico, e prosperare con la sua gratia le armi publiche, impiegate alla difesa della Cristianità tutta [...].

Della peste alla Salute rimane, così, macroscopica traccia solo sull'altar maggiore, nel suo margine destro, ove Giusto Le Court rappresenta un'orrenda vecchia dalle "mammelle sozze" (76) ricacciata nel vuoto da un agguerrito amorino con la fiaccola accesa, nel momento in cui, in alto al centro, campeggia trionfante una proterva Vergine, solennemente circondata dai maggiori santi della tradizione veneziana invocati durante il contagio: san Marco, e il beato Lorenzo Giustiniani (77). Ai suoi piedi la figurazione di Venezia - vicinissima a quella liberesca sopra considerata - supplicante, a dimostrazione, nel pieno rispetto dei dettami postridentini, della religiosità e della pietà della città tutta. Ma, ci sia concesso insinuare, se le immagini della Vergine e di Venezia spesso, in tale congiuntura, coincidono, chi allora sta implorando e contemplando la nobile fanciulla inginocchiata? forse se stessa, specchiata, e la sua superiore volontà di incrollabile potenza?

È possibile al contrario ritrovare un significativo dispiegamento di temi legati alla peste - ciò è comprensibile - nella Scuola di San Rocco, arricchita innanzi tutto dai teleri commissionati, nel 1666, ad Antonio Zanchi dal guardian grande Bernardo Broli per la parete destra dell'ultima rampa dello scalone che conduce alla sala superiore. La composizione - in due scomparti separati da un pilastro, ma la scena è assolutamente unitaria - è stata finora giustamente identificata, sulla traccia del Boschini, come "la Peste di Venezia nell'anno 1630" (78), laddove è forse opportuno, per i motivi che andremo elencando, scorgervi pure la commemorazione dell'altra terribile peste che flagellò le lagune tra il 1575 e il 1577. La fosca ambientazione, col crudo realismo degli appestati e dei "pizzegamorti" in primissimo piano, non impedisce di riconoscere - ai lati opposti dello scenario sapientemente impalcato dal pittore - il profilo, sullo sfondo a sinistra, del campanile di San Marco (79) dalla inconfondibile cella campanaria sopra cui si staglia la sagoma connotante del Leone marciano, nonché, sulla destra, parte del fronte della chiesa del Redentore (che sembra ῾sbucare' da dietro la parasta divisoria), di cui si distinguono il doppio timpano, uno dei campaniletti laterali e la cupola sormontata dalla lanterna con la statua, indoviniamo, del divino dedicatario. Da un punto di vista, che possiamo collocare ipoteticamente all'imbocco sul Canal Grande del rio della Fornasa, guardando sulla destra verso, appunto, il Redentore - quasi in asse con il ponte di barche che tutti gli anni veniva e tuttora viene allestito la terza domenica di luglio tra lo sbocco di tale rio nel canale della Giudecca e la chiesa di Santo Spirito alle Zattere (80) -, si svolge la tragica scena di morte, sigillata, in questa formale e altamente simbolica triangolazione della città, dalla ῾rassicurante' apparizione del campanile marciano sul margine sinistro della grandangolare composizione. In alto la Vergine e san Rocco intercedono, per la cessazione del morbo, presso il Cristo irato che stringe nella mano destra, posata sul globo, il patente attributo dei fulmini del castigo. Non v'è dubbio, allora, che qui il protagonista sia proprio un Cristo-giudice - novello Apollo, indifferente seminatore della vita e della morte (81) -, emanante una luce terribile che investe gli appestati, caritatevolmente assistiti dai devoti di san Rocco, di cui un angelo in primo piano esibisce il taumaturgico bastone da pellegrino, additato anche dagli stessi soccorritori quale strumento di conversione e guarigione. Si è perciò inteso rappresentare in questo dipinto il primo e più recrudescente stadio del flagello scatenato, come registrano i documenti del 1630, dalla giusta "ira divina". Non bastava allora la ῾prova' del 1576, poiché nuovamente Venezia pare qui essere ricaduta, e con maggior vigore, nei medesimi errori. La cupa e spettrale, anzi ῾nera' e assolutamente ῾negativa', apparizione del tempio del Redentore tra i fumi miasmatici ne costituisce la scomoda, scandalosa, lontana ancorché irremovibile e non vana testimonianza: le tinte infuocate degli spaventosi nembi evocano sinistre corrispondenze con la fine di Sodoma, mentre la Vergine in alto, ai piedi del Figlio, tenta sommessamente di placarne i furori; quando san Rocco, rimettendosi all'imperscrutabile volontà dell'Eterno, richiama senza posa gli umani alla necessità del pentimento e della totale conversione. Si aggiunga inoltre, a riprova, che sul vicino pianerottolo della scala è collocata una lapide - fatta incidere dal guardian grande Domenico Ferro in memoria della peste del 1576, "vendicatrice dei nostri peccati", "in modo che i posteri fossero indotti a lacrime di commiserazione" (82), dal momento che aveva strappato alla Scuola ben quattrocento confratelli -, nella quale si descrive la desolazione di quei giorni coi cadaveri sparsi per le vie: "Passim urbe tota cadavera iacere prostrata carbunculis maculis bubonibus horrentibus obsessa"; e, aspetto non accidentale, che alla pestilenza fu messo fine proprio grazie all'aiuto della Vergine Maria e di san Rocco, ovviamente mediatori, per l'occasione presso il Redemptor mundi. Chi perciò non accetta la luce punitiva, ma al contempo purificatrice, del Cristo non ha speranza di salvezza, come l'uomo intabarrato di nero che, invece di prestare soccorso agli appestati, si allontana sul ponte turandosi il naso. Venezia, nuova Gomorra - per inciso, si rammenti che siamo nell'imminenza della perdita di Candia -, sembra aver lasciato il campo al libero trionfo della morte. Tuttavia la morte a Venezia non può avere lunga durata, perché i pilastri della fede appaiono incrollabili e salgono fino al cielo, come si intravvede appena dietro le figure di Rocco e degli angeli, prefigurando così il voto di erigere un santuario alla Madre di Dio, giust'appunto nel sito da cui stanno sorgendo, come per incanto, le giganti colonne.

Il successivo (e decisivo per le sorti della città) momento della storia può essere raccolto nei teleri della parete sinistra dello scalone, collocati in situ nel 1673 per volontà del guardian grande Angelo Acquisti. Pietro Negri, obbedendo ad un prestabilito progetto, delinea la personificazione di Venezia, circondata dalle Virtù e dalla Religione (83), che nel 1630 invoca - in questo assistita dai santi Marco, Rocco e Sebastiano - la Vergine apparsa su di un fulgido trono di nuvole, mentre la luce salvifica della divina grazia discende da un ideale punto fuori campo a diradare i miasmi, ricacciando nelle tenebre la ripiana immagine della peste funesta compagna della morte (84). L'opera, esattamente speculare al suo pendant sopra citato, mostra sullo sfondo, a destra, fortemente scorciato il particolare della Salute con la cupola minore e parte della maggiore, cui fa da contraltare sulla sinistra la vecchia torre merlata della Dogana - nella versione già precisamente registrata dal de' Barbari e prima ovviamente del rifacimento longheniano, databile a partire dal 1675 -, mentre accanto spunta, all'orizzonte, dietro i pennoni di una nave ormeggiata nel canale della Giudecca, nuovamente il simbolico (ma questa volta solare e positivo) profilo del Redentore con cupola e un campaniletto cuspidato, che in alcun modo può essere scambiato con le Zitelle. La scena è osservata, con i dovuti aggiustamenti prospettici, da un punto collocabile all'incirca presso le arcate, all'epoca transitabili, del "Fondeghetto" della Farina, sotto cui l'artista avrebbe idealmente organizzato la teatrale mobilitazione dei maggiori simboli connotanti le supreme e saldissime virtù della Repubblica del Leone (che compare in basso al centro mestamente sdraiato con uno sgualcito Vangelo): Venezia stessa è scesa dal suo trono di porpora - sopra cui come dominatrice già l'aveva assisa Paolo Veronese, sul soffitto della sala del collegio in palazzo Ducale e, si badi, tra il 1575 e il 1577 - per assicurare eterna protezione e prosperità ai suoi pentiti cittadini. San Michele Arcangelo sta infatti rinfoderando la spada, mentre la Salute diventa visibile manifestazione del voto esaudito, cui corrisponde in basso a sinistra, dirimpetto al fondaco scelto appunto quale privilegiata sede dell'apparizione, la processione dogale sulla punta della Dogana, quest'ultima alludente, con la nave, alla subitanea ripresa dei traffici marittimi. Lontano, il Redentore testimonia di un altro, analogo e più antico sacrificio, dal quale, come sempre, la ῾vergine' città uscì indenne e, dal punto di vista urbanistico, indubbiamente migliorata: l'architettura palladiana, sempre presente sull'orizzonte urbano, ne è la tangibile dimostrazione. Il confronto tra Palladio, che è già storia e mito, e Longhena, il contemporaneo (il suo tempio non risulta ancora del tutto finito), non potrebbe farsi qui più esplicito. Il prototipo del Redentore, che viene replicato per ben due volte in queste tele (sia dallo Zanchi che dal Negri), costituisce così il simbolo della Venezia che non può mai arrendersi, che anzi, di fronte al ripresentarsi dei medesimi mali, si riconferma nella sua temprata saldezza per uscirne ancor più rinvigorita e grande, "magnifica et con pompa" come la Salute.

Autoglorificazione e ragion di Stato

"I re, non potendo usurpare totalmente il posto della divinità nei templi, si erano impadroniti dei loro portali" polemicamente riferiva, per i regnanti francesi, Jacques-Louis David all'interno dell'accesa seduta della Convenzione del 17 brumaio dell'anno II, ovvero 17 novembre 1793; "là avevano collocato le loro effigi orgogliose, certo per far sì che l'adorazione dei popoli si arrestasse di fronte ad essi prima di arrivare al santuario. È così che, abituati ad invadere tutto, essi osavano disputare a Dio i voti e l'incenso" (85). Comunque David non era forse al corrente che la gloriosa galleria di teste coronate posta sulla gotica facciata di Notre-Dame, oggetto della popolare rabbia iconoclasta, non traduceva tanto i ritratti degli odiati Capeti, quanto le ideali immagini dei biblici re d'Israele.

Taluni patrizi (ma non esclusivamente nobili, e puranco cittadini originari) veneziani del Seicento invece arrivarono a tanto e ancor di più: usurpare alla divinità, o alla santità, il posto che tradizionalmente e di diritto le competeva sul prospetto principale delle chiese, fino al totale suo annullamento, come nel più clamoroso caso, che si vedrà più avanti, di Santa Maria del Giglio. Un fenomeno peculiare della realtà veneziana intorno alla metà del secolo XVII è infatti - come s'è indietro additato - quello delle cosiddette facciate celebrative (86). Tali realizzazioni trovano come antesignano l'apparato architettonico della facciata cinquecentesca della chiesa di San Zulian spettante a Jacopo Sansovino, che ricorda con lapide e ritratto il dotto filologo Tommaso Rangone; ma ancor prima si consideri il quattrocentesco portale della chiesa di Sant'Elena e, almeno, il fronte d'acqua di Santa Maria Formosa, dedicato verso il 1524 al capitano da Mar Vincenzo Cappello, che appare sopra l'ingresso, rivestito della sua armatura, trionfalmente posto in piedi su di un'arca. Esempi questi egualmente fondamentali per lo sviluppo tipologico in questione. L'abbandono progressivo di ogni tipo di residuo di tradizionale rappresentazione votiva risulta così netto e irreversibile.

Tali artifizi ῾commemorativi' rivelano in gran parte contenuti profani, che innalzano a simbolo di gloria e magnificenza le figure dei committenti, all'interno di un articolato programma iconografico, "non nella forma tradizionale [...] cioè in atteggiamento devoto ma in pose trionfali o come busti" (87). La funzione di siffatte complesse macchine di sapiente concezione scenografica si riflette in una nuova configurazione dello spazio pubblico, quali elementi in grado di riaffermare la grandezza della Repubblica attraverso i suoi eroi, per stupire ed ammonire il popolo. Non è per nulla trascurabile che, nell'iscrizione collocata sulla facciata di San Zulian, si faccia esplicito riferimento alla speciale e sofferta autorizzazione concessa dal senato: "Senatus permissu".

Mentre in altre realtà statuali italiane ed europee la celebrazione è ammessa, all'occorrenza, solo per il monarca o signore, Venezia, in quanto Repubblica oligarchica poteva, senza incoerenza sebbene in via del tutto eccezionale, consentire a maggior gloria di se stessa un tale privilegio ai membri della propria aristocrazia (e persin della cittadinanza originaria), negandola invece a colui il quale impersonava l'autorità massima dello Stato: il doge (e con quale ῾sovrana' dignità s'è veduto nei passi, indietro rammemorati, dell'encomiastica secentesca del mito). Non un doge, né veramente un personaggio di spicco della politica lagunare del tempo ottiene il permesso del senato di erigersi un personale, grandioso monumento, che si affacciasse su un qualsivoglia scenario urbano; a chi tali ruoli avesse esercitato, si concedono gli interni delle chiese (e in un caso particolare del Palazzo) e solo in essi può trovare liberazione la loro eventuale volontà di esibirsi e autocelebrarsi.

Il primo esempio secentesco di facciata completamente dedicata alla esaltazione di un cittadino e della sua famiglia è quello della chiesa (parrocchiale e monastica al contempo) di Santa Giustina, edificata con i danari del procuratore Gerolamo Soranzo a partire dal 1636-1637 su progetto di Baldassarre Longhena. La facciata, oggi monca del coronamento curvilineo maldestramente demolito nel secolo scorso in seguito alle soppressioni napoleoniche e alla trasformazione della chiesa in caserma, si presenta suddivisa verticalmente da un ordine di quattro semicolonne giganti. Il disegno architettonico si esplica nella volontà di dar vita ad un vero e proprio arco di trionfo con un fornice centrale sul quale si impalca la lapide commemorativa reggente il sarcofago del procuratore Giovanni Soranzo, il cui busto - come le altre sculture della facciata (giusta il Martinioni (88)) di Clemente Molli -, oggi scomparso e giacente forse in qualche polveroso deposito della Soprintendenza, faceva mostra di sé al di sopra dell'arca. Ai lati, a metà dei riquadri ornati da timpani interrotti, stanno le urne dei due figli di Giovanni, un tempo anch'esse coronate dalle effigi marmoree di Gerolamo, a sinistra, e del fratello Francesco, a destra. Alle estremità erano poste le sculture rappresentanti, secondo il Martinioni, le allegorie della Guerra e della Pace ma, con maggiore probabilità, della Virtù e dell'Onore (89). Al centro del timpano campeggiava lo stemma della famiglia.

Nel 1659 veniva eretta, col lascito testamentario di Gaspare Moro, senatore della Repubblica, la nuova facciata dell'abbazia della Misericordia su disegno ancora dello scultore bolognese Clemente Molli (90). Sopra il portale si accampa il busto con lapide del nobile committente, che era anche filosofo; e tale condizione viene sottolineata dai due putti assisi sopra una pila di libri ai lati dell'iscrizione commemorativa (91). Sulle basi fortemente aggettanti delle semicolonne che scandiscono la facciata sono ospitate le virtù della Fortezza e della Carità, mentre sul coronamento, in acroterio, l'immagine della Vergine col Bambino completa la decorazione plastica del complesso. Un impianto di vaga inclinazione trionfale tradisce affinità con il precedente di Santa Giustina, nel cui cantiere aveva operato, appunto, il Molli. Compositivamente il ritratto del donatore forma il vertice di una ideale piramide che ha come base le due virtù e i putti come elementi di raccordo. Il tutto insiste sulla figura del Moro e concorre a manifestarne la personale ῾edificante' vicenda.

Il complesso paramento architettonico e plastico della parrocchiale di San Moisè si colloca cronologicamente a partire dal 1668 (92). Per ridondanza, fasto e magnificenza dei motivi decorativi rimane un caso forse singolare nel panorama delle facciate celebrative. Alessandro Tremignon, proto dell'Arsenale e già autore del sontuoso altar maggiore del duomo di Chioggia, veniva chiamato da Girolamo Fini, appartenente a una ricca famiglia di origine cretese da poco ascritta al maggior consiglio e dimorante in quella stessa parrocchia, a erigere una facciata che ricordasse i personaggi illustri della sua casata. Il busto di Vincenzo Fini, morto nel 1660, il cui lascito testamentario di 30.000 ducati costituiva il primo finanziamento dell'ambizioso e insolito progetto, si erge al centro della composizione, assurto al vertice di un obelisco - ma decurtato nell'Ottocento - su cui sono incise parole che ne ricordano le virtù e la dignità della sua appartenenza al corpo del patriziato veneziano. La tradizionale ripartizione della facciata, con il finestrone termale al centro, viene dal Tremignon trasfigurata nell'evidenza vertiginosa di una tensione dialettica tra architettura e scultura; i festoni, le ghirlande, le allegorie, i putti, i rosoni, le grottesche raffigurazioni animalistiche (attribuite allo scalpello di Enrico Meyring) concorrono a dar vita - e non per caso - ad una rappresentazione di coinvolgente teatralità. I busti degli altri membri della famiglia Fini, Girolamo e Vincenzo Girolamo, quasi scompaiono in un aggregarsi turbinoso, quasi onirico e sovvertitore di ogni regola, che vuole esorcizzare i mostri e le ombre che s'addensano sull'orizzonte storico di un crepuscolo annunciato dall'inevitabile, e imminente, perdita di Candia, che accadrà nel 1669.

Nell'immaginario di una famiglia cretese, che nonostante l'aperta confessione della fede cattolica mai perse i contatti con la comunità greco-ortodossa veneziana, dovevano balenare, in un simile torno di tempo, i lampi più sinistri dell'inquietudine, e questa sembra essere la sensazione prima che invade lo spettatore messo per la prima volta di fronte a San Moisè: mostruose creature a metà tra il drago e il cammello protendono il loro ghigno inquietante, mascheroni, contorte figure, un continuo affastellarsi di cose definiscono l'horror vacui della superficie. In origine, come si può ben notare nella settecentesca incisione di Luca Carlevarijs, il busto posto al vertice dell'obelisco si staccava dall'insieme, invadendo la zona del finestrone termale, mentre sullo sfondo un morbido drappeggio sostenuto da due lievi puttini incorniciava e dava risalto alla figura, nell'evidente esigenza di affermare il primato celebrativo del primo committente, quel Vincenzo Fini che era riuscito, nel 1649, esborsando i 100.000 ducati, ad ottenere l'aggregazione al Libro d'oro della nobiltà veneta, e successivamente, nel 1658, ad acquistare, con supplica al doge, la carica di procuratore de citra pagando di nuovo la stessa incredibile cifra, contro i normali 20.000 ducati necessari, e suscitando così enorme sorpresa in città, anche per la sua appartenenza alla categoria degli avvocati civilisti e non fiscalisti. Un elaborato programma iconografico tradisce qui l'intento di raccogliere, in un coerente insieme, celebrazione sacra e profana, che vede i padri dell'Antico Testamento posti sul timpano della struttura - Mosè con le tavole della Legge al centro, in asse con la rappresentazione del committente in basso, pure uomo di legge - stabilire il primato normativo della Legge sull'ordine morale del mondo, garantendo così Fama proclamata e imperitura (al di sotto dell'enorme stemma dalla famiglia Fini, al centro del timpano) a quanti raccolgono in sé e coltivano le quattro Virtù cardinali (ai lati del finestrone termale). L'obelisco o piramide, sinonimo di Gloria (93), reggente il busto del Fini, poggia e si innalza grazie al sostegno di due pur deformi cammelli simboleggianti Discrezione: detta da san Bernardo Mater virtutum e intesa come discernimento, virtù tra le più alte per chi esercita l'avvocatura, "la retta Discretione si piega all'imperfettione humana, ma però non esce mai dal dritto della Giustizia" (94). Concorrono a rafforzare e celebrare la figura del committente le statue situate ai lati: il Consiglio e l'Onore, sui cammelli; la Virtù e l'Onestà (95) leggermente più in basso, generiche ma anche specifiche qualità che determinano la fortuna e la considerata stima di quanti si votano alla carriera forense. Le medesime e altre virtù accompagnano i monumenti degli altri due Fini al disopra dei timpani degli ingressi laterali. La scelta del soggetto da rappresentare fu obbligata, innestandosi la facciata su un edificio consacrato al culto di Mosè, rappresentante il simbolo per antonomasia della Legge. Il Fini, che indossa la toga, partecipa in qualche misura di questa nobile vocazione e ben la espletò, par di comprendere, perché sorretto e accompagnato da tante e tali virtù, che gli consentirono di conseguire gloria e fama eterne. La rappresentazione di un complesso apparato iconografico quale quello dispiegato a San Moisè si prefigge di unificare le qualità private e pubbliche di un uomo di Stato e della sua famiglia, qualità e virtù che hanno portato immortalità a lui e alla sua stirpe, consacrando i Fini ad un ruolo di imperitura grandezza nella storia - urbana della città e nella sua memoria collettiva. All'immortalità giunse, ascendendo all'Olimpo, anche Ercole, trasfigurato dopo lunghe e tormentose fatiche sul rogo apprestato dall'eroe stesso sul monte Oeta, come testimonia il soffitto affrescato da Pietro Liberi nel palazzo - già Flangini - acquistato da Girolamo Fini nel 1661, dove, se la cronologia posteriore a questa data viene confermata (96), un Fini - il padre Emanuele che otteneva il titolo di barone imperiale nel 1635 o proprio il suddetto Vincenzo, che diverrà appunto patrizio veneto - allegoricamente viene identificato con l'Alcide, che tra nubi corrusche e cupi bagliori si accende, nel crogiolo di se stesso, del colore del fuoco, l'elemento più puro e più nobile identificato con l'oro del processo alchemico. Il miracolo è allora accaduto, si è voluto provare che dalla materia più bruta si può trarre il metallo più fino, dal vile piombo il prezioso oro, dalla condizione plebea la nobiltà (97).

E la dimostrazione, siccome abbiamo indietro adombrato, avviene in modo di spettacolare teatralità, coerente con la crescente fortuna del genere specifico, in questi stessi decenni, a Venezia, malgrado lo sforzo del senato e dei dieci di circoscriverla, deprimerla, controllarla. Scrive, nel proprio diario, nel maggio del 1607, Girolamo Priuli junior che, alla data, erano stati "fatti li teatri da Ca' Tron, a San Cassano, da Ca' Zustinian a San Moisè et da Ca' Vendramin a San Salvador", e che la stagione teatrale già si dilatava "da San Martin a Quaresima et dalla Sensa a mezzo luglio". È pur vero che - come, in ispecie sulle indagini del Bianconi, del Morelli e del Walker, Mancini, Murano e Povoledo hanno provato -, "crescendo il gusto di questo trattenimento nella città", parecchie famiglie s'eran rese conto che esso poteva ben essere fonte di profitti non indifferenti, conseguibili in modi di rendita passiva e senza altro rischio che non fosse il cascar nel rigore delle leggi: ma, a tal proposito disponevano dei mezzi e delle complicità in alto loco da poter essere sicuri dell'impunità percorrendo l'iter burocratico, così ben descritto nella Minerva al tavolino dell'Ivanovich, e ch'era alfine un paziente ma sicuro aggiramento della legge. Verso la metà del XVII secolo persin un personaggio dal quale ci si sarebbe potuta aspettare qualche preoccupazione, o perlomeno perplessità, il nunzio apostolico Francesco de' Pannocchieschi, del fervore ormai esplosivo della vita teatrale prende atto con soddisfazione.

Et quanto alli teatri [si compiace] ovvero come essi dicono le opere in musica, si rappresentano in Venezia in ogni ampola et squisita forma, concorrendo a renderli più riguardevoli oltre l'industria della gente, l'opulenza del proprio paese, donde pare che abbiano tratto l'origine e ove parimenti basterà dire che si fanno quasi più per negotio che per trattenimento. Quindi la composizione della favola essere suole di qualche più eccellente poeta, et nella musica si procura ogni possibile squisitezza, procacciandosi ad ogni costo d'altrove li cantori. Le macchine, poi, le prospettive, li voli et altri scherzi della scena non si fanno punto desiderare. La spesa che si ricerca a chi li vuoi vedere non passa in tutto che la metà d'uno scudo, et quasi ogn'uno in Venetia, senza suo grande incommodo lo puo spendere perché il denaro vi abonda.

Se Thomas Coryat, trovandosi a Venezia tra maggio e agosto 1608, e "in uno dei loro teatri dove h[a] visto recitare una commedia", allorché registra nelle sue Crudities apparse nel 1611 le proprie impressioni, non par d'accordo: poco male, tuttavia. "L'ambiente, in confronto ai nostri teatri inglesi, è molto povero e meschino; i loro attori non reggono il confronto con i nostri, né per il vestire né per le scene e la musica". Ma ecco che, semmai, vero e tutt'affatto insolito spettacolo, nella delusione dello spettacolo giocato sulle scene, il quale, al più, incuriosisce e solletica solo perché vi recitano donne, è offerto dal pubblico costituito di maschere stravaganti e misteriose (98).

Ma riprendiamo il filo del nostro discorso. Un borghese ancora, rimasto però tale, è il committente di un'originale facciata-monumento connotante singolarmente un sito della Venezia barocca. Voluto dal mercante Bartolomeo Cargnoni, che per ciò devolveva un cospicuo lascito testamentario, il fronte della chiesa dell'Ospedale di Santa Maria dei Derelitti, fu edificato, su disegno di Baldassarre Longhena, tra il 1670 e il 1674. Dovendo affacciarsi sull'angusta calle di Barbaria de le Tole, in prossimità delle absidi dei Santi Giovanni e Paolo, la facciata risulta composta di elementi fortemente aggettanti e scorciati. Una regolare tripartizione, che allude sempre alla funzione glorificatrice che si voleva rispettare, vede nell'ordine superiore quattro enormi pilastri sostenere una trabeazione su cui si accampano corpulenti telamoni, che affiancano il busto del Cargnoni, posto al centro sopra una lapide. L'attico soprastante ospita delle lastre con iscrizioni, mentre quattro statue di virtù, che testimoniano principalmente della fede e della carità del committente, si stagliano contro l'azzurro del cielo. Un impianto, questo, che ricorda altre opere del Longhena quali San Basso, la stessa Santa Giustina e, di rilevante importanza, il monumento Pesaro ai Frari sul quale si indugerà oltre (99). Le virtù di pietà e generosità del donatore si esplicano in un complicato ma coerente assetto, dove anche il più trascurabile elemento decorativo assolve la funzione di celebrare la dignità e la memoria di un modello da ostentare. Il busto del Cargnoni racchiuso in un'elegante nicchia in forma di conchiglia, riferimento esplicito alla figura di san Giacomo di cui essa è attributo, si accompagna ai potenti telamoni anch'essi forniti di elementi riconducibili al culto di quel santo: conchiglia, saio, corona del rosario e borraccia legata in vita (100). Si tratta di stabilire se tale disposizione simbolica alluda piuttosto alle personali virtù del committente - la cui dignità di onesto merciaio viene esaltata dall'insegna di bottega con lo struzzo replicata sugli specchi dell'attico - che non alla funzione assistenziale dell'Ospedaletto di cui la chiesa è cappella; certo è che le statue della Fede e della Carità poste in alto - tra la Temperanza e la Speranza, come è possibile distinguere nell'incisione del Gran Teatro del Lovisa - rammentano, secondo la lettera dello stesso Giacomo apostolo (2, 17), che la fede senza le opere "è morta in se stessa" e che soprattutto il ricco, "con un anello d'oro al dito, vestito splendidamente", deve usare misericordia verso i più poveri, i derelitti dunque, "senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano". "Bartholomaeus Carnionus thezaurizaturus sibi thesauros in coelis" all'evidenza ardeva di zelo caritativo, come recita la lapide dedicatoria sotto il busto, che richiama il noto passo di Matteo (6, 20), e sempre la lettera di Giacomo (5, 2-3), sulla necessità per il vero cristiano di accumulare incorruttibili tesori nei cieli. Pare, a questo proposito, che la nicchia ospitante il ritratto dell'offerente costituisca "il più rassicurante punto d'arresto per lo sguardo" dell'osservatore smarrito di fronte all'incombente decorazione plastica (101)). Tale nobile esempio doveva così valere per chiunque passasse, nei secoli, innanzi la chiesa e indugiasse, quasi pellegrino di san Giacomo, sulla stretta via della salvezza (ancora Matteo 7, i 4; e angusta risulta, come già detto, la calle cui affaccia l'edificio), in devote meditazioni su di un'auspicabile e immediata conversione alla legge della carità evangelica per ardere infine nell'incendio del divino amore: "Viator [...] flammas carpe charitatis ut rivivescas [...]" recita la lapide.

