Unione Europea

Enciclopedia delle Scienze Sociali I Supplemento (2001)

UNIONE EUROPEA

Sergio Romano e Roberto Santaniello

Aspetti istituzionali di Sergio Romano

Introduzione

Ogni storico dell'integrazione europea ricerca nel passato le sue origini più lontane e attribuisce importanza ai teorici o politici che l'hanno auspicata. Tra queste prime manifestazioni di 'europeismo' e il processo che occupa la seconda metà del XX secolo esiste tuttavia una fondamentale differenza. I 'precursori' parlano di Europa, ma intendono in realtà l'unica regione politica che abbia una rilevanza mondiale. Ne auspicano l'unità perché desiderano l'avvento di una società universale in cui i singoli Stati collaborino insieme alla creazione di un ordine ideale e razionale. Hanno un piede nel passato (il Sacro Romano Impero, la Res publica christiana) e un piede nel futuro. Alla fine della prima guerra mondiale, ad esempio, il dibattito sull'unità europea si confonde spesso con quello sulla Società delle Nazioni, vale a dire su un'organizzazione che è, soprattutto dopo il rifiuto americano di farne parte, dominata da Stati europei con la partecipazione di alcuni soci di altri continenti, per quanto possibile europeizzati (il Giappone, l'Etiopia, alcuni paesi dell'America Latina).

L'ordine mondiale è ancora, nel 1919, un ordine europeo. Parlare di unità dell'Europa significa in realtà, con qualche forzatura, parlare di unità del mondo. Fanno eccezione in questo quadro, per certi aspetti, alcuni studiosi italiani. Nelle lettere che scrive per il "Corriere della Sera" con lo pseudonimo di Junius, Luigi Einaudi si chiede, a proposito della Società delle Nazioni, se non convenga, in una prima fase, creare federazioni 'omogenee', composte da nazioni latine, germaniche, slave. In un breve libro apparso nel 1918, Federazione europea o Lega delle nazioni, Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati (un industriale e un economista) si spingono più in là e propongono la creazione di un'Europa federale. Alla fine del libro, pubblicato mentre la guerra è ancora in corso, gli autori scrivono: "Ogni ideale ha il suo tempo. Mentre il principio di nazionalità, considerato come base per la costruzione dello Stato, sembra avere esaurito la sua funzione politica, il concetto di un vincolo morale e giuridico ognora più stretto fra gli Stati d'Europa appare sotto la forma di un vero imperativo categorico alle menti meno illusionistiche del mondo: quelle dei diplomatici. Bethmann Hollweg tende su questo punto la mano a Wilson, Czernin a sir Edward Grey, Asquith a Lloyd George. Gli è che le cause storiche, sociali, economiche e politiche che la guerra ha portato a maturazione, sembrano cospirare a favore del grande ideale". È una visione straordinariamente anticipatrice, ma suggerita pur sempre dal desiderio di meglio organizzare ciò che è ancora, agli occhi degli autori, il centro del mondo.

L'Europa di cui abbiamo parlato, nel corso della seconda metà del Novecento è invece una realtà alquanto diversa. Dopo essere stata per molti secoli il fulcro della politica mondiale, una larga parte del continente ha la sensazione di essere divenuta soltanto il campo di battaglia su cui alcune grandi potenze, in tutto o in parte extraeuropee, potrebbero combattere la terza guerra mondiale. Uno dei suoi Stati più importanti, la Gran Bretagna, è uscito vincitore dal conflitto, ma è, per la sua collocazione geografica e per le sue ramificazioni internazionali, il meno europeo del continente. Gli altri hanno subito sconfitte o distruzioni. La Francia siede al tavolo dei vincitori perché ha combattuto contro la Germania ed è stata rappresentata a Londra durante l'occupazione da un uomo straordinario, il generale de Gaulle. Ma è stata battuta e costretta a firmare un armistizio nel luogo stesso (un vagone ferroviario nella foresta di Compiègne) in cui il suo vincitore aveva firmato un armistizio alla fine della prima guerra mondiale. Due paesi neutrali - la Svezia e la Svizzera - hanno dovuto piegarsi ai desideri della Germania e recitare in alcuni momenti la parte del vassallo. Su un altro Stato neutrale, la Spagna, pesa, per le sue simpatie con i paesi dell'Asse, una sorta d'interdetto. Altri ancora sono stati occupati dall'Armata rossa e il loro nuovo status è ora simbolicamente rappresentato da una nuova denominazione geografica: erano Mitteleuropa, sono diventati Europa orientale. Per gli Stati che conservano la sovranità nazionale e sono ancora padroni del loro futuro, l'integrazione europea non è più sinonimo di 'nuovo ordine mondiale': è il progetto politico-istituzionale con cui essi intendono risolvere il problema della loro insicurezza e della loro prosperità. Il dibattito sull'Europa, in altre parole, è strettamente collegato a quello sul declino dello Stato nazionale europeo in un contesto mondiale dominato da due superpotenze.

Per parlare di 'questa' Europa, quindi, occorre ricordare principalmente le idee e i fatti che hanno con essa un rapporto diretto. Tra le idee ricorderò un saggio, scritto durante il conflitto; tra i fatti, paradossalmente, un'iniziativa politica che non fu presa dall'Europa, ma ne interpretò perfettamente le esigenze e divenne, per molti aspetti, un atto fondatore del suo processo unitario.

Il Manifesto di Ventotene

Il libro in cui Luigi Einaudi aveva raccolto i suoi articoli per il "Corriere della Sera" fu pubblicato nel 1920 e finì poco meno di vent'anni dopo fra le mani di due giovani antifascisti - Ernesto Rossi e Altiero Spinelli - che il regime aveva confinato nell'isola di Ventotene. Rossi, studioso di economia, ebbe l'autorizzazione di corrispondere con Einaudi e ricevette alcuni studi dei teorici inglesi del federalismo, apparsi negli anni precedenti, fra cui il libro di Lionel Robbins su The economic causes of war. Da queste letture e dalle discussioni che Rossi e Spinelli ebbero con un giovane triestino, Eugenio Colorni, nacque qualche anno dopo il Manifesto per l'Europa libera e unita (più noto come il Manifesto di Ventotene), uno dei più interessanti documenti del nuovo europeismo.

I due autori principali - Rossi e Spinelli - avevano talenti e formazioni intellettuali alquanto diversi. Il primo era, e diverrà ancor più dopo la fine della guerra, un liberale radicale, instancabile fustigatore di monopoli, oligopoli, barriere tariffarie e pratiche protezioniste. Il secondo era divenuto comunista dopo l'avvento del fascismo, nella convinzione che l'internazionalismo proletario e l'Unione Sovietica avrebbero messo fine alle competizioni nazionalistiche. Ma era stato profondamente deluso dall'ostilità dell'URSS verso le socialdemocrazie e dalla disciplina con cui i comunisti occidentali avevano accettato gli ordini di Mosca anche in circostanze da cui egli era stato profondamente turbato: il terrore staliniano nella seconda metà degli anni trenta e la firma del trattato di amicizia tedesco-sovietico dell'agosto 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale. La notizia della conclusione di un trattato fra la 'patria' del socialismo e il paese che era stato sino a qualche ora prima il 'nemico di classe' e l'incarnazione di tutti i mali contro cui il comunismo avrebbe dovuto lottare, lo convinse definitivamente che la politica dell'URSS era spregiudicatamente nazionale.

Nel momento in cui abbandonò il partito Spinelli annotò nei suoi diari: "Ero ormai intellettualmente in mare aperto, ed il solo fatto di avere ormai lasciato dietro di me irrevocabilmente il porto, faceva sì che volgendomi a guardarlo da una distanza crescente lo vedevo parte di una assai più vasta costa ed assumeva un aspetto diverso da quel che aveva avuto finché c'ero stato dentro". Il risultato di questa nuova prospettiva fu anzitutto una riflessione originale sulla natura degli Stati totalitari. Essi non erano, come affermavano i comunisti, il colpo di coda della borghesia contro le forze crescenti del proletariato. Erano la naturale conseguenza delle lotte nazionali per la conquista del potere. Era inutile quindi sperare che la sconfitta della Germania potesse modificare l'ordine europeo e che i comunisti dessero un contributo determinante al superamento delle realtà nazionali. Ed era inutile sperare che la pace e la convivenza civile potessero venire assicurate, dopo la guerra, da una nuova Società delle Nazioni. Occorreva invece approfittare della grande crisi provocata dal conflitto per preparare l'unica rivoluzione a cui mettesse conto lavorare: la rivoluzione europea. Per realizzare questo obiettivo gli autori del Manifesto ritenevano necessaria la nascita di un nuovo movimento politico, composto da europeisti, militanti e 'rivoluzionari'.

Nacque così a Milano, nell'agosto del 1943, il Movimento italiano per la federazione europea.Una delle prime adesioni venne dalla persona che aveva ispirato con i suoi scritti alcune riflessioni del Manifesto. Dopo un incontro in Svizzera con Rossi e Spinelli, Einaudi accettò di scrivere per il Movimento un lungo saggio sui Problemi economici della federazione europea, in cui riprese il filo dei ragionamenti iniziati nell'ultima fase della prima guerra mondiale. La sovranità assoluta degli Stati nazionali spingeva ciascuno di essi a perseguire l'obiettivo dell'autosufficienza economica e conteneva in sé, potenzialmente, il principio dannoso dell'autarchia. Soltanto una federazione europea avrebbe creato le condizioni di quel liberalismo economico che Einaudi, a differenza di Benedetto Croce, considerava necessario all'esercizio della libertà politica. Alle obiezioni di coloro che nella creazione di un mercato supernazionale vedevano danni irreparabili per l'economia dei singoli Stati europei, Einaudi rispondeva che la libera concorrenza su scala continentale e la libera circolazione delle merci sul territorio della federazione avrebbero assicurato grandi vantaggi a tutti i popoli dell'Europa. Non è tutto. A quanti temevano la nascita, in tale prospettiva, di grandi centri economici che avrebbero schiacciato la vitalità spirituale dei vecchi centri nazionali, Einaudi rispondeva che la federazione avrebbe liberato ogni popolo dall'obbligo di difendere con le armi il proprio territorio dalle aggressioni nemiche e gli avrebbe permesso di partecipare maggiormente alla vita politica e culturale. Più di cinquant'anni dopo, queste considerazioni hanno una straordinaria attualità e sono un'efficace replica ai movimenti localisti dell'ultimo decennio.

Chi sventola contro l'Europa delle multinazionali e dell'euroburocrazia la bandiera della sua piccola patria non sembra rendersi conto che è debitore di questa possibilità al processo d'integrazione europea. Nel clima delle forti competizioni tra Stati nazionali che caratterizzò la storia europea sino alla fine della seconda guerra mondiale, questi patriottismi locali furono sempre considerati una minaccia alla coesione nazionale e fieramente combattuti.

Il Consiglio d'Europa, il piano Marshall

Non tutti gli Stati europei erano egualmente pronti a sacrificare una larga parte della loro sovranità nazionale. La Gran Bretagna desiderava trasformare il suo impero in un Commonwealth di libere nazioni e mantenere così, in forme diverse, una funzione mondiale. In Francia le aspirazioni europeiste coesistevano, spesso negli stessi uomini politici, con il desiderio di restaurare per quanto possibile il prestigio e la grandezza della nazione francese nel mondo.

L'Italia e la Germania erano pronte ad accettare il sacrificio di una parte importante della loro sovranità nazionale, ma non avevano l'autorità necessaria per imporre la loro posizione.Esisteva tuttavia un'aspirazione comune che apparve evidente al Congresso che si tenne all'Aia, sotto la presidenza di Winston Churchill, dal 7 al 10 maggio 1948, con la partecipazione, fra gli altri, di Konrad Adenauer, Léon Blum, Hendrik Brugmans, Alcide De Gasperi, Anthony Eden, François Mitterrand, Jean Monnet, Adriano Olivetti, Ignazio Silone, Altiero Spinelli. I lavori si conclusero con un compromesso. Anziché raccomandare la convocazione di un'Assemblea costituente, come fu proposto dai federalisti, il Congresso suggerì un'assemblea composta da membri dei parlamenti nazionali per lo studio delle prospettive e delle conseguenze politiche e giuridiche di una unione o federazione europea.Il dibattito, nei mesi seguenti, fu animato da due posizioni contrapposte. La Gran Bretagna desiderava un Commonwealth europeo di Stati sovrani, legati l'uno all'altro da un patto d'informazione e consultazione. La Francia era pronta a spingersi più lontano e propose, per bocca del suo ministro degli Esteri (Georges Bidault), un'unione economica e doganale aperta a tutte le nazioni europee, e un'assemblea europea "nella quale sarebbero rappresentati [...] quelli degli Stati desiderosi di partecipare a questa grande e nobile impresa".

Ciascuna delle due maggiori potenze dell'Europa praticava l'europeismo che maggiormente corrispondeva ai suoi interessi nazionali. Il Commonwealth europeo desiderato dalla Gran Bretagna le avrebbe permesso di conservare una posizione eminente in Europa senza rinunciare al suo ruolo mondiale. L'unione doganale avrebbe permesso alla Francia di assumere una leadership continentale e di recuperare la posizione perduta con la sconfitta del 1940.Il risultato fu, nel gennaio del 1949, la creazione di un Consiglio d'Europa composto da due organi: il Comitato dei ministri e l'Assemblea consultiva. Lo statuto fu firmato il 5 maggio 1949 e la prima sessione ebbe luogo a Strasburgo, l'8 agosto, con la partecipazione di deputati designati dai parlamenti di Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia. Oggi, alla luce degli istituti creati nei decenni successivi, il Consiglio d'Europa può apparire una forma di protoeuropeismo o di europeismo incompiuto. Ma il Consiglio è ancora oggi il maggiore organo europeo per la tutela dei diritti dell'uomo. Grazie a una Convenzione firmata a Roma il 4 novembre del 1950, esiste una Corte composta da giudici internazionali che agisce su ricorso dei cittadini dei paesi membri e può condannare gli Stati nazionali. Dopo un lento decollo la Corte ha progressivamente esteso la sua giurisdizione e pronuncia ogni anno un centinaio di sentenze. Su una materia quindi, quella dei diritti umani, il Consiglio d'Europa ha fortemente intaccato la sovranità nazionale degli Stati europei.

