UNIONE EUROPEA

Enciclopedia del Cinema (2004)

Unione Europea

Luciana Castellina

Il finanziamento nell'ordinamento comunitario

Il Fondo europeo di sostegno cinematografico Eurimages è nato nel 1988, sulla base di un accordo liberamente concluso da una parte dei Paesi aderenti al Consiglio d'Europa. Eurimages ha l'obiettivo di promuovere negli Stati membri, attraverso aiuti di tipo finanziario, la coproduzione, la distribuzione e la diffusione di opere cinematografiche e audiovisive.

Il Fondo è stato creato allo scopo di sostenere lo sviluppo dell'industria cinematografica e audiovisiva europea e, in particolar modo, le coproduzioni multilaterali, ovvero, l'espressione più immediata della cooperazione creativa e imprenditoriale tra produttori di Paesi diversi. Dall'inizio della sua attività (1° gennaio 1989) i suoi meccanismi di funzionamento si sono affinati e consolidati, trasformandolo nel più importante fondo di incentivazione per la produzione cinematografica europea; basti pensare che dal 1989 alla fine del 1999 ha sostenuto la coproduzione di 737 lungometraggi e documentari di creazione. Sino al dicembre 1999 il sostegno di Eurimages era unico, con le stesse regole di ammissibilità e gli stessi criteri di selezione per tutti i film; poi, considerata invece la diversità dei progetti, il Comitato di direzione ha deciso di introdurre (dal gennaio 2000) due diversi tipi di sostegno. L'uno per i film con un reale potenziale di circolazione internazionale e l'altro per i film che riflettano le diversità culturali (v. oltre: L'eccezione culturale) del cinema europeo.

Il finanziamento accordato si aggira intorno al 12-15% del budget di produzione e costituisce un prestito senza interesse nella forma di 'anticipazione sui proventi': questo viene ripartito tra ciascun coproduttore in proporzione alla sua partecipazione finanziaria (art. 6 Regolamento per il sostegno alla coproduzione di film di lungometraggio, di animazione e di documentari). Per poter accedere al Fondo i produttori, persone fisiche o giuridiche, devono essere qualificati come tali nel rispettivo Paese di origine ed essere completamente indipendenti dai network televisivi nazionali (pubblici o privati). Per il progetto, ovviamente sono previsti dei requisiti di ammissibilità, in realtà molto semplici: la partecipazione del coproduttore maggioritario non può superare l'80% del budget totale di coproduzione, mentre quella del minoritario non deve essere inferiore al 10%. I progetti a elevato potenziale commerciale devono essere inoltre accompagnati da previsioni di vendita (stilate da un agente di vendita accreditato), numero e qualità degli accordi di distribuzione e percentuale di finanziamento coperta dalle vendite. Vengono altresì valutati il valore artistico e culturale del progetto e l'esperienza del cast artistico e tecnico.

Il finanziamento può essere erogato proporzionalmente a ciascuno dei coproduttori o versato al produttore delegato, in tre tranches; si può ben dire che la documentazione richiesta per l'inoltro della domanda è considerevole, ma è condizione necessaria affinché il Consiglio possa riunirsi e procedere alla valutazione di merito. Una volta assegnato il finanziamento, il Fondo formalizza il contratto entro i due mesi successivi al termine delle riprese.

Il finanziamento e le regole di diritto internazionale

Una regolamentazione dettagliata degli accordi che disciplinano la coproduzione internazionale è fornita dalla Convenzione europea sulla coproduzione cinematografica stipulata a Strasburgo il 2 ottobre 1992, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla l. 5 novembre 1996, nr. 596. La Convenzione rappresenta un efficace strumento normativo in grado di regolare simultaneamente tanto il rapporto coproduttivo vero e proprio quanto quello più strettamente finanziario.