L'ultimo, e il più sconcertante, esempio di vera facciata celebrativa realizzata nello spazio urbano veneziano risale all'ideazione di Giuseppe Sardi per la chiesa di Santa Maria del Giglio. Tra il 1678 e il 1680 gli eredi di Antonio Barbaro, eroe ῾minore' ma fortunato della guerra di Candia (102), fanno erigere, nel pieno rispetto delle sue disposizioni testamentarie, il nuovo prospetto della parrocchiale. Morto nel 1678, l'offerente lasciava assieme al progetto, da lui già ispirato e approvato, una cospicua somma di 30.000 ducati per l'edificazione della nuova facciata, che doveva ospitare, insieme alla "statua di S. Ecc.za al naturale, con habito generalitio", anche "le 4 statue delli fratelli di S. Ecc.za" (103). Statue al naturale dei Barbaro in piedi, accompagnate da figure allegoriche di uguali dimensioni, a tutt'oggi abitano le nicchie di questa popolare facciata. La chiarezza compositiva della partitura architettonica, per cui si è parlato giustamente di neoquattrocentismo (104), definisce meglio la sovrabbondanza della decorazione plastica, non entrando mai in conflitto con essa. Le sculture sono collocate, come si diceva, entro nicchie, luoghi ormai ben codificati dalla tradizione, e formalmente poco importa che i personaggi laici abbiano indebitamente sostituito i santi. Tutta la superficie dispiega contenuti profani, che non risparmiano neppure il coronamento, al cui vertice si staglia, non già l'immagine della Vergine coronata (come sarebbe stato forse più congruo immaginare), ma la splendida allegoria della Gloria mondana, che il Ripa descrive come una "Donna, con una Corona d'oro in capo [...] inditio del premio, che merita ciascun huomo famoso" (105). Ai lati del timpano mistilineo si dispongono le figure sdraiate delle quattro virtù cardinali, di cui la Prudenza e la Giustizia (sulla destra) mancano oggi degli attributi di riferimento, mentre, al centro (proprio in asse con la Gloria suddetta e la figura sottostante del committente), campeggia - contro un ricco drappeggio retto da telamoni seminudi con mustacchi e barbe dall'evidente foggia turchesca, specie dunque di ῾prigioni' - il barocco blasone coronato e contesto di trofei della famiglia Barbaro. Nel secondo ordine spicca superbamente Antonio Barbaro, stante sopra un finto sarcofago, vestito di tutto punto in armatura con l'alto berrettone di capitano da Mar dalla caratteristica forma a tronco di cono rovesciato. Il vaporoso parruccone che incornicia il baffuto volto dall'espressione sprezzante, l'ampio, voluminoso mantello gettato dietro la spalla sinistra e disinvoltamente raccolto sul fianco per fluire in una cascata di piegoni fin sotto i piedi, tutto sembra voler concorrere a concentrare l'attenzione dello spettatore sul fulcro visivo della mano reggente il bastone del comando: le dita sforbiciate, persino la vena che gonfia l'epidermide, il gesto aggraziato, ma solido, dell'afferrare il simbolo del potere sono volutamente enfatizzati dallo scultore nel formare la diagonale, che parte dalla spalla destra, protervamente spinta in avanti, e termina in basso con la punta del bastone. Diagonali minori assecondano e contrastano la direttrice principale in un complicatissimo gioco di contrappesi, che ha scarsi riscontri nella plastica veneziana del tempo e invece trova non scontate affinità con un famoso dipinto contemporaneo, il cosiddetto Capitano degli alabardieri, attribuito a Sebastiano Mazzoni, nel quale l'irresistibile personaggio è ritratto dal pittore in tutta la sua tronfia vacuità (106). Ma, per ritornare al Barbaro, lo spezzato timpanetto del sarcofago e i due putti reggicortina confluiscono idealmente su quell'insistito centro e ribadiscono la grandezza davvero ammirevole del personaggio. Ancora trofei dietro di lui e una conchiglia quasi sacralizzante grava, ma discretamente, sul suo capo. Più che un uomo sembra davvero un dio questo Barbaro, un Cristo risorto forse, ritto sul suo sarcofago tra angioletti e cortinaggi. Tutto qui vuole parlare solo di lui. Non santi - e questo sarebbe stato veramente blasfemo - fanno capolino dalle nicchie ai lati, ma le sue proprie virtù: la Virtù stessa, in guisa di "Donna bella armata" che "nel petto habbia un sole" risultante della riduzione e contaminazione di due diverse allegorie dell'Iconologia (107), e l'Onore come un "Giovane [...] coronato d'Alloro, con un'hasta nella mano destra, & nella sinistra con un Cornucopia pieno di frutti" (108). Alle opposte estremità stanno su alti piedestalli la Fama (109) e la Sapienza che "nella destra mano tiene una lampada piena d'olio accesa, & nella sinistra un libro" (110). Ogni spazio è stato sfruttato per inserire armi dappertutto e rilievi raffiguranti le imprese cui si lega il lustro del suo nome: battaglie navali nei riquadri tra il primo e il secondo ordine, le piante delle località dove Antonio ha ῾meritevolmente' prestato servizio per la Repubblica, Zara, Candia, Padova, Roma, Corfù e Spalato sullo zoccolo in basso. La ῾magnanimità' del donatore ha poi previsto di destinare le quattro nicchie dell'ordine inferiore, ai lati del portale, ai suoi benemeriti fratelli, Giovanni Maria, Marino, Francesco e Carlo, che altrimenti la storia non avrebbe con ogni probabilità mai più ricordato. Un parallelo illuminante si instaura nell'immediato con la facciata della chiesa di Santa Maria di Nazareth, detta degli Scalzi, dove lo stesso architetto aveva già proposto la medesima articolazione compositiva: due ordini di colonne binate collocate su alti zoccoli separano nicchie ospitanti statue questa volta di santi (o di religiose allegorie) e nello spazio centrale, al posto del Barbaro, si erge su un alto piedistallo la Madonna col Bambino. È almeno singolare che nessuna obiezione sollevi una tale esaltazione di figure profane, quali il Barbaro e i suoi fratelli, da parte delle autorità civili e religiose; riscuotendo, anzi, l'immediata approvazione del parroco che, conosciute le intenzioni testamentarie del donatore, si affretta a provvedere alla costruzione di un "muro di cotto fatto in buse", cioè predisposto per accogliere la nuova facciata (111). Né veto alcuno fu posto dal senato alle precise disposizioni contenute nel testamento, alla autoglorificazione, alla ostentazione di personalissimi successi; bastava poter pagare e niente si frapponeva all'innalzamento, a gloria imperitura, di un suddito della Repubblica. Non ci troviamo davanti ad una semplice profanazione, bensì ad un protagonismo che si rivela, nella realtà storica veneziana, interscambiabile con la dimensione religiosa; se il pievano si dimostra entusiasta, significa che la celebrazione del Barbaro "è compatibile col suo status di cavaliere cristiano" (112). In uno storico frangente, in cui la Repubblica si trova ad affrontare una guerra che, nelle sue alterne vicende, scatena una grave crisi finanziaria, si aprono numerosi cantieri in città grazie all'iniziativa di facoltosi personaggi, che offrono i loro capitali per innalzare a gloria di se stessi, e solo per riflesso anche dello Stato, monumenti-facciata che si configurano come sorta di "panthéon laique, [...] un monument à la gioire de la Serenissima ou des Vénitiens" (113). E si tratta - conviene tornare a farci caso - di personalità non certo di alto rilievo nella vita politica e sociale della città, ma per l'appunto in grado di sborsare somme ingentissime per acquistare titoli, prebende, incarichi governativi, di fornire cioè alle esangui casse dello Stato i quattrini di cui abbisognava per sostenere le ingenti spese della sfortunata guerra di Candia, come di altri non meno logoranti conflitti. Il trionfo laicissimo e individualistico che ha per oggetto proprio i prospetti delle chiese veneziane del Seicento trova a Santa Maria Zobenigo il suo momento culminante, "il punto d'arrivo di uno sviluppo e insieme la sua formulazione più matura" (114).

Non avrà eguale fortuna l'intenzione, parimenti ambiziosa, del glorioso doge Francesco Morosini, detto il Peloponnesiaco, protagonista della conquista della Morea, vissuta dalla zenezianità come il riscatto dell'insopportabile perdita di Candia. Sul finire del secolo Antonio Gaspari predispone un gran numero di progetti per il completo rifacimento della chiesa di San Vidal e della sua facciata, che avrebbe dovuto accogliere in una delle numerose versioni (115) un sontuoso gruppo scultoreo raffigurante il Morosini, in veste di capitano da Mar, ricevere da Venezia il bastone del comando, mentre figure allegoriche, trofei e insegne adornano un prospetto a bugnato, costituito da pilastri in ordine gigante, timpano centrale, torrette laterali e cupolino centrale. Questo, come gli altri disegni (116) - dove sono inseriti elementi quali piramidi svettanti e conci in fortissimo aggetto, forse frutto, secondo la Biadene, di ῾suggerimenti' esterni (117) -, appartengono a una tipologia assolutamente nuova per la capitale lagunare, che, se può rientrare in una diffusa inclinazione per il barocco romano, richiama altresì "evidenti paralleli con decorazioni trionfali mobili" (118). Non è certo possibile collocare quest'ultimo episodio nel tradizionale sviluppo delle facciate celebrative chiesastiche finora considerate "se non come il suo irrealizzabile culmine" (119), laddove l'inconsueto programma si scontrava con ragioni di ordine politico e cronologico. Non sembrava forse conveniente al senato - che, per mano di Filippo Parodi e dello stesso Gaspari, aveva pure fatto erigere al medesimo doge un sontuoso monumento e un arco trionfale in palazzo Ducale - permettere ad una committenza sì potente di esigere uno spazio urbano proprio, che alla fine sarebbe stato di esclusiva gestione gentilizia, il luogo dell'esibizione di un potere reale, assolutamente ῾legittimo' e non presunto. Gli altri ῾eroi' immortalati sulle facciate veneziane appartenevano a famiglie che non avevano, o almeno non avevano più, "un ruolo di indiscusso primo piano nello Stato": l'incapacità dei Fini di trasformare una favolosa ricchezza in autentico potere politico; le intemperanze ῾diplomatiche' di Antonio Barbaro nel corso della guerra di Candia; infine la messa in minoranza del Soranzo e della sua parte nella disputa sull'opportunità dello spostamento del sito su cui edificare la Salute (120). Ragioni di ordine cronologico, si diceva inoltre: con Santa Maria Zobenigo si chiude la ridondante stagione della celebrazione personalistica. D'allora in avanti l'architettura chiesastica si rivolgerà gradualmente alla definizione di forme sempre più sobrie e classiche, mentre la celebrazione privata si ridurrà sempre più, fino a scomparire del tutto negli esterni (121), per sopravvivere, ma ancora per poco, negli spazi interni delle chiese.

La celebrazione ῾celata'

Se al Morosini venne negata la possibilità di innalzare una grandiosa facciata autoglorificante a San Vidal, che invece all'inizio del nuovo secolo fu riservata alla modesta celebrazione della famiglia Contarini e del parroco Teodoro Tesseri (122), il senato non lesinò, come s'è detto, all'eroe del Peloponneso speciali, ma controllati, tributi effimeri (con apparati trionfali (123)) e imperituri entro e fuori le mura dello stesso palazzo Ducale. L'11 agosto del 1687 si decreta in pregadi di commissionare un "mezo busto di marmo" in suo onore per le importanti "vittorie et speciosi et utili acquisiti di tante piazze nella Morea" (124), con l'intenzione di dislocarlo nella sala d'armi del consiglio dei dieci assieme a uno stendardo turco, ghiotto e significativo bottino di guerra. A differenza degli altri busti, già in passato posti in tale luogo e dedicati comunque post mortem agli eroi della Serenissima, questo veniva eccezionalmente dedicato a un personaggio ancora vivente. Tale episodio si colloca nella lunga serie di ῾eccezioni' che lo Stato veneziano praticò per Francesco Morosini, e la più rilevante fu proprio l'elezione del personaggio al dogado, quando era ancora capitano generale da Mar, costituendo un singolare caso, nella storia della Repubblica, di simultaneo cumulo di cariche. Alla sua morte, nel 1694, verrà inoltre eretto nella sala dello scrutinio il ricordato arco di trionfo a sua esaltazione, e un anno prima, in occasione della ripavimentazione del campo antistante l'ingresso dell'Arsenale (che già a partire dal 1688 era stato riqualificato nei segni del trionfo del Morosini coi leoni ch'egli aveva inviato dalla caduta Atene), veniva collocato il bronzeo basamento portabandiera, istoriato con lo stemma dei Morosini dalla Sbarra e con l'immagine dello stesso dedicatario raffigurato come Nettuno, nella perfetta riproposizione della tipologia espressa da Alessandro Leopardi per i cinquecenteschi piloni di piazza San Marco, in cui si dispiegava una simbologia legata alla celebrazione del mito di Venezia e alla sua indiscussa invincibilità sul mare (125). Questi ed altri atti, che dovevano dimostrare il debito della città nei confronti del demiurgo che aveva suscitato l'illusione dell'improbabile risorgere del malato corpo della Repubblica alla tempra di tempi lontani e perduti, erano stati in senato vivamente caldeggiati dal largo partito dei sostenitori del Peloponnesiaco, ma ovviamente temperati dalla tradizionale prudenza della classe dirigente lagunare. Il 23 dicembre 1687 si corresse lapidariamente, ed è chiaro sintomo di una opposizione interna allo ῾strapotere' del Morosini, il decreto approvato nell'agosto per l'esecuzione del monumentale busto in marmo da collocarsi nella sala d'armi del consiglio dei dieci (126). Si decise appunto di rifare il busto in bronzo, per la non secondaria necessità di omologarlo agli altri esistenti nella sala: "Osservatosi che l'efigi riposte per decorosa memoria di benemeriti cittadini nostri nelle sale del Consiglio di Dieci sono di bronzo". Dovette con ogni probabilità urtare la suscettibilità di qualcuno il vedere, non soltanto glorificato da un monumento un doge ancora vivente, ma financo il constatare che tale opera, col suo abbacinante biancore, spiccasse sulle altre per la diversità del materiale impiegato. Artefice di entrambe fu il genovese Filippo Parodi, scultore aggiornato sulle novità romane e sull'esempio del Bernini, da poco impegnato nel magnifico monumento al patriarca Giovan Francesco Morosini - protagonista, tra l'altro, della solenne posa della prima pietra di Santa Maria del Pianto nel 1647 - nella chiesa dei Tolentini. La versione marmorea del ritratto dogale, oggi conservato al Museo Correr, fu poi trasportata nella sala d'armi del palazzo di famiglia a Santo Stefano, mentre la seconda e definitiva versione in bronzo si trova tutt'ora nella sua collocazione originale, nelle sale del consiglio dei dieci (127), che, vale la pena ricordarlo, erano tra le meno accessibili del palazzo. Un'iscrizione posta sulla base del monumento significativamente recita: "Francisco Mauroceno peloponnesiaco adhuc viventi senatus". Merita, inoltre, tornare a soffermarsi sulla vicenda relativa all'erezione nella sala dello scrutinio dell'arco di trionfo, decisa dal senato - e affidata per il finanziamento dell'operazione e la scelta dell'architetto ai provveditori al sal, tradizionalmente preposti alla fabbrica del Palazzo - poco dopo la morte del doge avvenuta il 6 gennaio 1694. Nel marzo si decreta in pregadi di voler onorare la memoria di sì insigne cittadino e di dedicargli per questo "un quadro", non meglio specificando la natura dell'opera (128). Successivamente, nel giugno dello stesso anno, si indicano i provveditori al sal come supervisori e li si esorta a scegliere sollecitamente un "accreditato penello [per] adempiere l'opera commandata da questo consiglio" (129). All'uopo furono stanziati dai provveditori, con l'approvazione senatoriale del settembre, 1.500 ducati. Alla fine si accetterà il classicissimo e, staremmo per dire, neocinquecentesco progetto di Antonio Gaspari per un arco trionfale, quando nelle carte d'archivio mai si fa cenno a una simile struttura, preferendo all'inizio il termine "quadro" e più avanti "pubblica memoria", in una sorta di consapevole rimozione, che arriverà ad intervenire con grande accortezza nella scelta dell'iscrizione da apporre sul monumento, dettata da prudenza, brevità e decoro: "Francisco Mauroceno peloponnesiaco senatus anno MDCXCIV"; e alla prudenza della ragion di Stato è da imputarsi anche la censura dei sei realistici rilievi, con le battaglie vinte dal Morosini, previsti dal progetto del Gaspari e sostituiti invece con altrettanti dipinti allegorici di Gregorio Lazzarini dagli argomenti più asettici, quali la Difesa e la Costanza incoronate dalla Pace oppure Venezia che riceve dalle mani del Morosini la Morea. Probabile volontà di recuperare una tradizione, che si stava ormai affievolendo, di celebrazione delle glorie ovvero delle virtù della Repubblica, che senza soluzione di continuità era rappresentata in palazzo Ducale, allorché, e a mero titolo d'esempio, si pensi a raffigurazioni di un passato relativamente recente come la Giustizia che scopre la Verità celata dai Vizi nella sala della quarantia civil nova (130), dove, intorno al 1625, Filippo Zaniberti con squisitezza tardomanieristica indugiava, come nelle più tarde tele il Lazzarini, nella trasognata illusione di proclamare l'incrollabile sopravvivenza dello Stato ῾perfetto'.

Laicità e glorificazione personale caratterizzano, a partire dal 1692, anche i progetti ineseguiti del medesimo versatile architetto per i monumenti funebri del Peloponnesiaco e della sua famiglia, che dovevano essere ospitati all'interno della chiesa di Santo Stefano. Tale genere si innesta in una lunga e vitale tradizione lagunare. Se nei secoli passati sul monumento campeggiavano oltre alla figura del committente anche, a contorno, santi e allegorie religiose, a partire dalla fine del Cinquecento e nel nuovo secolo prevale, ad ogni livello di rappresentazione, la celebrazione personale dell'individuo, accompagnata da figurazioni che narrano delle sue virtù particolari e delle vicende eroiche della sua esemplare esistenza. Anche negli interni, insomma, scompare gradualmente ogni riferimento alla pietà religiosa e s'impone un'affermazione di tipo, per così dire, laico, come parallelamente accade alle facciate celebrative esterne.

Il monumento a Leonardo Loredan (131), eretto a partire dal 1572 nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo, impronta una tipologia che rimarrà canonica fino al monumento Valier, dei primi del Settecento, nella medesima sede. Già in quest'opera, dovuta al genio di Girolamo Campagna e Danese Cattaneo, la celebrazione del doge s'esaurisce nel contesto di allegorie che si riferiscono agli episodi della riconquista della Terraferma posteriori alla disfatta di Agnadello del 1509, mancando ogni riferimento a temi specificamente sacri. Ispirandosi alla consueta tipologia dell'arco di trionfo romano, tale ideazione apre una stagione che, salvo eccezioni, perdurerà per tutto il secolo successivo.

In perfetta sintonia con la tendenza all'esasperata esaltazione individualistica del secolo vengono concepiti alcuni esempi estremi in questo senso. Nel monumento al cancelliere Girolamo Cavazza, da poco ammesso in seno alla nobiltà veneziana, eretto nel 1657 da Giuseppe Sardi nella chiesa della Madonna dell'Orto, trovano spazio, oltre alla figura del celebrato, le sue specifiche qualità, come Prudenza, Generosità, Virtù e Onore, opere dello scalpello di Giusto Le Court ordinatamente disposte ai lati del complesso; e nuovamente la Prudenza e la Magnanimità di Francesco Cavrioli sul timpano spezzato (132). Anche in questo caso la struttura architettonica, ideata dal Sardi, riprende il motivo dell'arco trionfale già presente nella tomba Loredan. Tipologia che si ritrova scopertamente, e in maniera assolutamente originale, riproposta dal medesimo architetto nel monumento ad Alvise Mocenigo, eroe della guerra di Candia, per la chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti. Negli anni Sessanta del Seicento, il Sardi risolve, con estrema abilità, il difficile problema di dotare di una facciata interna la chiesa che, per sua particolare funzione, si affaccia sulla fondamenta del rio con una pseudo-facciata dietro la quale si apre un androne quadrato, che viene appunto delimitato dalla parete monumento oltre cui si estende lo spazio vero e proprio della chiesa, costituendo con ciò un unicum nel suo genere, in quanto la struttura dell'arco trionfale è qui esplicitamente sfruttata per definire un diaframma divisorio la cui funzione si confonde con la necessità formale di esaltazione celebrativa (133). Oltre alle tradizionali figure allegoriche della Giustizia e della Fortezza poste alla base della composizione e alla statua della Madonna (che non intacca, con le sue ridotte dimensioni, il carattere tutto laico del monumento) al di sopra del committente, collocato in piedi al centro dell'ordine superiore entro una sacralizzante nicchia, l'aspetto decorativo presenta la rilevante novità della celebrazione squisitamente militare del protagonista, espressa dai cronachistici bassorilievi con le gloriose battaglie e le piante delle fortezze di Candia dove trovò lustro il suo nome, che ricoprono gran parte della superficie della struttura: un contenuto dunque narrativo che si associa alla presenza degli obelischi, simboli di gloria (134), ripresi ancora una volta dal Gaspari per i progetti Morosini a Santo Stefano. Una precisa fonte letteraria, L'eroe trionfante di Fabio de Bremondani stampato a Venezia nel 1651, ispirò il contenuto dell'opera (135). E sempre nella medesima chiesa, verso la fine degli anni Sessanta, ancora il Sardi ripropone per il monumento a Domenico Dolfin la forma dell'arco trionfale (136).

Un'opera di notevole respiro, per la presenza di maestranze illustri quali Longhena e Le Court, sottostà all'esecuzione della memoria al doge Giovanni Pesaro per la basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari (137). L'ispirazione letteraria, che nel monumento Mocenigo era di intonazione prevalentemente narrativa, diviene punto critico imprescindibile per l'ideazione del complesso, che scaturisce da un progetto del torinese Emanuele Tesauro, successivamente ripreso nella descrizione che Cristoforo Ivanovich darà dell'opera in due successive redazioni manoscritte intitolate: la prima, in forma più estesa, Istoria ne' Marmi, onero memorie gloriose di Giovanni Pesaro; e la seconda Marmi loquaci, overo il Regio Mausoleo, che rappresenta le memorie gloriose di Giovanni da Pesaro (138).

L'Ivanovich moriva nel 1689, lasciando inedito questo testo ch'egli, in altre sue pubblicazioni, citava con il primo titolo, all'evidenza destinato a diventare la versione definitiva da consegnarsi alle stampe. Tra il 1665 e il 1669 il monumento al Pesaro veniva innalzato, a mo' di arcone trionfale, obbedendo al primitivo progetto del Tesauro di definire l'importante personalità del doge esaltandone le irrepetibili imprese: acceso sostenitore in vita della difesa a oltranza di Candia che non era infatti, secondo questi, una semplice isola, ma un "regno", che faceva di Venezia, autentico baluardo agli attacchi del Turco alla cristianità, una vera potenza europea, degna di stare "tra le corone d'Europa" (139). Il suo impegno per la guerra viene evidenziato dai quattro grandi telamoni, in realtà schiavi mori, che sostengono la pesante trabeazione mediana, su cui poggia, al di sopra del portale laterale della chiesa, la figura del doge che indossa tutti i paramenti dovuti alla sua dignità, attorniato dalle sue personali virtù: la Religione e la Costanza, la Verità e la Giustizia tra gli intercolumni ai lati del personaggio; la Nobiltà e la Ricchezza ai suoi piedi; l'Ingegno e lo Studio ai lati di queste. Gli elogi dell'importante e orgoglioso committente sono affidati a due finti lenzuoli di marmo, sorretti da macabri scheletri, contenenti l'esaltazione delle qualità già profusamente dispiegate nell'apparato allegorico. Due mostruosi draghi, simbolo di eternità, sorreggono l'arca su cui troneggia il Pesaro. Oltre alla precisa indicazione degli scultori che operarono in questa sede, quali il Barthel, il Le Court, il Cavrioli e l'Ongaro, 1'Ivanovich insiste sul principio che le forme plastiche debbano ῾parlare' della grandezza e della gloria del principe, richiamandosi esplicitamente al passo del Cannocchiale Aristotelico di Emanuele Tesauro (140), che sull'" argutezza" afferma:

le cose mutole parlano, le insensate vivono, le morte risorgono; le tombe, i marmi, le statue, da questa incantatrice degli animi ricevendo voce, spirito e movimento, con gli animi ingegnosi ingegnosamente discorrono.

Nell'Istoria ne' Marmi (c. 3), ancora 1'Ivanovich ammette il proprio debito nei confronti del letterato torinese, che sicuramente ispirò l'esecuzione del monumento, per il quale si vollero ideare

ornamenti tutti espressivi con invenzioni tutte nove; sapendo egli che come un'ordinaria forma non alletta, che la prima curiosità; così una viva, e pellegrina inventione rapisce molto più le menti all'osservazione [c. 10].

Un programma dunque squisitamente barocco atto a suscitare lo stupore e la meraviglia dei fruitori, anche con gli espedienti più intriganti: mostri dal collo tortile, esotici telamoni che paiono sostenere pesi impossibili, espressivi scheletri e le più complicate allegorie che squadernano il migliore repertorio del Ripa a contornare l'imperioso e volitivo ritratto del celebrando. Lo stesso Ivanovich conoscerà, all'incirca nel 1688, il privilegio di un personale deposito nella chiesa di Santa Maria del Giglio - opera dello scalpello di Marco Beltrami -, nel quale risaltano le terribili figure di un Saturno alato con la clessidra in mano - a misura dell'inesorabile scorrere del tempo -, e di una scheletrica morte, avvolta in un ampio panneggio e poggiata all'attributo della falce livellatrice.

Altro grande complesso funerario, ispirato a contenuti del tutto profani e direttamente al monumento Pesaro ai Frari, si scorge all'interno della chiesa di San Clemente in Isola (attualmente in uno stato di completo abbandono), ove intorno al 1677 furono eretti gli apparati celebrativi per Giorgio e Pietro Morosini, alla cui esecuzione con qualche probabilità partecipò il Gaspari (141). Una tipologia originale, non perfettamente risolta, una ricercata asimmetria, che si discosta dalla rigorosa centralità del monumento Pesaro, suggeriscono appunto il nome del berniniano Gaspari - che dovette poi spiegare il proprio talento progettuale nei vari studi per i monumenti a Francesco Morosini - in cui colpisce la presenza sempre minore e addirittura la totale assenza ormai di ogni riferimento allegorico, laddove la glorificazione del committente si esaurisce nella pura esibizione personale, che s'impone nell'isolamento celebrativo del soggetto, accompagnato all'occorrenza unicamente da raffigurazioni che ricordano le sue imprese militari.