Quando furono firmati gli atti istitutivi del Consiglio una grande iniziativa americana aveva già pragmaticamente sconvolto i rapporti economici fra i paesi dell'Europa occidentale. Il 5 giugno 1947, in un discorso all'Università di Harvard, il segretario di Stato, generale George Marshall annunciò che l'America avrebbe stanziato importanti somme di denaro per la ricostruzione e lo sviluppo economico dell'Europa. L'obiettivo dell'iniziativa era certamente politico e contingente: evitare che le difficoltà del dopoguerra creassero zone di povertà di cui avrebbero approfittato i partiti comunisti e l'Unione Sovietica. Ma la proposta conteneva un disegno: obbligare i paesi europei a coordinare i loro programmi e a rinunciare a una parte della loro sovranità economica. L'istituzione con cui i beneficiari del piano Marshall avrebbero creato le migliori condizioni per l'uso del denaro americano fu l'Organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OECE) di cui furono membri, in una prima fase, l'Austria, il Belgio, la Danimarca, la Francia, la Gran Bretagna, la Grecia, l'Islanda, l'Irlanda, l'Italia, il Lussemburgo, la Norvegia, i Paesi Bassi, il Portogallo, la Svezia, la Svizzera e la Turchia. La Repubblica Federale di Germania vi entrò nel 1955 e la Spagna nel 1959. L'Unione Sovietica non permise ai paesi 'satelliti' di aderire. La Cecoslovacchia, in particolare, ne fu impedita all'ultimo momento con un severo richiamo all'ordine.

Il piano Marshall dimostrò quale importanza l'economia avrebbe avuto nella progressiva unificazione del continente. Tra i primi ad accorgersene vi fu un francese, Jean Monnet, che aveva appreso gli strumenti della diplomazia multilaterale a Londra, durante la 'grande guerra', nel comitato istituito dagli Alleati per la ripartizione e la distribuzione delle materie prime. Dopo avere preparato il primo piano quinquennale francese, alla fine della seconda guerra mondiale, Monnet conquistò la fiducia di Robert Schuman, allora presidente del Consiglio francese, e gli indirizzò una lettera nel 1948 per auspicare, nelle difficili circostanze del momento, "un vero sforzo europeo, uno sforzo che soltanto una Federazione dell'Ovest renderà possibile". I grandi disegni e le grandi speranze non impedirono tuttavia a Monnet di perseguire obiettivi specifici e concreti. Capì che l'apparato industriale tedesco, grazie agli aiuti del piano Marshall, si sarebbe rapidamente ricostituito e che la Germania avrebbe attinto largamente, per le sue esigenze, al carbone della Ruhr.Si prospettava all'orizzonte, in tal modo, un'altra fase storica in cui Francia e Germania si sarebbero contese le stesse risorse. Occorreva impedirlo e creare un organismo in cui la competizione diventasse collaborazione. E occorreva, nello spirito della lettera inviata a Schuman nel 1948, associare a questa collaborazione istituzionale altri paesi europei.

Da queste riflessioni di Monnet nacquero il piano Schuman del 9 maggio 1950 e il Trattato per la creazione di una Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), firmato a Parigi il 18 aprile 1951. Ne divennero membri, insieme alla Francia e alla Germania Federale, il Belgio, l'Italia, il Lussemburgo e i Paesi Bassi. Il governo britannico fu interpellato e invitato, ma non volle aderire a un'iniziativa in cui era facile intravedere il nucleo iniziale di un progetto politico. La Gran Bretagna non aveva rinunciato a conciliare per quanto possibile le sue tre diverse identità: europea, atlantica, mondiale. L'immagine più efficace della politica britannica fu allora quella che Winston Churchill, nuovamente Primo ministro, propose ai suoi concittadini: tre cerchi (Europa, America, mondo) di cui Londra sarebbe stata l'incrocio e il fulcro.

Verso l'unione militare?

Ogni progresso dell'integrazione europea è la reazione alle sollecitazioni di un problema concreto che occorre affrontare e risolvere. Il problema che le democrazie occidentali devono risolvere all'inizio degli anni cinquanta è quello dello status politico-militare della Germania Federale. A dispetto della collaborazione avviata negli anni precedenti, la Germania continua a suscitare, soprattutto in Francia e in Gran Bretagna, forti diffidenze. Ma la guerra fredda, nel frattempo, ha creato situazioni nuove in cui i pregiudizi del passato rischiano di trasformarsi in pericolosi handicaps. Nel 1948 i comunisti cecoslovacchi hanno conquistato il potere con un colpo di Stato. Nel 1949 i comunisti cinesi sconfiggono il Guomindang di Jiang Jieshi, entrano trionfalmente a Pechino, proclamano la Repubblica Popolare di Cina. Nel 1950 il regime comunista della Corea del Nord aggredisce la Corea del Sud e costringe gli Americani a intervenire, sotto l'egida dell'ONU, con un forte corpo di spedizione. È vero che a Washington, nell'aprile dell'anno precedente, è stato firmato il Patto Atlantico, ma gli Stati Uniti sostengono che la difesa del continente richiede il riarmo della Germania e lasciano intendere che il loro impegno per la difesa dell'Europa dipende dalla partecipazione della Repubblica Federale allo sforzo comune.

Preoccupato da tale prospettiva, il governo francese cerca d'inserire il riarmo tedesco in un progetto unitario. Subíto a tutta prima come un'imposizione americana, esso può diventare una tappa decisiva sulla via dell'integrazione.In una dichiarazione all'Assemblea nazionale del 24 ottobre 1950, il presidente del Consiglio René Pleven parlò per la prima volta di un esercito europeo in cui le unità nazionali non sarebbero state più grandi di un battaglione e lanciò la proposta di un ministro europeo della Difesa, responsabile di fronte a un'Assemblea comune. La proposta dette la sensazione che la maggiore potenza continentale fosse pronta ad affrontare senza dubbi e reticenze il problema della sovranità.

Seguì una fase di grande effervescenza diplomatica nel corso della quale i paesi membri della CECA negoziarono la costituzione di una nuova unione, molto più ambiziosa. Dopo un anno e mezzo di trattative i loro rappresentanti firmarono a Parigi, il 27 maggio 1952, il trattato per la costituzione della Comunità Europea di Difesa (CED). Grazie a una proposta del presidente del Consiglio italiano, Alcide De Gasperi, l'articolo 38 del trattato prevedeva che l'Assemblea parlamentare della CED divenisse costituente e preparasse un progetto per definire le istituzioni federali o confederali dell'Europa. Nell'atmosfera di fiducioso ottimismo delle settimane successive fu deciso di adottare una scorciatoia e di conferire l'incarico all'Assemblea parlamentare della CECA. Sotto la presidenza di un uomo di Stato belga, Paul-Henri Spaak, l'Assemblea predispose un progetto che fu approvato il 10 marzo 1953.

La nuova Europa ebbe quel giorno una Costituzione: due Camere, di cui una eletta direttamente dai cittadini (la Camera bassa) e l'altra composta da parlamentari designati dai parlamenti nazionali (il Senato), un governo (il Consiglio esecutivo europeo, affiancato da un Consiglio dei ministri nazionali), una Corte di giustizia, un Consiglio economico e sociale con funzioni consultive. Ancora una volta gli Inglesi si tennero in disparte, ma garantirono il loro sostegno.Le perplessità e le resistenze si manifestarono là dove il progetto era stato originalmente concepito. Alcune forze politiche francesi e una parte dell'opinione pubblica si opposero all'adozione di un trattato che avrebbe soppresso i simboli stessi della tradizione nazionale. Ma è giusto ricordare che anche l'Italia, in quelle circostanze, contribuì al fallimento dell'iniziativa. Anziché affrettarsi a ratificare il trattato, il governo italiano preferì attendere nella speranza di poter scambiare la sua adesione con l'eliminazione di alcune delle clausole più punitive del trattato di pace del 1947.

Dal suo soggiorno trentino, dove si era ritirato dopo essere stato costretto ad abbandonare la presidenza del Consiglio, De Gasperi seguì con trepidazione gli sviluppi di una vicenda in cui aveva riposto tutte le sue speranze. Il colpo di grazia, comunque, venne dal Parlamento francese, dove il 30 agosto del 1954 una innaturale alleanza, composta dal partito comunista e dal gruppo gollista, affondò il trattato.Diventava nuovamente attuale in tal modo il problema che la CED aveva intelligentemente risolto: il riarmo della Germania. Il governo francese dovette passare la mano alla Gran Bretagna e in particolare al suo ministro degli Esteri, Anthony Eden. Al termine di un viaggio attraverso le capitali europee Eden propose una soluzione ingegnosa. L'alleanza militare che cinque paesi europei (Belgio, Francia, Gran Bretagna, Lussemburgo, Paesi Bassi) avevano firmato a Bruxelles nel marzo del 1948, sarebbe stata estesa all'Italia e alla Germania.

La nuova organizzazione si chiamò Unione dell'Europa Occidentale (UEO) e dette alla Germania, per alcuni anni, lo status ambiguo di partner sorvegliato a vista, autorizzato a riarmarsi, ma sotto i vigili controlli dei suoi alleati. Un anno dopo, comunque, la Repubblica Federale fu ammessa al Patto Atlantico e poté partecipare, con soddisfazione degli Americani, all'impegno militare dell'Occidente. Ma l'occasione per uno straordinario balzo in avanti sulla strada dell'integrazione fu mancata. Non basta. Il fallimento della CED ebbe l'effetto di rendere improponibile per più di quarant'anni l'integrazione politico-militare del continente. Per non perdere ciò che era stato costruito negli anni precedenti occorreva cercare altre strade.

Il Mercato Comune

La nuova strada fu scelta a Messina, nel giugno 1955, in una conferenza convocata dal ministro degli Esteri italiano, Gaetano Martino. Fu costituito un comitato intergovernativo, presieduto da Paul-Henri Spaak, e gli fu affidato il compito di accertare e definire le condizioni per la creazione di un 'mercato comune' e di un mercato comune dell'energia nucleare. Venne accantonata per il momento, in altre parole, la prospettiva federalista e istituzionale. Il metodo per la costruzione dell'Europa sarebbe stato, come nel caso della CECA, 'funzionalista'. Anziché puntare sull'unità istituzionale e su un processo costituente, l'Europa avrebbe investito ogni sua speranza sulla creazione di funzioni, regole e comportamenti comuni. I risultati dei lavori del 'comitato Spaak' furono due trattati firmati a Roma, in Campidoglio, il 25 marzo 1957, di cui il secondo, quello per la creazione di una Comunità Europea per l'Energia Atomica, ebbe nella realtà un'importanza marginale. Ma la mancata realizzazione di un 'mercato nucleare', fortemente auspicata in quegli anni da Jean Monnet, fu compensata dal successo del Mercato Comune.

Il Trattato stabilì che il potere legislativo ed esecutivo fosse esercitato da un consiglio intergovernativo, composto dai ministri degli Esteri e dai ministri competenti per le specifiche materie delle politiche comuni.

Per le decisioni fu adottato il principio dell'unanimità e venne stabilito che il voto a maggioranza ponderata sarebbe stato adottato soltanto alla fine della fase transitoria. L'Assemblea parlamentare avrebbe riunito parlamentari designati dai singoli parlamenti nazionali e le sue funzioni sarebbero state puramente consultive. Come nel caso della CECA, tuttavia, furono istituite una Corte di giustizia e una Commissione a cui fu dato il compito di proporre la legislazione e di garantirne l'esecuzione. I commissari sarebbero stati nominati dai governi, ma sarebbero stati sostanzialmente irrevocabili. L'indipendenza dei commissari e la modesta efficacia di un Consiglio fondato sul principio dell'unanimità ebbero l'effetto di valorizzare il ruolo della Commissione e di renderla il motore del processo unitario, il luogo in cui le proposte venivano vagliate ed elaborate. Doveva essere una semplice tecnocrazia e divenne di fatto il governo del Mercato Comune.

Negli anni novanta, quando la Comunità, divenuta ormai Unione, cominciò a discutere il problema del suo futuro istituzionale, il potere di questo organo 'burocratico' fu materia di molte discussioni sul 'deficit democratico' del processo di integrazione europea. In realtà i poteri della Commissione e la sua straordinaria importanza furono il risultato di una implicita delega da parte di governi che non avrebbero mai potuto procedere con altrettanta rapidità e chiarezza d'intenti. Vi è indubbiamente nella costruzione europea uno spirito illuminista e tecnocratico; ma a esso si devono i grandi progressi fatti dopo la firma dei Trattati di Roma.