Nel ridurre le restrizioni alla cooperazione intereuropea tra imprese cinematografiche, la Convenzione ha l'obiettivo di salvaguardare l'identità culturale dell'opera cinematografica, indirizzandola verso un modello artisticamente e tecnicamente equilibrato denominato opera cinematografica europea. Gli accordi internazionali e la stessa Convenzione poi impegnano gli Stati ad ammettere il film realizzato in coproduzione, al pari di un qualsiasi film nazionale, ai benefici previsti dalle disposizioni in vigore in ciascuno dei Paesi coproduttori. In generale, i trattati o accordi bilaterali stabiliscono i requisiti che la coproduzione deve soddisfare per poter essere riconosciuta tale dalle autorità nazionali dei coproduttori, con attenzione specifica all'apporto del coproduttore minoritario onde assicurarsi che esso si sostanzi in una partecipazione tecnica e artistica e non meramente finanziaria. Ed è proprio con l'art. 8 comma 1 della Convenzione che si afferma che "il contributo di ciascun coproduttore deve obbligatoriamente comportare una partecipazione tecnica e artistica effettiva". In merito alla proporzione dei rispettivi contributi la Convenzione, all'art. 6, distingue due ipotesi: a) nel caso di coproduzione multilaterale (realizzata da più di tre imprese di produzione) la partecipazione minoritaria non può rappresentare meno del 10% del costo totale di produzione dell'opera cinematografica, mentre la partecipazione maggioritaria non può rappresentarne più del 70%; b) qualora la Convenzione funga da accordo bilaterale tra due parti, la partecipazione minoritaria non potrà essere inferiore al 20% e la partecipazione maggioritaria non potrà superare l'80% del costo totale di produzione del film.

L'eccezione culturale

L'espressione eccezione culturale, sebbene venga comunemente considerata acquisita con l'Accordo GATS (General Agreement on Trade and Services) raggiunto a Marrakech il 15 aprile 1994 (entrato in vigore il 1° gennaio 1995), in realtà non corrisponde a nulla che esista davvero. Dovrebbe riferirsi a un'esenzione generale del settore audiovisivo (opere cinematografiche di lungo e corto metraggio e fiction televisive: telefilm, serials o sceneggiati a puntate, cartoni animati, documentari creativi) dalle regole fissate a conclusione del ciclo negoziale chiamato Uruguay Round dal nome del Paese dove era decollato nel 1986, e dedicato essenzialmente alla liberalizzazione dei servizi.

Tale risultato, perseguito dall'U. E. e, con molta fermezza, in particolare da alcuni Stati membri, per primo la Francia, così come dalla maggioranza del Parlamento Europeo (Risoluzione PE sugli aspetti culturali del GATT del 15.7.93 B3-1011, 1012, 1039, 1040, 1045/93 in GUCE C255/182, 20 sett. 1993) avrebbe dovuto consistere nell'inserimento del settore audiovisivo nella lista di quelli coperti dalle "Esenzioni generali" (art. XIV dell'accordo GATS), riservata solo a servizi assai circoscritti attinenti a sicurezza nazionale, morale, protezione della salute ecc. L'ostinato rifiuto degli Stati Uniti a questa ipotesi ha però impedito una tale soluzione e quanto gli europei hanno ottenuto con l'accordo è semplicemente un'esclusione di fatto del settore audiovisivo, che resta però incluso in linea di diritto e dunque soggetto alle regole dettate dal GATS e obbligatoriamente imposte dalla WTO (World Trade Organization).