Estremo esempio di monumento celebrativo dogale, "e forse il più grandioso" (142), all'interno di un tempio cittadino è offerto dalla meravigliosa macchina eretta, tra il 1705 e il 1708 (143), da Andrea Tirali nella navata destra dei Santi Giovanni e Paolo - sito eletto fin dal Trecento a Pantheon dogale veneziano - per il doge Silvestro Valier, ma ideata, a partire dai primi anni Novanta del Seicento, anche dal Gaspari, concorrente con progetti lievemente farraginosi, e mai accolti, prima ancora che il personaggio, succedendo a Francesco Morosini, fosse innalzato, nel 1694, alla dignità della carica dogale (144). Come il suo predecessore anche il Valier incontrerà il fallimento del tentativo di farsi edificare una facciata celebrativa, che doveva essere addossata alla stessa basilica dei Santi Giovanni e Paolo (145). Conclusa comunque in forme dichiaratamente classicheggianti, l'opera del Tirali segna l'esito di una stagione che aveva portato alle sue estreme conseguenze una gloriosa tradizione iniziata ben prima. Altri depositi verranno eretti anche in seguito, ma di dimensioni molto più ridotte e meno significative. Sopra un alto basamento, ospitante varie allegorie a bassorilievo - al centro, tra le altre, spicca la figurazione della battaglia dei Dardanelli, a ricordo dell'impresa di Lorenzo Marcello del 26 giugno 1656, "in cui la vittoria incorona Venezia raffigurata nel leone di S. Marco che combatte il dragone musulmano, con la ben nota corona navale, che ha tra le foglie vele quadrate di nave" (146): essa emblematicamente riassume l'operato del doge Bertucci Valier, sostenitore all'epoca della necessità di giungere ad accordi di pace col Turco (147) -, poggiano le immagini a tutto tondo della Sapienza e della Ricchezza affiancanti il gruppo scultoreo della Virtù che incorona il Merito. Due coppie di possenti colonne corinzie d'ordine gigante si ergono prepotenti fino alla trabeazione, fiancheggiando così la maestosa parata - ulteriormente enfatizzata dal fastoso cortinaggio di marmo giallo che fa da sfondo - dei dogi Bertucci e Silvestro (padre e figlio) e della dogaressa Elisabetta Querini, moglie di quest'ultimo. Lo sfarzo e la magnificenza caratterizzarono in vita il Valier, famoso anche per le cospicue elargizioni ai bisognosi con cui si accattivò la generale benevolenza, talché alla sua incoronazione, avvenuta il 25 febbraio 1694, fece seguire "con grande pompa, in via affatto eccezionale, essendo proibita dalla legge del 1645, quella della moglie" (148), che ben si meritava dunque di apparire, in tutta la dignità dei suoi attributi, in pari grado con marito e suocero su siffatto monumento.

Il governo veneziano, che aveva rifiutato i progetti del Peloponnesiaco per l'erezione della facciata di San Vidal, concedeva tuttavia, come s'è visto, al medesimo personaggio un arco di trionfo e un busto in palazzo Ducale, nonché la base bronzea del pennone, istoriata a sua memoria, nel campo dell'Arsenale, perché opere conformi alla tradizione celebrativa di Stato. In siffatto contesto anche i disegni del Gaspari (conservati al Museo Correr) per il monumento funebre da erigersi nella chiesa di Santo Stefano non avranno maggior fortuna: una serie concatenata di ostacoli impedì il realizzarsi dei progetti palesemente ispirati all'insegnamento del Bernini (che, alla fine, troveranno un esito di ripiego nella lastra tombale posta al centro del pavimento della navata). Il motivo della piramide-obelisco, "simbolo di gloria" secondo il Ripa, come sopra in più luoghi ribadito, qui riproposto in diverse varianti, poteva essere ritrovato in alcuni precedenti nella stessa Venezia. Tra il 1653 e il 1655 si collocava lo straordinario episodio del sepolcro, ora purtroppo sensibilmente ridimensionato, al conte d'Argenson di Claude Perrault a San Giobbe, che, strutturato in forma di piramide, non presenta alcuna marcata connotazione religiosa ma neppure allegorica (149). Ma si rammenti pure il monumento a Girolamo Garzoni, posto sulla facciata interna dei Frari, della fine degli anni Ottanta: un alto obelisco incombe al di sopra del guerriero stante tra due figure allegoriche. Una tendenza - che avrà il suo culmine inattualizzabile nei progetti di Antonio Gaspari per Santo Stefano sembra allora emergere nell'epoca barocca: spogliare o ridimensionare progressivamente le tombe celebrative anche di quei riferimenti simbolico-allegorici che potevano in qualche misura offuscare il limpido ed egotistico innalzamento della personalità del committente, che si accampa preferibilmente isolato in una superiore dimensione e tutt'al più attorniato da trofei, armi e dalle didascaliche rappresentazioni delle sue immortali imprese.

"Navegar pitoresco" tra "ricche minere", "gioielli" e "maraviglie"

La leggenda racconta delle favolose ricchezze accumulate dal cavalier Pietro Liberi, conte cesareo, durante una brillante carriera di ambito pittore, e specchio di così invidiabile condizione è sempre apparso il monumentale palazzo, che l'allievo e amico Sebastiano Mazzoni probabilmente gli disegnò, in volta di Canal, di fronte alla erigenda fabbrica della futura Ca' Rezzonico, già palazzo Bon, di Baldassarre Longhena (150). Un prospetto classicheggiante dal lungo porticato al pianterreno, addirittura di una toscaneggiante severità quasi neocinquecentesca - e, per l'appunto, sansoviniana, qualora ci sovvengano le Fabbriche nuove di Rialto -, sarebbe passato sicuramente inosservato alla storia se non fosse stato concepito per un artista generosamente premiato dalla dea bendata. Esso rappresenta la più alta consacrazione di un pur meritevole ῾borghese' sullo scenario della più nobile delle vie d'acqua cittadine. Assurto a tutti gli effetti nell'Olimpo dell'aristocrazia, non per eredità di sangue, ma unicamente per personali virtù e meriti, il Liberi diviene in questo modo la dimostrazione che il Seicento, "secolo di dure lotte", davvero non bandisce alcuna intemperanza.

Tralasceremo, tuttavia, di insistere sui due personaggi - Liberi e Mazzoni -, e sugli altri pittori protagonisti del secolo XVII: alcuni dei quali pur si sono indietro rammentati quando il richiamo avesse congruità con la linea maestra del nostro discorso, che resta teso a discriminare la dialettica drammatica tra autocoscienza collettiva del ruolo di Venezia in quanto Stato e individuale della superiorità e grandezza gentilizia del patriziato in quanto nella città si rappresentano. Da codesta ottica, semmai, più che le concrete testimonianze pittoriche c'interessa lo sforzo teso ad elaborare una storia ed una teoria della pittura. Prendiamo atto, allora, en passant, che il Liberi, arruolato nell'impresa d'autoglorificazione dei Fini, fu assai attivo anche sul mercato artistico e, ciò che più c'interessa, in rapporto sia con Marco Boschini - cui un Mazzoni, per parte sua, dedicava ben tre sonetti della sua raccolta di Scherzi sconcertanti, apparsa nel 1661 - che con Carlo Ridolfi il quale sappiamo amico di quel Giustiniano Martinioni che, nel 1663, riedita, con le debite giunte, la Venetia di Francesco Sansovino. Ma procediamo secondo un ordine possibile.

Nel 1606 esce un Lamento della pittura su l'onde venete di quel Federico Zuccari che, precedentemente, già abbiamo 'incrociato': stampata a Mantova pei tipi dell'Osanna, l'opera dovette aver immediata e cospicua diffusione a Venezia, dove è a stimar che sia stata composta, se è vero che troverà il riscontro e le contestazioni de La pittura trionfante del Gigli uscita nel 1615, ma di gestazione lunga e sottoposta a verifiche in redazione manoscritta. Orbene: nel momento in cui piange il venir meno, con la morte dei sommi maestri (Tiziano, Veronese), della grande pittura veneziana, lo Zuccari (che, del declino, fa colpa al Tintoretto ed alla sua clamorosa ricerca di effetti stralunati) rivendica il ruolo essenziale, qualificante dell'allegoria nell'arte ("io, per mostrar di Dio l'eternitade / dipingo il Padre in un antico aspetto, / lo Spirito Santo per la gran bontade / in forma di colomba [...]"). Di contro, e mentre esalta il Tintoretto e, come continuatori degni della grande stagione cinquecentesca, i cosiddetti epigoni (Palma il Giovane, Leonardo Corona, Andrea Vicentino, Sante Peranda, l'Aliense, Pietro Malombra), il Gigli insiste sul valore dell'imitazione della Natura (151).

Si sarà fatto caso che i maestri esaltati dal trattatista (ingiustamente, troppo trascurato) saranno convocati da Marco Boschini a rappresentare le "sette maniere", mentre conviene ancora rammentare come quattro anni dopo la sortita del Gigli, Giambattista Marino pubblicando la Galleria tornasse sulla grande stagione cinquecentesca, e ne cogliesse ed allineasse vertici, sebbene per descriverli in termini - come osserva Franco

Bernabei - di "fredda écfrasis" che prelude tuttavia alla rivendicazione del ruolo dell'allegoria e della metafora nella pittura, dichiarata nella più tarda Diceria attraverso la similitudine dell'impronta marcata dal corpo di Cristo sul sudario. D'altro canto, il Marino aveva frequentato, durante il suo soggiorno veneziano del 1602-1603, l'atelier di Palma il Giovane (opere del quale inserisce nella Galleria) e sarà vicino, in seguito, proprio al Ridolfi (che, ripetutamente, lo cita nelle Maraviglie) e al Boschini, oltre che ad una figura su cui dovremo tornare, Gian Francesco Loredano il quale, nel 1633, pubblicherà una Vita del poeta, ove, tra l'altro, ne rimette l'indugio lagunare alla "curiosità di vedere questo mondo di meraviglie" e le sue "delizie".

Abbiamo, nei precedenti paragrafi, constatato come, nel corso del Seicento, il mecenatismo di Stato, che era in precedenza alla base dell'attività e della produzione artistiche nella maggior parte delle loro manifestazioni (giacché nella situazione lagunare comprendeva anche il mecenatismo ecclesiastico), declini; come l'assunzione del compito, che gli era proprio, venga effettuata "da parte delle famiglie che tenevano nelle loro mani il potere finanziario". Simile attività, infatti, viene considerata come un logico corollario della condizione aristocratica: talché, al di là (ma coerentemente e, per dir così, a suggello visibile) della tensione all'autoglorificazione architettonica e plastica, "si sa [giusta Francis Haskell in un volume ormai classico] di famiglie immensamente ricche che cominciarono a collezionare opere di arte solamente in concomitanza col loro ingresso nei ranghi della nobiltà" (152). La "ricchezza [scrive un libellista contemporaneo] è la materia della nobiltà, che ha per anima un'antica virtù di sangue". In una interessante Relatione della città e republica di Venetia, studiata dal Cozzi, l'autore, forse un diplomatico, indicava nella "smania di crescere in grandezza, il motivo dominante nella vita del patriziato": "l'ambizione di farsi largo, di ascendere, di non perdersi nel grigiore, era la norma". "E i mezzi per appagarla erano due" annota, appunto, il Cozzi:

arricchire e decorare i più stretti congiunti delle più insigni dignità di carica. Questi mezzi tra loro erano complementari e sussidiari: perché le cariche più elevate, se usate accortamente, fornivano tutte, o quasi tutte, il modo di far quattrini: e con questi, poi, il gioco delle elezioni, la conquista delle magistrature, che davano lustro, diventavano quanto mai agevoli.

E un Lodovico Zuccolo nei suoi interessantissimi Dialoghi si affanna a denunciare la tendenza all'ostentazione esteriore della ricchezza, addobbandosi faticosamente "ne' fogliami, nelle indorature, ne' ricami"; e strepita constatando "quanto la musica e la poesia dien nell'effemminato e nel lascivo" e "quanto si faccia arte a dare a stravedere" (153). L'assunzione, dunque, della possibilità dell'arte come mezzo, strumento di ostentazione si fa totalizzante. Si ripensi precisamente all'atteggiamento specifico di tutte le grandi famiglie anche a tal riguardo quale s'è, fin qui, constatato. A questo punto non è difficile comprendere il carattere conservatore che impronta l'attività artistica - dalla produzione al collezionismo ai ripensamenti teorici -, in quanto essa trova il suo punto indispensabile di riferimento nella disposizione inalienabile del pubblico dei mecenati a garantirsi valori affermati e riconosciuti; e poi, dunque - poiché tale pubblico è costituito dalla tradizionale classe storica dirigente veneziana -, ad agire, nell'identificazione di quei valori, secondo un orientamento patriottico, rivolto quasi esclusivamente a un recupero nell'ambito di una dimensione ῾nazionale'. Ed ecco - per stare sul concreto dei fatti - i sensali di opere d'arte e i falsificatori preoccupati di offrire o di confezionare quello che il pubblico richiede e pretende (ampliando l'attività, si capisce, sino ad agganciare pubblici extraveneziani); ecco gli artisti ripiegare verso una ripetizione o - nei casi migliori - verso una meditazione dei grandi temi cinquecenteschi, non senza vistose accentuazioni nell'ordine della magniloquenza; ecco - e siamo al dunque - i teorici preoccupati di articolare una giustificazione storica e critica. Abbiamo, indietro, registrato le inquietudini che percorrono, all'avvio del secolo, gli atteggiamenti contrastanti di uno Zuccari, di un Gigli, di un Marino; in tal fermento, può collocarsi financo l'umore manifestato da Galileo nella nota lettera al Cigoli che riflette, senza dubbio (così come la sua polemica antitassiana e filoariostesca) atteggiamenti maturati durante il soggiorno veneziano (154): e ci torneremo. Per ciò che qui interessa, e s'è anticipato, sarà Marco Boschini l'intellettuale che realizza, nel modo più compiuto, con la sua Carta del Navegar pitoresco la sintesi, che si fonda su un preciso intendimento polemico antivasariano il quale si traduce alfine in un rifiuto della stessa impostazione storiografica alla Vasari. Codesto intendimento, talora esplicito (per esempio, e all'evidenza, già nella struttura esterna della Carta), talaltra, più frequentemente, implicito, non è, d'altronde, generico, ma si fonda su un consapevole agganciamento di atteggiamenti che erano venuti connotando lo sviluppo del pensiero veneziano sull'arte sin dal Cinquecento, soprattutto con il Dolce. Tuttavia, come Anna Pallucchini ha molto acutamente indicato, l'atteggiamento antivasariano del Boschini trova una delle sue motivazioni più profonde e autentiche in una sorta di pregiudizio storicistico: lo scrittore, cioè, è privo di una mentalità storicistica, onde gli avviene di dilatare, ad esempio, con estrema disinvoltura, la cerchia degli scolari di Tiziano; o neppur si pone il problema della formazione di Tintoretto, ecc. (155). Ovviamente codesto ῾limite' storicistico non costituisce un difetto organico del Boschini, ma è inerente alle strutture della dimensione secentesca veneziana di cui il Boschini stesso partecipa ed è inevitabilmente un prodotto: tuttavia, lo scrittore, proprio dalla limitazione strutturale fa scaturire, ed esalta, una possibilità positiva e operante. "Privo di mentalità storicistica [scrive Anna Pallucchini] il Boschini è insensibile quindi anche ai preconcetti che hanno viziato la storiografia". E non solo: l'assenza di un interesse storicistico determina in lui la possibilità di agire di fronte al fatto artistico, "per cui può svilupparsi frattanto la sua estrema, eccezionale sensibilità ai valori figurativi dell'arte veneta". L'affermazione e l'esaltazione della superiorità di questa è ciò che allo scrittore interessa, lo scopo dichiarato e sottolineato dell'operazione critica costituita dalla Carta. S'intende che il Boschini era uomo troppo avvertito per non sentire l'esigenza di porre una base teorica e concettuale a codesta operazione: l'impegno, cioè, di fissare i lineamenti di una estetica alle basi della propria operazione critica. Agendo in tale direzione, il Boschini insiste sulla opportunità di superare, senza rinnegarla, la concezione imitativa dell'arte per affermarne, di contro, il ruolo squisitamente creativo: non deve essere la Natura, cioè, d'esempio all'arte, specificamente alla pittura, ma deve essere questa "de tute le cose el vero esempio". E, inoltre, si capisce che anche siffatto orientamento ha in partenza una determinazione contingente e locale precisa: il Boschini, come il Marino, aveva frequentato nell'adolescenza l'atelier di Palma il Giovane, nel quale doveva aver maturato la grande ammirazione per il Tintoretto; e si era mosso, in genere, nell'ambiente artistico decisamente antinaturalistico degli epigoni della grande tradizione cinquecentesca veneziana. Ma, intanto, lo scrittore, sulla spinta dell'inevitabile condizionamento, si impegna a recuperare nella cultura contemporanea validi supporti teorici: che Anna Pallucchini riconosce, molto acutamente, in spunti offerti dal Lomazzo e dal Mancini, di cui Marco - l'ipotesi è insieme suggestiva e convincente - potrebbe aver conosciuto il manoscritto delle Considerazioni della pittura edite completamente solo nel 1956, ma assai divulgate: tant'è vero che una replica dell'autografo, ora alla Marciana, era in possesso, proprio a Venezia, di quella famiglia Nani con cui lo scrittore ebbe rapporti. Ma altro è il punto interessante, e concerne la capacità boschiniana di vivificare, di sottolineare lo spunto estetico: in tal guisa, ponendo lo scrittore a partecipare di una tendenza più generale, che veniva scaturendo (a livello europeo) "da un'intuizione diversa della realtà del mondo fenomenico complesso e mutevole". Abbiamo usato parole della Pallucchini, la quale annota poi giustamente che

possiamo tranquillamente affermare che il Boschini è esponente di quella trasformazione della tradizionale posizione Arte = imitazione, che ha dominato l'Antichità e il Rinascimento, riaffiorando in ogni posizione classicistica successiva, per giungere alla concezione Arte = creazione, che è alla base di ogni estetica moderna.

È chiaro che il Boschini si sente impegnato a qualificare la propria affermazione creativa dell'arte attraverso l'elaborazione di una serie di categorie significative: a cominciare da quella, fondamentale, dell'inganno dell'occhio, destinata a fornire ulteriore giustificazione alla proclamata supremazia assoluta della pittura, e della pittura veneziana in particolare, tanto più che ad essa viene dato supporto nel riconoscimento dell'inalienabile garanzia offerta dallo studio e dal superamento delle difficoltà tecniche, che la concreta realizzazione di quella categoria (in "spiegazzoni", "colpizar", "machia") presuppone (156). Si tratta precisamente dell'atteggiamento che già manifestava la rammentata lettera di Galileo al Cigoli del 1611. La questione della "preminenza delle arti" è per il pisano un mero pretesto: il primato della pittura è sì proclamato, e ciò appartiene alla rivendicazione di una sua maggiore potenzialità creativa; meglio: alla sua capacità, che è connotante, di esaltarsi nel rifiuto dell'ingombro allegorico (come la musica nell'esclusione del testo poetico e vocale) e del vincolo alla regola precostituita e obbligata, e di superare l'imitazione, beninteso senza rinnegarla, nella creazione. Conviene un'ampia citazione (157).

Non ha la statua il rilevo per esser larga, lunga e profonda, ma per essere dove chiara e dove scura. Et avverasi, per prova di ciò, che delle tre dimensioni, due sole sono sottoposte all'occhio, cioè lunghezza e larghezza (che la superficie, la quale da' Greci fu detta epifania, cioè periferia o circonferenza), perché delle cose che appariscono e si veggono, altro non si vede che la superficie, e la profondità non può dall'occhio esser compresa, perché la vista nostra non penetra dentro a' corpi opachi. Vede dunque l'occhio solamente il lungo e ῾l largo, ma non già il profondo, cioè la grossezza non mai. Non essendo la profondità esposta alla vista, non potremo d'una statua comprender altro che la lunghezza e la larghezza; donde è manifesto che noi non ne vegghiamo se non la superficie, la qual altro non è che la larghezza e lunghezza, senza profondità. Conosciamo dunque la profondità, non come oggetto della vista per sé et assolutamente, ma per accidente e rispetto al chiaro et allo scuro. E tutto questo è nella pittura non meno che nella scultura, dico il chiaro, lo scuro, la lunghezza e la larghezza: ma alla scultura il chiaro e lo scuro lo dà da per sé la natura, ed alla pittura lo dà l'arte: adunque anche per questa ragione si rende più ammirabile un'eccellente pittura di una eccellente scultura.

"Alla pittura lo dà l'arte". È l'approdo, dunque anticipato, del Boschini: certo, non per forza divinatoria conseguito, ma per la partecipazione d'un clima in cui affonderà radice, suggendolo, il poligrafo secentesco. Con qualcosa, forse, di più; che conferisce al breve testo galileiano un'attualità sbalorditiva e sconcertante, disancorandolo dal contesto che lo sollecita.

Di qual maraviglia [esclama Galileo] sarà l'imitare la natura scultrice coll'istessa scultura, e rappresentare il rilevato coll'istesso rilievo? Di niuna certo, o di poca; et artificiosissima imitazione [dunque, creazione] sarà quella che rappresenta il rilevo nel suo contrario, che è il piano. Meravigliosa dunque, per tal rispetto, si rende più la pittura che la scultura.

E, infine: "quanto più i mezzi, co' quali si imita, sono lontani dalle cose da imitarsi, tanto più l'imitazione è maravigliosa". "Qui davvero [postilla con acume, Manfredo Tafuri (158)] il pensiero analogico non ha più nulla da dire"; e, a buon diritto, riporta un passo emblematico di una lettera del 1611 che, di alcuni mesi soltanto, precede quella indirizzata al Cigoli: se "uno dei nostri più celebri architetti", annota il Galilei, "havesse hauto a compartire nella gran volta del cielo la moltitudine di tante stelle fisse", le avrebbe distribuite "secondo le prime et più rationali proporzioni". E però: "all'incontro Iddio, quasi con la mano del caso le habbia disseminate, pare a noi che senza regola, simmetria o eloquenza alcune le habbia sparpagliate": ed è proprio il Boschini a indicare ed esaltare l'efficacia di una simile intuizione.

Il nostro personaggio era nato nel 1613, a Venezia, da un Gianantonio e da una Leonora, ed era stato per tempo avviato alla carriera artistica se, come egli stesso ricorda, e ne abbiamo già preso atto, ebbe consuetudine, giovinetto, con l'atelier di Palma il Giovane; ma - per quanto sembri abbia frequentato l'Università padovana - i suoi interessi dovettero, già nelle prime fasi della sua vicenda umana, orientarsi verso la pratica dell'incisione, se sappiamo - dal Malvasia, che fu suo corrispondente - che non "isdegnava nomarsi discepolo" di quell'Odoardo Fialetti, che soggiornò in effetti tra le Lagune. D'altronde, nel 1635, giovanissimo, Marco pubblicava una Tariffa del cambio degli scudi forestieri, corredandola con illustrazioni, a intaglio, di svariate monete; mentre, qualche tempo dopo, appariva in Venezia un volumetto degli Apparati scenici per il Teatro Novissimo di Venezia l'anno 1644, esposti da Giacomo Torelli, descritti da Majolino Bisaccioni, e intagliati da Marco Boschini, dove le incisioni dovute al nostro risultano di buona qualità e di tecnica, a volte, eccellente. Nello stesso 1644, Marco licenziava l'opera Il regno di Candia, delineato [...] e intagliato: iniziando, nell'ambito degli interessi incisorii, un orientamento per la cartografia, che avrà seguito concreto in altre cose, edite in successivi anni. Come pittore, non dovette lavorare molto, né in questi momenti giovanili, né più tardi, se è vero che la sola testimonianza certa di una sua attività specifica, almeno di destinazione pubblica, riguarda una tela (andata perduta) per la chiesa veneziana di San Gerolamo.

Il 20 gennaio 1635 Marco sposava certa Felice Bocchi, che gli darà quattro figlioli, due femmine e due maschi: i quali ultimi sembra non abbiano dato soverchia soddisfazione al padre, se nel 1675 questi, preoccupato, era costretto a raccomandarne il minore (che non aveva seguito studi letterari e si era avviato alla mercatura: ma si trovava senza lavoro) al cardinale Ippolito de' Medici. Non viaggiò molto: toccò certamente i centri principali del territorio veneto, particolarmente Vicenza, dove possedeva anche immobili; ma si spinse pure a Trieste, a Modena, a Parma, a Cremona, a Bologna: non per lunghi soggiorni, però; e, insomma, passò la vita quasi ininterrottamente nella sua Venezia. Dove, dobbiamo aggiungere adesso, la sua attività si era dovuta singolarmente ampliare: sappiamo, da fonti contemporanee o da documenti, o dalle une e dagli altri, che ebbe a dedicarsi al commercio "di perle false e di conterie di vetro", al disegno (in cui riuscì benissimo, specie nella tecnica a penna), alla miniatura, al restauro e al commercio di quadri. Ci viene il sospetto che codesta attività sia divenuta, a un certo punto, predominante o, almeno, assai impegnativa: dal momento che lo apprendiamo accanto allo spregiudicato copista e falsario Pietro Vecchia, sia nell'atelier di questi, sia nella stesura di stime di raccolte pittoriche; e dal momento che è stata accertata la sua attività nella cessione di quadri al cardinale de' Medici, ai signori di Mantova, ad Alfonso IV di Modena. Questa sua attività - più che quella di artista creatore - dovette porre Marco nelle condizioni più favorevoli per avvicinare e spesso farsi amici pittori veneziani o di passaggio a Venezia quali Domenico Tintoretto, Gabriele Caliari, Pietro Liberi, il Padovanino; Sebastiano Mazzoni (che, come s'è visto, in qualità di poeta, nei suoi Scherzi sconcertanti, 1661, gli dedica tre sonetti: ma poi si staccò da lui); e altri, tra cui, forse, il Velàzquez e di sicuro Pietro da Cortona in transito tra le Lagune.

Ma, diremmo di più: l'idea di scrivere d'arte, concependo - probabilmente intorno al 1656 - il disegno ambizioso della Carta, dovette anche, in qualche guisa, essere determinata dalla sua attiva presenza nel mercato antiquario così come anche gli stessi sviluppi, a un certo momento intervenuti, nella pratica dell'incisione, che vediamo venire decisamente usata ai fini della riproduzione di opere d'arte altrui. Come che sia, nel 1660, appare la Carta: cui solo quattro anni appresso faranno seguito Le Minere della Pittura (che saranno riedite, assai ampliate e con il corredo di un più ampio preambolo nel 1674); nel 1676 escono I gioielli pitoreschi. Virtuoso ornamento della Città di Vicenza. Ci è noto, infine, che sin dal 1663 il Boschini lavorava a una sorta di continuazione della Carta, che si sarebbe dovuta intitolare la Tartana pittoresca, ma che non apparve mai (159).

Dei multiformi interessi che animarono Marco, proprio quelli letterari approdarono a risultati che hanno, al nostro giudizio, la rilevanza più consistente e, con la Carta, come si è detto, il carattere di una testimonianza elevata ed imprescindibile di una situazione storica complessa e difficile. La struttura dell'opera è abbastanza inconsueta in relazione alle finalità sue, di impegno sostanzialmente storiografico: di disegno, cioè, del panorama della civiltà figurativa veneziana dal Cinquecento al tempo dell'autore: si tratta infatti di un poema in quarta rima, a schema fisso, in dialetto veneziano: diviso in otto canti, denominati "Venti", preceduti da un argomento affidato a un personaggio che è designato come accademico delfico volonteroso (grazie alla Pallucchini, ora lo sappiamo identificabile con quel Dario Varottari, che fu figlio del Padovanino e che si dilettò di poesia). L'andamento espositivo è d'ordine sostanzialmente dialogico, e s'articola, in effetti, come conversazione tra un "Senator venezian deletante" (forse riconoscibile in Giovanni Nani di San Trovaso, ma più probabilmente immaginario) e il "Professor de pittura", in cui si nasconde lo stesso Boschini, designati rispettivamente come l'Eccellenza e il Compare. Non v'è trama vera e propria: il Boschini immagina che i due, dopo un incontro durante il quale nasce una discussione sulla superiorità della pittura e sulla preminenza della scuola veneziana, decidono di visitare, percorrendo svariati itinerari, i luoghi conservanti le prove maggiori della locale civiltà pittorica, commentando, discorrendo, aprendo digressioni. Infine, i due si ritrovano per nuove considerazioni d'ordine teorico e per tracciare una rassegna e trarre un bilancio della situazione contemporanea. Un'impostazione aperta, dunque, atta a consentire all'autore di esprimersi senza le limitazioni e i vincoli veri e propri dei modi tradizionali della storiografia, e anche di taluni tentativi contemporanei più aperti, ma pur sempre condizionati dall'esterno: e ad utilizzare, poi, tutti gli accorgimenti possibili in funzione di un tono espositivo sempre sciolto e vivace: mai a scapito, peraltro, di una intenzione rigorosa di serietà critica. Che è ciò che per l'autore fondamentalmente conta; il suo impegno è in quest'ordine e in quest'ordine intende che la sua opera debba valere; tant'è vero che, per esempio, non manca di apporre brevi didascalie indicative degli argomenti trattati a margine di pagina e di stendere un indice generale ben articolato alla conclusione del volume. Ma, insomma, il modo che qui interessa è quanto s'è indietro avvertito. Si constata, ci sembra, andando all'osso, nel dipanarsi del processo teorico boschiniano, una sorta di tautologia storica. Il punto di partenza è costituito nello scrittore dal limite - storicistico appunto - dell'esperienza di una determinata fase della civiltà pittorica veneziana, assunta come modello e parametro, in base a strumenti critici e teorici da essa stessa dedotti. Se si vuole, è il gusto che tende a farsi estetica e, questa, è funzionale all'esigenza di stabilire il ῾mito' della supremazia della pittura veneziana, additandone il vertice nel momento cinquecentesco, emblematizzato nel Tintoretto, e nella sua capacità di rigenerazione attuale. Tre anni prima che, per i tipi de "Li Baba", in Venezia l'anno 1660, apparisse la Carta del Navegar pitoresco di Marco Boschini, il medico e scrittore d'arte forlivese Francesco Scannelli, affermava nel suo Microcosmo della Pittura (160):

Chi brama più esatto resoconto sulla pittura veneta potrà leggere con libri d'altri autori l'opera di Marco Boschini, soggetto pratico e spiritoso, che in quarta rima dimostra con esattezza e facilità il tutto che si può desiderare intorno ai pittori e opere di questa famosissima scuola dello stato veneto.