Le resistenze nazionali e il problema britannico

I grandi progressi della costruzione dipendevano pur sempre, tuttavia, dall'accordo degli Stati. Nel maggio 1958, nel mezzo della grande crisi algerina che sconvolse la Francia in quel periodo, tornò al potere il generale de Gaulle, che negli anni precedenti aveva manifestato per il Mercato Comune una posizione critica, talora ostile. Era un leader 'nazionale', se non nazionalista, e deciso ad affermare il ruolo della Francia nel mondo. Ma il timore che egli avrebbe denunciato i Trattati di Roma si rivelò infondato. Con il pragmatismo di cui si dimostrò sempre capace negli anni decisivi, de Gaulle rispettò il calendario fissato dagli accordi per lo smantellamento delle barriere tariffarie. Non rinunciò alla sua politica nazionale e rifiutò di riconoscere gli scopi politici del processo di integrazione economica, ma comprese che il Mercato Comune avrebbe giovato all'economia francese e cercò anzi, in alcune circostanze, di trasformare il gruppo dei sei in un blocco antiamericano guidato dal suo paese. Fu questo lo spirito del 'piano Fouchet', dal nome del negoziatore francese, che il generale propose ai suoi partners: un progetto di confederazione in cui ogni paese avrebbe conservato la propria sovranità. Il piano fu accettato come base di discussione da alcuni paesi (Germania, Italia e Lussemburgo), ma respinto dal Belgio e dai Paesi Bassi, che furono delusi dalla mancanza di un disegno federale e insospettiti dalle sue implicite intenzioni antiamericane.

Un'altra crisi investì in quel periodo l'Europa dei sei. Quando venne il momento, secondo quanto previsto dai Trattati, di adottare il voto a maggioranza, de Gaulle si oppose e dette istruzione ai delegati francesi di abbandonare i lavori comunitari. La politica della 'sedia vuota' durò sei mesi, dal luglio del 1965 al gennaio del 1966, e la crisi si concluse con un compromesso. Il Consiglio dei ministri confermò il principio del voto a maggioranza, ma ammise che sulle 'questioni importanti' la discussione sarebbe continuata sino a un accordo fondato sull'unanimità. La posizione di de Gaulle, in altre parole, finì per prevalere. Un importante passo avanti tuttavia fu fatto in materia di circolazione dei prodotti agricoli. Per valorizzare la propria produzione la Francia aderì a una Politica Agricola Comune che unificò le legislazioni, uniformò i sussidi, fissò le quote di produzione per i singoli prodotti. Per salvaguardare i propri interessi la Francia accettò una perdita di sovranità a cui si era, in altri campi, fermamente opposta. Un'altra crisi in cui la posizione del generale de Gaulle ebbe una importanza determinante fu quella dell'adesione britannica. Dopo la firma dei Trattati di Roma la Gran Bretagna, tradizionalmente ostile a qualsiasi indirizzo supernazionale, aveva riunito intorno a sé altri paesi europei (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera) e aveva creato con essi una Associazione europea di libero scambio (EFTA, European Free Trade Association).

Ma i risultati furono inferiori alle aspettative e il successo del Mercato Comune convinse il governo di Londra, allora diretto da Harold MacMillan, a modificare la sua posizione e a presentare domanda di adesione alla Comunità. Nello stesso periodo (agosto 1961) presentarono domanda anche l'Irlanda e la Danimarca, seguite nell'aprile del 1962 dalla Norvegia. Gli altri paesi dell'EFTA chiesero l'associazione o, più semplicemente, un accordo economico.Il generale de Gaulle vide nell'adesione inglese una minaccia all'egemonia francese sul continente e ritenne che la Gran Bretagna sarebbe stata, all'interno della Comunità, il 'cavallo di Troia' degli Stati Uniti, con cui Londra intendeva conservare relazioni speciali. L'avrebbe accolta soltanto se essa avesse accettato di rinunziare a tali rapporti e ne sondò le reazioni, apparentemente, proponendo a MacMillan, nel giugno 1962, la creazione di un direttorio anglofrancese. Ma il Primo ministro inglese rifiutò una prospettiva che avrebbe intaccato la 'cuginanza' con l'America e non sarebbe stata gradita agli altri paesi della Comunità. Qualche mese dopo, nel gennaio del 1963, de Gaulle dichiarò durante una conferenza stampa che gli Inglesi erano troppo 'insulari' per accedere al Mercato Comune e interruppe i negoziati.

Cinque anni dopo un nuovo governo britannico, presieduto dal laburista Harold Wilson, presentò, insieme alla Danimarca e all'Irlanda, una nuova domanda di adesione. E ancora una volta il generale oppose il suo veto, ma giustificò la sua posizione in questa circostanza con qualche riferimento alle cattive condizioni economiche inglesi.Il problema fu risolto soltanto con le dimissioni di de Gaulle nell'aprile del 1969, dopo il fallimento di un referendum con cui egli aveva proposto ai Francesi una riforma istituzionale che avrebbe modificato, tra l'altro, le caratteristiche e i poteri della Camera alta. Il suo successore, Georges Pompidou, rinunciò al veto e ad alcune vecchie pregiudiziali del generale contro le finalità politiche dell'integrazione europea.

La svolta della politica francese creò le condizioni per una sorta di rinascita europea. Si cominciò a parlare di un Sistema Monetario Europeo, il Parlamento di Strasburgo ricevette maggiori poteri in materia di bilancio, un comitato presieduto da Pierre Werner, Primo ministro del Lussemburgo, presentò un rapporto sulla possibile creazione di un'unione economica e monetaria, i ministri degli Esteri approvarono il 'rapporto Davignon' sull'unificazione politica e iniziarono periodiche consultazioni. Ricominciarono anche i negoziati per l'adesione di quattro nuovi candidati (Danimarca, Gran Bretagna, Irlanda e Norvegia), che si conclusero con il loro formale ingresso nel gennaio del 1972. Il capitolo dell'adesione doveva riservare tuttavia altre sorprese. Nel settembre dello stesso anno i norvegesi respinsero con un referendum la politica del loro governo e la Gran Bretagna, non appena i laburisti tornarono al potere, pretese nuovi negoziati. Le nuove trattative durarono un anno, fra il 1974 e il 1975, e il risultato fu ratificato da un referendum britannico nel quale il 62,7% dei votanti approvò l'adesione.

Nella prima metà degli anni settanta, quindi, la Comunità perdette il suo originale carattere di piccolo blocco continentale, composto da paesi che avevano attraversato esperienze comuni e ricostruito insieme la loro economia dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nel 1973 furono conclusi accordi di libero scambio con Austria, Finlandia, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera. Nel settembre del 1974 la Grecia ottenne di ripristinare l'accordo di associazione che era stato sospeso durante la dittatura dei colonnelli. Nel febbraio del 1975 fu firmata una nuova convenzione per i rapporti della Comunità con 46 Stati africani, dei Caraibi e del Pacifico. Nel settembre dello stesso anno furono stabiliti rapporti ufficiali con la Cina. Nel 1976 furono firmati accordi di cooperazione globale con i paesi del Maghreb. Nel luglio dello stesso anno iniziarono i negoziati di adesione della Grecia. Nel 1977 Portogallo e Spagna presentarono domanda di adesione.Per far fronte a queste nuove responsabilità internazionali e alla grande crisi petrolifera del 1973, un vertice decise a Parigi, nel dicembre del 1974, che un Consiglio europeo, composto dai capi di Stati e di governo, si sarebbe riunito regolarmente tre volte l'anno per esaminare e trattare i problemi della Comunità.

Un passo decisivo venne fatto in quella occasione per rendere il processo d'integrazione più democratico. Il Parlamento europeo sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini dei paesi membri e sarebbe stato composto da 410 deputati, di cui 81 per ciascuno dei paesi maggiori (Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia), 25 per i Paesi Bassi, 24 per il Belgio, 16 per la Danimarca, 15 per l'Irlanda, 6 per il Lussemburgo. Molte di queste decisioni furono prese grazie a quell'asse franco-tedesco che il generale de Gaulle aveva costruito con il cancelliere Adenauer e che i loro successori ereditarono e rafforzarono.

Verso una moneta comune

Una delle iniziative più importanti, dopo la morte del generale de Gaulle, era stata la Commissione Werner sull'unificazione monetaria.

La Comunità si era allargata e irrobustita, era diventata una potenza economica mondiale e suscitava ammirazione per il suo dinamismo. Ma la moneta dei suoi scambi interni ed esterni era molto spesso una valuta extraeuropea, il dollaro, su cui essa non aveva alcuna influenza e che subiva in quegli anni i contraccolpi della guerra in Vietnam. Quando Richard Nixon, nel secondo anno della sua presidenza, sganciò il dollaro dall'oro, l'esigenza di una moneta europea divenne evidente. Ma le crisi economiche degli anni settanta colpirono i paesi della Comunità in modo diverso e allontanarono il momento dell'unificazione. Comincia da quel momento un lungo e tortuoso percorso.

Nel 1972 fu creato un 'serpente monetario' e fu deciso che lo scarto di fluttuazione tra le diverse monete non avrebbe superato il 2,5%. Ma nel marzo dell'anno seguente la Gran Bretagna, l'Irlanda e l'Italia abbandonarono il serpente e lasciarono che le loro monete fluttuassero liberamente. Il processo ripartì al Consiglio europeo di Brema del luglio 1978 e a quello di Parigi del marzo 1979, dove furono definite le grandi linee di un Sistema Monetario Europeo che entrò in vigore, per l'appunto, nel marzo del 1979. L'Italia vi entrò con una decisione che a molti (fra cui il governatore della Banca d'Italia) parve azzardata, mentre la Gran Bretagna preferì restare in disparte.Dieci anni dopo, nell'aprile del 1989, un comitato presieduto da Jacques Delors, presidente della Commissione, fissò le condizioni per la creazione di un'Unione economica e monetaria: la convertibilità delle monete, la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali, l'eliminazione dei margini di fluttuazione. Il Consiglio europeo di Madrid del giugno 1989 approvò il rapporto. Occorreva tuttavia, con un'ultima e decisiva manifestazione di volontà politica, trasformare l'accordo in un trattato. Vedremo fra poco come un evento politico estraneo ai rapporti comunitari, la caduta del muro di Berlino, abbia avuto su questo percorso un'influenza decisiva.

Altri avvenimenti nel frattempo contribuivano ad allargare e a trasformare la Comunità. La Grecia vi entrò nel gennaio del 1981, il Portogallo e la Spagna nel gennaio del 1986. Furono conclusi accordi con la Turchia, la Romania, il Brasile, gli Stati Uniti, i Paesi del Patto andino, la Repubblica Popolare Cinese, la Repubblica araba dello Yemen, i paesi dell'America centrale, gli Stati arabi del Golfo e, dopo l'avvento di Michail Gorbačëv alla segreteria generale del Partito comunista dell'Unione Sovietica, con il COMECON (organizzazione economica degli Stati comunisti), l'Ungheria, la stessa URSS.L'avvenimento più importante degli anni ottanta, tuttavia, fu, insieme al rapporto Delors sull'Unione monetaria, l'Atto unico europeo, entrato in vigore nel luglio del 1987. Nell'Atto fu deciso che la Comunità sarebbe stata competente in materia di politica regionale, politica della ricerca, tecnologia, ambiente. Fu stabilito che le misure necessarie per il Mercato unico sarebbero state adottate entro il 31 dicembre del 1992 e che per la loro approvazione non sarebbe stata necessaria l'unanimità. Insieme al rapporto Delors che annunciava la moneta unica, l'Atto unico ebbe per l'integrazione europea un'importanza decisiva. L'uno e l'altro furono adottati alla fine degli anni ottanta, mentre altri avvenimenti stavano trasformando la situazione politica del continente.

I progressi dell'unità europea e l'evoluzione del sistema sovietico sino alla sua dissoluzione sono eventi distinti. Ma vi è un momento, alla fine degli anni ottanta, in cui si stabilisce tra di essi una sorta di corto circuito. La scintilla è la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989. Nei mesi seguenti, il crollo della Repubblica Democratica Tedesca schiude al governo federale, infine, la possibilità di una Germania unificata. Alcuni governi della Comunità non nascondono le loro preoccupazioni e si chiedono se la rinascita di una grande Germania non possa rimettere in discussione i delicati equilibri che si sono progressivamente creati negli anni precedenti. Il cancelliere tedesco, Helmut Kohl, non rinuncia alla realizzazione di una grande speranza nazionale, ma comprende le preoccupazioni dei suoi partners e si rende conto della necessità di un gesto rassicurante. Questo gesto è per l'appunto la rinuncia alla sovranità monetaria tedesca.

Grazie all'unificazione tedesca i negoziati per l'unificazione monetaria vengono bruscamente accelerati e si concludono con la firma del Trattato di Maastricht nel febbraio del 1992. Due mesi prima, il 25 dicembre 1991, l'URSS si è dissolta. Alla disintegrazione dell'Europa sovietica corrisponde il rafforzamento del processo d'integrazione dell'Europa comunitaria.Come ogni grande avvenimento storico, anche l'Unione economica e monetaria si scontrò sin dall'inizio con forti resistenze politiche e culturali. Nel giugno del 1992 gli elettori danesi respinsero il Trattato di Maastricht. Il 20 settembre gli elettori francesi lo approvarono, ma con una maggioranza (51,01%) che confermava l'esistenza di una forte opposizione. Negli stessi giorni una 'tempesta' monetaria, provocata in parte dalle ricadute finanziarie dell'unificazione tedesca, mise a dura prova la stabilità di alcune monete comunitarie. Il franco fu salvato da un decisivo intervento della Bundesbank, ma la lira e la sterlina furono costrette a svalutare e a uscire dal Sistema Monetario Europeo.