Tale inclusione, tuttavia, non ha comportato nell'immediato grandi conseguenze in quanto l'U.E., per un verso ha ottenuto (attraverso l'opting out) alcune specifiche esenzioni (relative alla produzione e distribuzione di film e di programmi televisivi) alla clausola della NPF (Nazione più favorita) contenuta nell'art. II dell'Accordo che proibisce ogni discriminazione fra i servizi offerti dai membri della WTO e dunque avrebbe proibito i trattati bilaterali di coproduzione; per altro verso (ricorrendo alla discrezionalità dell'opting in), non ha: a) assunto alcun impegno in merito alla clausola del 'trattamento nazionale' (art.VII), che l'avrebbe obbligata a trattare i servizi stranieri e coloro che li forniscono allo stesso modo in cui sono trattati i propri (per es. concedere anche a loro le proprie sovvenzioni e facilitazioni); b) non si è impegnata sulla clausola dell''accesso al mercato' (art. XVI), così conservando il diritto, per es., di stabilire quote. Molto meno di quanto avrebbero voluto coloro che si proponevano di salvaguardare in modo permanente e in nome di un inderogabile principio il diritto a regolare autonomamente e a sostenere in piena libertà la propria produzione audiovisiva, in virtù del carattere delicatissimo e vitale che essa riveste per ogni Paese. Se è vero infatti che la soluzione di compromesso trovata ha lasciato più o meno le cose come erano prima, è tuttavia da rilevare che a differenza di quanto stabilisce una eccezione generale, le esenzioni applicate a un numero limitato di casi sono, come precisato nell'Allegato relativo alle eccezioni ex art. II, del tutto temporanee; e comunque non coprono gli eventuali nuovi servizi audiovisivi, una limitazione di enorme portata se si pensa che nelle 10.000 pagine del testo finale varato a Marrakech la parola Internet non appare mai. Il compromesso faticosamente raggiunto per evitare una rottura fra Europa e Stati Uniti, che avrebbe annullato sette anni di difficile negoziato sugli altri servizi in discussione, regola solo in modo provvisorio il contenzioso, la filosofia della WTO consistendo nella progressiva eliminazione di ogni ostacolo o discriminazione nella circolazione di beni e servizi, da raggiungersi a ogni appuntamento negoziale da cui si deve uscire con un passo in avanti e non con quello che viene ritenuto un arretramento. E infatti al summit di Seattle della WTO (dic. 2000), che avrebbe dovuto dare il via al nuovo ciclo negoziale, il Millennium Round, la riapertura del contenzioso sull'audiovisivo era all'o.d.g., in osservanza dell'art. XIX GATS, che impone di "ottenere progressivamente un più alto livello di liberalizzazione nei servizi, incluso quello audiovisivo". Fallito quel vertice per le contraddizioni interne alla WTO e l'ampia protesta dei movimenti no global, il tema ricompare in quello di Daha, capitale del Quatar, dove nel novembre del 2001 è ricominciato il negoziato che si svolge fra i rappresentanti dei Paesi membri dell'organizzazione. La cosiddetta eccezione culturale è stata denunciata da Washington, e in particolare dalla potente MPAA, Motion Picture Association of America, l'associazione delle majors cinematografiche hollywoodiane, come anacronistica forma di protezionismo. All'accusa i suoi sostenitori hanno risposto che non si tratta di protezionismo ma di legittima difesa delle proprie identità e della diversità culturali, minacciate di scomparire se si lascia dettar legge al solo mercato.

La difesa delle diversità culturali ‒ della ricchezza che esse rappresentano ‒ è così diventata, a partire dagli anni Novanta del 20° sec., una bandiera fondamentale, in particolare dell'U.E., che, per la presenza nel suo seno di tante nazionalità e idiomi diversi, appare subito più sensibile rispetto alla minaccia che i meccanismi indotti dalla globalizzazione inducono. L'espressione è declinata al plurale, perché tutti sono concordi nel sottolineare il carattere nazionale e non comunitario delle culture europee, sicché solo le politiche mirate alla loro difesa sono comuni ma non tutto il resto (dagli ordinamenti scolastici alle politiche audiovisive), ogni Stato membro essendo assai geloso di questa competenza che infatti è tuttora soggetta al diritto di veto. Tale diritto è stato ribadito nel Trattato di Nizza dell'U.E. nel 2001, dove non ha trovato posto la proposta di modificare l'art.133 del precedente Trattato di Amsterdam, vale a dire l'introduzione, anche per cultura e commercio del settore audiovisivo, del voto di maggioranza. E questo proprio nel timore, soprattutto francese, che qualche Stato membro potesse cedere nel negoziato sull'audiovisivo in seno alla WTO.

Il fondamento dell'eccezione culturale sta nella definizione di questo bene anomalo che è il cinema e la fiction, prodotto commerciale, in quanto incorporato in una merce serialmente riproducibile, merce che ha valore per qualcosa che in realtà non si vende (il film), giacché si vende o un servizio (la proiezione o la trasmissione), o la videocassetta, che però vuota non varrebbe niente. Ma che, soprattutto, non è paragonabile, per ben più profonde ragioni ‒ come ha detto J. Delors, presidente dell'U. E. in quegli anni ‒ "a un frigorifero o a un'automobile" (discorso alle Assise europee dell'audiovisivo, a Parigi 1989). Se a questi due beni è infatti possibile applicare la teoria classica dei vantaggi comparati, e dunque può essere giusto produrli laddove appaia economicamente più conveniente, altrettanto non si può dire per un film: un frigo prodotto a Hollywood, ad Algeri, a Pechino, a Buenos Aires o a Roma è infatti, più o meno, sempre lo stesso frigo, un'o-pera cinematografica invece no. Essa incorpora infatti valori socio-culturali e non solo economici: le memorie storiche, le fantasie, i comportamenti, valori comuni di un popolo, il suo immaginario collettivo, ingredienti fondanti di quel senso di appartenenza, di quel senso comune in cui ha radici il consenso, senza il quale una democrazia non potrebbe esistere.