Se l'affermazione è molto utile come un punto di riferimento sicuro per stabilire i tempi cronologici della stesura della Carta (che, dunque, nel 1657 doveva essere in fase, forse abbastanza avanzata, di composizione: al punto che, tra i cultori dell'arte, ne circolava la notizia e ci si attendevano conclusioni di grande interesse e di notevole importanza), sottintende anche più sottili significati, poiché è difficile rinunziare a cogliervi un implicito giudizio su Carlo Ridolfi, il quale, più di due lustri avanti, nel 1648, aveva licenziato le sue monumentali Maraviglie dell'Arte che ambivano a costituire una sorta di corrispettivo, per il dominio figurativo veneto, delle Vite del Vasari.

E, tale implicito giudizio - visto che l'opera ridolfiana, dallo Scannelli, è solo svagatamente ricordata -, non si avverte affatto positivo. Occorre, peraltro, prendere atto che la principale, e di gran lunga più nota fatica ridolfiana, nel momento in cui ha pur costituito un riconosciuto e sfruttato campo d'informazioni sui "pittori veneti e dello Stato", non è stata, sinora, ben intesa nel suo significato tutt'affatto coerente ed emblematico del clima complessivo che veniamo indagando: e complementare a quello di Marco Boschini. Converrà, pertanto, in questa sede, insisterci con effusione speculare alla negligenza, a costo di arrischiare uno sbilanciamento - apparente - nel nostro discorso. Esiste, di fatto, un grosso divario, di un'evidenza palese, nel quadro dei giudizi recenti sul pensiero artistico secentesco, tra la valutazione, restrittiva e svagata, che si tende a dare del Ridolfi storico e critico, e l'utilizzazione ampia e aperta che è stata fatta e viene fatta della sua opera storiografica, allorquando si è trattato e si tratta d'assumere informazioni e notizie intorno a momenti e figure della vicenda pittorica veneziana tra il XV e il XVII secolo. Nel rapporto degli studiosi con le Maraviglie ridolfiane, si constatano infatti due atteggiamenti distinti al punto da parere, al limite, contraddittori: atteggiamenti nati dall'esito insoddisfacente, nell'analisi dell'opera di una più estesa, approfondita meditazione sulla cultura, in senso lato, del Seicento: questa meditazione ha portato, nell'ambito che ci interessa, quello degli scritti sull'arte, da una parte al recupero deciso e magari all'esaltazione di personalità riconosciute rilevanti per originalità e significati dei contributi forniti alla comprensione e alla conoscenza teorica del problema sull'arte, dall'altra al declassamento di altri storici e teorici, dirimendo i valori in quel panorama che la tradizione degli studi del passato aveva delineato e accoglieva in termini abbastanza uniformi, senza avvertire l'esigenza di una loro discriminazione. Non è dubbio, in effetti, che l'opera storiografica del Ridolfi sia stata a lungo accettata e, quindi, utilizzata sostanzialmente sulla base dell'autorità da attribuire indiscriminatamente al testo scritto solo perché scritto e stampato. Semmai, dai più avvertiti, il consenso a essa emergeva da un atteggiamento che recuperava dalla constatazione di una straordinaria ricchezza informativa la possibilità di un giudizio positivo globale, includente una piena e disarticolata considerazione del critico e dello storico: anche in tal caso, però, la garanzia dell'operazione finiva per risiedere in un presupposto mai verificato concretamente e operativamente. È innegabile che a situazioni siffatte non facesse difetto, almeno, una certa coerenza: che è difficile riconoscere, invece, alla ῾doppiezza' d'atteggiamenti, che ci è avvenuto di denunciare. Il fatto si è, frattanto, che l'impegno dello Hadeln, tradotto - nell'Einführung alle Maraviglie - in pagine magistrali e tuttora fondamentali, non è stato sviluppato nei lineamenti generali di un discorso rivolto a saldare gli aspetti contrastanti della scissione (161): di guisa che le deficienze critiche del Ridolfi finiscono per essere tutt'al più ῾descritte' e per essere sistematicamente riportate a una costituzionale incapacità di giudizio, mentre si fa credito allo scrittore di una buona diligenza e di una certa disposizione a informare, e sia pur in modi ingarbugliati e arruffati, scaturiti proprio dall'incapacità di manipolare criticamente il materiale raccolto. Non si è avanzata mai, che noi sappiamo, l'ipotesi per cui le deficienze lamentate siano da collegare a una particolare ma ben precisa situazione culturale, che costituisca, per un verso, la premessa dell'attitudine erudita, e per l'altro, dell'inclinazione a rielaborare i dati, anziché nel contesto di una siffatta critica, nello spiegamento di una narrazione prolissa e ridondante d'episodi, assunti spesso a pretesto di osservazioni moraleggianti, ecc. Laddove però, e appunto, attitudine e inclinazione narrativa rappresentino momenti dialetticamente collegati di una condizione unitaria: e la garanzia dell'esercizio il più possibile corretto della prima risieda nell'imperiosità dell'esigenza di ben realizzare e svolgere la seconda. È mancata insomma, sinora, un'operazione autenticamente storicizzante, volta a collocare nella sua pertinente prospettiva l'opera ridolfiana: e dalla quale soltanto è consentito recuperare i modi di una sua corretta utilizzazione, sia in quanto testimonianza organica del grado di autocoscienza di una determinata situazione, sia in quanto raccolta e contributo di pure informazioni da assumere tout court come tali. Tra l'altro, il perseguimento delle fonti del Ridolfi, che è pur stato condotto talvolta opportunamente in ossequio a un doveroso scrupolo di controllo e verifica, è destinato, in mancanza dell'auspicata operazione, a procedere difficoltosamente e a restare lacunoso per il conseguente difetto della necessaria e articolata metodologia d'indagine. Lo stesso disegno programmatico delle Maraviglie - le quali intendono offrire le vite dei pittori, e solo dei pittori, dello Stato veneto -, del tutto nuovo nel suo esplicito intento regionalistico, già rilevato e sottolineato dal Tiraboschi (162), è stato agganciato a un quadro generale di polemica antivasariana di cui, come s'è visto, partecipa il Boschini e ch'è particolarmente vivace a Venezia sin dal Dialogo del Dolce, pubblicato all'indomani dell'apparizione della Torrentiniana, riprendendo spunti autonomi elaborati dalla precedente tradizione veneziana delle meditazioni sull'arte, nel confronto, in primo luogo, con singolari e incomparabili strutture di linguaggio figurativo. Solo che, così procedendo, e limitando il discorso a riferimenti generici, la polemica del Ridolfi col Vasari sarebbe da considerare esaurita nella manifestazione di un certo capriccioso spirito di campanile, incapace della conseguenza radicale di un rifiuto - quale darà il Boschini con la Carta - dello stesso metodo di tipo storiografico, proposto dall'aretino: che appare, di contro, assunto senza pregiudizi e ricalcato.

Il Ridolfi, in effetti, sviluppa proprio un discorso fondato sull'organizzazione di una somma di dati nel contesto di profili biografici saldati l'uno all'altro in sequenza ῾cronologica', caratterizzata da un andamento parabolico tracciato in relazione a un preciso momento - la cultura pittorica veneta cinquecentesca - che viene identificato come termine supremo e condizionatore. Non è per adesso il caso di controllare come quel termine sia posto e scontato senza il serio impegno, che è invece del Vasari, di fornire una giustificazione teoretica, che ne recuperasse e affermasse i valori e i significati in base a una concezione lucida dell'arte e a un operante esercizio critico, ancorché non si possa non riconoscere col Previtali qualche sforzo di comprensione operato sui "bizantini" e un tentativo di saldare la tradizione dei "primi tempi" alla cultura dei "maestri dei maestri". Sta di fatto, però, che il ricorso a schemi espositivi quali la "notizia di opere" alla Michiel - che molto difficilmente però Carlo poté conoscere - o la "descrizione" alla Guiscardi - alias Sansovino - con l'ampia successiva tradizione raccolta ed esaltata nel Seicento, o l'"elogio" alla Rossi o alla Tommasini consueto al gusto letterario contemporaneo, è escluso proprio per l'assunzione dell'impostazione vasariana - di cui anzi il Ridolfi effettuerà il rilancio secentesco, fertile di conseguenze - in omaggio a una esigenza storicistica, della quale una volta di più converrà tentare di rintracciare le cause determinanti più profonde. La stessa polemica antivasariana del Ridolfi è, dunque, pur su fondamenti diversi e senza il lucido e sovversivo radicalismo di un Boschini, più complessa e problematica di quello che, sulle prime, non appaia; e se pur si manifesta come esigenza regionalistica e campanilistica (ma potremmo già dire con maggior pertinenza, anticipando osservazioni che ci avverrà di fare, ῾patriottica') di contrapporre una priorità e una superiorità della scuola veneziana e veneta a quelle, dall'aretino proclamate, della scuola fiorentina e toscana, e se pur s'evidenzia nella scelta di affrontare esclusivamente e significativamente un dominio pittorico, giusta le indicazioni della trattatistica locale, essa è condotta, e certo non per caso, sullo stesso terreno metodologico - formale - su cui s'era mosso il Vasari (163).

La questione della genesi delle Maraviglie, così come quella dell'identificazione dei milieux di cultura rappresentati dal Ridolfi costituiscono, pertanto, i momenti preliminari ma fondamentali di un discorso che aspiri davvero a essere comprensivo, esauriente e coerente con l'assunto di questo saggio. Disgraziatamente, le notizie esplicite sul Ridolfi a nostra disposizione sono piuttosto scarse e si limitano, in ultima analisi, a quanto lo scrittore ritenne di affidare alla propria autobiografia e a pochi, benché preziosi, dati documentari rintracciati dal Pasqualigo e, sovrattutti, dal Vitaliani: personali, accanite ricerche di chi scrive nei più svariati fondi archivistici non hanno sortito alcun esito apprezzabile (164). Non è ozioso, comunque, ricapitolarle, non solo perché, sin qui, trascurate, ma perché collocano nel suo contesto significativo un intellettuale la cui fatica principale ci sembra esemplare. Nato a Lonigo, nel Vicentino, nel 1594 (il 1 ° aprile di quell'anno riceveva il battesimo), da un Marco "sartor" e da una Angela Boschetto, appartenenti ai ranghi della piccola borghesia e di condizione economica, dunque, abbastanza modesta, Carlo Marco Ridolfi perdeva ben presto, sul finire del 1599, il padre: le sorti della famiglia (Marco lasciava altri tre figli: Elena, Marcolina e Filippo, che si farà monaco col nome di fra Basilio) erano sollevate dopo alcune vicissitudini nel corso delle quali interverrà generosamente uno zio materno, Lorenzo Boschetto, dalla decisione della madre di passare a seconde nozze con certo Andrea Schisiero, che asseconderà le disposizioni del figliastro già avviato a studi generici di "humanità", dapprima consentendogli di frequentare un pittore tedesco presente a Lonigo (e che non ci è riuscito di identificare) e, poi, ponendolo a Venezia nella bottega dell'Aliense, presso il quale il nostro si tratterrà, con grande profitto, cinque anni: cioè, nonostante che la precisione dei termini cronologici risulti abbastanza ardua, dal 1607 al 1612. Lasciato, sembra a causa dell'invidia di un condiscepolo, l'atelier del Vassilachi - giusta le notizie dell'autobiografia -, Carlo si trasferisce brevemente in patria, per riportarsi tosto tra le Lagune e perseguire, isolato e in condizioni precarie e difficili, l'educazione artistica intrapresa: e la fortuna, infine, gli arride. Commissioni ottiene dal collegio dei Notai e dalla congregazione di San Giorgio in Alga e da svariati - però non più riconoscibili - committenti del territorio vicentino; ma anche da veneziani, quali Daniele Barbarigo di San Polo e Pietro Gradenigo. Può, in tal modo, appagare l'altra sua disposizione per studi letterari e di umanità (s'interessa tuttavia anche di prospettiva e di architettura), applicandosi alla retorica, alla logica, alla fisica, alla filosofia morale, dedicandosi all'esercizio della poesia e "cimenta[ndosi]" in "alcuni virtuosi ridotti". Tentare di recuperare, anche per definire codesta fase, date precise, è molto difficile: il ritorno a Venezia sarà da fissare a poco tempo dopo il 1612, e sarà da considerare avvenuto come stabile sistemazione (forse nella casa di San Samuele, certo abitata negli ultimi suoi anni), per quanto un'esplorazione attenta dei fondi delle magistrature della Serenissima non abbia consentito di rintracciare il nome del Ridolfi e, quindi, d'acquisire referenze sicure: in tal caso, si potrebbe legittimamente pensare che Carlo avesse organizzato nella capitale il proprio atelier, ove è probabile lavorasse ai dipinti da cavalletto, che cominciavano a venirgli commissionati da varie parti. Il superamento della fase iniziale di difficoltà è, di sicuro, precedente al 1622, allorché licenzia i dipinti ordinatigli dalla congregazione di San Giorgio in Alga: ma, più credibilmente, si può ipotizzare che, sin dal 1620, quando dà alle stampe il rifacimento della Novella di Madonna Isotta del Volpino, il Ridolfi fosse già ingranato in quei circoli culturali veneziani (i "virtuosi ridotti") con cui stringerà, successivamente, più solidi rapporti. Non è da trascurare, infatti, che l'evidenza ῾galante' del poemetto si collega con la ripresa, intorno alla fine del secondo decennio del secolo, del romanzo alla Gamberville, che avrà tra i suoi protagonisti un futuro protettore del nostro, Gian Francesco Loredano, e che la struttura di ῾novella' risponde a un gusto che avrà nello stesso Loredano uno dei suoi promotori (165): e conviene ammettere, pertanto, avesse già effettuato il tirocinio di studi "di humanità", ovviamente riconoscibile come frequentazione di qualche consorzio di aristotelici a oltranza, aggregato, secondo ogni verisimiglianza, ai medesimi circoli. Sospettiamo, invece, che l'applicazione a prospettiva e architettura si sia esaurita in una personale meditazione dei pochi testi canonici, che troveremo elencati nel testamento, mentre i brevi indugi su "alcun altro studio", pur rammentati nell'autobiografia, difficilmente possono spiegarsi, in accordo col Vitaliani, quale esercizio dell'incisione e della scultura (166). Ben più interessante è l'indicazione dei nomi di Daniele Barbarigo e di Pietro Gradenigo, per un duplice ordine di considerazioni: in primo luogo, perché il ricordo tanto tempo più tardi, nel testamento, dell'uno e del nipote dell'altro, Alvise Barbarigo, rispettivamente qualificati "singolar Signore" e "benignissimo Signore", consente di dar nome e cognome ai mecenati che dovettero assumersi il compito di inserire il giovane provinciale nel mondo del patriziato colto, o nelle particolari zone di quel mondo, in cui agirà in avvenire; e, in secondo luogo, perché i due personaggi ci sono noti, tra l'altro, come figure assai rappresentative entro la dimensione del mercato artistico. Nel 1628, il Ridolfi, secondo sua precisa dichiarazione nell'autobiografia allegata alle Maraviglie, si trova a Verona: dove, tra l'altro, incontra il Bassetti e dove è ospite di Cristoforo Farinati, che l'ammette ad ammirare la ricca collezione dei disegni lasciata dal padre, Paolo. Si tratta d'affermazioni attendibili, la cui importanza non è stata sin qui rilevata e sulle quali ci accadrà di indugiare oltre per trarne qualche conseguenza di peso rilevante. L'anno appresso Carlo si trova di nuovo a Venezia: a suo dire, per partecipare alle esequie dell'Aliense che, avverte, dopo essere stato il maestro, era rimasto l'amico diletto. Se ne può evincere la congettura di una ripresa, in seguito, di una continuità di relazioni, dopo il forzato abbandono dell'atelier; e si può anche pensare che, frequentando il Vassilachi, Carlo non soltanto avesse il modo d'accedere alla raccolta grafica - stampe e disegni - messa insieme da Antonio sulla base d'una ampiezza singolare d'interessi - l'arricchivano derivazioni, ma pure autografi, di maestri, nonché veneti, emiliani, romani, ecc. - ma trovasse in quell'ambito l'occasione di stimolanti incontri con gli svariati pittori che con l'atelier ebbero consuetudine: tra gli altri, figure quali il Cavalier d'Arpino e Pietro Mera, anche rammentati dall'autobiografia. La tremenda pestilenza del 1630 costringe il Ridolfi a riparare nella campagna trevigiana, dove si trattiene per tredici mesi, sin verso la fine del 1631, accompagnando l'esercizio della pittura ai più diversi svaghi, per ingannare il tempo. Il ritorno a Venezia conosce, prima del nuovo definitivo assestamento, una breve parentesi di distacco: Carlo si riporta a Verona e indugia qualche giorno a Lonigo. Poi, saranno anni di gravosi, e prestigiosi, impegni pittorici per le sedi più diverse - Padova e il Padovano, Vicenza e il Vicentino, il Veronese, il Bresciano, il Bergamasco, la Dalmazia -, che non è da escludere, in qualche caso, fossero personalmente raggiunte. In via di ipotesi generica, suggeriamo di datare codesto interim dal 1632 allo scadere del decennio: allorché il Ridolfi tenta, "presentando le orecchie alle altrui lusinghevoli promesse", di consegnare "innanzi a' Magistrati", "una gratia", sulla cui natura l'autobiografia è del tutto reticente così come gli archivi che abbiamo esplorato. È comunque a questo punto che il Ridolfi, "vedute le speranze fallite", decide di "dar fine ad alcune poche vite de' Pittori incominciate" per suo "trattenimento", in epoca non precisata e su cui converrà più avanti indugiare. Nel 1642 appare la biografia di quel Tintoretto (cui, come s'è indietro constatato, lo Zuccari aveva imputato la responsabilità della decadenza pittorica veneziana ma il cui riscatto, avviato dal Gigli, sarà sancito dallo stesso Boschini), dedicata alla Repubblica - si faccia caso -, il cui senato decreta al Ridolfi il riconoscimento della dignità dell'ordine equestre di San Marco (167). Pur applicandosi, pare senza grosse ambizioni, al proseguimento della fatica storiografica, Carlo continua a esplicare intensissima attività pittorica: tra i committenti, i cui nomi sono diligentemente registrati dall'autobiografia, appaiono personaggi ampiamente interessati al mercato artistico e alla vita culturale, e specificamente letteraria, di Venezia: Domenico e Luigi Barbarigo, Carlo da Ponte, Bernardo Giunti, Marcantonio Romiti, Alessandro Berardelli, Pietro Michiele, Angelico Aprosio di Ventimiglia, Baldassarre Bonifacio, Giustiniano Martinioni. Nel 1645, papa Innocenzo X sancisce la reputazione e la fama conseguite dal Ridolfi attribuendogli, con apposito breve, la dignità di cavaliere aurato pontificio, le cui insegne sono rimesse al nostro da "Monsignor Quirino, Arcivescovo di Candia". La stesura delle Vite, frattanto, procede, nonostante le incombenze dell'attività artistica, sollecitata di continuo a livello di committenza pubblica e privata: e il lavoro, anche per l'insistere degli amici letterati, finisce per assumere una struttura e dimensioni che l'autore, in principio, non aveva previsto. Ma pure sui tempi, non indicati, della compilazione occorrerà ritornare tra poco: sta di fatto che, dopo una anticipazione - le Vite dei Caliari, che vedono la luce nel 1646 (168) -, le due parti delle Maraviglie dell'Arte appaiono, per i tipi dello Sgava, nel 1648, rispettivamente dedicate ai fratelli Reynst e a Bortolo Dafino, dunque a collezionisti di grande evidenza, e precedute da una sorta di tabula gratulatoria recante i complimenti dei letterati, che erano stati affettuosamente vicini all'autore nei momenti difficili dell'arduo impegno. E sono ancora il Berardelli, e il Romiti, il Bonifacio e il Michiele, Gian Francesco Loredano, Nicolò Crasso, Giulio Strozzi, Marcantonio Tirabosco, Antonio Mainenti, Francesco Maddalena, Giuseppe Battista, Ascanio Spineda, Clemente Molli (e ci si faccia particolare attenzione): più una lettera di Guido Reni, datata del 27 giugno 1642, sulla "vita" del Tintoretto. I volumi risultano corredati dai ritratti di numerosi tra i pittori, incisi - anche questo va subito sottolineato - da Giovanni Zorzi e da Jacopo Picini. Delle successive vicende biografiche del Ridolfi conosciamo ancor meno: qualche indizio fa pensare che l'attività, pittorica e letteraria, andasse rallentando, ancorché si sappia, quanto meno, di rilevanti imprese pittoriche condotte per chiese di Venezia e del Territorio - ma non saranno mancate le commissioni private - e dell'intenzione, la quale probabilmente si sarà tradotta se non altro in una raccolta preliminare d'informazioni, di realizzare un'opera sulla "scultura e [sulle] immagini" (169). Carlo il 1° febbraio 1657 dettava il testamento e il 5 settembre 1658 si spegneva nella propria abitazione di San Samuele: veniva sepolto, in ossequio alle sue ultime volontà, nel chiostro di Santo Stefano.

La piattaforma costituita dai pochi dati disponibili consente di configurare il Ridolfi come un personaggio rivolto, con eguale passione - ma, in certa guisa, contradditto riamente - a un'attività di produzione pittorica e a interessi di tipo letterario e in modi tali da conseguire notevole prestigio a entrambi i livelli di qualificazione, a dispetto dell'ironia del Boschini (170):

tal volta lu depense, e int'el depenser / Ghe vien de diciture una gran vena; / E lu lassa i peneli e tiol la pena, / E presto, presto, el va la carta a tenser. / Mentre el scrive le Glorie pur de queli / E che ῾l toca le massime de l'arte, / Ghe vien un certo brilo, e tra' da parte / La pena, e torna a scriver coi peneli. / Talché lu de virtù xe un vero mostro. / Si el scrive, el stampa quadri de Pitura, / E in carta el fa un zardin de dicitura, / E ῾l so depenser xe de bon ingiostro.

Diremmo che, in ogni caso, le sue relazioni con i milieux degli artisti e dei collezionisti, frattanto, che furono di sicuro - e s'è visto - assai ampie, non dovettero implicare un suo impegno diretto e attivo nella dimensione del mercato artistico: in altri termini, da quel che sappiamo non emerge alcun elemento che possa indurci a sospettare un'attività del Ridolfi in quelle "senserie di quadri", cui s'applicarono un Gambarato, un Boschini, un Ranieri, ecc. Le dediche, infatti, dei due tomi delle Maraoiglie, rispettivamente ai fratelli Reynst e a Bortolo Dafino - cioè a personaggi tra i più in vista nell'ambito del mercato antiquario - solo apparentemente inficiano siffatta convinzione, giacché in realtà si tratta di dediche motivate in un senso molto specifico, posto che lo scrittore intende esaltare nei primi i magnanimi ῾protettori' dei pittori viventi e, al tempo stesso, idealmente, in quanto collezionisti, i protettori dei grandi maestri del passato; e nel secondo, del pari, lo splendido mecenate. Neppure esistono esplicite indicazioni circa un suo ruolo di puro consulente: che, al limite, potrà aver esplicato, ancorché sembri che l'utilizzazione del suo giudizio sia stata di regola dedotta dall'autorità della carta scritta delle Maraviglie piuttosto che da expertises d'occasione. È abbastanza evidente che Carlo da un lato opera in quanto produttore di ῾valori' estetici - tutt'al più, di rado, accetta di eseguire qualche copia di conclamati capolavori -; d'altra parte, si muove nel mondo degli artisti e dei collezionisti per appagare un proprio desiderio di informarsi: a un certo punto, in funzione del lavoro storiografico che veniva portando avanti e, molto probabilmente e precedentemente, rispondendo a suoi personali interessi di collezionista. Si sa, in effetti, che il Ridolfi aveva messo insieme, in un lungo giro d'anni, una formidabile raccolta di disegni, passata, non è chiaro se parzialmente o in toto, dopo diverse vicissitudini, alla Christ Church Library di Oxford, dove oggi si conserva: ed è sorprendente constatare come gli studiosi che della importante collezione ebbero ad occuparsi non ritennero mai di considerare l'ipotesi di una connessione tra l'esistenza di questa e la genesi delle Maraviglie: che, viceversa, è indispensabile e spiega parecchie cose. Della formazione della raccolta e delle sue successive vicissitudini, non sarà qui il caso di dire, rimandando alle circostanziate indagini del Muraro, del Parker e, sovrattutti, del Byam Shaw (171). Giova, tuttavia, prender atto della singolare omissione, da parte del Ridolfi, d'ogni accenno alla propria raccolta grafica nelle Maraviglie, dove è bensì riscontrabile, in svariate occasioni, per allusioni ma anche per indicazioni esplicite, una vivace attenzione dell'autore per il disegno. Tentare una spiegazione non è facile: diremmo, in ogni caso, che al momento della stesura delle Vite, Carlo non fosse più animato dalla passione di collezionista e avesse perduto buona parte del proprio interesse per la raccolta messa insieme (del resto nel testamento il possibile accenno ad essa è estremamente svagato), che doveva essere stato, a suo tempo, entusiastico. Sui fondi finiti ad Oxford, è consentito evincere la possibilità di fissare, frattanto in via provvisoria, gli estremi cronologici dell'impegno ridolfiano nell'ambito del collezionismo della grafica: 1630 -1638. È molto probabile però, ove si richiami il passo relativo alla visita, nell'estate del 1628, in "Casa del Signor Christoforo" Farinati per esaminare i fogli lasciati da Paolo, che il Ridolfi, sin da quell'anno almeno, venisse coltivando il proprio gusto e le proprie ambizioni di raccoglitore; né si può escludere che Carlo abbia continuato a cercar disegni dopo il 1638. Non molto dopo, peraltro: se ha qualche fondamento l'interpretazione, testé avanzata, del silenzio delle Maraviglie.