Negli anni seguenti l'Unione continuò ad allargarsi e a progredire sulla strada dell'euro, ma in un'atmosfera di incertezze che qualcuno definì, con una certa esagerazione, 'euroscetticismo'. Nel gennaio del 1994 fu creato un Istituto Monetario Europeo da cui sarebbe sorta, dopo la fine di una fase transitoria, la Banca Centrale dell'Unione. Nel marzo dello stesso anno furono conclusi i negoziati per l'adesione di quattro paesi candidati (Austria, Svezia, Finlandia, Norvegia). Nel febbraio del 1995 entrarono in vigore gli accordi di associazione con alcuni paesi dell'Europa centrorientale: Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia. Cresceva tuttavia contemporaneamente la sensazione che non tutti i paesi dell'Unione sarebbero riusciti a rispettare i criteri di convergenza per la nascita dell'euro e qualcuno si spinse sino a immaginare una 'Europa a due velocità': un nucleo di paesi 'finanziariamente sani', seguito da un drappello di paesi che avrebbe adottato l'euro, se possibile, in una fase successiva.

Ma questa proposta, ripresa in varie forme da diverse personalità, suscitò le immediate reazioni di coloro che sarebbero stati esclusi e venne abbandonata. Il Consiglio europeo di Madrid, nel dicembre del 1995, decise che la nuova moneta si sarebbe chiamata 'euro', che l'esame di passaggio dei paesi candidati avrebbe avuto luogo nel corso del 1998, e che la fase conclusiva sarebbe iniziata il 1° gennaio 1999. Da quel giorno l'Istituto Monetario Europeo sarebbe stato sostituito dalla Banca Centrale Europea e l'euro sarebbe stato usato per le transazioni finanziarie e le emissioni del debito pubblico. Dal 1° gennaio del 2002 avrebbe circolato insieme alle monete nazionali e dal 1° luglio dello stesso anno le monete nazionali sarebbero state ritirate dal mercato. Fu chiaro da quel momento che non vi sarebbe stata una 'Europa a due velocità', ma fu altrettanto evidente che le stesse regole sarebbero state applicate con lo stesso rigore a tutti i paesi candidati. Dopo qualche incertezza iniziale il governo italiano, presieduto da Romano Prodi, adattò la sua politica economica e finanziaria al calendario fissato dall'Unione.

Al momento dell'esame di passaggio, nella primavera del 1998, entrarono nell'Unione Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna. La Grecia doveva attendere, per essere ammessa, sino al 2001, mentre Danimarca, Gran Bretagna e Svezia decidevano di conservare per il momento la loro sovranità monetaria e di consultare i loro elettori in un momento successivo.

Le riforme istituzionali e l'allargamento

Dopo la fine della guerra fredda quasi tutti i vecchi 'satelliti' del sistema sovietico e i nuovi paesi emersi dalla disintegrazione di tre Stati multinazionali - Cecoslovacchia, Iugoslavia, Unione Sovietica - manifestarono la loro intenzione di aderire all'Unione Europea. L'Ungheria e la Polonia ne fecero richiesta nell'aprile del 1994, la Romania e la Slovacchia nel giugno del 1995, la Lettonia in ottobre, l'Estonia in novembre, la Lituania e la Bulgaria in dicembre, la Repubblica Ceca nel gennaio del 1996, la Slovenia in giugno. L'Unione decise di aprire negoziati con i paesi che avevano più rapidamente adattato la loro legislazione alle esigenze comunitarie: Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia, Estonia e un paese mediterraneo, Cipro, che aveva presentato la sua candidatura in un periodo precedente. Con gli altri i veri negoziati di adesione sarebbero cominciati non appena le loro condizioni lo avessero permesso. Anche la Turchia, candidata da molti anni, fu infine inserita nella 'lista d'attesa', ma non senza esitazioni e dibattiti.

Era evidente, alla fine del decennio, che l'entusiasmo del 1990 (l'anno della unificazione tedesca), quando l'allargamento era parso a molti desiderabile e urgente, aveva lasciato il posto a un sentimento di preoccupazione. Come estendere ai nuovi soci i vantaggi di una politica agricola comune che consumava la metà del bilancio comunitario? Quali effetti avrebbe avuto la libera circolazione delle persone in paesi in cui l'immigrazione stava suscitando reazioni ostili e talvolta francamente xenofobe? E soprattutto: come impedire che l'allargamento dell'Unione e l'esigenza dell'unanimità per le decisioni di maggiore importanza rendessero l'Unione ingovernabile? Una conferenza intergovernativa fu inaugurata a Torino il 29 marzo 1996 e si concluse con la firma di un trattato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997.Negoziato in un periodo della politica europea in cui molti paesi dell'Unione erano governati da partiti socialdemocratici o da coalizioni di centro-sinistra, il Trattato di Amsterdam ha un forte contenuto sociale. Il Titolo VIII prevede una strategia intergovernativa coordinata, ma priva di specifici finanziamenti comunitari, per la formazione di manodopera qualificata. La Carta sociale, sino ad allora protocollo allegato del Trattato di Maastricht, è divenuta parte integrante delle politiche comuni.

Per tener conto dell'allargamento dell'Unione fu deciso che gruppi di Stati membri potessero in alcune circostanze, e senza pregiudicare l'acquis communautaire, perseguire politiche di 'cooperazione rafforzata'.

La Convenzione di Schengen, sulla libera circolazione delle persone all'interno di alcuni paesi dell'Unione (tredici su quindici), è divenuta anch'essa materia comunitaria; e si sono aperte in tal modo importanti prospettive per la creazione di uno spazio giudiziario europeo. Al Parlamento è stato conferito il diritto di approvare o respingere il presidente della Commissione e la sua composizione, ma i paesi membri non sono riusciti ad accordarsi sulla necessità d'introdurre per alcune materie fondamentali il voto a maggioranza.

Ma né il Trattato di Amsterdam né altre soluzioni discusse negli anni seguenti avevano dato una risposta soddisfacente a un problema che può riassumersi sommariamente in questi termini. L'Unione ha un mercato unico, una moneta unica, una frontiera unica (la frontiera della Convenzione di Schengen), una potente burocrazia a Bruxelles, un Parlamento, una Banca Centrale, una Corte Suprema (la Corte di giustizia), l'embrione di una polizia (Europol), il nucleo iniziale di una forza militare integrata e un responsabile per la politica estera e di sicurezza comuni. Ma non ha ancora un capo dello Stato, un presidente del Consiglio, un governo, un vero potere giudiziario. Forse una delle voci più interessanti udite alla fine del decennio è quella di Joschka Fischer, ministro degli Esteri della Repubblica Federale di Germania. In un discorso alla Università Humboldt di Berlino nella primavera del 2000 egli ha sostenuto, sia pure a titolo personale, che è giunto il momento, per l'Europa, di una costituzione che preveda, tra l'altro, l'elezione diretta del presidente. Fischer ha aperto in tal modo un dibattito in cui molti hanno trovato l'eco delle proposte costituzionali che Altiero Spinelli, forse con troppo anticipo, aveva avanzato all'inizio degli anni ottanta.

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Aspetti economico-sociali di Roberto Santaniello

1. Introduzione

L'Unione Europea è un ente internazionale istituito dal Trattato di Maastricht, sottoscritto nel 1992, il cui obiettivo politico principale è di "organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli". Essa è il risultato del processo politico che ha preso avvio successivamente alle due guerre mondiali con l'istituzione della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) nel 1951, della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea per l'Energia Atomica (EURATOM) nel 1957.

Le Comunità Europee si sono sviluppate grazie all'iniziativa del ministro degli Affari Esteri francese Robert Schuman, che nel maggio 1950 propose di porre la produzione francotedesca di carbone e di acciaio sotto la direzione di un'alta autorità comune, istituita nel quadro di un'organizzazione aperta alla cooperazione di altri paesi europei. La Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 non si limitò a enunciare questo obiettivo, ma definì un progetto politico più ampio, considerando il mercato carbosiderurgico come la base comune per realizzare una fusione di interessi volta alla costituzione di una Comunità economica e come prima tappa verso la creazione della Federazione europea. Lo sviluppo delle Comunità Europee ha condotto all'istituzione dell'Unione Europea, di cui esse costituiscono il pilastro economico.L'Unione Europea ha obiettivi più ampi rispetto alle finalità economiche delle Comunità Europee (che sono parte integrante dell'Unione Europea stessa), proponendosi di affermare la sua identità sulla scena internazionale mediante l'attuazione di una politica estera e della sicurezza comune, di rafforzare la tutela dei diritti e dei cittadini con l'istituzione di una cittadinanza europea e di sviluppare una stretta cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni.

Gli aspetti economici e sociali dell'Unione Europea riguardano le dinamiche socioeconomiche sviluppate dall'insieme degli strumenti e delle politiche messe in atto per realizzare gli obiettivi istituzionali della Comunità Europea e dell'Unione Europea in questo ambito. In particolare, "la Comunità ha il compito di promuovere, mediante l'instaurazione di un mercato comune e di un'unione economica e monetaria e mediante l'attuazione delle politiche e delle azioni comuni, uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell'insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l'ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri".

2. I processi di integrazione economica europea

Per comprendere pienamente il modo in cui si sono sviluppati i processi economici e sociali dell'integrazione europea è necessario illustrare le varie forme di integrazione che sono state avviate dal 1951 in poi.L'Unione doganale. È una forma di integrazione che prevede tra gli Stati membri l'abolizione dei dazi e delle restrizioni quantitative negli scambi di merci e l'istituzione di una tariffa doganale comune nei confronti dei paesi terzi. È una forma più intensa di integrazione rispetto alla zona di libero scambio, nella quale i paesi partecipanti sono liberi di condurre una propria politica commerciale nei confronti di paesi terzi.Il mercato comune. Questa forma di integrazione, oltre a ricomprendere l'unione doganale, prevede la libertà di circolazione dei beni e dei servizi e dei fattori della produzione (capitale e lavoro).

Dal 1987 il mercato comune è stato sostituito dal mercato interno. Esso comporta in particolare "uno spazio senza frontiere interne" associato alle quattro libertà di circolazione. La differenza sta dunque nell'eliminazione fisica delle frontiere tra gli Stati membri, non prevista nel mercato comune, e nell'attuazione di politiche di accompagnamento al funzionamento del mercato interno.L'Unione economica. Questa forma di integrazione, oltre a garantire la realizzazione delle quattro libertà del mercato interno, prevede l'attuazione di politiche comuni in determinati settori dell'economia. Tali politiche sono attuate in generale attraverso forme di coordinamento tra i governi degli Stati membri.L'Unione economica e monetaria. Costituisce la fase più avanzata di integrazione, poiché, oltre al coordinamento delle politiche economiche dei paesi partecipanti, essa prevede l'introduzione di una moneta unica e l'attuazione di una politica monetaria comune.

Secondo la letteratura economica, l'unione doganale e il mercato interno sono forme di 'integrazione negativa', poiché puntano a 'negare' gli ostacoli al commercio con l'eliminazione delle barriere alla libera circolazione di merci e servizi e dei fattori della produzione. L'unione economica e monetaria è invece una forma di 'integrazione positiva', implicando l'attuazione di politiche e azioni comuni.Il raggiungimento di questi diversi stadi di integrazione poggia su alcuni principî giuridici di cui delineeremo i principali aspetti.

Il principio del divieto di non-discriminazione sulla base della nazionalità. Si tratta di un principio giuridico che pone l'obbligo alle autorità pubbliche degli Stati membri di trattare le imprese e i cittadini di altri paesi comunitari alle stesse condizioni delle imprese e dei cittadini nazionali. Lo stesso principio si applica alle merci e alle prestazioni di servizi.Il principio di ravvicinamento. Questo principio prevede che le norme legislative, amministrative e regolamentari degli Stati membri debbano essere ravvicinate nella misura in cui esse permettano di far funzionare correttamente il mercato interno e di evitare distorsioni al regime di concorrenza. La forma più intensa di ravvicinamento è l'armonizzazione totale, attraverso cui le norme comunitarie si sostituiscono completamente alle disposizioni nazionali in un determinato settore.Il principio di mutuo riconoscimento. Formulato in seguito a una sentenza della Corte di giustizia del 1979, questo principio stabilisce che ogni prodotto legalmente fabbricato o commercializzato in uno Stato membro può essere ammesso nel mercato di tutti gli altri Stati membri. Il mutuo riconoscimento non si applica solamente alle merci, ma anche alla maggior parte dei settori economici.

Affronteremo l'analisi degli aspetti economici e sociali dell'Unione Europea in rapporto all'evoluzione storica della costruzione comunitaria, esaminando in particolare due grandi periodi temporali. Successivamente l'analisi si concentrerà sul mercato interno, sull'unione economica e monetaria e su alcune politiche a carattere socioeconomico.

3. Lo sviluppo dell'integrazione negativa (1957-1970)

L'idea centrale al momento dell'elaborazione del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea era che l'integrazione tra i sei Stati membri originari doveva basarsi sull'eliminazione degli ostacoli al libero commercio di beni e servizi. Furono comunemente accettati i presupposti teorici dell'integrazione negativa, secondo cui la liberalizzazione commerciale avrebbe accresciuto il livello dei redditi e il benessere dei paesi aderenti attraverso la diminuzione dei prezzi e la crescita della domanda interna. Se l'obiettivo dell'integrazione negativa era condiviso, l'elaborazione del Trattato di Roma coincideva tuttavia con una nuova fase nei rapporti tra Stato e mercato, pilastro fondamentale su cui si sono sviluppate le società democratico-parlamentari dell'Europa occidentale. Gli interventi pubblici agivano per correggere le distorsioni dei mercati e sostenere i settori più deboli dell'economia, realizzando l'equilibrio e il consenso necessari a garantire alla società dinamismo, sviluppo economico, solidarietà e consenso politico.