Sono proprio queste implicazioni sociali forti che impediscono agli Stati di cedere la propria sovranità su questo terreno e che hanno fatto percepire la massiccia conquista del mercato audiovisivo europeo (in realtà del mondo intero) da parte del prodotto americano (dati dell'European cinema yearbook 2000: 71 % nelle sale, ma più alta percentuale per i programmi televisivi) come un esproprio insopportabile per qualsiasi popolo. Non è un caso, del resto che, in un passaggio di millennio dominato dal dogma liberista, la cultura abbia costituito un nodo insoluto in tutti i negoziati commerciali internazionali ‒ generali o regionali ‒ e alla fine non si sia mai riuscita a includerla nell'accordo finale.

La richiesta di abolizione delle quote (introdotte nell'U.E., ma in forma non obbligatoria e per le sole trasmissioni televisive, con la direttiva Televisione senza frontiere del 1989), così come di ogni distorsione della concorrenza (sussidi, crediti, ecc., previsti in particolare attraverso il programma Media dell'Unione e quello Euroimages del Consiglio d'Europa, v. sopra), avanzata dagli Stati Uniti, viene respinta dagli europei anche in nome di ragioni strettamente economiche: le possibilità di ammortizzare gli investimenti di un film per un piccolo Paese la cui lingua è parlata solo da qualche milione di persone è infinitamente inferiore a quella di un film prodotto negli Stati Uniti che può contare su un vastissimo mercato domestico monolinguistico e su un'egemonia mondiale del Paese, conquistata non solo attraverso la cultura, che ha imposto l'inglese come lingua franca e l'American way of life come modello universale. Senza un sostegno pubblico ‒ ecco la tesi europea, a giustificazione di misure esistenti in proporzioni più o meno estese in tutti i suoi Stati membri e a livello comunitario ‒ una produzione di film e di fictions non sarebbe più possibile. Le diversità culturali, una volta allineato il prodotto audiovisivo alle altre merci o agli altri servizi, sarebbero fatalmente destinate a scomparire o a essere confinate in manifestazioni del tutto marginali.Se si tiene conto di queste implicazioni si comprende il carattere a volte drammatico che ha opposto le parti in occasione del negoziato dell'Uruguay Round, quando gli Stati Uniti tentarono con risolutezza di inserire il settore audiovisivo nell'accordo GATS. Con le parole di allora di F. Mitterrand, quel che è in gioco "è l'identità culturale delle nostre nazioni, il diritto di ciascun popolo alla propria cultura, si tratta della libertà di creare e di scegliere le nostre immagini. Una società che abbandona ad altri i propri mezzi di rappresentazione, vale a dire gli strumenti per autorappresentarsi, è una società asservita". La posizione americana, rappresentata dal presidente della MPAA, Jack Valenti (e poi dal delegato ufficiale del governo, Michael Kontor) puntò su un'interpretazione economicistica del dibattito, tentando di sminuire la considerazione del contenuto culturale (per il dibattito cfr. Grant 1995). Al Millennium Round la posizione americana si è fatta più accorta, consapevole dei disastri diplomatici generati dal conflitto di Marrakech, tanto è vero che nella posizione presentata nel dicembre del 2000 al Consiglio della WTO sul commercio dei servizi audiovisivi si riconosce indirettamente l'importanza delle diversità culturali, ammettendo la necessità di tener conto delle specifiche sensibilità del settore, e di riconoscere la possibilità di ricorrere a sussidi a sostegno della produzione audiovisiva nazionale. Tale eventualità, nella posizione statunitense, deve essere circoscritta escludendo l'estensione di tali misure a nuovi servizi. Ben più delle proiezioni in sala, o delle trasmissioni della vecchia TV generalista, conta ormai la Pay Tv, la Pay per View, Internet.

Bibliografia

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J.M. Grant, Jurassic trade dispute: the exclusion of the audiovisual sector from the GATT, in "Indiana law journal", 1995, 70.

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