Come che sia, è qui che è suggestivo, e produttivo, porre la questione della genesi delle Maraviglie. Il Ridolfi, nella premessa "al Cortese lettore" del primo tomo avverte s'è detto più indietro - che "quando da principio [si] pos[e] a scrivere le Vite de' Pittori, non hebb[e] intenzione che di farne alcune poche per [suo] trattenimento"; altrove, nell'autobiografia, afferma d'aver dato "fine ad alcune poche Vite de' Pittori incominciate" in momento imprecisato e che sarebbe vano possiamo ormai ammetterlo - tentare di precisare. Laddove è legittimo ritenere che l'impegno di "dar fine" sia da condurre verso lo scadere del quarto decennio, giacché appare, per dichiarazione dell'autore medesimo, in rapporto con la ῾mancata' realizzazione, e la conseguente delusione, della "nominatione di una gratia" - s'è pure veduto -, vagheggiata dopo una fase di attività pittorica che, tutto sommato, dovette più o meno colmare gli anni Trenta. Ma è sull'affermazione d'aver iniziato a scrivere per "trattenimento", che val la pena di meditare. Non mi par convincente spiegare l'espressione come svago puro e ῾immotivato'. Vale a dire: se pur si consenta, e può star bene, che Carlo avesse cominciato a raccogliere appunti su questo o quell'artista per suo gusto, escludendo ogni altra ῾prospettiva' che non fosse il proprio "trattenimento", occorre rintracciare un pretesto che non basta riconoscere nella nota e spesso dichiarata inclinazione letteraria. Infatti: perché vite - anzi, semplicemente, tracce, abbozzi informali di vite - di pittori? Sappiamo che il Ridolfi sfogava poetando - e, dunque, più conseguentemente e, insieme, più compiutamente - le sue ambizioni. Siamo persuasi che la spinta a mettere insieme notizie su pittori e che, insomma, il pretesto ad ῾incominciare' sia da porre in rapporto con l'esistenza della collezione grafica: che, in altri termini, il "trattenimento" di Carlo sia consistito, all'avvio, in una schedatura di notizie sugli autori dei dossiers più consistenti dei disegni raccolti. Non c'è dubbio, in effetti, che il lavoro, in codesta fase (cui potremmo tentare di assegnare la cronologia, suppergiù, ipotizzata circa i tempi della raccolta), mancasse di qualsiasi organicità e partisse da motivazioni del tutto occasionali o casuali. Il Reni, nella lettera del 27 giugno 1642, pubblicata nella sezione introduttiva del primo torno delle Maraviglie, attesta che l'autore, alla data, benché intenzionato a concludere e a pubblicare altre Vite di pittori, non aveva ancor compiuto il disegno di un discorso monografico, e di struttura storiografica, sulla vicenda della pittura veneta, ma inclinava a realizzare una sorta di insieme antologico di svariate biografie: tant'è vero che, su precisa richiesta del Ridolfi, s'impegna a fargli pervenire "la nota di alcune [sue] pitture [...] per restar honorato della sua penna". Inoltre, Carlo stesso, nell'avviso ai lettori preposto alla Vita del Tintoretto del 1642, annuncia sì il progetto di un'opera organizzata grosso modo nei modi di quella cui di fatto s'applicherà, ma non esclude affatto di poter stendere in avvenire "vite" di "pittori esteri". Del resto, a prestar fede all'autobiografia, quel progetto non doveva prevedere più che una sequenza di "alcune vite", ovviamente esemplari e certo distribuite cronologicamente.

In ogni caso, riconosciuta così la genesi prima del lavoro ridolfiano, è indispensabile rintracciare le ragioni del transito da una schedatura generica, condotta per piacere personale e in ambito privato, a una elaborazione e organizzazione unitaria dei dati in vista della pubblicazione. I suggerimenti e le esortazioni degli amici letterati - dapprima, Pietro Michiele, il Berardelli, Giambattista Settimo (172): presenti nella sezione introduttiva della biografia del Tintoretto - ebbero un posto decisivo, riconosciuto dall'autore e dovettero giocare un ruolo significativo nella scelta ῾veneta' delle vite da organizzare e stendere. Scelta che però si preciserà lucidamente e in termini definitivi anche riguardo l'impostazione generale, dopo l'apparizione della Vita del Robusti - una scelta, non va trascurato, che appare in riga con l'"insurrezione" antizuccariana indietro constatata non meno che con la più tarda chiamata, su cui oltre insisteremo, di Francesco Pianta, a sottolinearne i prodigi pittorici della sala superiore di San Rocco -, su ulteriori sollecitazioni di una più larga cerchia di letterati e, molto probabilmente, dei funzionari culturali della Serenissima, il cui governo aveva apprezzato il saggio pubblicato.

È indispensabile, pertanto, affrontare finalmente l'altro compito che ci eravamo proposti, della concreta identificazione del mondo di cultura, in cui il Ridolfi si trovò ad agire e da cui dunque venne, all'evidenza, condizionato. I nomi degli amici letterati, che l'autore esibisce al modo che s'è visto editando le Maraviglie, rinviano a una dimensione unitaria; e si tratta, in altri termini, di personaggi appartenenti, i più, ai ranghi dell'aristocrazia, impegnati spesso in rilevanti responsabilità politiche, ma del pari rivolti all'organizzazione privata di forme culturali e anche applicati, in prima persona, ad attività intellettuali - letterati dilettanti, dunque -: ma che pur sempre appaiono vicendevolmente legati comunque, ai vari livelli, da disposizioni, da orientamenti e da aspirazioni comuni, e che, in quanto tali, compongono un gruppo sostanzialmente omogeneo, se pur complesso per la molteplicità disordinata e, talora, divagante degli interessi, di cui però tutti, in egual misura, partecipano. Siamo al cospetto, a voler metterne a fuoco la morfologia, di una delle zone più interessanti di quel "fitto e intricato sottobosco culturale" - disegnato con efficacia dal Benzoni - "sostanzialmente estraneo agli inquietanti fermenti ed agli eversivi sviluppi impliciti nella nuova scienza galileiana e nelle impostazioni sarpiane, spesso neppur sfioratone": chiuso imperterritamente "nelle sue divagazioni erudite, cicalate accademiche, garrule tenzoni, versi d'occasione e lettere attentissime nella dosatura dei titoli e dei complimenti". Una rigorosa "ortodossia religiosa", una "soddisfatta e facile professione d'aristotelismo ad oltranza", una fede assoluta nella parola scritta e stampata - e quindi una pedante passione libresca -, un atteggiamento di marinismo spesso altrettanto fanatico che incapace di serie motivazioni, l'autocompiacimento personale se non proprio di casta, e gentilizio: ecco alcuni tra i più vistosi elementi di connotazione (173). L'accademia, s'intende, è la palestra dove più convenientemente poteva organizzarsi ed esplicarsi l'esercizio di siffatte disposizioni. I personaggi che ci interessano gravitano più o meno tutti nell'ambito della consorteria degli Incogniti, fondata, sin dal 1636, da Gian Francesco Loredano, che si propone, in certa guisa, come l'ideologo del gruppo culturale sul quale stiamo indagando: "L'Accademia non è altro [scriverà sinteticamente] che un'Unione di virtuosi per ingannar il tempo, e per indagare tra le Virtù la felicità". Nel raggio degli Incogniti dovette, dunque, inserirsi il Ridolfi, pur senza godere del privilegio, negato alla sua situazione economica ed alla sua condizione sociale, d'essere associato ai ranghi accademici, allo stesso modo di altri ῾artisti' assunti al servizio di quell'ambiente, i più in vista tra i quali, poi, a conferma del nostro tentativo di ῾inquadramento', sappiamo essere stati precisamente quelli con i quali Carlo era legato da vincoli d'amicizia ed ebbe consuetudine, Francesco Ruschi e Jacopo Picini, avanti tutti, ricordati nel testamento. Possiamo in ispecie, dopo gli studi del Baldassarri e dell'Auzzas, asserire che nel mondo degli Incogniti non dovettero mancare, per esempio, fermenti nuovi, e, potenzialmente, innovatori - benché alla fine appaiano soverchiati dal prevalere delle denunciate attitudini più convenzionali e chiuse e retrive (174). E si capisce, soltanto che si controlli l'estrazione di classe dei componenti, la quale ῾s'informa' in una rigida posizione di conservatorismo politico e, appunto, a livello di coscienza culturale, rifiuta ogni spinta avanzata, in quanto eversiva. "Gl'interessi d'una Accademia [annota ancora il Loredano] e quei d'una Repubblica, caminano per mio sentimento coi medesimi passi" (175). Dopo quanto, indietro, si è colto, analizzato, interpretato, l'affermazione è, nella sua lapidaria laconicità, di folgorante eloquenza. L'esaltazione della patria diventa un motivo ricorrente e vistoso dei cimenti accademici, ma la nozione di patria è ovviamente fusa e identificata con un certo assetto, cristallizzato su ben determinate strutture, della società e delle istituzioni capaci di garantirne la sopravvivenza.

Abbiamo, dianzi, constatato il ripiegamento della produzione pittorica e della riflessione teorica sui valori `riconosciuti' e sovrani della tradizione cinquecentesca. Ed ecco, allora, che il transito, nel definirsi della genesi delle Maraviglie, da una ῾schedatura' di notizie, fatta per personale "trattenimento" in margine all'ordinamento di una privata raccolta grafica, alla definizione di un discorso organico, appare sottintendere l'affermazione di un progetto ideologico, maturata nel momento storico che abbiamo tentato di disegnare per sommi capi, mediata e specificamente promossa da una delle situazioni più tipiche (il circolo culturale degli Incogniti) espresse da quella congiuntura. Pare indubitabile che le prime esplicite sollecitazioni, probabilmente intorno al 1640, tendessero a spingere il Ridolfi a realizzare non altro che una ῾galleria' di elogi biografici, dedicati a pittori veneti s'intende, ma paratatticamente disposti e non ancora sintatticamente legati in una costruzione storiografica, coerente con una tendenza impersonata da alcuni protagonisti dell'ambiente frequentato da Carlo: e si pensi, quanto meno, agli Elogia Patritiorum Venetorum di L. Crasso junior. Ma l'approdo, infine, al disegno conclusivo si spiega senza difficoltà in relazione a disposizioni, forse meno esplicite, presenti in quell'ambiente stesso: e, in genere, congeniali ai personaggi dell'aristocrazia che, sul piano della responsabilità di governo, venivano decidendo i criteri e gli indirizzi di quella che il Cozzi ha definito "pubblica storiografia" (176). Si potrebbe, anzi, pensare che al Ridolfi venisse qualche incoraggiamento ufficioso, dopo l'approvazione ufficiale da parte del senato del saggio edito nel 1642 e dedicato - insistiamo - al Tintoretto, da qualche membro del consiglio dei dieci, cui spettava l'elezione degli storici impegnati a scrivere per "pubblico decreto": e sia pur come spinta del tutto esterna, destinata a trovare terreno fertile in una mentalità già predisposta, alla quale, d'altra parte, le implicazioni ῾patriottiche' del progetto dovevano finir per imporre un ovvio richiamo polemico al Vasari e la necessità di un confronto sistematico, da condursi articolando gli stessi strumenti di metodo utilizzati dal Toscano. Il termine cronologico, cui riferire la definitiva e lucida maturazione di un disegno storiografico generale può essere indicato, peraltro in maniera un poco vaga, all'indomani della pubblicazione, nel 1642, della biografia del Robusti: e, diremmo, dopo il giugno di quell'anno, allorché la lettera di Guido Reni testimonia ancora le incertezze che abbiamo già considerate. Quanto ai limiti della fase propriamente operativa della stesura delle Maraviglie - che impegnerà decisamente il nostro, staccandolo provvisoriamente dall'attività pittorica e forse definitivamente dalla passione per il collezionismo - potremmo fissarla, per il primo tomo, tra la fine, probabilmente, del 1642, e il giugno del 1646, segnato a piè della dedica ai fratelli Reynst; e, per il secondo torno, tra il 1646 e il giugno 1648, che sigla la dedica a Bortolo Dafino.

Le Maraviglie si dipanano lungo le linee di un programma che sconta significativamente, e senza fornire preliminari esplicite giustificazioni teoriche, l'eccellenza della pittura, e che si fonda su alcuni capisaldi: le origini mitiche della attività pittorica; un breve disegno della vicenda classica, sino alla decadenza conseguente alle "molte incursioni de' Barbari"; l'avvio del rinnovamento "ne' moderni tempi [...] in Venezia", promosso dall'avvento di "greci pittori", dapprima implicati nella decorazione musiva di San Marco e quindi operosi "a dipingere con le stesse forme [...] sopra delle tavole imagini varie de' Santi [...] prima che la pittura fosse introdotta in Firenze, come riferisce il Vasari"; le fasi ῾progressive' del rinnovamento dalle prime espressioni ancor imperfette sino alla compiutezza d'espressione identificata nella grande tradizione cinquecentesca; il panorama contemporaneo, che già include i presagi della decadenza. Lo sviluppo dei primi tre punti del programma è assai breve e resta relegato nella introduzione generale: si risolve in una pedissequa e schematica esposizione delle più ovvie fonti ῾classiche' tra le quali Plinio emerge come magna pars, e recupera, per quel che riguarda l'individuazione delle origini e del primato della pittura veneziana, suggerimenti di Francesco Sansovino e del Sabellico. L'articolazione successiva del discorso si svolge in una sequenza di profili biografici: perché - avverte il Ridolfi - solo a partire da un certo momento relativamente avanzato, e agganciabile grosso modo all'inizio del Quattrocento, è dato disporre di ῾qualche notizia' e di "Pitture" ancor esistenti, vale a dire degli elementi indispensabili a strutturare un discorso biografico. Le "vite" sono distribuite in rispondenza a una doppia esigenza: di correttezza cronologica, che non manca però di scarti anche sensibili, e di raggruppamento, per così dire, regionalistico nel contesto geografico dello Stato, che sottintende un impegno abbastanza consapevole di cogliere, ma ancora con inevitabili scarti sempre imputabili a carenze o a disinvolture d'informazione, la peculiarità di momenti originali, e insomma il caratterizzarsi di scuole improntate da modi originali, in una dimensione nella sostanza unitaria e in ogni modo condizionata e ῾diretta' dai pittori veneziani, cui è di continuo riconosciuta la funzione di guida e di stimolo. All'interno dei vari raggruppamenti, inoltre, il Ridolfi riconosce e mette in evidenza gli esponenti di maggior rilievo, contornandoli delle figure giudicate minori, che vengono più rapidamente, talora fuggevolmente, presentate. La struttura `interna' delle biografie manca d'articolazioni rigorose: gioca, di regola, tra i poli costituiti dagli estremi biografici, entro i quali solo di rado colloca altri punti di riferimento cronologici, per lo più un'elencazione delle opere quasi mai regolata dall'agganciamento a una successione ordinata di date e, piuttosto, suggerita dall'opportunità di raccogliere in base a situazioni topografiche, identificate e distribuite senza motivazioni evidenti.

Una siffatta impalcatura è infiorata dalle così spesso lamentate divagazioni moraleggianti, ampie descrizioni, inserti in versi - dell'autore e d'altri -, di citazioni, in omaggio al criterio dichiarato dall'autore nella dedica ai Reynst: le Maraviglie intendono costituire una "Historia mista di Pitture e di racconti [...] riferendosi in questa fatti egregij d'Heroi, attioni pie, morali componimenti, dilettevoli racconti, riferiti dagli Historici, cantati da Poeti, e coloriti da' Pittori".

Ne vengono fuori profili che si connotano ben diversamente da quelli vasariani e che rispecchiano, appunto, il momento e il mondo culturali così differenti, ai quali il Ridolfi apparteneva: e si chiarisce come l'assunzione del metodo dell'aretino sia, allora, sostanzialmente esteriore e formale. La formula biografica - per usare la terminologia del Kris - appare composta da diversi ingredienti e configura un diverso tipo d'"immagine dell'artista": e codesti ingredienti si possono riconoscere in alcuni topoi, che è facile fissare. La virtù, che sola può sollevare l'uomo alla grandezza e agli onori, e che fa grande l'artista, "raggio di gratia che Dio si compiace concedere a pochi", è tuttavia misconosciuta e "chi mangia il [suo] pane" gode di poca fortuna perché ben poco offre di soddisfazioni pratiche, quantunque sia destinata al premio della gloria: "ha per confine la gioia e i contenti, ma [...] termina con gli stenti e le fatiche", giacché il "Mondo" tende a tenerla "in soggezione" ed a perseguitarla. Al concetto della virtù sono collegati quello dell'invidia, che "non può patire di vedere il galant'huomo [cioè colui che possiede virtuosi talenti] sollevato ad alcuna grandezza"; e che si collega alla nozione di "competenza", destinata sovente a privilegiare l'inetto; e quello della fortuna che, variabile e capricciosa, "non perpetua i suoi favori, né gli stabilisce [...] compartendo" indiscriminatamente i suoi doni esteriori, dei quali tende a lasciar privo proprio l'uomo virtuoso: in un quadro di "umana condizione" desolato, e dominato dalla presenza ineluttabile, ma sola capace di riscatto della morte, per chi abbia operato virtuosamente, nella prospettiva della gloria. La costruzione della vita dei pittori - dei protagonisti, s'intende: degli ῾eroi' - e l'affermazione del loro `mito' sono impalcate su codeste coordinate, che giustificano le ῾divagazioni' più frequenti, con tutto che la ridondanza che le impronta incrini spesso la nitidezza dell'"immagine" biografica. Per altro verso, il Ridolfi si rivela privo di una sicura capacità di giudizio sui fatti stilistici, di fronte ai quali si pone: e, se pur è innegabile una sua abilità a muoversi con una certa penetrazione sui tempi lunghi, raramente riesce a ῾centrare' e a qualificare con chiarezza la originalità di una singola e singolare dimensione formale. I suoi criteri sono generici, vaghi: affidati ora alla pratica condotta nell'ambito del bottegone dell'Aliense e, insomma, alla sua esperienza di artista attivo nel milieu pittorico di Venezia durante la prima metà del Seicento, ora a basi teoretiche dalle componenti alquanto raffazzonate e disorganizzate - luoghi comuni del contemporaneo pensiero sull'arte, assunti con la mancanza di rigore e l'improvvisazione dell'autodidatta -: il tutto aggravato da un'inettitudine problematica, costituzionale e, al tempo stesso, ancora inerente al mondo frequentato e ῾rappresentato'.

Condizione prima - metafisica, vorremmo dire - della riuscita nell'arte è, per il Ridolfi, il "naturale talento", che dipenderebbe, giusta Aristotele, dalla qualità delle temperature ed è rapportato, in quanto "natura", alla volontà divina intesa come Provvidenza; da esso si determina l'intelletto, dalla cui funzione attiva poi hanno origine le "Arti più belle" e, in particolare, la pittura. Tuttavia, l'indispensabile predisposizione richiede un'applicazione sistematica e severa - a guisa delle piante, che "coltivate da industre giardiniero si rendono più vaghe e speciose all'altrui vista" -: il conseguimento della "cognizione di più cose" (storia, teologia, poesia, ecc.) da un lato, e l'esercizio continuo di "operazioni" destinate a produrre "effetti più purganti" dall'altro. Trattasi, in sostanza, di una affermazione della nozione di studio, che ha da essere rivolto all'indagine delle leggi oggettive che regolano la natura e alla meditazione sulle "opere di detti Maestri" (ovviamente identificati nei protagonisti del Cinquecento veneziano), in termini, nell'un caso e nell'altro, non pedissequamente imitativi o disponibilmente eclettici, ma stimolatori della personalità e dell'originalità; una fase essenziale intermedia, e da superarsi, nel processo verso la liberazione dell'autonomia creativa, è costituita dall'applicazione al disegno. Ciò premesso, il Ridolfi si preoccupa anche di recuperare alla sua concezione dell'arte (della pittura) un'irrinunciabile finalità devozionale, ma si mostra disorientato, come si diceva, allorché è costretto a misurarsi con mondi concreti di forme. Riconosce quale contrassegno stilistico dell'"antica" (quattrocentesca) pittura, la diligenza, intesa come accuratezza e morbidezza e, benché talora ne denunci le limitazioni, in quanto risolvibile in un "compiacere con finimenti" che blocca la libertà creativa del ῾non finito', appare più spesso, e più superficialmente, portato a constatare semplicemente il superamento dei "moderni tempi": in una dimensione storica, cioè, che la esclude imponendo un nuovo e martellante ritmo di commissioni. Laddove la possibilità, interessantissima, di un discorso davvero storico s'arena sulla sabbia di considerazioni esteriori e più banali. D'altronde, il Ridolfi non sa, poi, definire e opporre alla nozione di diligenza il concetto di un modo più avanzato e pertinente: i suoi riferimenti al capriccio e all'artificio sono sempre incerti, oscillanti e condizionati dal richiamo all'esigenza dell'ossequio per le regole di natura, di simmetria, ecc. Il "ben dipingere" accreditato ai grandi maestri del Cinquecento, consiste in un impegno non imitativo ma accrescitivo del dato naturale (e in tale affermazione possiamo cogliere il massimo d'approssimazione al richiamo boschiniano all'"occhial di Galileo"), capace di contenere con questo "di gratia, di bellezza, di virtù" e fondato sulla "franchezza nell'operare", che non ha da essere "arrischiat[a]" oltre quei certi limiti d'ossequio e rispetto, e che sta nella capacità di adeguare la "mischia de' colori" e d'effettuarne la manipolazione, in rapporto con l'originalità di trasfigurare - cioè d'"inventare" le scelte tematiche e d'interpretare la realtà oggettiva. È la descrizione verbosamente letteraria che finisce per sostituire, così, nel Ridolfi l'individuazione di specifici e irripetibili valori stilistici: e descrizione, il più delle volte, ovviamente, dei soggetti che non di un tessuto pittorico in quanto tale; talché, per un verso par difficile poter correttamente estrapolare dal discorso ridolfiano qualcosa più di una generica e approssimativa definizione dei tempi stilistici degli artisti considerati (per giunta, solo in pochissimi casi); e, per altro riguardo, è impossibile cogliere una coscienza critica del dibattito contemporaneo sulla maniera. Il disorientamento dell'autore, financo al livello assai modesto della connoisseurship, è inevitabile e si evidenzia in numerose occasioni nelle Maraviglie e, a piena conferma, già prima, nell'organizzazione della raccolta grafica, dove le attribuzioni segnate in margine ai fogli collezionati rispecchiano, nelle loro storture a volte incredibili, non semplicemente un'incapacità di discriminare al livello della qualità, di cui non sarebbe corretto attribuire la responsabilità allo stadio storico di modesta disponibilità di strumenti in quell'ordine (molti "sensali" contemporanei sono ben altrimenti avveduti), ma che nascono invece su un terreno particolare d'effettiva sprovvedutezza. Nelle Maraviglie il Ridolfi supplisce alle proprie deficienze - non conta stabilire se ne avesse la consapevolezza o no, com'è più probabile - rinviando e affidando la garanzia dei giudizi attributivi intanto pronunciati all'autorità degli "intendenti": ai testi scritti ovvero alle fonti documentarie in senso lato, ovvero - da ultimo - a qualificate indicazioni orali. È ovvio che un simile atteggiamento imponesse il dovere della più rigorosa informazione, e il ricorso a tutti i mezzi di documentazione disponibili: però, senza alcuna implicazione problematica; ed escludendo l'urgenza di un dibattito e, alla fine, di una propria, personale mediazione. Su questo piano dialetticamente si legano, e saldano - per venir al nocciolo della questione che più ci preme - l'inattitudine teorica dell'autore e l'impegno di raccogliere e trasmettere la maggior mole possibile di notizie, come momenti necessariamente complementari: ond'è consentito in ultima analisi, ma in tal guisa, stabilire il grado e i modi pertinenti d'utilizzazione attuale e oggettiva delle vite, da parte degli storici dell'arte veneta. Le vite, una volta di più, pertanto, s'affermano come il prodotto coerente di un momento di storia e di cultura - quello che abbiamo cercato più indietro di determinare - molto preciso e definito: e, a voler proporre e ribadire qualche richiamo che valga a designare nessi concreti, s'agganciano alle disposizioni di Gian Francesco Loredano e a quelle di Angelico Aprosio di Ventimiglia (vicinissimo del resto al Loredano e attivissimo nel giro degli Incogniti), che brevissimamente già c'è avvenuto di rammentare, ma la cui fanatica vocazione erudita, lo sfoggio per la citazione, l'indulgenza per le riflessioni moraleggianti, il compiacimento per la divagazione spesso inopportuna dovettero profondamente colpire il Ridolfi, imponendo altresì, nei termini che s'è visto, lo scrupolo rigoroso per la severa documentazione, come fondamento inalienabile del discorso svolto.

Tuttavia, ci troviamo, in ultima istanza, al cospetto del disegno dell'orizzonte, sbalzato da "ricche minere" di "gioielli" e "maraviglie", di un ῾mito' della pittura veneziana speculare a quello della città e capace di resuscitarsi e offrirsi alle esigenze di un peculiare universo storico, sociale e culturale, che l'"ordinaria forma non alletta".

Un "drappello di oscuri simboli"

Lo straordinario programma iconografico dispiegato, oltre la metà del secolo XVII, da Francesco Pianta junior nella sala superiore della Scuola di San Rocco risulta stupefacente a chiunque lo voglia osservare, anche col maggiore dei distacchi. L'occhio distratto del visitatore frettoloso spesso neppure si accorge della presenza di siffatto, incredibile, scultore, totalmente rapito com'è dalla schiacciante preponderanza dei teleri tintoretteschi che addobbano l'intero vano. Eppure quei dossali lignei attirano i più attenti e curiosi non solo per l'elevata qualità stilistica, ma anche per una loro quasi indefinibile peculiarità che ben li contraddistingue dall'opera di Jacopo Tintoretto, alla quale, però, appaiono finalizzati: e, dopo quanto indietro s'è visto, non è di poco conto. Il confronto col maggiore pittore avrebbe di certo preoccupato molti artisti e probabilmente non mancò di spaventare il Pianta stesso al momento della commissione: impegno che tuttavia si assunse pienamente, con la responsabilità di impalcare un complicato programma in grado di reggere di fronte alla potente macchina scenografica del Robusti.

Oggetti, i più svariati e banali della quotidianità, corpi deformi, sguardi stralunati, lunghe finte pergamene che sciorinano prolissi ragionamenti tratti liberamente dall'Iconologia di Cesare Ripa, astruse allegorie non sempre facilmente riconducibili ad una precisa fonte d'ispirazione, il tutto sembra davvero una galleria dell'assurdità, che una mente bizzarra abbia inteso realizzare allo scopo apparente di prendersi gioco, dietro la serietà degli argomenti, dello spettatore perplesso ma ignaro. L'insieme delle, a dir poco, strane raffigurazioni si pone all'attenzione dei riguardanti come sorta di "geroglifici", secondo la definizione stessa che ne dà l'autore, quasi una sciarada da dipanare. Cosa legheranno assieme l'Avarizia, l'Onore, l'Ignoranza con Cicerone in difesa della scultura, il Biasimo vizioso con l'Abbondanza, la Malinconia con l'incredibile ritratto del Tintoretto?

L'intento pedagogico, proprio dell'Iconologia - vera e propria retorica illustrata -, di dare immagini alle parole, rappresentando le bellezze delle virtù e le bruttezze dei vizi, affinché "questi si fuggino e quelle si abbracino", è oscurato dal singolare mosaico di citazioni per lo più derivate da tale fonte appunto (convocando, all'occorrenza, Virgilio, Isidoro, Platone, Galeno, Cicerone, san Tommaso, sant'Agostino) e dalla ridondanza di attributi che il Pianta allega alle sculture: è il tentativo di ricavare un nuovo ordine, dando vita, secondo Praz (177), alla spiegazione che nulla spiega che anzi complica e, divertita, sovverte ogni ordine. Si avverte in pieno lo smarrimento della ragione, che sembra qui fare ῾cilecca', non già, insistiamo a crederlo, per la pochezza dell'ideatore del complesso, quanto per una peculiarità imputabile al particolare momento storico, laddove le argutezze recondite di un Tesauro qui si risolvono in una cortocircuitazione concettuale, nel sonno ῾innocuo' della ragione. Senza apparente spiegazione la grande sala della Scuola di San Rocco si popola di figurazioni allegoriche di contenuto vagamente moraleggiante, avulso tuttavia da qualsivoglia, se non minimo, riferimento religioso. Il profano, che diventa la parola d'ordine dell'esperienza barocca veneziana, e lo abbiamo ben veduto, entra persino nel luogo del più alto dispiegamento della spirituale e drammatica religiosità tintorettesca. Che un recondito intento ironico e dissacratorio appartenga al progetto del Pianta è quanto spesso sostenuto da molti studiosi, e le prove sarebbero davvero innumerevoli; quando tuttavia è preferibile, a parer nostro, vedere nel complesso l'intenzione di una mente, forse allucinata, di creare qualche cosa di veramente originale, usando il linguaggio del suo tempo, retoricamente molto caricato e ridondante, che solo per un leggero scarto si scosta dai complessi scultorei contemporanei, che contengono in nuce i germi del grottesco (si rammentino almeno i draghi e i cammelli mostruosi di Merengo e Le Court per i monumenti di importanti committenti succitati). In un turbinio immoto di immagini, che stupisce per l'invenzione fantastica di vizi debellati e virtù praticate, l'intelletto nell'immediato desiste e si arrende allo sconcerto che si instilla anche nella mente del più paziente visitatore il quale, inoltrandosi nel salone, si soffermi a tentare di leggere la lunghissima finta pergamena, scritta dal Pianta stesso e dipanata da un Mercurio quale dotta spiegazione dell'incredibile rappresentazione. Ma chiunque all'epoca avesse frequentato la popolarissima lettura dei libri di emblemi e simboli non avrebbe faticato a riconoscere, nelle prime parole sciorinate da Mercurio, la prolusione che introduce la celeberrima Iconologia del perugino Cesare Ripa, attinta dall'edizione veneziana, stampata per i tipi di Cristoforo Tomasini, del 1645 (178).