Alla fine degli anni cinquanta, le teorie keynesiane incoraggiarono un più incisivo intervento delle autorità pubbliche nell'economia e nei sistemi sociali, con la conseguenza che gli interventi statali si sovrapposero alle dinamiche dei mercati. In questo senso, l'avvio dell'integrazione negativa avrebbe costituito un evidente punto di rottura con questa tendenza, poiché andava a modificare i confini e il funzionamento dei mercati nazionali. È per questo che se l'obiettivo della liberalizzazione commerciale era accettato, sulla definizione dei tempi e dei modi le posizioni erano divise. La Germania e i paesi del Benelux difendevano una posizione liberista, sollecitando la rapida soppressione degli ostacoli al commercio e un'integrazione globale delle economie europee. L'Italia e soprattutto la Francia chiedevano un ritmo meno intenso nell'abbattimento delle protezioni commerciali nazionali e l'inclusione di una serie di disposizioni in materia sociale. Il compromesso infine fu trovato con la decisione di creare il mercato comune in modo graduale (da 12 a 15 anni), attraverso la fusione dei mercati nazionali e il ravvicinamento dei sistemi economici per rendere simili le condizioni di concorrenza e le possibilità di sviluppo sociale.

Le regole del mercato comune, oltre a stabilire la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone, prevedevano una serie di norme per assicurare eguali condizioni di concorrenza tra tutte le imprese comunitarie. Queste norme, ancora in vigore, vietano gli accordi e le pratiche tra imprese e gli abusi di posizione dominante che falsino o rischino di falsare il commercio comunitario e restringano la concorrenza nel mercato comune. Per le stesse ragioni, il regime di concorrenza vieta l'erogazione di aiuti pubblici a imprese o settori produttivi in difficoltà. In campo sociale, la Comunità Europea ha definito l'obiettivo di "promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che consenta la loro parificazione", ma non ha inizialmente previsto nessuno strumento specifico per conseguirlo. In sostanza, l'armonizzazione dei sistemi sociali sarebbe stata realizzata in modo spontaneo attraverso il funzionamento del mercato comune. Questo squilibrio tra gli aspetti economici e quelli sociali dell'integrazione nei primi anni della costruzione comunitaria non era frutto di una lacuna casuale, ma di un compromesso politico consapevole, che può essere riassunto nella formula "Smith all'estero, Keynes a casa".

L'allargamento dei mercati e la caduta delle protezioni nazionali indotte dall'instaurazione del mercato comune hanno avuto come corrispettivo il completo controllo delle politiche di welfare a livello nazionale, lasciando quindi spazio a un sistema economico di tipo misto. Nei primi anni della Comunità Europea, la maggior parte dei paesi europei ha infatti introdotto una serie di normative per tutelare i lavoratori in materia di sicurezza e orario di lavoro, contrattazione collettiva e sciopero. D'altro canto, il divieto di erogare aiuti pubblici è stato temperato con la possibilità di deroghe che consentono agli Stati membri di sostenere regioni con bassi livelli di sviluppo e di occupazione e settori produttivi in difficoltà.L'economia mista attuata a livello nazionale ha agevolato l'avvio dell'integrazione, consentendo ai governi di alleviare gli aggiustamenti resi necessari dall'apertura dei mercati nazionali e di mantenere un elevato grado di consenso sociale negli Stati membri. Questo compromesso non necessitava di un grado di sovranazionalità politica particolarmente elevato che assicurasse un consenso comunitario, poiché quest'ultimo si misurava, in rapporto all'opinione pubblica, all'interno degli Stati membri. Questa impostazione era d'altro canto compatibile con il modello prescelto per realizzare la costruzione comunitaria, il metodo neofunzionalista.

Secondo questo metodo, l'integrazione procede attraverso l'armonizzazione progressiva di settori determinati. L'armonizzazione non ha un carattere finale, ma è un processo continuo (spill-over) attraverso cui l'integrazione in un determinato settore promuove lo stesso fenomeno in settori simili e collegati.Seguendo il metodo neofunzionalista, gli Stati membri hanno ceduto alla Commissione europea una parte sempre crescente di sovranità amministrativa per realizzare l'integrazione negativa, mantenendo intatta la propria sovranità politica.

Nei primi anni di vita della Comunità il neofunzionalismo e il suo attore istituzionale, la Commissione europea, sono stati speculari alle dinamiche socioeconomiche. L'integrazione negativa si è realizzata grazie all'amministrazione comunitaria e in misura minore ai governi, mentre le forze economiche e sociali, le lobbies e l'opinione pubblica sono state completamente assenti. In conclusione, il neofunzionalismo, non implicando cessioni di sovranità nazionali significative, ha coniugato processi di liberalizzazione europei e politiche di welfare 'in un solo paese' assicurando il consenso sociale dei governi.I risultati di questa impostazione sono stati particolarmente positivi. Grazie anche alla favorevole congiuntura economica internazionale, la libera circolazione delle merci realizzata attraverso l'eliminazione dei dazi doganali e delle misure di effetto equivalente, nonché delle restrizioni quantitative tra gli Stati membri ha provocato una crescita degli scambi commerciali intracomunitari, che già dal 1960 aumentarono del 30% rispetto al periodo precedente la creazione della Comunità.

L'unione doganale fu definitivamente completata il 1° luglio 1968, con un anno di anticipo rispetto al calendario previsto. Parallelamente, furono posti in essere i primi regolamenti della Politica Agricola Comune (PAC) che rispondevano a finalità più ampie della liberalizzazione commerciale. Particolari ragioni socioeconomiche sono state alla base di questa scelta: la pressione di alcuni paesi, in particolare la Francia, con una forte presenza di agricoltori, l'estrema eterogeneità delle produzioni e delle legislazioni negli anni cinquanta e la necessità di garantire l'autosufficienza alimentare e i redditi degli agricoltori, bisogni molto sentiti dopo due conflitti mondiali. Per questi motivi, la Politica Agricola Comune (PAC), a differenza delle altre politiche, ha assunto un carattere interventista, ponendosi obiettivi, spesso contraddittori, quali stabilizzare i mercati, garantire i redditi degli agricoltori, assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori.

Gli scambi comunitari dei prodotti agricoli sono ancora oggi disciplinati nel quadro delle Organizzazioni comuni dei mercati, che, fino agli anni ottanta, hanno previsto un alto livello di prezzi garantiti e di sussidi pubblici per sostenere le produzioni europee al proprio interno e renderle competitive nei confronti dei mercati mondiali. Originariamente la PAC ha dunque avuto un carattere protezionista, attirandosi aspre critiche da parte di paesi terzi, in particolare degli Stati Uniti, e ha finito per penalizzare i consumatori (a causa di prezzi artificialmente alti) e monopolizzare fino al 50% le risorse del bilancio comunitario.

Tornando ai positivi risultati economici, nel periodo 1957-1970 l'aumento degli interscambi commerciali della Comunità fu superiore al doppio rispetto a quello registrato nel commercio mondiale nel suo complesso. Rispetto agli altri paesi dell'Europa occidentale, gli Stati membri della Comunità hanno raggiunto risultati straordinari per le proprie economie, con aumenti della produzione, dei consumi, degli investimenti e dell'occupazione. In un quadro economico caratterizzato da alti tassi di crescita e bassa disoccupazione, i costi di aggiustamento indotti dal mercato comune sono stati assorbiti in maniera indolore. Dal punto di vista sociale, la Comunità ha adottato strumenti legislativi, ispirati al principio di non discriminazione, che hanno consentito ai lavoratori salariati di prestare la propria opera in tutti i paesi comunitari e di godere delle stesse condizioni di lavoro, compresi i sistemi di assistenza e previdenza sociale previsti per i cittadini di quegli stessi paesi.

Grazie a queste norme, la mobilità dei lavoratori dipendenti ha conosciuto, a cavallo degli anni sessanta, un forte incremento con un movimento di dieci milioni di persone dall'Europa meridionale a quella settentrionale. A parte questi progressi, concepiti in un'ottica economica per rendere possibile la mobilità del fattore lavoro, la Comunità non ha prodotto nessuna misura in materia sociale, anche a causa del fatto che le decisioni dovevano essere adottate all'unanimità. Come si è detto, le misure di welfare e la legislazione sociale sono state realizzate a livello nazionale portando, a causa del crescente potere dei sindacati, a mercati del lavoro fortemente regolamentati.

4. Dalle crisi economiche internazionali all'Atto unico europeo (1970-1986)

L'equilibrio raggiunto tra liberismo economico comunitario e politiche di welfare statali, da una parte, e tra istituzioni sovranazionali e governi degli Stati membri, dall'altra, è venuto meno a partire dagli anni settanta a causa di molteplici ragioni: l'affacciarsi di una congiuntura internazionale che si aggravò ulteriormente con il quarto conflitto arabo-israeliano; il manifestarsi dei primi sintomi della crisi del Welfare State; il deteriorarsi del clima politico all'interno della Comunità come conseguenza della difficoltà di transizione dall'integrazione 'negativa' a quella 'positiva'. Nel quadro di quest'ultimo aspetto, l'elevato livello di interscambio e la crescente interdipendenza dell'economia spingevano per un ulteriore approfondimento dell'integrazione, da raggiungere attraverso l'attuazione di politiche macroeconomiche comuni.

Maturava la consapevolezza che i processi di liberalizzazione avrebbero cominciato a produrre effetti negativi e sarebbero divenuti fonte di squilibri in mancanza di progressi sostanziali nello sviluppo dell'integrazione positiva. Di fronte a questa esigenza, non mancò nella Comunità un respiro progettuale. Nel 1971 fu infatti deciso l'avvio di un piano (il rapporto Werner) per la realizzazione in tre tappe dell'Unione Economica e Monetaria che prevedeva, oltre a una politica monetaria comune, strumenti per il coordinamento delle politiche economiche finalizzato ad avviare un'armonizzazione delle strutture economiche, sociali e fiscali degli Stati membri. Questo piano si scontrò contro ostacoli che si sono rivelati insormontabili.L'inizio della prima fase coincise con l'esaurirsi del lungo ciclo economico espansivo e con la decisione di non convertibilità del dollaro in oro che, oltre a decretare la fine del sistema monetario di Bretton Woods, minò la stabilità monetaria nella Comunità, provocando forti oscillazioni dei tassi di cambio tra le valute europee. Inoltre, in conseguenza del quarto conflitto arabo-israeliano, il prezzo del petrolio subì una fortissima impennata, aprendo una grave crisi energetica che a sua volta fu il fattore che frenò ulteriormente la crescita economica ed accelerò l'aumento dell'inflazione e della disoccupazione.

Di fronte a questi eventi, era necessaria una forte volontà politica per portare a termine con successo il processo di integrazione positiva che avrebbe contribuito ad attenuare nella Comunità le conseguenze della recessione mondiale. Il metodo neofunzionalista seguito fino a quel momento non aveva le possibilità di farlo, poiché erano necessarie cessioni di sovranità politica da realizzarsi solo con il consenso unanime degli Stati membri.La crisi politica di crescita era evidente, poiché il neofunzionalismo, non essendo più in grado di garantire il compromesso tra 'Smith all'estero e Keynes a casa', con competenze comunitarie limitate, perdeva la sua ragione d'essere. Erano necessari nuovi e più sostanziali trasferimenti di competenze alle istituzioni comunitarie sulla base di decisioni politiche e cessioni di sovranità politica. Le economie nazionali furono colpite in vari modi dalla recessione mondiale e, malgrado gli impegni verbali, più volte ribaditi, non vi fu nessun serio tentativo di coordinare le politiche macroeconomiche. Al contrario, furono introdotti nuovi tipi di protezionismo, sotto forma di barriere tecniche, che investirono anche il commercio intracomunitario, determinandone un sensibile declino.

Questo 'nuovo protezionismo' fu sostanzialmente il risultato delle resistenze sociali agli adeguamenti strutturali necessari per rispondere alle mutate condizioni economiche. Si registrò un crescente ricorso agli aiuti statali, in particolare in settori in declino, come la siderurgia, la cantieristica e il tessile. Parallelamente, con il rallentamento della crescita si aggravarono ulteriormente gli squilibri di reddito e occupazione tra le diverse aree regionali.A fronte di questi insuccessi furono prese, a livello economico, alcune decisioni di una certa importanza. Innanzitutto, fallito il progetto di istituire l'UEM e altri timidi tentativi di mantenere stabili le valute europee (il serpente monetario), il problema delle oscillazioni monetarie fu affrontato con l'istituzione nel 1978 del Sistema Monetario Europeo (SME). Lo SME, basato su un meccanismo di cambi fissi aggiustabili all'interno di una banda ristretta e attraverso interventi delle banche centrali per mantenere le monete all'interno della banda, fu concepito anche come uno strumento per tenere sotto controllo l'inflazione. In secondo luogo, a livello fiscale fu introdotta l'Imposta sul Valore Aggiunto (IVA), mentre fu deciso di alimentare il bilancio comunitario con un sistema di risorse proprie. Infine, per ridurre le disparità regionali fu decisa la creazione del Fondo europeo di sviluppo regionale, destinato a finanziare interventi strutturali per le aree territoriali in difficoltà.

Con il rallentamento dello sviluppo negli anni settanta entrarono in crisi anche le politiche di welfare nazionali. Gli Stati membri si trovarono di fronte al grave problema della disoccupazione con strutture di welfare concepite in un periodo di sostanziale piena occupazione e in un contesto caratterizzato da alti salari e da un forte potere dei sindacati. Con bassi livelli di crescita e una corrispondente diminuzione delle entrate fiscali, gli Stati membri furono costretti a coprire le spese dello Stato sociale attraverso l'indebitamento pubblico e con aumenti dell'offerta di moneta, provocando ulteriori spinte inflazionistiche. La flessione delle entrate fiscali non spiega da sola la crisi dello Stato sociale; essa è il frutto di fenomeni concomitanti, tra cui il declino del modello economico fordista e gli squilibri indotti dai cambiamenti delle strutture demografiche e familiari.Il mutato quadro socioeconomico fece dunque nascere l'esigenza di un adattamento istituzionale del Welfare State. Le risposte degli Stati membri si sono ispirate a indirizzi liberisti, pur non assumendo un carattere radicale come nell'esperienza della Gran Bretagna, dove le strutture del welfare furono di fatto smantellate con drastiche riduzioni della spesa pubblica e la privatizzazione dei servizi sociali. Nella maggioranza dei paesi dell'Europa occidentale il recupero delle tesi liberiste fu una scelta necessaria per far fronte alla crisi economica e lo slogan "meno Stato e più mercato" non poneva una vera e propria alternativa, ma suggeriva una più moderna distribuzione dei compiti dei Welfare States nazionali.

Più che l'eclisse dello Stato e un ridimensionamento delle sue funzioni e della sua presenza nella società civile, era la modernizzazione delle sue politiche e dei suoi strumenti ad apparire necessaria. È in questo quadro ideologico che fu concepito e intrapreso il rilancio dell'integrazione europea. La perdita di competitività e di dinamismo delle imprese europee fu addebitata alla frammentazione dei mercati europei. La crescente consapevolezza degli ingenti costi di questa frammentazione (i costi della non-Europa) sviluppatasi negli ambienti economici andò di pari passo con un progressivo interesse per programmi dal lato dell'offerta e per la deregolamentazione economica. Forte di questo nuovo clima politico, la Commissione europea elaborò nel 1985 un piano di rilancio del processo di integrazione negativa che era stato bruscamente interrotto durante gli anni settanta. Il Libro bianco sul completamento del mercato della Commissione proponeva circa trecento misure per eliminare gli ostacoli fisici, tecnici e fiscali agli scambi intracomunitari entro il 31 dicembre 1992. Il Libro bianco della Commissione costituiva un documento organico e completo, ma soprattutto conteneva un calendario e una scadenza temporale precisa per il completamento dell'integrazione negativa.

Per la realizzazione dell' 'obiettivo 1992' fu necessario modificare i trattati originari per disporre degli opportuni strumenti giuridici, come l'estensione del voto a maggioranza del Consiglio. Tali modifiche furono apportate dall'Atto unico europeo del 1986, con cui furono riformati per la prima volta i trattati istitutivi. Il nuovo contratto costituzionale sottoscritto dai governi era tuttavia diverso rispetto a quello del 1957 poiché alla liberalizzazione dei mercati a livello comunitario non facevano da contraltare le politiche di welfare nazionali, ma politiche dal lato dell'offerta che riducevano inevitabilmente gli interventi pubblici, nell'economia. Si capovolgevano in sostanza i rapporti di forza tra le dinamiche dei mercati e gli interventi pubblici ai quali venivano conferiti non più compiti di 'promozione' della crescita, ma di 'regolazione' dei mercati. Politicamente, il nuovo compromesso raggiunto, non più basato sull'equazione 'Smith all'estero, Keynes a casa', spostava l'area del consenso a un livello superiore, dalle istituzioni nazionali a quelle comunitarie. Questo spiega la decisione di eleggere i membri del Parlamento europeo a suffragio universale e diretto, conferendo a questa istituzione una più forte legittimazione democratica e maggiori poteri decisionali nell'arena politica comunitaria.

Dal punto di vista socioeconomico, il ridimensionamento delle politiche di welfare nazionali è stato compensato con l'istituzione di una politica comunitaria di coesione economica e sociale avente come obiettivo la riduzione dei divari di sviluppo tra le aree regionali e le categorie sociali. L'inserimento di una politica di redistribuzione e il rafforzamento della politica sociale e del lavoro ha puntato a ristabilire, questa volta a livello comunitario, l'equilibrio tra liberalizzazione economica e interventi a sostegno dell'economia e misure di armonizzazione in materia sociale.

5. Il mercato interno

Il programma promosso dalle istituzioni comunitarie per completare il mercato interno si è basato largamente sul principio di mutuo riconoscimento. Esso è stato preferito al metodo dell'armonizzazione totale, il cui utilizzo è oggi limitato alla regolamentazione del commercio di prodotti assai delicati per la salute umana. L'affermazione del riconoscimento reciproco ha un'importante valenza politica nell'evoluzione dell'integrazione europea: fermo restando il principio generale di non-discriminazione sulla base della nazionalità, dalla metà degli anni ottanta l'applicazione del mutuo riconoscimento ha segnato il passaggio da una concezione monolitica del processo di integrazione, secondo cui le legislazioni e i poteri nazionali vengono sostituiti integralmente da quelli comunitari (con l'armonizzazione totale), a una concezione pluralistica in cui le legislazioni nazionali non vengono sostituite, ma riferite a un quadro generale che assicuri il rispetto di criteri minimi legislativi definiti dalla Comunità (le cosiddette esigenze essenziali).

A livello economico, le basi teoriche del mercato interno restavano fermamente ancorate ai principî del libero mercato, con l'obiettivo di innescare un circolo vizioso nel quale le imprese godono di un'iniziale risparmio sui costi che ne aumenta efficienza e produttività. La conseguente crescita dei profitti stimola un maggiore flusso di investimenti e la creazione di nuova occupazione, fenomeni che a loro volta espandono la produzione e i consumi. Sempre a livello economico, la maggiore concorrenza indotta dall'allargamento dei mercati favorisce l'innovazione nei processi produttivi e una specializzazione industriale dei vari paesi sulla base dei loro rispettivi vantaggi comparati, con conseguente aumento del commercio inter-industriale, cioè degli scambi di prodotti appartenenti a settori diversi.

Occorre dire subito che contrariamente a questa previsione, il mercato interno ha prodotto una diminuzione di questo commercio e una crescita del commercio intra-industriale, quello di prodotti appartenenti a settori produttivi simili. Non si è verificata la specializzazione settoriale, poiché le imprese piuttosto che cessare le proprie attività con pesanti costi sociali, hanno puntato a una specializzazione produttiva (in termini di prezzi e di qualità) nell'ambito del proprio settore industriale. I paesi comunitari conservano tutte le attività industriali che tendono a differenziarsi in base alle 'nicchie' di prezzo e di qualità, ma i consumatori, pur disponendo di un'ampia gamma di prodotti, beneficiano di minori riduzioni dei prezzi. Nell'ambito del commercio intra-industriale si registra una forte espansione dei prodotti differenziati nel prezzo e nella qualità.

La struttura portante del mercato interno è oramai posta in essere. La legislazione sulla circolazione delle merci ha abolito dal 1993 i controlli alle frontiere, consentendo alle imprese di risparmiare cinque miliardi di euro l'anno. I risultati più significativi sono stati raggiunti nell'ambito dell'eliminazione delle barriere tecniche, costituite da norme e standard riguardanti le produzioni industriali posti in essere per proteggere la salute dei consumatori e l'equilibrio ambientale. Gli ostacoli derivanti dall'eterogeneità di tali norme e standard tecnici, che frammentavano i mercati interessando circa l'80% del commercio intracomunitario, sono stati soppressi grazie al mutuo riconoscimento.

Rispetto al passato, la legislazione comunitaria non ha necessità di armonizzare totalmente le norme tecniche su una determinata merce, ma si limita a stabilire le 'esigenze essenziali' di sicurezza e salute pubblica che devono imperativamente rispettare i beni prodotti e immessi sui mercati. Il rispetto di questi requisiti da parte di un prodotto è certificato dal 'marchio CE di conformità' che ne consente la commercializzazione in tutta la Comunità. Con la normalizzazione tecnica invece si procede alla definizione di standard industriali europei conformi alle esigenze essenziali.

Gli standard europei, elaborati da enti comunitari di normalizzazione, a differenza delle esigenze essenziali, non sono obbligatori per le imprese. Se queste decidono di tenerne conto, i loro prodotti non trovano difficoltà tecniche per essere commercializzati in tutta la Comunità. In caso contrario, gli stessi prodotti avranno bisogno del marchio di conformità.

Questo approccio molto flessibile, che garantisce i consumatori e le strategie produttive delle imprese, ha dunque limitato i complicati processi di armonizzazione totale che vengono avviati solo quando gli ostacoli tecnici si dimostrassero insuperabili. Inizialmente, la circolazione dei beni industriali non è stata accompagnata, come nel caso dell'agricoltura, da una politica comune per evitare rischi di derive 'dirigiste' nell'applicazione dei principî di libero mercato.La crisi del mercato comune negli anni settanta ha aperto un dibattito sull'esigenza di una strategia europea in ambito industriale, che si è concluso vent'anni dopo con l'introduzione nel Trattato di Maastricht di una specifica competenza della Comunità a cui è conferito il compito, insieme agli Stati membri, di creare le "condizioni necessarie alla competitività europea".

Escludendo azioni a carattere interventista, gli orientamenti comunitari di politica industriale sollecitano le amministrazioni pubbliche a mettere in atto interventi che si limitino ad accompagnare i processi di adattamento delle industrie alle trasformazioni strutturali indotte dai mercati attraverso il sostegno all'attività di ricerca e sviluppo tecnologico, allo sviluppo delle risorse umane e alla costruzione di reti infrastrutturali. Nel rispetto dei principî del libero mercato, la responsabilità di realizzare concretamente tale adeguamento spetta dunque unicamente alle imprese, mentre i poteri pubblici dovrebbero agire per creare le condizioni per l'adeguamento del settore industriale alle indicazioni di mercato.

Il mercato interno e il regime di concorrenza restano i principali strumenti di politica industriale. Le regole comunitarie vietano i comportamenti contrari alla concorrenza delle imprese (pratiche concordate, determinazione di prezzi, accordi) e prevedono controlli preventivi sulle fusioni, fenomeno che negli ultimi anni ha assunto ampie dimensioni, anche se la maggior parte delle operazioni riguarda imprese dello stesso Stato. Il regime di concorrenza si applica anche alle imprese pubbliche su cui le norme comunitarie restano neutrali. Queste imprese possono ricevere aiuti statali, quando questi si configurano come investimenti e non come semplici aiuti al funzionamento stanziati per tamponare difficoltà economiche senza nessuna finalità di sviluppo. Le autorità pubbliche devono dunque comportarsi come un investitore privato nelle normali condizioni di mercato. La parità di trattamento tra imprese pubbliche e private e la liberalizzazione hanno notevolmente contribuito allo sviluppo delle privatizzazioni in tutti gli Stati membri.Oltre che l'attività di regolazione dei mercati, la politica industriale si avvale degli strumenti della politica di ricerca che ha per obiettivi il "rafforzamento delle basi scientifiche e tecnologiche dell'industria europea e lo sviluppo della sua competitività internazionale".

Questi obiettivi sono perseguiti nell'ambito di programmi-quadro pluriennali, articolati in progetti transnazionali e forme di coordinamento delle azioni di ricerca e innovazione tecnologica sviluppate a livello nazionale. I programmi quadro - attualmente è in vigore il quinto - sono stati dotati progressivamente di maggiori finanziamenti comunitari. Nel periodo 1998-2002 essi ammontano a 15 miliardi di euro con cui sono finanziati progetti di ricerca, fino al 50% delle spese totali, prioritariamente nei settori dell'innovazione tecnologica a scopi industriali.Le linee guida della politica di ricerca e innovazione puntano a integrare progressivamente i diversi sistemi nazionali in un unico sistema europeo attraverso lo sviluppo di networks transnazionali, composti da imprese, università, centri di ricerca, istituzioni pubbliche.

Malgrado questi sforzi l'Unione Europea è in ritardo rispetto a USA e Giappone nell'innovazione tecnologica. Le spese per la ricerca non superano l'1,9% del PIL contro il 2,6% degli USA e il 2,8% del Giappone. Poiché i finanziamenti comunitari non potranno sostituirsi a quelli nazionali, la strada da seguire è quella di un maggiore coordinamento delle politiche nazionali e il rafforzamento dei networks transnazionali.Tornando ai progressi nel mercato interno, in materia fiscale, parallelamente all'eliminazione dei controlli alle frontiere, è stata avviata la convergenza delle aliquote IVA con un sistema che prevede un tasso normale pari ad almeno il 15% e una o due aliquote ridotte, con un tasso non inferiore al 5%. È attualmente in vigore un regime provvisorio che prevede che l'IVA sia detassata all'esportazione e riscossa all'importazione. Questo regime, molto complesso ed esposto a rischi di evasione, dovrebbe lasciare il posto a un sistema definitivo nel quale l'imposizione dell'IVA su acquisti e vendite effettuati in due Stati differenti avvenga allo stesso modo che per le operazioni nazionali.Il settore dei servizi, caratterizzato in passato da una chiusura dei mercati causata dall'estrema eterogeneità delle legislazioni nazionali, è quello che più di ogni altro ha beneficiato dei processi di liberalizzazione avviati dal 1987.