Il davvero complicato programma realizzato dallo scultore a San Rocco merita uno sforzo esegetico ulteriore per superare gli sconfortati giudizi finora espressi sul presunto significato sotteso alle sculture. Il senso ultimo del complesso pare a noi legarsi in maniera imprescindibile dal, per nulla invidiabile, confronto che il Pianta, come già accennato, dovette istituire tra la propria arte e quella del Robusti. Dalla prima all'ultima delle rappresentazioni è una orgogliosa e ostentata dimostrazione della nobiltà della scultura, che senza nulla togliere all'arte sorella della pittura, ma che a questa si dichiara superiore, opera quasi secondo un processo alchemico per trasformare la bruta realtà delle cose nella quintessenza della perfezione della verità spirituale. Dalla "negrezza" dell'improduttiva condizione melanconica, espressa nel primo dossale, si giunge al possesso, nella contorta figura di Ercole posta al termine del percorso, della solare verità "che dimostra quel che è" 179), come fa l'arte della scultura equiparata dal nostro artista al simbolo solare (180).

Ma procediamo con ordine per non smarrirci nel ginepraio della sovrabbondanza piantesca. Nella succitata pergamena, retta da Mercurio (che è il vero psicopompo, la chiave per la comprensione dello scenario iniziatico) posto all'entrata del salone, leggiamo innanzitutto una dichiarazione programmatica che riconduce l'esperienza culturale dell'autore non solo entro il recinto della conoscenza del fondamentale testo di Cesare Ripa, che egli possedeva in più edizioni nella propria biblioteca, quanto nell'oscuro, per definizione, complesso della tradizione ermetica. Se l'intento fondamentale è di rappresentare in questa sala la bontà dell'agire virtuoso da contrapporsi all'orribile e controproducente destino di una vita preda dei vizi, tale messaggio si intende non a caso affidare alle "favole" e ai "geroglifici secreti" propri dell'occulta filosofia ermetica. Trattasi, in questo secondo punto, della ripresa quasi testuale della spiegazione che il Ripa dà dell'immagine della Filosofia (181), la quale Francesco, in questo come in altri casi, provvede ad estrapolare dal suo contesto per dimostrare la propria tesi.

Il complessivo itinerario che vogliamo definire iniziatico (e questo viene dallo stesso scultore ribadito nella tappa ove si raffigura la Speculazione nel secondo riquadro, sottolineando la necessità di procedere pazientemente e andare ancora avanti per portare a compimento l'opera: "se prima non si sarà fatto l'opera non devo dir se non ET ITERUM") si configura davvero come la lotta erculea e virtuosa dell'artista, che compie l'opus magnum, cioè che "per mezzo delle fatiche, è arrivato alla scienza delle cose, et all'immortalità del suo nome" (dossale dell'Honore). Dal primo geroglifico, che lo stesso Pianta ci indica, riconosciamo una originale Melanconia in figura di uomo intabarrato e triste, lo sguardo fisso e pensoso e forse sofferente, aspetto che - come la stessa spiegazione fornitaci nel cartiglio - viene giustamente ricondotto all'Iconologia, dove però la personificazione è al femminile. Non si spiega tuttavia la presenza dell'orologio con il simbolo solare, del mantice e del fuoco. Dell'orologio Praz trova riferimento nel testo del Ripa quale attributo della prelatura, giudicandolo tuttavia "incongruo" in questo contesto, poiché "il Pianta non porta che confusione e cumulo di parti non pertinenti" (182). Che sia prima intenzione del nostro intagliatore di attingere per la medesima allegoria, giustapponendo in un complicato montaggio le spiegazioni all'apparenza più inconciliabili del perugino è cosa scontata, ma non passibile di simile severità di giudizio che è quasi stroncatura della possibilità stessa di trovare un senso a questa lunga teoria di immagini. Non enumeriamo ancora le comprensibili affermazioni sull'"incoerenza della fantasia" dell'artista. Sarebbe inoltre troppa fatica affrontare in questa sede l'analisi dettagliata delle rappresentazioni allegoriche approntate dall'estro del nostro bistrattato e incompreso. Possiamo, nel difficile tentativo di indovinare la chiave interpretativa del complesso, che poi volentieri si può consegnare ad altri, cogliere unicamente le emergenze significative del programma in questione. Ritornando dunque alla Melanconia, riteniamo scorgere, negli attributi succitati, l'indicazione sommaria di un laboratorio alchimistico, dove acquista rilevante significato (oltre alle scontate raffigurazioni del soffietto e del fuoco) l'orologio, con il simbolo del sole al centro, a scandire i momenti del delicato procedimento della trasformazione della materia (183). Simbologia alchemica acquisita nella fattispecie per dimostrare metaforicamente la ῾scientificità' - "omnia cogito" sta scritto su un cartiglio portato dalla suddetta allegoria - dell'operare artistico e più precisamente dello scultore. Arte, opera, opera operata, operazione, operare, trasformazione, investigare, ragione, intelletto, cognizione, eloquenza, sapienza, lanterna, lume, luce, sole, verità, giustizia, bene e male, virtù e vizio sono i termini continuamente ricorrenti nel cartiglio esplicativo, assieme a scultura, pittura, officina, fucina, fabbrica, fabbro, tenaglie, molletta da foco, melanconia. Locuzioni, ripetute fino quasi alla noia e, la maggioranza, ῾smontate' dal Ripa, parlano di promessa del conseguimento della solare verità per mezzo della virtuosa operazione artistica, che è già propria dell'eloquenza. Il concetto ripreso da Emanuele Tesauro sulla loquacità delle forme scultoree, viene sviluppato quale assunto ideologico fondamentale del Pianta (184). L'orologio, già usato per definire la Melanconia, diviene, nel Cicerone in difesa della scultura, anche attributo dell'arte dello scalpello - che è, ribadiamo, l'altra faccia della retorica -, in quanto l'"orologio significa che le parole sono strumento dell'eloquenza le quali però devono essere adoperate in ordine et misura di tempo", laddove si sentono riecheggiare le lontane teorie di Giulio Camillo Delminio sull'identità tra retorica ciceroniana, arte della memoria, scultura, come parte integrante del suo Theatro, e alchimia (185). Non riteniamo categoricamente, allo stato attuale delle nostre conoscenze, essere stato Francesco un volgare praticante della scienza occulta, quanto essersi piuttosto servito dell'oscurità concettuale propria della tradizione ermetico-alchemica per sostenere, sotto i velami del mistero ("gli Egitti occultarono la filosofia sotto oscuri velami di favole e geroglifici secreti"), la straordinaria e vitale importanza del suo nobile mestiere, con fortissimi accenti di individualistica esagerazione, rientrando ciò perfettamente nell'atmosfera intrisa di personalistiche esaltazioni che caratterizzava il suo tempo. La verità era per il mitico Ermete Trismegisto (Mercurio appunto) logos, idea, ovvero solare e luminosa forma: e più si avvicina alla perfezione dell'essere la scultura, che è perfetta ed eloquente conoscenza della verità del mondo, che non la pittura che "a paragone della scultura è Buggia e la scultura è la Verità", come sostiene Cicerone nella sua difesa. L'Ignoranza significa invece assenza della luce solare: illuminazione che permette nella Distinzione del bene dal male di investigare "li secreti della natura". La Difesa della pittura, in questo accidentato e dialettico percorso - che non esclude, ma anzi ricerca l'antitesi, la ῾complicazione' - dove stanno in agguato perniciosi vizi pronti a distogliere il virtuoso dal suo cammino verso la perfezione morale, non si fa tuttavia attendere e sarà proprio per bocca del Tintoretto che essa affermerà la propria dignità e superiore utilità nella difficile operazione che avviene nel laboratorio della "Fabbrica della pittura", il luogo del raggiungimento della conoscenza: come la poesia anche la pittura significa "per via dello studio [...] accostarsi al reale delle cose". La Scienza, lo Scrupolo, l'Honore, e via dicendo compongono la miscela della perfetta opera che alla fine rende salvi e permette di "indagare [...] con grande amore et honor": cioè "honorar la madre pittura et con l'Amore la mia Arte scultura". E qui si conclude l'itinerarium mentis del neofita, finora pazientemente accompagnato dalla spiegazione del suo Ermes, oltre cui si spalanca - negli ultimi dossali sotto le finestre della parete verso il campo - la dimensione del sacro nella figurazione delle virtù teologali, che il Pianta riconduce a una misura squisitamente personale accompagnandole con vari discorsi o "razionazioni" di cui ci interessa, in questa sede, evidenziare particolarmente il motto a coronamento della Speranza - proprio sottostante l'Ercole di cui si parlerà - così recitante: "Quasi Sol ego Sculptura exaltata sum in mundo", che, saltando le altre, non meno significative, scritte che l'accompagnano (tra cui sta persino l'apoteosi di Michelangelo scultore), ci porta alla visione ultima, indicibile, non connotata da alcuna frase esplicativa, dell'Ercole seminudo con la pelle del leone Nemeo e disco solare ostentato nella mano sinistra, posto con privilegio a giganteggiare in uno spazio ristretto tra le finestre al centro della parete, proprio dirimpetto all'altare sull'opposto lato della sala. Ercole infatti, simbolo del tempo e dominatore degli elementi, al termine delle sue terrene fatiche assurge all'Olimpo e diviene finalmente dio, confondendosi con Apollo-Helios, come testimoniano gli antichi esegeti e molti moderni testi alchemici: "Alii, sicut probat Macrobius, voluerunt Herculem esse solem" (186). Immagine che secondo Praz (187) richiama esplicitamente la figura della Verità - come descritta dal Ripa - che pure brandisce un sole in mano. Con gli occhi fissi sulla verità suprema delle cose, perché la luce solare "dimostra quel che è", lo scultore, che ci ha fin qui condotti per mano (non dimentico del motto iniziale legato alla Melanconia, che aveva il sole in potenza sul disco solare: "in ogni tuo pensier rimira il fine" ovvero tendere verso il sole affinandosi alchemicamente per "far l'opera sua, consumando quel che bisogna per mantenere nell'essere suo il proprio splendore"), proclama universalmente la filosofia della luce, e infine dell'amore, di una conoscenza sapienziale, che si tinge di accenti esoterici per una curiosa bizzarria tutta barocca del protagonista, ma che ha le sue radici più profonde nella ragione ultima della stessa Scuola di San Rocco, nella quale Jacopo Tintoretto aveva già dato sublime prova, squadernando un ciclo di inarrivabile effetto, ispirato appunto alla teologia giovannea della luce (188). Un confronto arduo e tutto vissuto nel tormento, nell'incertezza del risultato, costrinse Francesco Pianta a produrre un piccolo ciclo che per ironia della sorte, nonostante la profusione retorica - scritta e figurata - che lo ha accompagnato, è rimasto per secoli totalmente nell'ombra, letteralmente oscurato dall'inintellegibilità di un contenuto forse troppo ricolmo di cose. Non siamo a conoscenza di altre commissioni di così ampio respiro affidate allo scultore, ed è probabile che in questa unica occasione concessagli dalla storia, egli abbia inteso consegnare alla posterità tutta la pregnanza accattivante del proprio prolisso bagaglio ideologico.

Tra ῾veduta' e ῾capriccio'

La Venezia di inizio Settecento registra il rapido affievolirsi e lo spegnersi dei fervori che, pur nutriti di illusioni e velleità, avevano tuttavia reso prodiga e gloriosa la stagione che tra gli anni Trenta e Ottanta del XVII secolo, aveva visto la città costellarsi, oltre e soprattutto alla magnifica fabbrica della Salute, di tanti altri ῾apparati', che scenograficamente erano venuti a definire l'immagine urbana di segni trionfali (gli ultimi, i più roboanti e i meno ῾giustificati', ad inzeppare gli spazi interni di trame ridondanti d'ambigua eloquenza, d'inquietudini, specchiate da orgogliose e però solo nostalgiche riflessioni sulla supremazia dell'arte locale, ma puranco da presagi ferali). La città si presenta non più come il teatro dello spiegamento della grandezza - che si compiace di se stessa - della Repubblica, ma invece come il luogo della ῾regola' prestabilita, data una volta per tutte. Il ῾mito' di Venezia si svela ora nella sua presunta immutabilità sostanziale, nella sua inattualità e in una ῾impossibilità', svuotata dei contenuti orgogliosi che Francesco Sansovino rivendicava. Non più dunque lo spazio urbanisticamente possibile di individuali o pubbliche celebrazioni, ma il momento in cui la ῾vergine' città indugia nella congelata autocontemplazione, per scoprirsi ῾perfetta', ma solo in quanto misura immobile e destinata per l'appunto ad un compiaciuto godimento ῾da fuori', perché ῾finita', definita (e ridefinibile d'ora innanzi unicamente nella dimensione virtuale della pittura). I nuovi, misuratissimi, interventi architettonici cittadini, pubblici e privati, dalla fine del Seicento alla caduta della Repubblica non conosceranno il ritmo febbrile, quasi forsennato, e fortemente connotante della stagione precedente: un intento normativo, nel nome del ῾buon gusto', all'insegna anche di una meditatissima rivalutazione delle teorie palladiane, non consente traumatici riassetti della compagine urbanistica e nemmeno individualistici, esasperati esibizionismi ῾profanatori', tutt'al più lievi operazioni di alto maquillage in splendide facciate (che comprendono persino i Gesuiti di Domenico Rossi) di un pacato e sia pur originale classicismo, che perviene col Temanza ad esiti garbati. L'occasione toccata al Longhena per la Salute, in un contesto siffatto, non è più riproponibile, né saranno mai più consentiti i privati ῾pignoramenti' di facciate chiesastiche avvenuti a San Moisè o a Santa Maria Zobenigo (il fallimento dei progetti di Gaspari per il monumento Morosini a San Vidal ne è sintomo). La sola ri-progettazione urbanistica è, semmai, immaginaria e passa ai vedutisti, all'ideazione fantastica soprattutto di un Canaletto; quella del trionfo personale o pubblico si rinserra senza rimedio nelle dimore patrizie, consegnando l'esaltazione di virtù d'intelligenza e di ragione, più spesso sognate che praticate, al pennello dei grandi decoratori, alla mano instancabile di un Tiepolo in primis, innamorato della lezione cinquecentesca - e si veda il caso - di un Veronese.

Carlevarijs e Canaletto iniziano lo studio ῾oggettivo' del tessuto urbano della Serenissima. Osservano, copiano, passano al vaglio, scelgono, annotano, ricompongono. L'udinese non solo, pur al livello capriccioso, manca del rovello progettuale di Antonio, ma scava meno in profondità, e s'avverte di modesto respiro l'anima pulsante del genius loci dentro le sue vedute. Proponendosi come incisore, nella dedica al doge Alvise Mocenigo de Le Fabriche, e Vedute di Venetia del 1703, con gli attributi di chi misura e rileva, intendeva sottolineare nella sua opera "l'azione dell'Intelletto", provvedendo a far uso "delle Matematiche, cioè Aritmetica, Geometria, Prospettiva, et Architettura Civile". La definizione del suo profilo intellettuale si coniuga con l'affermazione della "natura colta e costruita delle immagini di spazi ed edifici, letti ed interpretati, al di là dello sguardo, mediante strumenti e discipline" (189). "Signor Luca Carlovari, bene intendente e dotto perito" di questioni di ordine strutturale viene descritto dai procuratori di San Marco l'11 marzo 1723, relativamente alla perizia da questi espressa in merito ai restauri della cupola maggiore della basilica eseguiti da Andrea Tirali (190). I legami, probabilmente diretti, con l'ambiente culturale del rinnovamento antibarocco, gravitante intorno alla figura di Andrea Musalo, cui viene affidata nel 1697 la lettura di matematiche nello Studio pubblico di San Marco, si esplica nell'evidente ricerca di un teso rigore prospettico. Nel solco della celebre Guida de' forestieri per succintamente osservare tutto il più riguardevole nella città di Venezia colla di lei pianta per passeggiarla in gondola e per terra di Vincenzo Coronelli, edita nel 1697, primo vero e proprio baedeker di Venezia - cui tanti altri faranno seguito, ma nei modi di una mera descrizione che scarta o spegne lo spessore ideologico delle riprese della Venetia sansoviniana, ma fmanco le finalità ῾dimostrative' di un Boschini che, semmai, saranno raccolte da uno Zanetti -, si colloca il lavoro di Carlevarijs, il quale si configura quale guida iconografica articolata in un preciso e meticoloso itinerario della città, che ha come riferimento non tanto una spiegazione semplicemente topografica, quanto un intento celebrativo delle "Venete Magnificenze", esaltate nei grandi spettacoli pubblici, ormai ridotti a eventi teatrali funzionali allo stupore del pubblico di un grand tour che Venezia aveva eletto tra i suoi obiettivi, ma come meta di puro svago. La sequenza si snoda attraverso una disposizione gerarchica, secondo il grado di importanza delle più cospicue fabbriche, sia pubbliche che private, nel concorrere a magnificare la grandezza della città. La basilica ducale di San Marco, luogo dove la Repubblica celebra da secoli i propri fasti, apre questa lunga processione di ritratti urbani, dove non manca, tra le macchiette, di essere rappresentata ogni classe sociale. Seguono la cattedrale patriarcale di San Pietro di Castello - perché nella capitale lagunare la Chiesa viene sempre dopo lo Stato -, i maggiori templi cittadini, le Scuole di devozione, gli ospedali e i luoghi pii; chiudono (dopo le vedute delle due piazze, di San Marco e di Rialto, l'Arsenale e la Dogana da Mar) le immagini delle principali dimore patrizie, comprese le più recenti, appendice non secondaria, ancorché privata, dell'ornamento e del decoro della Dominante. L'intento celebrativo dell'operazione e, dunque, più apparente che sostanziale, si stempera tuttavia nell'evidente progetto di "rendere più facili alla notizia de Paesi stranieri le Venete Magnificenze", come esplica il frontespizio, e commercializzare dunque l'iconografia della città, divenendo così appetibile ed attraente appunto per il ῾turista'; operazione, come accennato, già intrapresa dal Coronelli sei anni prima, il quale significativamente, nella seconda edizione del 1700 della Guida (a p. 16), menzionerà il Carlevarijs, tra gli artisti viventi, quale pittore di "Paesi [...] Architettura, e Prospettiva" (191), ma che poi non risparmierà al vedutista il plagio della sua opera nelle Singolarità di Venezia, stampate dall'Accademia degli Argonauti tra il 1709 e il 1710. In ogni modo, il debito che la vedutistica, e non solo per il tramite dell'incisione, dovrà pagare alle Fabriche sarà enorme: non ultime le acquaforti di Antonio Visentini, tratte da Canaletto, per il Prospectus Magni Canalis del 1735. Che cosa rimanesse tuttavia della magnificenza dei tempi andati, pur con la parentesi del possesso della Morea reso possibile da Francesco Morosini, è provato da un foglio di Luca conservato al Museo Correr (nr. 6978r-v), ove si ravvisa un non preconcetto assemblaggio di elementi all'apparenza incongruenti: riprese dal vivo di popolani appoggiati alla spalletta di un ponte (forse quello della Paglia), di nobiluomini, frati, donne e maschere, assieme all'inspiegabile associazione di alcune scene mitologiche, che non trovano riscontro nella restante produzione carlevarijsiana (192). Si tratta, è stato detto, di giovanili studi per composizioni di un genere mai del resto affrontato dall'artista. Un banale scrupolo di parsimonia l'avrebbe spinto (o chi per lui) dunque a incollare assieme sette frammenti di disegno in un unico foglio per costringere, in una improvvisata griglia, invenzioni di fantasia e schizzi di osservazione diretta. Ma a uno sguardo attento non può sfuggire, anche nel caso delle fantomatiche personificazioni mitologiche, trattarsi, non già di produzione della fantasia di Luca, quanto della precisa ripresa dei cinquecenteschi rilievi (193) della sansoviniana loggetta del campanile, già "vero e proprio speculum delle virtù e della potenza della Serenissima: i patrizi e i dignitari stranieri erano invitati a confrontarsi con tale narrazione per immagini del mito di Venezia alla loro uscita dal palazzo Ducale" (194). Nell'ordine riconosciamo Venere regina di Cipro, Giove re di Candia, nel diritto del disegno, e Venezia-Giustizia, nel rovescio, accoppiarsi con tricorni e "baute", cuffie e logori grembiuli. Da una parte, le personificazioni di Cipro e Candia - da tempo perdute e ormai forse dimenticate - sembrano osservate con indifferenza dagli oziosi sul ponte, mentre al di sopra campeggia la goffa macchietta di un corpulento frate predicatore dall'abbondante saio. Dall'altra, una gesticolante Venezia assisa sul trono salomonico sembra poco decorosamente confrontarsi, sotto lo sguardo di altri due neutri osservatori, con uno schiavone visto di spalle, con una specie di beghina dal capo velato, e con la stazza di un robusto e volgare bottegaio che si accompagna a una popolana inelegantemente seduta su di una cassa. Frutto di pura casualità o di calcolo premeditato, qui ῾sacro e profano' risultano a tutti gli effetti allineati sullo stesso piano qualitativo, sfuggendo a una possibile classificazione gerarchica dove esista naturalmente un ῾alto' e un ῾basso' di un preordinato assetto sociale e politico. È di sicuro l'immagine della città e del suo centro che si sta sfaldando in mille particolari minori e curiosi. Un de Brosses avanti lettera parrebbe, mettendo a confronto tali disincantati accostamenti di Luca con una ben più critica pagina delle Lettres del digionese, che così ῾vede' Venezia nel 1739 (195):

Immaginate probabilmente che la tanto conclamata piazza San Marco sia grande a perdita d'occhio. Niente di meno vero; è molto inferiore, sia per grandezza che per prospettiva, agli edifici di place Vendôme, benché sia di architettura magnifica [...]. Durante il carnevale, a quanto dicono, non ci si rigira per via del gran numero di maschere e di teatri. Io stesso, che non l'ho vista in quell'occasione, la trovo anche ora sempre piena. Le lunghe zimarre dei nobili, i mantelli, le vestaglie; turchi, greci, dalmati, levantini di ogni razza, uomini e donne, banchi di ciarlatani, giocolieri, frati che predicano, marionette; tutto ciò, voglio dire, tutto ciò insieme e in ogni ora, ne fanno la più bella, la più curiosa e la più strana piazza del mondo, soprattutto nell'angolo a squadra che forma, dopo San Marco, quello che chiamano Broglio.

Che è, appunto, l'angolo della Loggetta.

L'approccio allo scorcio urbano del Carlevarijs è di ben altra temperatura rispetto alla dirompenza del Canal che, già all'esordio, offuscherà l'astro minore, colpevole solo, Carlevarijs, di aver preceduto un gigante; comunque nessuno prima di lui si era mai dedicato alla sistematica, e per nulla passiva, ῾vivisezione' della città. E maggiormente uno spasmodico, quasi maniacale, intento di ῾catalogazione' anima, fin dalle prime prove, l'attività del Canaletto vedutista, come se l'infinito amore per la città lo conducesse a stilare un tutt'altro che arido inventario sentimentale, dove poter incidere il respiro dell'organismo urbano ormai cadente, ma che si ostina ad apparire perfetto agli occhi dell'amante, anche, forse, facendo circostanziato uso di uno strumento meccanico come la camera ottica per appropriarsi di dettagli apparentemente insignificanti. Il mattone sbrecciato di cui si indovina la fibra, i caldi intonaci di coccio pesto a brandelli, il rivelarsi di finestre gotiche tamponate chissà quando, le macchie sulle pareti che trasudano umidità, l'acqua marcia dei canali verdi (manca l'afrore della laguna, ma è facilmente immaginabile portato sui cieli azzurri corsi da nubi zigzaganti inseguite da algidi temporali settembrini), stormi serpentinati di uccelli neri, il salso sui muri incrostati, squeri fatiscenti, cenciose chiatte arenate nell'ombra spugnosa dei primi piani, il popolo laborioso oppure ozioso delle massaie che si affacciano al balcone per scuotere un polveroso piumino, dei mendicanti mingenti sulla fondamenta davanti alla chiesa, di operai, artigiani, spazzacamini, signori e plebei, tutti sono gli attori delle prime vedute di Antonio, già Liechtenstein, databili con ogni probabilità tra il 1720 e il 1726 (196).

Canaletto registra, fissa la ineluttabile e definitiva crisi del mito di Venezia, ed inizia la dissacrazione obiettiva del ῾sacro' proprio nel momento in cui inizia lo studio scientifico, l'analisi critica, anatomica di quanto si era sempre ritenuto intoccabile e indiscutibile. Se per secoli lo Stato veneziano aveva pazientemente, pezzo dopo pezzo, ῾ri-costruito' l'idea a priori della città per eccellenza, della Repubblica platonica realizzata, nella quale abita, con la Bellezza e la Giustizia, il migliore dei governi possibili, identificando questa ῾idea' esattamente nel luogo dell'area marciana, che il Canal trova conclusa, registrandone l'ultimo atto in fieri, ovvero la geometrica ripavimentazione di Andrea Tirali, proprio nella veduta Liechtenstein (ora nella collezione Thyssen-Bornemisza, Madrid), allora risulta quanto meno inquietante che l'artista potesse provarsi, sulle tele, a riprogettare, una simile grave eredità, qualche decennio più tardi, nelle vedute e nei capricci ῾newtoniani' e neopalladiani, eseguiti per lo Smith e la sua cerchia, concentrati sull'utopia di una città che "fabbricar potrebbesi" sul modello prestabilito dall'effusione pittorica. Il processo dell'immaginario smantellamento del dato consegnato storicamente, ma che sulla storia si eleva, per essere ricomposto in immagini programmatiche, passa per tutte le ῾licenze' abitanti l'intera produzione pittorica del Canal, che André Corboz ha discriminato in maniera esemplare. Il campanile di San Marco, ad esempio, fin dalla veduta Thyssen del 1724 risulta corretto otticamente, reso più snello e slanciato del vero, per finire decapitato e trapiantato sullo sfondo decontestualizzato del più tardo capriccio con la bocca di Piazza sud-ovest di collezione privata (197); i cavalli son spostati, nell'incredibile capriccio di Windsor Castle (Royal Collection) (198), dalla fronte della basilica palatina, su alti piedistalli proiettati verso la Piazzetta; il ponte e fabbriche di Palladio, nella veduta ῾ideata' di Parma (Galleria Nazionale), ricompongono l'area realtina (199).

Non si tratta di un'operazione carica di velleità rivoluzionarie, sovversive, ma solo del termometro critico di un momento storico. Potremmo paradossalmente asserire che, suo malgrado, Canaletto appare un filosofo della società sotto mentite spoglie, giacché il vero libero pensatore a Venezia non avrebbe avuto facile esistenza; perfettamente camuffato si limita semplicemente a sperimentare, come un fisico nel suo laboratorio, procedendo per tentativi, le varie possibilità di riplasmare freddamente il reale, mescolando i vari elementi, in sempre nuove e inusitate formule. Scomponendo, sopprimendo, spostando, tagliando, riducendo, inventando, correggendo, anche solo per gioco, l'area marciana, la "zona di comando" (200), ne pone in discussione, anche solo mentalmente, la sua intangibilità. Il pittore immagina e basta, sebbene obbedendo ad un'intenzione ῾progettuale' che rende il suo atteggiamento insieme sintomatico, problematico, inquietante. Si fa, al suo modo, visionario quale sarà, ma con tragico piglio, un altro veneziano, esule a Roma, Giambattista Piranesi. Immagina relitti vaganti, moderne rovine di un futuro possibile ma non necessario, come se dei barbari, una drastica ricomposizione politica rimettessero in discussione, alla radice, i termini di uno status quo non conclusivo. ῾Chimerizzando' un possibile ordine diverso il pittore impalca sensibilmente lo sgretolarsi del mito della città e, inconsapevolmente, il presagio della sua imminente fine. E se il peso della fine lo avvertivano insopportabilmente gli stessi pavidi patrizi che di lì a qualche decennio (la notte del 12 maggio 1797) decreteranno, con numero illegale di presenze e tra il generale sollievo, la frettolosa estinzione della millenaria Repubblica, perché il genio non avrebbe dovuto avvertire in anticipo e più degli altri la scadenza fatale? Quando giungerà il piede del francese trionfante, in quel drammatico 1797, sarà paradossalmente davvero l'inizio del concretarsi dei gelidi sogni di Canaletto: allora si toglieranno finalmente i cavalli dalla Basilica; anche il leone sulla colonna prenderà il volo per altri lidi; si erigerà sulla Piazzetta il monumento al Bonaparte come un romano Cesare (quante affinità col citato capriccio di Antonio di Windsor (201)); spariranno come per incanto i Granai di Terranova assieme alla sansoviniana chiesa di San Giminiano per ospitare come palazzo reale un'ala nuovissima delle Procuratie; e si innalzerà più tardi il neoclassico palazzo patriarcale sulla piazzetta dei Leoncini.

Anche sotto l'apparentemente incorruttibile epidermide della produzione matura (oltre gli anni Trenta), quando nell'assolato abbacinante meriggio è il momento dell'ombra più corta, fermentano in Canaletto i germi del divenire inesorabile e travolgente - mentre appare in tutta la sua scandalosa evidenza nelle ῾drammatiche' vedute giovanili -, che sono di già nella mente dell'artista. Il suo genio non gli poteva permettere di dissipare il tarlo del dubbio 'illuminista': continua esso a lavorare, a compromettere la base stessa dell'impalcatura meravigliosa, che costituisce la fragile, ancorché elastica, struttura urbana lagunare. Ne risulta una Venezia setacciata, vivisezionata, frantumata, messa nel vetrino, osservata al microscopio, ricucita con mille integrazioni: si divarica di là, si stringe di qua, meglio trapiantare quello e tagliare questo.

Il mito si spegne, alfine, e se ne stampa la morte, in capricciose vedute che adombrano la nuova città "che fabbricar potrebbesi": e lo sarà, in qualche misura ed in imprevedibili incursioni, a opera di chi raccoglierà - magari amandola, ma così male amandola, per parafrasare Sergio Bettini - la spoglia ormai inerte e vulnerabile di Venezia.

Lionello Puppi, Ruggero Rugolo*

  • Il presente lavoro, scaturito dalla stretta e concorde collaborazione dei due autori, è per i paragrafi 1, 3, 7, interamente ascrivibile alla responsabilità di Lionello Puppi, e, per i rimanenti (2, 4, 5, 6, 8, 9), alla responsabilità di Ruggero Rugolo.

1. Martina Frank, Baldassarre Longhena, in corso di stampa.

2. Ennio Concina, Storia dell'architettura di Venezia dal VII al XX secolo, Milano 1995, p. 243.

3. Di Franco Barbieri resta, a tutt'oggi referenza di base, la monografia Vincenzo Scamozzi, Vicenza 1952; mentre di Carmine Jannacco va, quanto meno, segnalato il saggio Barocco e razionalismo nel trattato d'architettura di Vincenzo Scamozzi (1615), "Studi Secenteschi", 2, 1961, pp. 47-60. Si v., quindi, i saggi i cui lineamenti qui si sono ricalcati, di Lionello Puppi, Vincenzo Scamozzi trattatista nell'ambito della problematica del Manierismo, "Bollettino del C.I.S.A. ῾Andrea Palladio'", 9, 1967, pp. 310-328; e Sulle relazioni culturali di Vincenzo Scamozzi, "Ateneo Veneto", n. ser., 7, 1969, pp. 49-66. Sulle matrici serliane dell'attitudine universalistica dello Scamozzi, cf. l'ottima introduzione di Francesco P. Fiore a Sebastiano Serlio, Architettura civile, Milano 1994, pp. XI-LI.

4. Giangiorgio Zorzi, La giovinezza di Vincenzo Scamozzi secondo nuovi documenti, "Arte Veneta", 10, 1956, pp. 119-132.

5. Wladimir Timofiewitsch, Das Testament des Vincenzo Scamozzis vom 2. September 1602, "Bollettino del C.I.S.A. ῾Andrea Palladio'", 7, 1965, pp. 316-328.

6. L'avvio dell'affermazione è, tuttavia, adulatorio nei riguardi dei destinatari della dedica all'evidenza delle prove, recentemente addotte da Franco Barbieri e Aurelio Heger, essere il padre Giandomenico nato ad Arigna presso Sondrio (Gli Scamozzi de Arigna', "Arte Lombarda", 96-97, 1991, pp. 140-144).

7. Sull'origine, e sulla vocazione dell'Accademia Olimpica, basti il rinvio a Lionello Puppi, Scrittori vicentini di architettura del secolo XVI, Vicenza 1973, in partic. pp. 43 ss.; Enrico Niccolini, Le Accademie, in AA.VV., Storia di Vicenza, III/2, L'età della Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza 1990, pp. 89-108.

8. Per quanto precede, cf. L. Puppi, Vincenzo Scamozzi trattatista, passim.

9. Sui rapporti Gualdo-Galilei-Scamozzi cf. L. Puppi, Sulle relazioni culturali (e, più in generale, per il ruolo di Galilei nel dibattito sull'arte, infra, in questo stesso saggio). Sui contesti del rapporto Gualdo-Galilei, cf. inoltre Gino Benzoni, La vita intellettuale a Venezia al tempo di Galilei, in Galileo Galilei e la cultura veneziana, Atti del Convegno di Studio (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), Venezia 1995, pp. 29-86: passim.

10. Tommaso Temanza, Zibaldon, a cura di Nicola Ivanoff, Venezia-Roma 1963, pp. 34-37.

11. Si v., per il tentativo di restituzione del milieu dell'educazione del Longhena, Lionello Puppi, I Longhena a Venezia: da Brescia, non da Maroggia, in Studi per Pietro Zampetti, a cura di Ranieri Varese, Ancona 1993, pp. 473-484.

12. Basti il rimando, per un lucido disegno della congiuntura, a Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, in partic. pp. 155 ss. e 244 ss.

13. È singolare dover constatare come, a tutt'oggi, manchi un profilo organico e articolato delle vicende architettoniche a Venezia ove solo s'escluda la ovvia concentrazione sulla figura eminente dello Scamozzi - tra 1580 e 1630. Ultimamente, ma in riferimento al lungo cantiere delle Procuratorie, ha offerto utili considerazioni Gabriele Morolli, Vincenzo Scamozzi e la fabbrica delle Procuratorie nuove, in AA.VV., Le Procuratorie nuove in Piazza San Marco, Roma 1994, pp. 11 - 115: passim.

14. Loredana Olivato, "Quantum Roma fuit, ipsa ruina docet". L'itinerario romano di Vincenzo Scamozzi, Introduzione a Vincenzo Scamozzi, Discorsi sopra l'antichità di Roma [1582], Milano 1991, pp. IX-XXVIII.

15. G. Morolli, Vincenzo Scamozzi.

16. V., da ultimo, Paolo Morachiello, Il ponte, in Donatella Calabi - Paolo Morachiello, Rialto. Le fabbriche e il ponte, Torino 1987, soprattutto pp. 235 ss.

17. Per tutto quanto precede, e per la bibliografia precedente, si rimanda all'accurata restituzione di G. Morolli, Vincenzo Scamozzi.

18. P. Morachiello, Il ponte, pp. 235-283.

19. Su Antonio da Ponte - ch'è stato, recentemente, oggetto di tesi di laurea discusse presso l'Università di Padova e l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia ma rimaste inedite il solo profilo monografico complessivo risale ad oltre un secolo fa: Giovanni Battista Cecchini, Della vita e delle lodi di Antonio da Ponte architetto veneziano, "Atti della I.R. Accademia di Belle Arti in Venezia", 1859-1860, pp. 16-112. Quanto alla figura, sinora trascurata, di Giovanni Rusconi, esce adesso il bel saggio di Anna Bedon a introduzione dell'anastatica dell'edizione 1590 del Della Architettura, curata dal Centro Internazionale di Studi di Architettura ῾Andrea Palladio': Giovan Antonio Rusconi: illustratore di Vitruvio, artista, ingegnere, architetto, Vicenza 1996, pp. IX-XXII.

20. Per quanto precede si fa riferimento a Lionello Puppi, Venezia. Da Palladio a Longhena, in AA.VV., Longhena, catalogo della mostra, Milano 1982, pp. 15-30.

21. Per il panorama complessivo si rimanda, sin d'ora, a Elena Bassi, Architettura del Sei e del Settecento a Venezia, Napoli 1962.

22. T. Temanza, Zibaldon, p. 34.

23. Fabio Glissenti, Discorsi morali. Contra il dispiacer del morire detto Athanatophilia, Venezia 1609 [1597], cc. 58v ss. Si intende ringraziare la squisita disponibilità del prof. Sergio Santiano, che ci ha permesso di accedere alla fruizione di quest'opera rara nella copia di suo personale possesso, sulla quale egli sta peraltro completando uno studio dal titolo: Venetiam, bizzarra e balzana storia musicale di Venezia. Cf., al riguardo, anche Manfredo Tafuri, Il pubblico e il privato. Architettura e committenza a Venezia, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi-Paolo Prodi, Roma 1994, p. 414 (pp. 367-447). Sull'impegno del Glissenti (citato anche come Glisente) in quanto medico, cf. Paolo Preto, Peste e società a Venezia nel 1576, Vicenza 1978, pp. 66-67 e 184-186.

24. Per le ῾declinazioni' seicentesche del mito, si rimanda all'eccellente saggio di Maria Luisa Doglio, La letteratura ufficiale e l'oratoria celebrativa, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 163-187. Quanto mai significativo, ma scarsamente considerato, è l'elogio, meritevole di un'edizione postillata, che ci riserviamo, di Francesco Mocedo, Pittura Venetae Urbis [...], Venezia 1670.

25. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 213-243. Sulla problematica della "bella macchina del mondo" convocata dal Glissenti, cf. l'ottima sintesi di Giuseppe Barbieri, Andrea Palladio e la cultura del Rinascimento, Roma 1983, pp. 45-105.

26. A.S.V., Senato, Terra, reg. 104. Per un riepilogo bibliografico sulla Salute e sul Longhena in generale si rimanda alla monografia di M. Frank, Baldassarre.

27. A.S.V., Senato, Terra, filza 506; Antonio Niero, Una chiesa votiva della guerra di Candia: Santa Maria del Pianto, in Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia 1570-1670, catalogo della mostra, Venezia 1986, pp. 174-176. A questo saggio in particolare si farà riferimento nella nostra successiva trattazione sulla chiesa di Santa Maria del Pianto.

28. A.S.V., Senato, Terra, reg. 104 (anche, fino a diversa indicazione, per le successive citazioni); Susanna Biadene, I progetti per la basilica della Salute, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra (Venezia 1985), a cura di Lionello Puppi - Giandomenico Romanelli, Milano 1985, pp. 91-92.

29. A.S.V., Consultori in jure, b. 410; Giuseppe Della Santa, Il pittore Alessandro Varottari e un suo disegno per la chiesa della Salute, Vicenza 1902; Antonio Niero, Alessandro Varottari [...] Progetto della Basilica della Salute (scheda a 104), in Venezia e la peste. 1348/1797, catalogo della mostra, Venezia 1979, p. 309.

30. A.S.V., Senato, Terra, filza 326, 13 giugno in pregadi; Massimo Gemin, La chiesa di Santa Maria della Salute e la cabala di Paolo Sarbi, Abano Terme 1982, p. 247.

31. Venezia, Museo Correr, Supplimento alla filza intitolata Monache Chiese e Monastero pubblico delle Servite Scalze del Montesenario dette le Cappuccine delle Fondamente Nuove, ms. Gradenigo-Dolfin 179, II, c. 430; Flaminio Corner, Ecclesiae Torcellanae [...], II, Venezia 1749, pp. 17-26; Id., Ecclesiae Venetae [...], III, Venezia 1749, pp. 276-279; A. Niero, Una chiesa votiva.

32. A.S.V., Senato, Terra, filza 506; A. Niero, Una chiesa votiva, p. 174: "Subito fu incaricato Girolamo Foscarini, provveditore sopra monasteri, di colloquiare con la religiosa: cosa che fece il 17 giugno. Nella relazione ch'egli passa al Senato quattro giorni dopo, riferisce sulla buona impressione ricevuta dalla veggente [...]".

33. A.S.V., Senato, Terra, reg. 132, cc. 203v-204v; F. Corner, Ecclesiae Venetae, p. 285; A. Niero, Una chiesa votiva, p. 174: "Il messaggio della De' Rossi è fatto proprio dal Senato con la decisione che si costruisca un piccolo oratorio e annesso conventino [...] per accogliere dodici vergini con la De' Rossi e due collaboratrici. Si stabilisce l'intitolazione a Santa Maria del Pianto, cioè Addolorata, in ossequio alla pietà servitana della fondatrice e del tempo [...]. A noi giova la motivazione ufficiale della Repubblica: la fondazione novella vien decisa ῾dovendosi ne' presenti gravi bisogni publici [leggi: la guerra] sempre con più fervore e divoto spirito ricorrere alla protezione et alla gratia del Signor Iddio e della beatissima Vergene protettrice della Republica per quel sollievo, che si deve principalmente attendere dalla mano di Sua divina Maestà, e per placare con atti di devozione e di preci continue l'ira sua giustissima per l'errori e privati e universali'".

34. A.S.V., Senato, Terra, filza 508; A. Niero, Una chiesa votiva, p. 175.

35. 190.001 ducati, da ripartirsi in 8.845 per la chiesa priva di altari e 9.946 per il monastero e il rimanente per altri lavori.

36. A.S.V., Senato, Terra, filza 512 e reg. 133; A. Niero, Una chiesa votiva.

37. A.S.V., Senato, Terra, filza 515; A. Niero, Una chiesa votiva.

38. La medaglia commemoriale è riprodotta in F. Corner, Ecclesiae Venetae; e Id., Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello [...], Padova 1758, tav. III post pref., nr. 15 e p. 150. Sulla cronaca della posa della prima pietra: Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo-Dolfin 179, II, c. 440. Sulla presa di possesso del convento da parte delle monache: ibid., c. 441v; A. Niero, Una chiesa votiva.

39. F. Corner, Ecclesiae Venetae, p. 282; Vittorio Piva, Il tempio della Salute eretto per voto de la Repubblica veneta, Venezia 1930, p. 52; A. Niero, Una chiesa votiva.

40. Cf. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1581.

41. Antonio Niero, I templi del Redentore e della Salute, in Venezia e la peste. 1348/1797, catalogo della mostra, Venezia 1979, in partic. p. 297 (pp. 294-298).

42. A.S.V., Senato, Terra, filza 326: "ho formato una chiesa in forma di rottonda, oppera d'invenzione nuova, molto degna et desiderata da molti e molti. Havendo essa chiesa mistero alla sua dedicazione, essendo dedicata alla B.V. ho parso, per quella poca virtù che Dio benedetto m'ha prestato, di farla in forma rottonda, essendo in forma di corona, per essere dedicata a essa Vergine"; Giannantonio Moschini, La chiesa e il Seminario di Santa Maria della Salute in Venezia, Venezia 1842, pp. 11-13; Antonio Niero, Illustrazione del Longhena del suo progetto (scheda a95), in Venezia e la peste. 1348/1797, catalogo della mostra, Venezia 1979, pp. 306-307.

43. Nel 1644; cf. Michelangelo Muraro, Il tempio votivo di Santa Maria della Salute in un poema del Seicento, "Ateneo Veneto", n. ser., 11, 1973, pp. 87-119.

44. Rudolf Wittkower, S. Maria della Salute, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 3, 1963, pp. 33-54; Michelangelo Muraro, Iconografia e ideologia del tempio della Salute a Venezia, in AA.VV., Barocco fra Italia e Polonia, Varsavia 1977, pp. 71-78; A. Niero, I templi, p. 297. Un'ampia trattazione dei temi simbolici in M. Gemin, La chiesa di Santa Maria della Salute, pp. 104-174.

45. E. Concina, Storia dell'architettura, p. 250.

46. Paolo Sarpi, Scrittura sopra la forza e validità della scomunica giusta et ingiusta e sopra li remedii "de iure" e "de facto" da usare contro le censure ingiuste, in Scritti scelti, a cura di Giovanni Da Pozzo, Torino 1968, p. 465; M. Gemin, La chiesa di Santa Maria della Salute, pp. 172-174.

47. M. Gemin, La chiesa di Santa Maria della Salute, pp. 106-113; cf. A. Niero, I templi, p. 297: "Insomma la basilica della Salute diventava il Pantheon della Repubblica dell'età postridentina e dopo Lepanto, così come la basilica di S. Marco lo era stato della Venezia delle origini sino al vertice della sua potenza".

48. M. Gemin, La chiesa di Santa Maria della Salute, p. 172.

49. Ibid., p. 142.

50. Ibid., pp. 144- 149.

51. Antonio Niero, Un progetto sconosciuto per la basilica della Salute e questioni iconografiche, "Arte Veneta", 26, 1972, pp. 245-249.

52. M. Gemin, La chiesa di Santa Maria della Salute, p. 141.

53. Ibid., p. 173.

54. F. Sansovino, Venetia città nobilissima.

55. M. Gemin, La chiesa di Santa Maria della Salute, p. 142.

56. Ibid., p. 15.

57. L'῾ultimo' a rappresentare Venezia rivolta verso il mare era stato Paolino Veneto nella trecentesca Chronologia Mundi (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. Z. 399 [= 1610], c. 7) dove la città appare inequivocabilmente orientata in direzione delle bocche di porto del Lido, scagliata quanto un dardo verso oriente. Ed è singolare constatare che un Sabbadino, il quale pur voleva essere un conservatore, neppure forse si sia accorto di aver letteralmente capovolto il Paolino, ricalcandone la pianta nel 1559 (A.S.V., Laguna, 14), per fissare una volta per tutte i limiti acquei del perimetro urbano. Oramai il processo impalcato da Jacopo de' Barbari con la sua pianta del 1500 è completato: chi, d'ora innanzi, vorrà osservare l'immagine ufficiale di Venezia dovrà dare le spalle al mare, pensarla - in un processo di singolare rimozione - malgrado questo.

58. A.S.V., Senato, Terra, reg. 137, c. 691; M. Frank, Baldassarre.

59. M. Frank, Baldassarre.

60. A.S.V., Senato, Terra, filza 537; M. Frank, Baldassarre.

61. M. Frank, Baldassarre.

62. A.S.V., Senato, Terra, reg. 137, c. 691; M. Frank, Baldassarre.

63. A.S.V., Senato, Terra, filza 537; M. Frank, Baldassarre.

64. A. Niero, Una chiesa votiva, p. 176.

65. A.S.V., Senato, Terra, filza 537; M. Frank, Baldassarre.

66. A.S.V., Senato, Terra, filza 326: "le facciate non doveran restar irretrattabilmente decretate, ma fermato et deliberato il corpo della Chiesa si possino poi alterare in alcuna parte del modo che sarà stimato dalla publica prudentia, et conosciuto più aggiustato da quelli Senatori che tenirano di tempo in tempo la carica di sopraintendente alla sua fabricatione"; M. Gemin, La chiesa di Santa Maria della Salute, pp. 245-246.

67. Stefania Mason Rinaldi, Pietro Liberi, Venezia supplice e sant'Antonio che intercede presso la Trinità per la cessazione dell'assedio di Candia (scheda a239), in Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia 1570-1670, catalogo della mostra, Venezia 1986, pp. 155-156. Da ultimo si v. Ugo Ruggeri, Pietro e Marco Liberi, Rimini 1996.

68. A. Niero, I templi, p. 298: "Lo stesso S. Marco sulla lanterna della cupola minore, o seconda cupola, che tien lo sguardo rivolto verso il Palazzo Ducale costituisce quasi il sigillo riassuntivo del tema, cioè la basilica della Salute monumento della pietà veneziana nello schema ideale del naviglio dove, a prora, cioè il vertice della cupola maggiore, la Vergine, come capitana, segna la rotta e, a poppa, cioè nel vertice della cupola minore, S. Marco tiene il timone, mentre i due campanili sembrano due grandi alberi, nei quali al vertice sventolano gli orifiamma, cioè le due banderuole con l'immagine dell'evangelista marciano".

69. M. Muraro, Il tempio votivo.

70. A. Niero, I templi, p. 297: "[...] nel cosiddetto cambiamento iconocrafico, ammesso che quello primitivo del Longo e del Boschini fosse l'ufficiale dello Stato, si è voluto far passare in secondo piano il motivo antipeste ponendo in risalto invece quello devozionale a Maria. Al centro del testo del voto del 1630, domina l'esaltazione di Maria Vergine protettrice di Venezia [...]. L'attuale iconografia della basilica svolge, tanto all'esterno quanto all'interno, codesto tema, guidata da tre linee assiali: quella esterna, che ha il suo vertice sull'immagine di Maria regina al sommo del tempio; quella interna, che lo ha dal basso in alto lungo la cupola centrale; la terza, interna, che lo ha dall'altar maggiore sino alla porta d'ingresso".

71. Giuseppe De Vito, Il viaggio di lavoro di Luca Giordano a Venezia e alcune motivazioni per la scelta riberesca, in Ricerche sul '600 napoletano. Saggi e documenti per la Storia dell'Arte dedicati a Luca Giordano, Milano 1991, p. 38 (pp. 33-50); Oreste Ferrari-Giuseppe Scavizzi, Luca Giordano. L'opera completa, II, Napoli 1992, p. 279 (scheda a 181); cf. per una datazione anticipata: Stefania Mason Rinaldi, Luca Giordano, Deposizione dalla Croce (scheda a274), in Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia 1570-1670, catalogo della mostra, Venezia 1986, p. 173.

72. S. Mason Rinaldi, Luca Giordano.

73. G. De Vito, Il viaggio, p. 39.

74. Giustiniano Martinioni, Nuove copiose aggiunte, a Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1663, p. 90; S. Mason Rinaldi, Luca Giordano.

75. Davide Da Portogruaro, L'altare votivo della Repubblica veneta a S. Antonio di Padova, "Il Santo", 1, 1931, pp. 1-30; S. Mason Rinaldi, Pietro Liberi, p. 155.

76. Cesare Ripa, Iconologia, Venezia 1645, pp. 484-485.

77. Eretto dopo il febbraio 167o. Antonio Niero, Giusto Le Court, La Vergine implorata da Venezia mette in fuga la peste (scheda a52), in Venezia e la peste. 1348/1797, catalogo della mostra, Venezia 1979, pp. 277-278.

78. Marco Boschini, Le Ricche Minere della pittura veneziana, Venezia 1674, S. Polo, p. 51: in cui, si badi, il pittore appare addirittura terrorizzato all'idea di doversi confrontare con l'impegnativo precedente tintorettesco, "chiedendo perdono per il troppo ardire"; Stefania Mason Rinaldi, Antonio Zanchi, La peste a Venezia (scheda a49), in Venezia e la peste. 1348/1797, catalogo della mostra, Venezia 1979, pp. 274-276. Cf. Ileana Chiappini di Sorio, La peste del 1630 a Venezia [...] (scheda nr. 140), in Pietro Zampetti, Antonio Zanchi, in I pittori bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Il Seicento, IV, Bergamo 1988, pp. 571-573 (pp. 391-707). Ringraziamo gli amici Massimo Favilla e Leonardo Ruffo, e inoltre la prof.ssa Stefania Mason Rinaldi, per gli utilissimi suggerimenti e scambi di opinioni.

79. Bruno Bertoli, Arte e teologia nel culto di san Rocco, Venezia 1996, p. 10.

80. Il pittore dovette comunque apportare una importante correzione ottica, collocando il punto di ripresa dal canale della Fornasa molto più in alto del livello delle barche, per apparire la chiesa del Redentore sullo sfondo al di sopra delle case, che altrimenti la nasconderebbero. Si sottraggano inoltre alle Zattere gli attuali sovradimensionati edifici pseudo-gardelliani e le sopraelevazioni otto-novecentesche.

81. Vincenzo Cartari, Imagini delli Dei de gl'Antichi, con annotazioni di Lorenzo Pignoria, Venezia 1647, pp. 44-45: sedendo "in un'alto tribunale", "pigliava Febo quello, onde havevano poi vita i mortali, et talhora anco la morte. Perché quando voleva porgere al mondo la dolce aura dello spirito vitale, metteva parte dell'aria temperata [...] con parte del seme [...]. Et quando poi minacciava peste, et morte, vi aggiungeva le ardenti fiamme [..]".

82. Antonio Niero, Scuola di S. Rocco. Lapide commemorativa della Peste del 1576 (scheda a78), in Venezia e la peste. 1348/1797, catalogo della mostra, Venezia 1979, p. 303.

83. C. Ripa, Iconologia, p. 523.

84. Antonio Niero, Pietro Negri, La Madonna salva Venezia dalla peste del 1630 (scheda a51), in Venezia e la peste. 1348/1797, catalogo della mostra, Venezia 1979, pp. 276-277. L'iconografia è chiaramente rapportabile per i molteplici aspetti al contemporaneo altare del Le Court per la Salute.

85. Cf. Orietta Rossi Pinelli, David e l'arte della rivoluzione francese, Firenze 1989 (inserto "Arte Dossier", 37, luglio-agosto 1989), p. 6.

86. Si farà in seguito particolare riferimento, anche per eventuali approfondimenti bibliografici, a Julian Gallego, Façades vénitiennes à perspective verticale, "Annales E.S.C.", 23, 1968, nr. 3, pp. 586-594; Jan Bialostocki, Die Kirchenfassade als Ruhmensdenkmal des Stifters, "Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte", 1983, pp. 3-16; Martina Frank, Spazio pubblico, prospetti di chiese a glorificazione gentilizia nella Venezia del Seicento. Riflessioni su una tipologia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 144, 1985-1986, pp. 109-126; Gino Benzoni, Celebrazione pubblica e celebrazione gentilizia, "Ateneo Veneto", n. ser., 28, 1990, pp. 47-63. Si rimanda inoltre a M. Tafuri, Il pubblico e il privato, pp. 380-386; e, per una rapida sintesi Valentina Conticelli, Il cardinale e la città. Strategie culturali e politiche nella committenza di Daniele Dolfin a Udine, Udine 1996, in partic. pp. 50-53.

87. M. Frank, Spazio pubblico, p. 109.

88. G. Martinioni, Nuove copiose aggiunte, p. 45.

89. Cf. n. 95.

90. Camillo Semenzato, La Scultura veneta del Seicento e del Settecento, Venezia 1966, p. 18; M. Frank, Spazio pubblico, p. 110; Paola Rossi, Appunti sull'attività veneziana di Clemente Molli, "Venezia Arti", 3, 1989, pp. 61-68.

91. Lo scultore aveva alle proprie spalle una formazione umanistica, un'apertura culturale che mantenne anche nella città lagunare, dove già nel 1638 figura nell'Accademia degli Unisoni (Emmanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, V, Venezia 1842, p. 279) e nel 1647 in quella degli Incogniti (Le Glorie de gl'incogniti onero gli Huomini Illustri dell'Accademia de' Signori Incogniti di Venezia, Venezia 1647, pp. 113-1 15). V. Paola Rossi, La scultura, in Storia di Venezia, Temi, L'arte, a cura di Rodolfo Pallucchini, II, Roma 1995, p. 120 (pp. 119-160).