L'apertura alla concorrenza, realizzata utilizzando il mutuo riconoscimento, ha interessato un ampio spettro di settori, tra cui i servizi finanziari, i trasporti, le telecomunicazioni. Nel settore finanziario (servizi bancari, assicurazioni, attività di borsa), che ha beneficiato della completa liberalizzazione dei movimenti dei capitali dal luglio 1990, è prevista una licenza unica attraverso cui, per esempio, una banca può aprire succursali o uffici in tutta la Comunità sulla base di un'unica autorizzazione fornita dalle autorità di controllo bancario del paese in cui ha la sede principale. Parallelamente, sono state ravvicinate le norme nazionali in modo da garantire un livello di protezione equivalente a tutti i cittadini comunitari. Nel settore dei trasporti, il più importante progresso è costituito dal 'cabotaggio', il diritto di un'impresa di trasporti di esercitare la propria attività senza distinzioni tra servizi nazionali e intracomunitari. Nei trasporti aerei la liberalizzazione ha provocato un aumento delle compagnie e una sensibile diminuzione dei prezzi per le tariffe economiche.Tutti i servizi di telecomunicazione, settore che ha conosciuto i maggiori progressi tecnologici, sono stati completamente liberalizzati dal 1° gennaio 1998. La liberalizzazione, che ha messo termine alla posizione monopolistica degli enti pubblici e aperto i mercati a tutti gli operatori privati, ha dapprima interessato le apparecchiature (fax, computer, telefoni), per espandersi poi ai servizi veri e propri, dalla telefonia mobile a quella fissa. Anche in questo campo, le misure di liberalizzazione sono state accompagnate da misure di armonizzazione che consentono l'integrazione delle diverse reti di telecomunicazioni e garantiscono la qualità dei servizi nei confronti dei cittadini.

Recentemente, con il forte sviluppo di Internet, la Comunità ha predisposto una specifica legislazione che copre tra l'altro i principali aspetti del commercio elettronico e il riconoscimento della firma elettronica.La libera circolazione delle persone ha registrato progressi nel campo delle professioni indipendenti, dove le notevoli differenze delle leggi nazionali ne ostacolavano l'esercizio in tutta la Comunità. Dall'armonizzazione totale dei titoli e delle condizioni di accesso per un limitato numero di professioni - come quelle di medico, dentista, ostetrica, veterinario, architetto ed avvocato - si è passati a un sistema generale di mutuo riconoscimento che consente a un professionista abilitato legalmente a esercitare la sua attività nel paese di origine di svolgerla anche negli altri paesi comunitari. Il principio base della presunzione di equivalenza dei diplomi è temperato dalla facoltà del paese ospitante di richiedere un tirocinio di adattamento o il superamento di un test attitudinale.La mobilità dei liberi professionisti è ancora bassa, ma è destinata ad aumentare con lo sviluppo della dimensione europea dell'istruzione, che stimola una convergenza spontanea dei titoli di studio superiori e universitari.

Anche la mobilità dei lavoratori dipendenti, dopo aver conosciuto una forte espansione a cavallo degli anni sessanta, ha registrato modesti aumenti nel periodo 1985-1995. Nonostante il fatto che proprio in quegli anni sia stato rafforzato il quadro giuridico della libertà di soggiorno (esteso anche a categorie professionalmente non attive, come studenti e pensionati), il numero dei cittadini che vivono in un altro Stato comunitario ha subito pochi incrementi (nel periodo 1985-1994 è passato da 5,15 a 5,83 milioni di persone). La debole mobilità in questo caso non deriva da ostacoli giuridici, ma dalla convergenza dei redditi nella Comunità che scoraggia gli spostamenti, e soprattutto dalla scarsa domanda di lavoratori poco qualificati. Produzioni industriali sempre più basate su processi innovativi richiedono infatti personale altamente qualificato.

6. L'Unione Economica e Monetaria

Il programma del Libro bianco ha risposto sostanzialmente agli obiettivi per cui è stato concepito. Gli scambi comunitari sono tornati a raggiungere all'inizio degli anni novanta il 60% degli scambi totali della Comunità. Tra il 1986 e il 1990 il tasso medio di crescita è salito al 4% del PIL grazie all'aumento del 30% degli investimenti. L'elevata crescita è stata tuttavia accompagnata da un sensibile aumento dell'inflazione e dal persistere della disoccupazione, scesa comunque all'8% nel 1990 grazie alla creazione di milioni di posti di lavoro.Il completamento del mercato interno e la rinnovata interdipendenza delle economie europee ha introdotto nuovamente nell'agenda politica europea, come agli inizi degli anni settanta, il dibattito sulla necessità di avviare forme di integrazione positiva fondate sul passaggio all'UEM. A differenza del precedente fallito tentativo, l'obiettivo di istituire l'UEM è stato coronato da successo.

Anche se colpita all'inizio degli anni novanta da una nuova congiuntura economica sfavorevole, con tassi di crescita bassissimi e un drammatico aumento della disoccupazione, l'Unione Europea ha avuto la forza politica di portare a compimento un progetto articolato in tre distinte fasi. All'inizio della prima, il 1° gennaio 1990, sono stati totalmente liberalizzati i movimenti di capitali. Rispetto alla prima fase, la realizzazione delle ultime due ha reso necessarie delle modifiche ai trattati originari che sono state inserite nel Trattato di Maastricht. Dal 1° gennaio 1999 ha preso avvio la terza e definitiva fase dell'UEM, di cui fanno parte, per il momento, undici Stati membri (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna).

Sono i paesi che secondo il Consiglio europeo (maggio 1998) hanno rispettato i criteri di convergenza economica previsti dal Trattato di Maastricht (inflazione, tassi di cambio, tassi di interesse, finanze pubbliche, partecipazione allo SME). A partire dalla stessa data, l'euro è diventata ufficialmente la moneta unica dell'Unione Europea, anche se la sua circolazione effettiva avverrà solo a partire dal 1° gennaio 2002. Tuttavia, poiché il 31 dicembre 1998 i ministri finanziari e i governatori degli undici paesi hanno fissato irrevocabilmente i tassi di conversione tra le valute nazionali e l'euro (per la lira italiana il rapporto è 1936,27 lire/1euro) l'Unione Europea agisce come se stesse già utilizzando la moneta unica.Dall'inizio del 1999 la politica monetaria unica è affidata al Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC), un organo a carattere federale, composto dalla Banca Centrale Europea e dalle Banche Centrali Nazionali. Il SEBC, che è indipendente sia dai governi che dalle istituzioni comunitarie, ha l'obiettivo fondamentale di assicurare la stabilità dei prezzi e, in via subordinata, di sostenere le politiche economiche generali della Comunità.

Lo strumento centrale per tenere sotto controllo l'inflazione è la manovra dei tassi di interesse. Il SEBC ha inoltre altri compiti, tra cui lo svolgimento delle operazioni di cambio, la gestione delle riserve ufficiali in valuta estera e la promozione del regolare funzionamento dei sistemi di pagamento. L'istituzione cardine del SEBC è la Banca Centrale Europea (BCE) articolata a sua volta in due organi, il Comitato esecutivo (composto dal Presidente della BCE, il Vicepresidente e quattro membri) e il Consiglio direttivo, che comprende i governatori delle Banche Centrali e i componenti del Comitato esecutivo.

Dal 1° gennaio 2002, contemporaneamente alla circolazione dell'euro, verranno ritirate dal mercato le vecchie monete nazionali entro un periodo di sei mesi. Dal 1° luglio 2002 (si sta discutendo se anticipare questa scadenza) le monete nazionali saranno definitivamente eliminate e l'unica moneta a corso legale sarà l'euro. La fase di transizione è stata decisa per lasciare un tempo sufficientemente ampio per la produzione delle banconote e il conio delle monete e per consentire ai sistemi economici di familiarizzarsi con il nuovo strumento monetario. Il periodo triennale di transizione si basa sul principio "né obbligo né divieto", secondo cui nessuno può essere obbligato, ma nemmeno gli può essere impedito, di utilizzare l'euro. Dal 1999, un cittadino può aprire un conto corrente in euro o effettuare pagamenti in conto corrente con assegni e carte di credito in euro. Le imprese e gli operatori commerciali possono fatturare e tenere la contabilità in euro. Le amministrazioni nazionali emettono i nuovi titoli del debito pubblico in euro.Se la responsabilità della politica monetaria comune è stata conferita a un organo nuovo e indipendente, la gestione della politica economica è stata affidata al Consiglio dei ministri.

Per l'Unione Economica la scelta di fondo è stata di non accentrare le competenze a livello dell'Unione Europea, ma di lasciare gli Stati membri responsabili della conduzione delle rispettive politiche di bilancio. Tale scelta si è tradotta nell'introduzione di un coordinamento delle politiche economiche, che avviene sulla base di indirizzi annuali elaborati dalle istituzioni comunitarie.

Gli orientamenti economici dell'Unione e la cosiddetta 'sorveglianza multilaterale' - una procedura attraverso cui il Consiglio controlla l'andamento dei grandi aggregati economici di ciascuno Stato membro - ispirano le politiche nazionali e sono oggi in grado di 'guidare' gli Stati membri verso una politica economica unica. Gli indirizzi comunitari invitano per esempio gli Stati membri a dare la priorità al contenimento delle spese piuttosto che all'incremento della pressione fiscale per diminuire i deficit di bilancio, e ancora a dare priorità al contenimento delle prestazioni dei regimi pensionistici e sanitari e delle spese per politiche passive dell'occupazione. Tuttavia, gli Stati membri sono liberi di discostarsi da tali indirizzi scegliendo di procedere alle riforme strutturali a ritmi più compatibili con la propria situazione sociale. Essi hanno tuttavia l'obbligo di rispettare le condizioni quantitative in materia di disavanzi: non superare un deficit di bilancio annuale pari al 3% del PIL e un debito consolidato pari al 60% del PIL. Il controllo sui disavanzi eccessivi vuole evitare che politiche economiche divergenti da questi due parametri-soglia (unitamente alla stabilità dei prezzi) possano compromettere l'azione svolta dai paesi più virtuosi.

Al momento della decisione per l'istituzione definitiva dell'UEM, le procedure di controllo previste dai trattati non sono state ritenute adeguate dalla Germania, che chiedeva garanzie supplementari per evitare che, una volta decisa l'introduzione dell'euro, alcuni Stati membri fossero tentati di non rispettare i parametri di convergenza. Nel giugno 1997 la determinazione tedesca ha portato alla conclusione del Patto di stabilità, un accordo che integra i trattati, con cui ciascuno Stato membro si impegna a perseguire una politica di bilancio che preveda un saldo vicino al pareggio o positivo. Un disavanzo che superi il valore di riferimento (il 3% del PIL) è considerato ammissibile solo in via eccezionale, quando cioè sia causato da un evento straordinario che sfugge al controllo dello Stato membro o da una grave recessione.

Gli Stati membri dell'area Euro presentano programmi di stabilità, aggiornati annualmente, nei quali sono specificati gli obiettivi di bilancio a medio termine. Nel caso di deficit pubblici eccessivi protratti nel tempo possono essere inflitte sanzioni progressivamente più severe, dall'obbligo di costituire un deposito infruttifero fino ad ammende pecuniarie.Un altro vincolo alle politiche di bilancio è il divieto rivolto alla Banca Centrale Europea e alle Banche Centrali Nazionali di concedere facilitazioni creditizie alle amministrazioni statali, regionali e locali e agli enti pubblici di finanziarsi. In sostanza, il debito pubblico non può essere finanziato con l'emissione di nuova moneta, ma solamente rivolgendosi ai mercati. Il coordinamento delle politiche economiche lascia di fatto pochi margini di manovra agli Stati membri in virtù di questi vincoli di bilancio. La particolare attenzione al rispetto di un quadro macroeconomico compatibile con i parametri di convergenza economica ha lo scopo di evitare gli effetti inflazionistici che politiche troppo espansive attuate da alcuni governi potrebbero provocare. Se infatti le pressioni inflazionistiche sono elevate, la Banca Centrale Europea non avrebbe altra scelta che alzare i tassi di interesse, con la conseguenza di indebolire il dinamismo del mercato unico i cui effetti verrebbero risentiti da tutti i paesi comunitari.Con l'UEM la costruzione comunitaria è dunque passata a una forma più intensa di integrazione, aprendo una nuova fase del processo di integrazione economica e sociale.

L'euro completa infatti l'organizzazione del mercato interno, assicurando la stabilità monetaria interna della cui mancanza ha sofferto nei decenni passati. L'UEM 'sovrapponendosi' al mercato interno gli permette di dispiegare i suoi effetti economici con una maggiore concorrenza tra le imprese, che baseranno sempre di più le loro strategie su fattori reali quali i costi, la qualità e l'innovazione dei prodotti, in quanto non potranno contare più sul recupero della competitività con le svalutazioni. Le imprese, oltre a non essere più gravate dalle spese di cambio, potranno contare, grazie all'euro, su mercati finanziari sempre più integrati che consentiranno un più facile accesso al risparmio per i bisogni di finanziamento.

La maggiore concorrenza stimolerà la diminuzione e la convergenza dei prezzi, processo già in atto (nel periodo 1990-1998, le differenze dei prezzi al consumo sono scese dal 22,3 al 14,7%) di cui si gioveranno i consumatori grazie alla trasparenza e comparabilità dei prezzi stessi derivanti da un'unica moneta in circolazione e alla possibilità di scegliere tra una più vasta gamma di prodotti. Con l'UEM, inoltre, si accentueranno gli effetti del processo, già avviato con il mercato interno, della 'concorrenza tra sistemi', attraverso cui l'economia non trarrà benefici solo dalla concorrenza tra produttori di beni e servizi, ma anche dalla competizione tra le amministrazioni pubbliche nella formulazione delle norme riguardanti la produzione e il commercio e nell'offerta di servizi alle imprese. In questo contesto, si consolidano i compiti di promozione e di regolazione dei poteri pubblici in rapporto al funzionamento del mercato interno.L'UEM rafforza dunque il carattere liberista dell'integrazione economica ponendo al centro dei processi di crescita, da una parte, il corretto funzionamento del mercato interno e il rispetto dei principî di concorrenza e, dall'altra, il controllo dell'inflazione e delle politiche di bilancio. I primi risultati empirici conseguiti dall'UEM sembrano dare ragione a questo impianto teorico. Le previsioni segnalano che l'attuale quadro macroeconomico, sostanzialmente sano, contribuisce a una crescita sostenuta del PIL (+3% circa nel biennio 2000-2001).