92. M. Frank, Spazio pubblico, pp. 111-112.

93. C. Ripa, Iconologia, pp. 247-249: "Piramide, la quale significa la chiara, et alta Gloria de' Prencipi, che con magnificenza fanno fabriche sontuose, e grandi, con le quali si mostra essa gloria".

94. Ibid., pp. 157-158.

95. Ibid., p. 106: Consiglio "Huomo vecchio [...], nella destra mano tenga un libro chiuso con una civetta sopra"; p. 258: Honore "Giovane bello, vestito di porpora [...] con un Cornucopia pieno di frutti, fiori e frondi"; pp. 671-672: Virtù "Una giovane bella [...] nel petto habbia un sole [...], armata"; p. 257: Honestà "Donna con gli occhi bassi, vestita nobilmente, con un velo in testa, che le cuopra gli occhi".

96. Elena Bassi, Cà Flangini e Cà Morosini sul Canal Grande a San Moisè, in AA.VV., Palazzo Ferro Fini. La storia, l'architettura, il restauro, Venezia 1990, pp. 56-59. Cf. U. Ruggeri, Pietro e Marco Liberi.

97. Per ogni riferimento alchemico alla figura di Ercole cf. nn. 185-186.

98. Per l'essenziale riferimento alla vita teatrale veneziana del Seicento (oltre che a Carmelo Alberti, in questo volume) si rimanda alla sintesi recentissima di Lionello Puppi, La Fenice (memoria, fuoco, memoria), e il Barone Frankenstein, "Drammaturgia" (di prossima pubblicazione).

99. M. Frank, Spazio pubblico, p. 112.

100. Giuseppe Maria Pilo, La chiesa dello 'Spedaletto in Venezia, Venezia s.d. [1988], pp. 30-31.

101. M. Frank, Spazio pubblico, p. 113.

102. Mario Brunetti, S. Maria del Giglio vulgo Zobenigo nell'Arte e nella Storia, Venezia 1952; Gino Benzoni, Barbaro, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 86-89; M. Frank, Spazio pubblico, p. 113; Gino Benzoni, Antonio Barbaro o l'esasperazione individualistica, in Una famiglia veneziana nella storia: i Barbaro, Atti del Convegno di Studi in occasione del quinto centenario della morte dell'umanista Ermolao, Venezia 4-6 novembre 1993, a cura di Michela Marangoni-Manlio Pastore Stocchi, Venezia 1996, in partic. p. 511 (pp. 461-511): la guerra di Candia aveva indubbiamente arricchito il Barbaro che "già di `povera casa', è collocato [al termine della sua carriera militare] tra i ῾ricchi'. E solo perché ricco s'è potuto permettere d'immortalarsi tramite la facciata d'una chiesa".

103. A.S.V., Notarile, Testamenti, Atti Notaio Domenico Garzoni Paolini, b. 487, nr. 48; M. Brunetti, S. Maria del Giglio, appendice.

104. E. Bassi, Architettura del Sei e del Settecento, p. 233.

105. C. Ripa, Iconologia, p. 249.

106. Cf. Stefania Mason Rinaldi, Sebastiano Mazzoni, Ritratto di capitano degli alabardieri (scheda a114), in Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia 1570-1670, catalogo della mostra, Venezia 1986, pp. 91-92; Gabriella Delfini Filippi, Sebastiano Mazzoni. Ritratto di capitano veneziano, in Da Padovanino a Tiepolo. Dipinti dei Musei Civici di Padova del Seicento e Settecento, a cura di Davide Banzato - Adriano Mariuz - Giuseppe Pavanello, Milano 1997, pp. 162-163. Ringraziamo Paolo Benassai per i preziosi suggerimenti al riguardo.

107. C. Ripa, Iconologia, pp. 671-672. Cf. n. 95.

108. C. Ripa, Iconologia, p. 258. Cf. n. 95.

109. C. Ripa, Iconologia, p. 192.

110. Ibid., p. 545.

111. M. Brunetti, S. Maria del Giglio, appendice.

112. G. Benzoni, Antonio Barbaro, p. 510.

113. J. Gallego, Façades vénitiennes, p. 587.

114. M. Frank, Spazio pubblico, p. 113.

115. Venezia, Museo Correr, Raccolta di disegni antichi, Fondo Gaspari I, 46; Elena Bassi, Episodi dell'architettura veneta nell'opera di Antonio Gaspari, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 3, 1963, pp. 56-107; Susanna Biadene, Antonio Gaspari: i progetti non realizzati, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra (Venezia 1985), a cura di Lionello Puppi - Giandomenico Romanelli, Milano 1985, pp. 95-96.

116. Venezia, Museo Correr, Raccolta di disegni antichi, Fondo Gaspari I, 41.

117. Ibid., 45; S. Biadene, Antonio Gaspari, p. 96.

118. M. Frank, Spazio pubblico, p. 126.

119. Ibid.

120. Ibid.

121. È da notare assolutamente, al riguardo, un caso singolare ed emblematico. I ricchi e potenti Manin, da poco aggregati al patriziato veneto, elaborarono - tramite lo scultore Giovanni Bonazza, circa il 1727 - un apparato in stucco policromo, da porre sulla facciata della chiesa di Santa Maria Assunta (dei Gesuiti), raffigurante lo stemma gentilizio della famiglia. Un finto drappo dal contenuto laico (con evidenti connotazioni di effimero), oggi non più esistente, dominava dunque il prospetto dell'edificio. "La facciata di S. Maria Assunta non è una facciata di tipo celebrativo tradizionale, essa si inserisce però nel complesso tema dell'architettura celebrativa veneziana in quanto serba elementi carichi di significato che nella loro decifrazione conducono a una committenza laica. Uno di questi elementi, nato dalla fusione tra il linguaggio maniniano a connotazione tipologica riconoscibile e adatta a trasportare contenuti prestabiliti, è questo ῾drappo' che dominava al centro del prospetto. Esso è da un lato una specie di ponte tra esterno e interno che permette di riconoscere la mano progettatrice unitaria dell'intero edificio, e dall'altro, proprio per il suo carattere di proseguire (o di annunciare) l'idea dell'apparato di feste, esso è anche elemento ῾laico' che si lascia ricondurre ai significati dei ῾drap-pi' delle facciate celebrative, quali appunto S. Maria del Giglio": Martina Frank, Virtù e Fortuna. Il mecenatismo e le committente artistiche della famiglia Manin tra Friuli e Venezia nel XVII e XVIII secolo, Venezia 1996, p. 122.

122. Ibid., p. 121.

123. Cf. Matteo Casini, in questo volume.

124. A.S.V., Senato, Terra, filza 1085; Giulio Lorenzetti, Uno scultore berniniano a Venezia, "Ateneo Veneto", 48, 1926, pp. 148-163; Valentina Conticelli, Palazzo Morosini e le architetture celebrative per il doge Peloponnesiaco, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, relatore Lionello Puppi, a.a. 1994-1995, pp. 155-158. Alla Conticelli, che ringraziamo per l'amichevole disponibilità, va il merito di aver trascritto integralmente i documenti qui citati.

125. Giorgio Bellavitis, L'arsenale di Venezia, Venezia 1983, p. 141; Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Venezia 1984, p. 195. Cf. Rodolfo Gallo, La porta d'ingresso dell'Arsenale e il leone del Pireo, "Rivista Mensile della città di Venezia", 4, 1925, pp. 323-333; Antonella Sacconi, L'avventura archeologica di Francesco Morosini, Roma 1981, pp. 51-54 e 81; V. Conticelli, Palazzo Morosini.

126. A.S.V., Senato, Terra, reg. 215, c. 546; e ibid., filza 1089; V. Conticelli, Palazzo Morosini, p. 156.

127. Sull'opera del Parodi in palazzo Ducale v. G. Lorenzetti, Uno scultore; Wolfgang Wolters, Scultura, in Umberto Franzoi - Terisio Pignatti - Wolfgang Wolters, Il Palazzo Ducale di Venezia, Treviso 1990, pp. 216-217. Sul Parodi in generale: Lauro Magnani, La scultura dalle forme della tradizione alla libertà dello spazio barocco, in Genova nell'età barocca, catalogo della mostra, Genova 1992, pp. 291-340.

128. Gli inediti documenti sull'arco Morosini sono stati studiati e trascritti da V. Conticelli, Palazzo Morosini, pp. 160-168. La stessa ha già elaborato sull'argomento un saggio di prossima pubblicazione su "Venezia Arti" cui si rimanda.

129. Ibid., p. 161.

130. Cf. Umberto Franzoi, Storia e leggenda del Palazzo ducale di Venezia, Venezia 1982, con prefazione di Terisio Pignatti, p. 315.

131. Franca Zava Boccazzi, La Basilica dei Santi Giovanni e Paolo in Venezia, Padova 1965, pp. 263-268; Jan Simane, Grofmonumente der Dogen, Sigmaringen 1993, pp. 30-48. Quest'ultimo mette in seria discussione l'attribuzione a Girolamo Grapiglia della partitura architettonica del monumento.

132. Sul monumento Cavazza: Paola Rossi, in Lino Moretti - Antonio Niero - Paola Rossi, La chiesa del Tintoretto. Madonna dell'Orto, Venezia 1994, pp. 38-47. Su Girolamo Cavazza: Gino Benzoni, Cavazza, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIII, Roma 1979, pp. 42-47.

133. M. Frank, Spazio pubblico, p. 122. Sul monumento cf. Antonio Niero, Il monumento Mocenigo a San Lazzaro dei Mendicanti, in Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia 1570-1670, catalogo della mostra, Venezia 1986, pp. 177-181; Bernard Aikema - Dulcia Meijers, Nel regno dei poveri, Venezia 1989, pp. 249-272; Roberta Pellegriti, La chiesa dell'ospedale di San Lazzaro dei Mendicanti, "Arte Veneta", 43, 1989-1990, pp. 152-165.

134. Cf. n. 93.

135. R. Pellegriti, La chiesa dell'ospedale, p. 154.

136. B. Aikema - D. Meijers, Nel regno dei poveri, p. 163.

137. Si fa in questa sede particolare riferimento a Paola Rossi, I "marmi loquaci" del monumento Pesaro ai Frari, "Venezia Arti", 4, 1990, pp. 84-93.

138. Venezia, Museo Correr, ms. Correr 384 e ms. Correr 878. P. Rossi, I "marmi loquaci", p. 84.

139. Così egli caldeggiava - contrapponendosi al doge in carica Bertucci Valier (di cui si illustrerà fra un poco il monumento ai Santi Giovanni e Paolo) promotore della pace -, in un discorso tenuto al senato nel 1657. L'anno dopo veniva eletto doge. "Breve fu il suo dogado, durante il quale Francesco Morosini, capitano generale, prese Calamata in Morea e bloccò i Dardanelli attaccando l'arcipelago e l'Asia Minore. Il Doge morì durante queste felici imprese, il 30 settembre 1659" (Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 397-398). Cf. Gaetano Cozzi - Michael Knapton - Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/ 2), pp. 174-175.

140. Citazione da Trattatisti e narratori del Seicento, a cura di Ezio Raimondi, Milano-Napoli 1960, p. 19; P. Rossi, I "marmi loquaci", pp. 84-85.

141. E. Bassi, Episodi dell'architettura veneta, p. 66; cf. Davide Da Portogruaro, Una gemma della laguna. L'isola di San Clemente in Venezia, "Rivista di Venezia", 13, nov.-dic. 1934, pp. 5-71.

142. A. Da Mosto, I dogi di Venezia, p. 448. Cf. Giuseppe Pavanello, La scultura, in Storia di Venezia, Temi, L'arte, a cura di Rodolfo Pallucchini, II, Roma 1995, p. 443 (pp. 443-484).

143. A. Da Mosto, I dogi di Venezia, p. 449: "Morto il Doge l'esecuzione del monumento venne affidata dalla Dogaressa all'architetto Andrea Tirali, mentre le sculture vennero distribuite fra vari artisti. L'opera non era ancora portata a termine nel 1708, come risulta dal testamento della Dogaressa dell'11 aprile del detto anno in cui si legge che la tomba in terra era ancora priva della lapide che era stata ordinata".

144. Ibid., pp. 449-450: "Un altro progetto di monumento aveva presentato al Doge il proto Antonio Gaspari prima ancora che fosse elevato al trono. Come risulta dal disegno esistente al Museo Correr avrebbe dovuto sorgere nello stesso luogo dell'attuale. Molto più barocco e strano [...]. Fra tutte [le statue] spicca macabra e truce la morte che fugge reggendo un grande drappo nero, che ricorda alla lontana quella del Bernini sulla tomba di Papa Alessandro VII Chigi".

145. Ibid., p. 450: "Silvestro Valier, prima di stabilire coi frati l'erezione del monumento nel luogo dove ora sorge, cioè fra le due cappelle del Nome di Dio e di S. Domenico, aveva sperato ma senza riuscire di ῾poter superare col danaro e con la diligenza le difficoltà [...] per ottenere la facciata dei SS. Giovanni e Paolo, sito tanto nobile e decoroso per la città, chiesa nostra devotissima in cui pure si celebra insigne vittoria pubblica ottenuta nel tempo del principato del medesimo nostro padre [...]'"..

146. Ibid., p. 448.

147. Cf. n. 139.

148. A. Da Mosto, I dogi di Venezia, p. 444: "I cerimoniali ricordano che il 4 marzo 1694 nella camera maggiore del Palazzo Ducale sopra Canonica si vestì in dogalina d'oro con zibellino, velo bianco e corno ingioiellato in capo, cinto, collana e croce di diamanti".

149. Paola Rossi, "Claudius Perreau Parisinus" a Venezia, "Arte Veneta", 43, 1989-1990, pp. 92-97. Sui progetti per i monumenti Morosini a Santo Stefano (Venezia, Museo Correr, Raccolta di disegni antichi, Fondo Gaspari) v.: E. Bassi, Episodi dell'architettura veneta; V. Conticelli, Palazzo Morosini, pp. 105-121.

150. Elena Bassi, Palazzi di Venezia, Venezia 1987 [1976], pp. 480-481.

151. Julius von Schlosser, La letteratura artistica, Firenze 1964, p. 623; indi, Franco Bernabei, Cultura artistica e critica d'arte. Marco Boschini, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 556-559 (pp. 549-574).

152. Francis Haskell, Mecenati e pittori, Firenze 1966, pp. 377 ss.; ma anche Simona Savini Branca, Il collezionismo veneziano nel Seicento, Padova 1965; Krzysztof Pomian, Antiquari e collezionisti, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 493-547, in partic. pp. 493-497. V. anche Vincenzo Fontana, Venezia. Trasformazioni delle residenze signorili fra '600 e '700, in L'uso dello spazio privato nell'età dell'Illuminismo, a cura di Giorgio Simoncini, Firenze 1995, soprattutto pp. 142- 152.

153. Gaetano Cozzi, Federico Contarini: un antiquario veneziano tra Rinascimento e Controriforma, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 190-220: passim. Ma si v., a supporto, le annotazioni di F. Bernabei, Cultura artistica, p. 555 in margine al testo emblematico di Giulio Cesare Bona, Le miserie del mondo [...], Venezia 1660.

154. Cf. Erwin Panofsky, Galileo critico delle arti, a cura di Maria Cecilia Mazzi, Venezia 1985. Il testo della lettera è riportato nell'Appendice.

155. Si v. la circostanziata e acutissima introduzione della curatrice a Marco Boschini, La carta del Navegar pitoresco, a cura di Anna Pallucchini, Venezia-Roma 1966.

156. Per tutto quanto precede, cf. Lionello Puppi, Marco Boschini e la "Carta del JVavegar pitoresco" nell'edizione critica di Anna Pallucchini, "Ateneo Veneto", n. ser., 5, 1967, pp. 159-173.

157. In E. Panofsky, Galileo critico, p. 91. Se ne v. qualche considerazione a margine in Lionello Puppi, Galileo Galilei e la cultura artistica a Venezia tra la fine del 500 e l'inizio del '600, in Galileo e la cultura veneziana, Atti del Convegno di studio (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), Venezia 1995, pp. 248-262: passim.

158. Manfredo Tafuri, Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, Torino 1992, pp. 19 e 31 n. 85.

159. Per un'informazione complessiva sulle vicende biografiche del Boschini, v. Ruggero Maschio, La casa di Marco Boschini, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti", 134, 1975 - 1976, pp. 115-142; Roberto Grazia, Contributi boschiniani, "Studi Secenteschi", 18, 1977, pp. 207-244. Sul collezionista e mercante, valgano soprattutto i contributi di Michelangelo Muraro e Lucia e Ugo Procacci intorno al rapporto di Marco con il cardinal Leopoldo de' Medici, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 4, 1965, rispettivamente alle pp. 65-83 e 85-114. Al riguardo, cf. Lionello Puppi, Per Marco Boschini e Giuseppe M. Mitelli: una lettera ed alcuni appunti inediti, "Arte Veneta", 33, 1979, pp. 164-166.

160. Francesco Scannelli, Il microcosmo della Pittura [...], Cesena 1657, pp. 218-267.

161. Detlev von Hadeln, Einführung a Carlo Ridolfi, Le Maraviglie dell'Arte, I, Berlin 1914, pp. XIII-XLIV.

162. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana [Venezia, 1795-1796]: qui utilizzato nell'ediz. di Milano 1824, V, 8, pt. II, p. 621.

163. Lionello Puppi, La fortuna delle "Vite" nel Veneto dal Ridolfi al Temanza, in Vasari storiografo e artista, Atti del Convegno internazionale di studi, Firenze 1976, pp. 410 SS. Cf., da ultimo, le essenziali ma acute annotazioni di Cecil Gould, Ridolfi the Historian, "Apollo", 125, 1987, pp. 197-199.

164. Francesco Pasqualigo, Carlo Ridolfi scrittore e pittore, Venezia 1878; Domenico Vitaliani, Carlo Ridolfi scrittore e pittore (con documenti inediti), Lonigo 1911.

165. Cf., frattanto, Ginetta Auzzas, Le nuove esperienze della narrativa: il romanzo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 249-295: passim.

166. Carlo Ridolfi, Le Maraviglie dell'Arte, II, Venezia 1648, pp. 306-324.

167. Id., Vita di Giacobo Robusti detto il Tintoretto [...], Venezia 1642: stampatore è Guglielmo Oddoni.

168. Id., Vita di Paolo Caliari celebre pittore [...], Venezia 1646: in codesta circostanza il Ridolfi si affida ai tipi di Matteo Leni: mentre le Maraviglie, com'è noto, saranno stampate da Giambattista Sgava.

169. G. Martinioni, Nuove copiose aggiunte, p. 135.

170. M. Boschini, La carta, Vento VI, pp. 545-546.

171. Sulla raccolta grafica del Ridolfi, v. specialmente K.T. Parker, Disegni veneti di Oxford, catalogo della mostra, Venezia 1958, p. 10; Michelangelo Muraro, Di Carlo Ridolfi e di altre fonti per lo studio del disegno veneto del '600, in Festschrift Ulrich Middeldorf, Berlin 1968, pp. 429-433; L. Puppi, La fortuna delle "Vite", pp. 416-417 n. 34 (su precise e cortesissime informazioni di James Byam Shaw, successivamente rese pubbliche dallo studioso). Per l'identificazione di altri lacerti della collezione ridolfiana, cf. Michelangelo Muraro, Disegni veneti dei secoli XVI-XVII presso il Museo Nazionale di Arte Antica di Lisbona, "Colóquio: Artes", 59, 1983, pp. 41-49.

172. Di codesti personaggi, la figura di gran lunga più interessante è Pietro Michiele, protagonista dell'Accademia degli Incogniti di cui tosto diremo; cf., frattanto, Guido Baldassarri, "Acutezza" e "Ingegno": teoria e pratica del gusto barocco, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 233-239 (pp. 223-247).

173. Sui contenuti, gli interessi, le espressioni delle accademie veneziane del Seicento, pagine penetranti e illuminanti ha scritto Gino Benzoni, di cui basti qui ricordare i saggi: Le Accademie, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 131-162; e Per un profilo dell'Italia accademica, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 152/I, 1993-1994, pp. 1-44.

174. Sull'Accademia degli Incogniti, e sulla figura catalizzante del Loredano, v., da ultimo, Emilio Zanette, Suor Angela monaca del Seicento veneziano, Venezia-Roma 1960, pp. 258-269; Ivo Mattozzi, Nota su Giovan Francesco Loredano, "Studi Urbinati", n. ser., 40, 1966, pp. 257-288; G. Auzzas, Le nuove esperienze, pp. 255-287; G. Baldassarri, "Acutezza" e "Ingegno", pp. 231-238. Per le connessioni con la cultura figurativa, cf. Nicola Ivanoff, Gian Francesco Loredan e l'ambiente artistico a Venezia nel Seicento, "Ateneo Veneto", n. ser., 3, 1965, pp. 186-190; e Lionello Puppi, "Ignoto Deo" [1969], in Id., Verso Gerusalemme, Roma-Reggio Calabria 1982, pp. 213-234.

175. Giovala Francesco Loredano, Ragguagli di Parnaso, in Id., Bizzarie Accademiche, Venezia 1666, pt. I, p. 131.

176. Gaetano Cozzi, Cultura e religione nella "pubblica storiografia" veneziana nel '500, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 5-6, 1963-1964, pp. 215-294: passim. Inoltre, Gino Benzoni, La cultura: contenuti e forme, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi-Paolo Prodi, Roma 1994, pp. 550-557 (pp. 515-588); e Id., Appunti sulla storiografia secentesca in Italia, "Atti dell'istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 154, 1995-1996, pp. 795-821.

177. Mario Praz, Le bizzarre sculture di Francesco Pianta, Vicenza 1959, p. 8. Sul ciclo cf. Enrico Lacchin, Di Francesco Pianta junior bizzarro e capriccioso scultore in legno del barocco veneziano e dei suoi "geroglifici" nella scuola di San Rocco, Venezia 1930.

178. Come stabilito da M. Praz, Le bizzarre sculture, p. 7. Cf. E. Lacchin, Di Francesco Pianta junior, p. 14: "Gli atti del Notaio Fernabò, presso il quale il Pianta aveva registrato la sua biblioteca, ci davano l'elenco delle opere principali di essa, fra queste c'era La più che novissima Iconologia con varie immagini ecc. di Cesare Ripa".

179. Cf. più sotto e a n. 187.

180. Questo è l'ordine come ricostruito da E. Lacchin, Di Francesco Pianta junior, pp. 14-15: " 1. Malinconia / 2. Honor / 3. Avaritia / 4. Ignoranza / 5. Scientia / Diceria nel riquadro / 6. Distinzione del bene dal male / Speculazione nel secondo riquadro / 7. Furore / Magnificenza nella libreria / 8. Spia o curiosità / 9. Scandalo o scrupolo / 10. Piacere onesto / 11. Cicerone in difesa della scultura / Vigilanza nel riquadro / 12. Giacomo Robusti per la pittura / 13. Abbondanza / 14. Stratagemma esempio / 15. Biasimo vitioso / Geroglifici sotto le finestre". Concludono il ciclo, sulla parete verso il campo, le raffigurazioni delle virtù teologali, mentre al centro, sovrastante la Speranza, campeggia un colossale Ercole.

181. C. Ripa, Iconologia, pp. 208-209: "Gli Egittij occultarono la filosofia sotto oscuri velami di favole, et Geroglifici secreti, Pitagora la vestì con un drappello d'oscuri simboli, Empedocle con Enigmi. Protagora con intricati commenti, Platone con sensi mistici, Gorgia con bizzarri, fallaci, et contrarij argomenti, che tutte le cose sono e non sono, Zenone l'istesso con possibili, et impossibili esperienze, Aristotele con termini oscuri et difficile testura di parole"; M. Praz, Le bizzarre sculture, p. 7.

182. M. Praz, Le bizzarre sculture, pp. 10- 11.

183. Cf per la medesima simbologia: Maurizio Calvesi, La melanconia di Albrecht Dürer, Torino 1993.

184. Cf. più sopra e alla n. 140.

185. Cf. Lina Bolzoni, Eloquenza e alchimia in un testo inedito di Giulio Camillo Delminio, "Rinascimento", n. ser., 14, 1974, pp. 244-245.

186. Coluccio Salutati, De laboribus Herculis, I, a cura di B.L. Ullmann, Turici 1951, p. 168. Cf.: V. Cartari, lmagini detti Dei, p. 184; John Read, Alchimia e magia e la "separazione delle due vie", in Magia e scienza nella civiltà umanistica, a cura di Cesare Vasoli, Bologna 1976, p. 86. Su Ercole dominatore dei quattro elementi: Michael Maier, Atalanta fugiens, a cura di Bruno Cerchio, Roma 1984 [Openheimii 1618]. Cf. Ruggero Rugolo, L'alchimia in villa: il ciclo erculeo di Orazio Marinali nel giardino delle Esperidi di villa Cornaro a Sant'Andrea di Cavasagra, "Storia dell'Arte", 81, 1994, pp. 259-277; e Id., Agricoltura e alchimia nel Rinascimento. Un'introduzione allo studio della villa veneta, "Studi Veneziani", n. ser., 27, 1994, pp. 127-164.

187. M. Praz, Le bizzarre sculture, p. 49.

188. Cf. Giandomenico Romanelli, Tintoretto. La Scuola Grande di San Rocco, Milano 1994.

189. Ennio Concina, Luca Carlevarijs, pittor nostro e matematico, in Luca Carlevarijs. Le Fabbriche e Vedute di Venezia, catalogo della mostra (Udine 4 dicembre 1995 - 20 gennaio 1996), Venezia 1995, p. 10 (pp. 9-15). V., in questo testo, anche la bibliografia precedente.

190. Ibid., p. 14.

191. Isabella Reale, Le " Venete Magnificenze" di Carlevafs, in Luca Carlevarijs. Le Fabbriche e Vedute di Venezia, catalogo della mostra (Udine 4 dicembre 1995 - 20 gennaio 1996), Venezia 1995, pp. 17-44, in partic. 18-20.

192. Terisio Pignatti - Filippo Pedrocco, Disegni antichi del Museo Correr di Venezia, I, Venezia 1980, p. 135.

193. Sulla questione attributiva dei rilievi si v.: Massimiliano Rossi, La poesia scolpita. Danese Cattaneo nella Venezia del Cinquecento, Lucca 1995, pp. 25-38.

194. M. Tafuri, Il pubblico e il privato, p. 414.

195. Charles de Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari, Bari 1992, pp. 119-120. Cf. Adriano Mariuz, La pittura (I), in Storia di Venezia, Temi, L'arte, a cura di Rodolfo Pallucchini, II, Roma 1995, p. 284 (pp. 251-383).

196. Esse sono: Canal Grande da campo San Vio verso il bacino di San Marco; Piazza San Marco verso la Basilica (nella Fondazione Thyssen-Bornemisza, Madrid); Canal Grande da palazzo Balbi verso Rialto; Rio dei Mendicanti (nel Museo del Settecento veneziano a Ca' Rezzonico, Venezia). Filippo Pedrocco, Gli anni giovanili del Canaletto. Le vedute già Liechtenstein, in Canaletto Visentini. Venezia e Londra, catalogo della mostra, a cura di Dario Succi (Venezia, 18 ottobre 1986 - 6 gennaio 1987), Cittadella 1986, pp. 27-32. Cf. Lionello Puppi, L'opera completa del Canaletto, Milano 1968, p. 90; Terisio Pignatti, Antonio Canal, detto il Canaletto, Firenze 1996.

197. Cf. André Corboz, Canaletto. Una Venezia immaginaria, I, Milano 1985, p. 336.

198. Lionello Puppi, [...] I cavalli bronzei di San Marco in Piazzetta (scheda 2.17), in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra (Venezia 1985), a cura di Id. - Giandomenico Romanelli, Milano 1985, p. 78.

199. Id., [...] Rialto con il ponte secondo il progetto di Palladio e con altri edifici palladiani (scheda 2.12), ibid., p. 76.

200. André Corboz, Venezia negata, ibid., p. 74.

201. Cf. Id., Profilo per un'iconografia veneziana, in Luca Carlevaijs e la veduta veneziana del Settecento, catalogo della mostra (Padova 1994), a cura di Isabella Reale - Dario Succi, Milano 1994, p. 34 (pp. 21-34).