7. La politica sociale e per l'occupazione e la politica di coesione

L'UEM contribuisce a creare un contesto favorevole per l'attuazione di politiche miranti a ridurre la disoccupazione. Nel 2001, con gli attuali tassi di crescita, la Comunità prevede la creazione di 4 milioni di nuovi posti di lavoro e una diminuzione del numero dei disoccupati a 14 milioni e mezzo (7,9%). Non si è più ai drammatici livelli del 1997, quando le persone senza impiego erano 18 milioni, l'11,3% della forza lavoro. Tuttavia, la lotta alla disoccupazione resta la priorità nell'agenda politica dell'Unione Europea. È per questo motivo che il Trattato di Amsterdam, superando l'opposizione di quei governi che intendevano conservare la responsabilità unica in questo campo, ha conferito alla Comunità una competenza complementare a quella degli Stati membri, considerando l'occupazione "una questione di interesse comune".L'intervento comunitario, a cui è preclusa qualsiasi forma di armonizzazione delle legislazioni nazionali, si traduce nella definizione di linee direttrici comuni in materia di occupazione alle quali devono ispirarsi le politiche degli Stati membri.

L'attuazione di tali politiche, coordinate con quelle economiche, è valutata dal Consiglio dei ministri per verificarne la rispondenza con gli orientamenti della Comunità, ma non è prevista nessuna forma di sanzione. La strategia comunitaria, che punta a innovare, senza stravolgerlo, il modello sociale europeo, non opta per scelte radicali, come la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro o la flessibilità selvaggia dei mercati di lavoro o i tagli ai sistemi di protezione. Essa sollecita gli Stati membri a mettere in atto riforme strutturali, compatibili con gli obiettivi della stabilità dei prezzi e il controllo delle finanze pubbliche, per rafforzare i sistemi di istruzione e formazione e modernizzare l'organizzazione del lavoro attraverso l'introduzione di forme giuridicamente tutelate di lavoro flessibile che incoraggi le capacità di adattamento delle imprese e dei lavoratori.Le riforme per rendere più flessibili i mercati del lavoro sono d'altro canto una diretta conseguenza dei meccanismi dell'UEM, che impedisce agli Stati membri di utilizzare autonomamente la politica monetaria per contrastare la disoccupazione, incentivando, per contro, misure dal lato dell'offerta.

La Comunità propone inoltre l'attuazione di misure economiche e fiscali che contribuiscano alla nascita di nuove imprese e al consolidamento di quelle esistenti. In particolare, si sollecita a invertire la tendenza all'appesantimento della pressione fiscale sui fattori immobili della produzione come i costi del lavoro e i costi non salariali. L'attuazione di tali misure è peraltro condizionata alla soluzione del problema dell'erosione fiscale derivante dalla difficoltà di tassare fattori di produzione mobili, come i capitali, in assenza di una legislazione comunitaria in materia di tassazione del risparmio.La strategia dell'Unione Europea, che ha accantonato un approccio di tipo keynesiano da perseguire attraverso programmi comunitari di investimenti in infrastrutture su larga scala, ha l'obiettivo di lungo termine (2010) di aumentare la percentuale di lavoratori occupati dall'attuale 61 al 70% della forza lavoro (da 130 a 180 milioni), un livello simile a quello di USA e Giappone.

Le competenze comunitarie in materia di occupazione completano e integrano quelle riguardanti la politica sociale, previste originariamente nei trattati. Questi ultimi, come si è detto, hanno riconosciuto il progresso sociale (occupazione, diritto al lavoro, sicurezza e protezione sociale, condizioni di lavoro, diritti sindacali) tra gli obiettivi programmatici dell'integrazione europea, senza predisporre strumenti adeguati a sviluppare una politica sociale comune. Poiché la nascita della Comunità ha coinciso con l'espandersi del ruolo dello Stato in campo sociale, gli interventi in questa materia sono stati attuati a livello nazionale, mentre le azioni comunitarie, concepite in un'ottica puramente economica, si sono limitate ad accompagnare la libera circolazione dei lavoratori. D'altro canto, l'imperativo di giungere a decisioni unanimi ha impedito risultati significativi.

I progressi dell'integrazione economica (mercato interno, UEM) hanno coinciso con nuovi tentativi di sviluppare l'azione sociale dell'Unione. L'Atto unico europeo ha consentito, grazie al voto a maggioranza, alcuni progressi nell'armonizzazione delle norme sulla sicurezza del lavoro. Queste norme, che hanno stabilito requisiti minimi di sicurezza, sono state concepite ancora in un'ottica economica per contrastare possibili rischi di dumping sociale e di concorrenza sleale causati da legislazioni nazionali meno garantiste in materia di sicurezza dei lavoratori. Un'altra novità dell'Atto unico è stata l'introduzione del dialogo sociale, attraverso cui le parti sociali possono concludere accordi a livello europeo.

L'ampio e vivace dibattito sullo sviluppo della cosiddetta 'dimensione sociale' del mercato interno, che è seguito all'attuazione del programma del Libro bianco, ha portato nel 1989 alla definizione di una Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori. Si tratta di un documento politico non vincolante, sottoscritto da tutti gli Stati membri ad eccezione della Gran Bretagna, contenente una lista di diritti riconosciuti ai lavoratori comunitari.Il programma di azione che ha fatto seguito alla Carta sociale ha dato origine a due direttive di armonizzazione sul diritto di informazione dei lavoratori sulle condizioni di lavoro e sui licenziamenti collettivi. Pur non avendo effetti giuridici, la Carta sociale ha avuto il merito di creare un clima politico favorevole al rafforzamento della politica sociale comunitaria. Un protocollo allegato al Trattato di Maastricht, sottoscritto dai firmatari della Carta sociale, ha introdotto nuove norme nel capitolo sociale estendendo il voto a maggioranza in settori quali le condizioni di lavoro, l'informazione e la consultazione dei lavoratori, la parità uomo-donna nel mercato del lavoro.Parallelamente, sono state rafforzate le procedure del dialogo sociale, prevedendo in particolare che gli accordi sottoscritti dalle parti sociali possono essere tradotti in atti comunitari vincolanti dalle istituzioni dell'Unione Europea.

Il protocollo sociale, inserito a pieno titolo nel successivo Trattato di Amsterdam per la caduta della riserva britannica, ha consentito alcuni progressi significativi. Tra questi spiccano le direttive sull'orario di lavoro massimo, sulla consultazione e l'informazione dei lavoratori nel quadro di consigli di gestione istituiti dalle imprese multinazionali e sul lavoro part-time. Le due ultime direttive sono il frutto di accordi sottoscritti dalle organizzazioni europee dei sindacati e degli imprenditori, e segnalano la nascita di uno spirito di collaborazione tra i partners sociali e una loro crescente legittimazione a livello europeo.Attualmente, l'azione dell'Unione Europea in materia sociale punta a ravvicinare le legislazioni nazionali sulla base della definizione di standard comuni minimi allo scopo di coniugare due diverse esigenze: da una parte, evitare una corsa al ribasso dei diritti dei lavoratori e, dall'altra, tenere conto delle disparità nei livelli di produttività e delle condizioni salariali di ciascun paese comunitario senza ostacolare lo sviluppo di una maggiore flessibilità nei mercati del lavoro.

Nei settori in cui è previsto il voto a maggioranza del Consiglio è probabile che tale ravvicinamento possa essere realizzato più o meno agevolmente. In materie come le retribuzioni, la sicurezza e la protezione dei lavoratori, i diritti di associazione e di sciopero, che restano soggette al voto unanime, le possibilità di ravvicinamento appaiono molto problematiche anche in considerazione del fatto che si tratta di aree dove gli Stati membri vogliono conservare la piena sovranità.In conclusione, malgrado alcuni progressi, la dimensione sociale dell'integrazione europea resta ancora largamente incompiuta poiché, a differenza degli aspetti economici, non si registra un parallelo trasferimento di competenze a livello dell'Unione Europea. Questo essenzialmente per due ragioni politiche: in primo luogo, per la permanente resistenza di alcuni Stati membri, in particolare la Gran Bretagna, ad aprire la strada a politiche di stampo eccessivamente interventista, in secondo luogo per il timore dei paesi meno prosperi dell'Unione di dover adeguare verso l'alto gli standard sociali a danno della propria competitività economica. Tuttavia, è probabile che l'evoluzione dell'UEM possa favorire nuovi sviluppi nell'ambito del capitolo sociale.

Per esempio, l'UEM, oltre a contribuire a una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, potrebbe influire sulla pratica delle contrattazioni collettive, trasferendole a livello comunitario attraverso accordi tra le parti sociali come risposta all'attuale tendenza, indotta dal funzionamento del mercato interno, alla decentralizzazione delle contrattazioni collettive stesse a livello sub-nazionale e di impresa.Un ulteriore aspetto economico e sociale dell'integrazione europea è costituito dal cosiddetto "sviluppo armonioso nell'insieme della Comunità". Con questa espressione si fa riferimento all'obiettivo, riconosciuto esplicitamente dai trattati istitutivi, di assicurare un equo livello di sviluppo nelle diverse aree regionali della Comunità.

In modo analogo alle questioni sociali, il riconoscimento di questo obiettivo non si è tradotto inizialmente nella messa in atto di strumenti specifici per conseguirlo concretamente. Se si eccettua il generico riferimento al ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, la convergenza delle economie regionali si sarebbe realizzata spontaneamente attraverso il funzionamento del mercato comune. Ancora una volta, al momento dell'elaborazione del Trattato di Roma ha prevalso la scelta politica di non prevedere strumenti di azione dal carattere interventista.Pertanto, nei primi anni della costruzione comunitaria, le politiche di redistribuzione regionale sono state attuate solamente a livello nazionale, senza nessun coinvolgimento delle istituzioni comunitarie. Fino agli anni sessanta, solo il Mezzogiorno italiano presentava problemi di sottosviluppo rispetto alle altre regioni europee.

A partire dagli anni settanta, con i primi allargamenti dell'Unione e gli effetti della recessione internazionale, le disparità in termini di reddito, produttività e occupazione hanno coinvolto aree sempre più ampie, facendo sorgere la necessità di affrontare tali problemi a livello comunitario. A metà degli anni settanta è stata istituita la politica regionale comunitaria, attuata attraverso interventi di tipo strutturale finanziati con le risorse del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), creato appositamente. Gli interventi di politica regionale dovevano avere un carattere redistributivo con l'obiettivo di trasferire risorse alle aree più depresse. Tuttavia, poiché gli esigui finanziamenti comunitari prevedevano un sistema di quote di cui beneficiavano in varia misura tutti gli Stati membri e gli interventi erano concepiti in maniera disorganica, l'impatto economico e infrastrutturale nelle regioni meno sviluppate è stato molto scarso. Nel frattempo, durante lo stallo dell'integrazione negativa, le disparità regionali si sono accresciute.Il salto qualitativo della politica regionale è avvenuto parallelamente al rilancio dell'integrazione economica con l'Atto unico europeo.

Oltre all'obiettivo di completare il mercato interno, è stata infatti decisa l'attuazione di una politica di coesione economica e sociale. Con l'inserimento di questa politica è stato riconosciuto esplicitamente che il libero gioco delle forze di mercato, stimolato dai processi di liberalizzazione economica e commerciale, non aveva gli stessi effetti in termini di sviluppo in tutte le regioni. Con la politica di coesione è stata ufficialmente riconosciuta l'importanza politica della funzione redistributiva della Comunità e si è rafforzato il modello di economia sociale di mercato della costruzione comunitaria. La politica di coesione si è tradotta in un sostanziale aumento delle risorse del bilancio comunitario destinate allo sviluppo regionale e in una radicale riforma dei tre strumenti comunitari a finalità strutturale, il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (il FESR, che finanzia investimenti produttivi e infrastrutture), il Fondo Sociale Europeo (l'FSE, che finanzia programmi di formazione iniziale e di riqualificazione) e il Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia Agricola (FEOGA), che opera per il miglioramento delle strutture agricole.Le risorse comunitarie per la coesione sono passate dai 7,2 miliardi del 1987 ai 36 miliardi del 1999 (pari al 36% del bilancio dell'Unione). Attualmente i fondi strutturali concentrano gli interventi su tre obiettivi prioritari: lo sviluppo delle regioni in ritardo; il riequilibrio delle regioni in crisi strutturale; il sostegno alle politiche di istruzione, formazione e occupazione delle restanti regioni. Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia, paesi che hanno un PIL inferiore al 90% della media comunitaria, beneficiano inoltre del Fondo di coesione, che finanzia interventi nel settore dei trasporti e dell'ambiente. Sono proprio questi paesi che hanno ridotto in parte le distanze che li separavano dagli altri Stati membri, con una crescita del PIL dal 66 al 76,5% nel periodo 1986-1996.

A livello regionale le disparità di reddito e occupazione sono ancora considerevoli, ma la tendenza è positiva con aumenti del PIL delle regioni più depresse in rapporto alla media comunitaria. Gli interventi strutturali non si limitano a contrastare l'aggravamento degli squilibri regionali, ma iniziano ad avere effetti positivi nelle regioni in difficoltà. Visti i positivi risultati, ma soprattutto la consapevolezza che l'UEM pone dei vincoli ai governi nazionali (controllo delle finanze pubbliche e impossibilità di utilizzare la manovra dei tassi di cambio) nei loro interventi per sostenere lo sviluppo di queste aree, l'Unione Europea ha ribadito il suo impegno a perseguire politiche redistributive, mantenendo allo 0,46% del PIL comunitario le risorse destinate alla coesione economica e sociale. Per il periodo 2000/2006 i finanziamenti comunitari per gli interventi strutturali ammontano a 213 miliardi di euro.

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